Conferen/2012/11CNAL.doc – 17/11/2012 Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali Assemblea CNAL sabato 17 novembre 2012 Intervento Mons. Piero Coda “SIAMO ANCORA ALL’AURORA” IL VATICANO II: UNA CHIAVE DI LETTURA In una lettera indirizzata a Paolo VI il 5 marzo 1973, in occasione della sua nomina a Cardinale, il patriarca di Venezia Albino Luciani elogiava in Papa Montini «l’instancabile volontà di realizzare e lo spirito e i decreti del concilio Vaticano II, certo con prudenza, quanto alla forma, ma con decisione e efficacia non certo pavide, quanto alla sostanza: impresa, questa, davvero ardua, se è vero quanto si va dicendo qua e là, che oggi il concilio Vaticano I ha molti seguaci, e così ne ha il concilio Vaticano III, pochi invece il Vaticano II». A cinquant’anni dalla sua inaugurazione, l’interpretazione e la recezione del Vaticano II, oggi come allora, è stiracchiata tra chi lo vorrebbe ricondurre al Vaticano I e chi lo considera superato rispetto a un auspicato Vaticano III. In realtà: che ne è del Vaticano II e, prima ancora, che cosa è il Vaticano II nella bimillenaria storia della Chiesa? Il più suggestivo confronto è quello stabilito da autorevoli interpreti, tra i quali (per restare in Italia) il card. Giacomo Lercaro (uno dei moderatori dell’assise) e poi il teologo Luigi Sartori, secondo i quali il Concilio più vicino allo spirito e alla portata del Vaticano II sarebbe addirittura il cosiddetto Concilio di Gerusalemme, agli esordi della Chiesa, quando si decise il superamento dei pesanti condizionamenti derivanti dall’eredità giudaica per un’apertura inclusiva e missionaria alla Chiesa anche ex gentibus, “dai pagani”, inaugurata dalla pasqua di Gesù. Col Vaticano II, la Chiesa, in verità, ha accolto – non senza travagli – la sfida di ripensare e riconfigurare se stessa secondo la grazia e il progetto di Gesù nel nostro oggi, e cioè in conformità al suo “mistero” quale si dispiega nel disegno salvifico universale di Dio. Senza buttare a mare ciò che è essenziale, ma uscendo dal porto ben protetto in cui, da secoli, era attraccata, e riprendendo 2 con coraggio – e rischio – il mare aperto, le vele spiegato al soffio dello Spirito: “Duc in altum!”, come esorta Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte. Nonostante l’impressione prevalente di stanchezza e disillusione che, almeno nei paesi di antica cristianità, sembra oggi la prevalente. Ma occorre guardare a ciò che pulsa nel profondo, sotto la superficie delle apparenze, e che attesta anche oggi l’agire il più delle volte nascosto e in ogni caso sempre discreto, ma efficace e tempestivo dello Spirito Santo. Davvero – lo intuiva Giovanni XIII – il Vaticano II segna l’annuncio di una primavera: anzi di una “nuova Pentecoste”. Una definizione grossa: quanto mai promettente (da Dio) e impegnativa (per noi) 1. La domanda da cui partire, forse – anche perché si tratta ancor oggi di vexata quaestio con evidenti e rilevanti conseguenze, a tutti i livelli –, è la seguente: il Vaticano II è un Concilio teologico? Rispondo con forza e convinzione di sì. Penso infatti che la difficile e contrastata vicenda – tuttora in corso – della recezione del suo slancio ispiratore e delle sue concrete direttrici di marcia lo stia a testimoniare. Il Vaticano II è, dunque, Concilio teologico e lo è in sommo grado: non tanto perché definisce delle verità teologiche prima non definite (cosa che non fa), ma perché invita a una conversione complessiva dello sguardo e dell’azione. Più teologico di così! Si tratta di conversione – nell’essere Chiesa e nell’essere cristiani – che nasce dal puntare dritti gli occhi del cuore e della mente verso il centro sempre vivo della rivelazione di Dio in Cristo Gesù. Conversione, dunque, nel senso originario del termine: quello per cui l’impatto col vangelo di Gesù trasforma appunto il cuore e la mente, e l’indirizza altrimenti. Segnando un nuovo inizio. Non perché interrompa o tradisca la tradizione da cui viene e di cui si alimenta. Ma perché proprio così, facendo vivere il nucleo vivo e perenne della tradizione oggi qui, per noi, ne attualizza la verità e la virtualità evangelica. Quando Giovanni XXIII paragonava l’evento conciliare a una “nuova Pentecoste”, penso, intuiva proprio questo. Con tutta probabilità non rendendosi conto in tutto di ciò che lo Spirito Santo, grazie al gesto imprevisto della convocazione del concilio che gli aveva suggerito, stava per mettere in moto. 3 Tanto che, considerando la portata dell’avvenimento e delle sue conseguenze, pur essendo già stato fatto molto, vien da dire che il più, con probabilità, ancora resta da accogliere (da Dio) e da fare (per noi). 2. Certo, il Concilio, nell’intenzione impressagli da Giovanni XXIII e poi nella sapiente, difficile e persino tormentata guida esercitata nella sua fedele e perseverante esecuzione da Paolo VI, in prima battuta, aveva una finalità che, in senso lato, era stata definita – per esprimerne l’originalità – pastorale. Si trattava, per Giovanni XXIII, di “aggiornare” il “linguaggio” della vita e della dottrina della Chiesa al mutato contesto sociale e culturale, sapendovi cogliere le provocazioni di Dio stesso, i “segni dei tempi”. Paolo VI precisò il tiro, focalizzando il discorso sulla identità, ad intra, e sulla missione, ad extra, della Chiesa. Ma basta leggere con attenzione l’enciclica programmatica del suo pontificato, l’Ecclesiam suam (1964), per rendersi conto dell’ispirazione più profonda che Papa Montini ha avuto la grazia di cogliere e incanalare nell’evento conciliare. Si trattava di risvegliare, in disarmato ascolto del soffio dello Spirito e in attento discernimento dei segni dei tempi, la coscienza stessa della Chiesa al dono e alla vocazione da cui è nata, e sempre di nuovo nasce, al cuore del mondo, per rendervi presente il Vangelo di Gesù in quanto fermento destinato a lievitare tutta la pasta. Offrendo la sua riflessione ai Padri del Concilio, che ormai si avviava verso la conclusione, Paolo VI cercava così d’interpretare l’anima e la direzione che lo Spirito Santo aveva impresso ai lavori. Il fatto è che il Concilio, volendo tener conto, da un lato, del significato originario e permanente dell’evento di Gesù e riandando perciò alle sue “fonti”; e, dall’altro, della situazione inedita in cui si trova, nell’oggi, la storia, si è visto spinto a reimpaginare la comprensione e la proposta dell’esperienza e dell’annuncio della Chiesa. Cosa che, senz’altro, è qualcosa di molto più radicale e impegnativo di un semplice aggiornamento del linguaggio. Lo dice, quasi en passant, il n. 11 del decreto Unitatis redintegratio, con un’affermazione che è tanto importante da essere stata poi riconosciuta come uno, se non “il” principio architettonico del Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino (i teologi cattolici) che esiste un 4 ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro differente rapporto col fondamento della fede cristiana». Il senso di quest’affermazione va ben compreso. Perché dire che si dà un centro generatore e irradiante della verità della fede – che è Gesù Cristo stesso, in quanto rivelatore e comunicatore, nel suo Spirito, del Padre/Amore, come lapidariamente afferma la Dei Verbum ai nn. 2 e 7 –, significa, di concerto, rimarcare che la coscienza credente, come tale, ha da essere investita e plasmata, sin nelle fibre più profonde del suo essere, pensare ed agire, da questo centro. Così da diventarne in tutto e solo veritiera ed incisiva testimone. Il che, appunto, postula e propizia un nuovo inizio. 3. Di che si tratta? In sintesi direi così: del passaggio da un accesso alla verità della fede come dato prevalentemente oggettivo, come verità da accogliere, a un’assunzione e valutazione della stessa nella sua rilevanza anche soggettiva e cioè antropologicamente rilevante e incisiva, e cioè come verità “da fare” nella carità (cf. Ef 4,15). Non che in passato questo non fosse presente. Tutt’altro. Il Vangelo di Gesù, il Vangelo che è Gesù, anzi, è accaduto come eccedente e straordinaria accensione della libertà dell’uomo che intero si consegna, nel Figlio, all’Abbà per vivere l’amore ai fratelli secondo la forma e la vocazione dell’avvento del Regno come koinonia dei molti in Cristo Gesù. E ciò grazie all’elargizione smisurata dello Spirito di Dio, nel cuore degli uomini, come principio sempre nuovo, della loro libertà e della loro dedizione. Il corso della storia ha poi esigito – e necessariamente o, meglio, provvidenzialmente – che venissero sanciti i segni sacramentali, le formule dottrinali e le strutture istituzionali capaci di veicolare il verbo cristiano. Ecco il frutto dei Concili a contenuto trinitario e cristologico del primo millennio ed ecco ciò che, nel secondo millennio, soprattutto il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I hanno evidenziato a proposito della natura sacramentale e del profilo gerarchico della Chiesa. Con risultati senz’altro preziosi e irrinunciabili. Ma anche col rischio d’irrigidire i guadagni così acquisiti, sottovalutando o persino obliando la loro natura di mezzo e non di fine. Tanto che la modernità si configura, almeno in uno dei suoi filoni qualificanti, come l’invocazione tormentata, a fronte di questa esibizione netta 5 dell’oggettività, della dignità e dei diritti del soggetto. Che, peraltro, erano impliciti nel deposito così gelosamente formulato e custodito dalla Chiesa: ma che era necessario esprimere e declinare esplicitamente in prospettiva antropologica e storica. È questa, a ben vedere, l’istanza della modernità: in essa instillata dal cristianesimo stesso, al di là della sistemazione luminosa ma provvisoria della cristianità medioevale. Risultando però tale istanza genuinamente cristiana sganciata – a motivo dell’aspra conflittualità innescatasi tra la cultura moderna e la Chiesa cattolica – dalla sua vera sorgente, Gesù Cristo era inevitabile la sua esiziale deriva nell’assolutizzazione della soggettività, la quale, privata del vitale riferimento all’oggettività della verità e della giustizia, non poteva non sfociare nel totalitarismo e nel nichilismo. A livello culturale e prima spirituale, e di conseguenza anche sociale, è questo l’enorme compito che attendeva al varco la Chiesa cattolica e che, già nell’’800, uomini specchiati di Chiesa e acuti e profetici intellettuali cristiani del calibro di Antonio Rosmini e John Henry Newman avevano messo in conto, offrendo prospettive preziose per una sua pertinente e coraggiosa esecuzione. Ma i tempi non erano maturi. Nel ’900, nell’alveo del vasto e pluriforme movimento di ritorno alle fonti e di dialogo – nel discernimento critico – con la modernità, che ha interessato tutto il mondo cristiano, è stato probabilmente Karl Rahner ad aver più acutamente avvertito questa esigenza, offrendo in proposito anche delle precise direttrici di marcia. Ma non bisogna dimenticare, tra i teologi, Karl Barth e Hans Urs von Balthasar, Pavel Florenskij e Sergej Bulgakov, Dietrich Bonhoeffer, Henri de Lubac, Yves Congar, Marie-Dominique Chenu... Senza dire di Teresa di Lisieux, l’unico Dottore della Chiesa della contemporaneità, e di testimoni grandi dello spirito come Edith Stein e Simone Weil – tutte donne! A proposito del Concilio, ad esempio, Rahner ha affermato: «Questo Concilio si può chiamare pastorale in quanto non si è accontentato solamente di formulare o presentare principi fondamentali e perenni della Chiesa, il suo dogma, la sua morale e, su questa base, le norme giuridiche per la vita della Chiesa, ma ha avuto anche il coraggio di dare le sue direttive in vista di una situazione concreta: direttive che hanno quasi un carattere carismatico, che non sono avulse dai principi e dalle norme generali, ma che si impongono per un certo imperativo concreto in situazioni concrete e che quindi impegnano la libertà e le responsabilità degli uomini di 6 Chiesa. (...) Il Concilio è il Concilio dell’inizio dei tempi nuovi e in questo modo è “l’inizio dell’inizio” che deve essere attuato nella Chiesa postconciliare»1. 4. In realtà, il Vaticano II o, meglio, l’azione dello Spirito Santo in esso è andato al di là della percezione e della messa sul tappeto di questa decisiva istanza. Perché – lo dico con una formula breve, di cui cercherò di esibire la fondatezza – la coniugazione organica e profonda, nella luce dell’evento di Gesù Cristo, dell’oggettività e della soggettività della verità chiedeva di rinvenire, per essere realizzata, un adeguato spazio di mediazione: l’intersoggettività o se vogliamo, in senso più ampio e dispiegato, l’ecclesialità e la socialità come vita dispiegata dei molti in Cristo Gesù nello spazio di luce della vita della Santissima Trinità. Ecco la tesi interpretativa che intendo proporre. Ma andiamo per ordine, compiendo due passi. a) Primo passo. Il tornante decisivo che descrive il significato teologico del Vaticano II è quello guadagnato col concetto specificamente teologico di rivelazione descritto dalla Dei Verbum che, al suo proprio livello, trova riscontro nel “senso teologico della liturgia” disegnato nella Sacrosanctum Concilium. In tale concetto, infatti, il disegno e l’avvenimento della salvezza sono proposti nell’ottica della comunicazione trinitaria che Dio fa di se stesso – niente di meno che Se stesso! – all’uomo e alla sua storia. Il che significa, in buona sostanza, che Dio mostra il suo volto di Abbà nel Figlio fatto carne, il quale partecipa così la grazia e la responsabilità della sua stessa vita filiale – non di meno – nella gratuita e sovrabbondante elargizione a noi del suo Spirito di verità e giustizia nell’amore. Non dobbiamo sottovalutare il decisivo portato teologico e antropologico che è veicolato dal linguaggio scelto con cognizione di causa dal Concilio per esprimere questa verità. Dio – dice la Dei Verbum –, per realizzare il suo disegno di salvezza propter nos homines et propter nostram salutem, s’intrattiene con noi come amici per invitarci alla piena comunione con sé (cfr. Dei Verbum, 2). Quest’affermazione, a livello teologico, è il principio che K. Rahner, Il Concilio Vaticano II, in I Documenti del Concilio Vaticano II (Testo latino – italiano), Edizioni Paoline, Roma 1967, pp. i-xxiv, qui pp. xv-xvi. 1 7 permette di eseguire la corrispondente e necessaria affermazione, a livello antropologico, che troviamo enunciata nel documento forse più importante (a parere di Papa Ratzinger) del Concilio, la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa: che tratta della vocazione originaria e, di conseguenza, del diritto inalienabile della persona ad autodeterminarsi in libertà nella sua relazione a Dio e alla sua rivelazione. Se non si coglie questa precisa corrispondenza, non si esplicita l’intrinseca implicazione soggettiva dell’oggettività della rivelazione. Per richiamare il linguaggio usato da Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia, il principio teologico più importante del Vaticano II sta, a partire di qui, nella coniugazione tra i “diritti” di Dio e i “diritti” dell’uomo, tra il teocentrismo medioevale e l’antropocentrismo moderno (cfr. n. 1). Ciò diventa possibile perché il Concilio guarda a Gesù Cristo come al “mediatore” e alla “pienezza” di tutta la rivelazione (cfr. Dei Verbum, 2), descrivendolo come colui che, vero Dio e vero uomo, «rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, 22). È così aperto, e in una chiave cristologica trinitariamente eseguita, il compito di dare il via all’articolazione pertinente dell’oggettività della verità con la libertà della sua corrispondenza soggettiva. Dio e l’uomo uniti e distinti in Cristo e, per e in lui, nella storia umana e nel destino della creazione. b) Ma, secondo passo, – come anticipavo – ciò non sarebbe sufficiente se così non si desse un adeguato fondamento teologico, nella medesima prospettiva cristologica, alla relazione tra le persone in Cristo e al convergente loro impegno nel sociale. Secondo il Concilio, in effetti, un’adeguata esposizione del significato redentivo e plenificante dell’evento di Gesù Cristo implica che non sia salvato solo l’individuo ma, insieme a lui e grazie a lui, anche la relazione sociale. Ecco dunque, in Cristo, la verità trinitaria e cioè agapica della persona non solo in divinis ma anche in humanis. In questo senso preciso e discriminante, trova esecuzione (principiale), nel Vaticano II, la delineazione di un’antropologia trinitaria che intende programmaticamente corrispondere alla cristologia e alla dottrina trinitaria definita dai Concili del primo millennio. Basti ricordare, in proposito, quanto affermato da Gaudium et spes, 24, un testo 8 che, al dire di Giovanni Paolo II (cfr. Dominum et vivificantem, 59), sintetizza il profilo dell’antropologia cristiana come compito determinante del nostro tempo: «Il Signore Gesù, quando prega il Padre perché “tutti siano una cosa sola, come io e tu siamo una cosa sola” (Gv17,21), aprendoci prospettive inaccessibili alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l'unione delle Persone divine e l'unione dei figli di Dio nella verità e nell'amore. Questa similitudine manifesta che l'uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé». Con ciò, in effetti, la relazione sociale, in quanto costitutiva e perciò espressiva dell’essere persona in Cristo, assume definitivamente consistenza teologica e salvifica. Ed essendo mediata, antropologicamente, dalla libertà, e, teologicamente, dallo Spirito Santo, destituisce di ogni fondamento tanto l’attitudine della fuga mundi quanto quella d’ogni integrismo presuntivamente cristiano. Ecco, dunque, lo straordinario e provvidenziale posto del Vaticano II nella bimillenaria storia della Chiesa. Nei primi secoli essa è riuscita a esprimere dottrinalmente, con l’assistenza dello Spirito Santo, i grandi dogmi che concernano il Cristo e la Trinità, i due pilastri della fede cristiana. Ma queste verità di fede non erano ancora riuscite a diventare ciò che sono: e cioè delle verità anche antropologiche e di prassi. Delle verità anche storiche e sociali, dunque, delle verità “da fare” nella carità. È questo il compito che lo Spirito Santo, attraverso il Vaticano II, affida alla Chiesa oggi. 5. Quali, in sintesi, le direttive di marcia, per la Chiesa, a partire da questa conversione teologica dello sguardo su Dio e sull’uomo? Benedetto XVI parla di “riforma nella continuità”: dove “continuità” sottolinea il radicamento vivo nella traditio, secondo la prospettiva più sopra esplicitata, e “riforma” dice la necessità ineludibile e rischiosa dell’apertura al novum chiesto dallo Spirito Santo e dalla sua presenza alla storia dell’uomo. Mi limito a richiamare appena tre linee maestre di questo impegno di rinnovamento messo in moto dal Concilio e che, a cinquant’anni dal suo esordio, chiede un consapevole e lungimirante rilancio. 9 a) La prima linea maestra concerne la comprensione del significato evangelico e l’esercizio dello stile evangelico nella presenza e nell’azione dei cristiani nel mondo. Può sembrare strano mettere l’accento, innanzi tutto, su questo fatto: ma, in verità, il primo obiettivo verso il quale lo Spirito Santo ha spinto il Concilio è stato quello di far riguadagnare ai cattolici l’apprezzamento e il gusto della loro azione di trasformazione della storia nella luce, appunto, di Gesù Cristo “uomo nuovo”. Ciò, del resto, è in sintonia con l’atto di autocoscienza cui la Chiesa di Cristo è sollecitata, con urgenza, dallo Spirito Santo in rapporto alla “nuova età della sua storia” che oggi vive l’umanità (cfr. GS 4). Il che provoca a un consapevole e responsabile riposizionamento della Chiesa in questa inedita situazione. In quest’ottica è dato di apprezzare, nella sua effettiva portata profetica e insieme nella sua auspicabile incidenza pratica, la descrizione della Chiesa offerta al n. 1 della Lumen gentium, secondo cui «la Chiesa è in Cristo come un sacramento, e cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Descrizione non a caso ripresa dalla Gaudium et spes nel contesto dell’illustrazione della missione della Chiesa nel mondo contemporaneo: «la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità portate ad efficacia di vita, e non esercitando con mezzi puramente umani un qualche dominio esteriore» (n. 42). Ciò che discende da questa prospettiva, in ordine al rapporto tra comunità ecclesiale e società civile, in ordine al significato dell’impegno storico dei credenti, e in ordine a una pertinente comprensione e gestione dell’autonomia delle realtà terrene è troppo evidente per essere qui richiamato in dettaglio. Resta da rimarcare che questa, e non altra, è la misura di una matura ed incisiva valutazione della qualità dell’impegno ecclesiale in questo decisivo ambito della sua missione. b) La seconda linea maestra concerne la riforma nella Chiesa. E sì: perché il riposizionamento della Chiesa nella storia, in ascolto del dipanarsi nell’oggi del mistero della salvezza nel senso paolino del termine, chiede che la Chiesa ad 10 intra sia per prima plasmata, nella fedeltà a Gesù Cristo, dal soffio rinnovatore dello Spirito. Dopo il Concilio, in effetti, se, da un lato, non è mancata la tentazione di gettar via con l’acqua sporca anche il bambino, e cioè di mettere tra parentesi, nella furia del rinnovamento, non solo ciò che è accidentale e mutevole ma anche ciò che è essenziale e permanente; dall’altro, non è mancato lo strabismo di chi ha teorizzato come possibile il rinnovamento della missione della Chiesa senza il corrispondente rinnovamento della sua vita. Tale strabismo è lungi dall’essere archiviato. E invece, nell’intenzione, nello spirito e nel dettato del magistero conciliare, il rinnovamento evangelico della Chiesa essenziale e irrinunciabile e chiede d’essere attuato, con equilibrio e determinazione. In caso contrario, quale significato concreto può ancora avere, ad esempio, la discriminante scelta conciliare dell’ecclesiologia del popolo di Dio e della comunione, della dignità e del ruolo specifico dei laici e delle donne in particolare, del valore ecclesificante della dimensione carismatica nella sua efficacia spirituale e storica? Vi sono stati, certo, segnali importanti, ma siamo lungi dall’aver aperto i cantieri della sperimentazione ecclesiale e della verifica teologica in queste direzioni. Per un esempio soltanto, la categoria della sinodalità che, pur non trovando posto nel dettato conciliare, ne esprime al meglio l’impulso nel senso della corresponsabilità e della partecipazione, a tutti livelli di governo e di esercizio della vita ecclesiale, si mostra a tutt’oggi come la decisiva cruna dell’ago attraverso cui deve passare la riforma della Chiesa in una prospettiva che sia, al tempo stesso, sinceramente e irrinunciabilmente ecumenica. Ciò che teologicamente risulta decisivo è la necessità d’interpretare in modo coerente all’avvento escatologico del Regno di Dio in Cristo la qualifica di hierarchica che è stata riconosciuta come propria della communio, in quanto evento specificante la vita e la missione del Popolo di Dio nella storia. Per fedeltà all’attestazione biblica e alla sostanza profonda della tradizione ecclesiale è indispensabile, a tal fine, una duplice operazione d’intelligenza teologica e di esperienza pratica. Si tratta, infatti, in primo luogo, di connettere più esplicitamente e più decisamente il principio verticale che garantisce e promuove la communio alla presenza viva e attuale del Kýrios risorto alla sua Chiesa; e, in secondo luogo, di esprimere secondo una logica non piramidale e 11 monocratica ma, appunto, comunionale e sinodale, l’esercizio, in seno alla communio stessa, di quei ministeri sacramentalmente qualificati che ne garantiscono l’apostolicità e l’unità in relazione con tutti gli altri carismi e ministeri. c) Infine, tornando all’Ecclesiam suam di Paolo VI, la linea maestra del dialogo e della diakonia nella grande impresa della nuova evangelizzazione. Dialogo e diakonia che, se ben intesi, scaturiscono coerentemente e senza sbavature dal concetto di rivelazione proposto dalla Dei Verbum e dalla figura di Chiesa tratteggiata dalla Lumen gentium. Fa dunque specie che ancora vi sia chi, di tempo in tempo, prende le distanze dall’istanza dialogica documentata dal Vaticano II: sia nella declinazione della vita della communio che la qualifica, sia nella proposizione della missione evangelizzatrice che ne esprime l’intenzionalità vera e prima. Dialogo, in effetti, è – nell’ottica del Concilio e, se possibile, più ancora di Paolo VI – concetto propriamente teologico che descrive il significato del rinnovamento profondo innescato dal Vaticano II. Tanto che non afferrarne il senso e non assumersene la fatica e la gioia è, in fin dei conti, misconoscere il valore teologico del Concilio Vaticano II. Siamo solo agl’inizi dello scavo vitale di questa intuizione. Essa implica il compito esigente d’introiettare nella maturazione dell’autocomprensione e autoconfigurazione ecclesiale la forma del dialogo e della diakonia nell’attestazione e nell’annuncio della Parola di Cristo, in cui per sé essa è originariamente inscritta: non, dunque, come un elemento che dall’esterno viene a determinarne la proposizione, bensì come l’esplicarsi dall’interno della sua verità ed efficacia. Qui sta l’intuizione dell’Ecclesiam suam: “oggi la Chiesa ha da farsi parola, colloquio, dialogo”. Perchè il dialogo (e la diakonia che esso esprime e veicola) definisce la misura alta – esibita da Colui che, nell’agápe, dona la vita per i suoi amici (cfr. Gv 15,13) – della coerenza del testimone – martyría – con la Parola che testimonia; e, in radice, di questa stessa Parola esibisce con ciò l’intima coerenza e la vitale efficacia. 12 6. Guardando in avanti, mi sembra di poter dire che oggi ci troviamo di fronte a questa sfida: declinare la verità del Dio Trinità d’amore rivelato in Gesù come principio, forma e meta della vita della Chiesa nelle sue concrete espressioni antropologiche, sociali, istituzionali, evangelizzatrici. Altrimenti, la novità che la contemplazione della Chiesa alla luce della Trinità ci ha fatto pregustare nel Concilio, resta mera retorica e rischia di dissolversi come un bel sogno. In un’intervista pubblicata su “Il Regno”, Luigi Sartori, pochi mesi prima di morire, mi ha consegnato questa riflessione: «I principi teologici, trinitari soprattutto, che abbiamo imparato dal Concilio, debbono non solo essere collocati prima – per attuare una sorta di logica deduttiva – ma anche riscoperti dopo. Nella Chiesa di oggi manca la seconda parte: far riscoprire il mistero, i fondamenti, tramite la valorizzazione dei passi compiuti con l’uomo. Come dire: il regno di Dio lo devi sentire prima (“il regno è venuto” – dice Gesù), ma lo devi anche scoprire dopo, impegnandoti in quelle piccole, miserabili operazioni in cui cerchi di attuarlo, per poi alla fine farlo riapparire. Questo sforzo di riconquistare la vetta del mistero è mancato»2. C’è in queste parole un’indicazione importante, che aprirei in due direzioni. La prima: occorre coniugare il mistero con la mistagogia, la contemplazione del mistero di Dio in Gesù, e dell’uomo in Lui, con l’introduzione esperienziale in esso. La seconda: occorre passare dalla declamazione del mistero trinitario alla trinitizzazione in atto della vita ecclesiale e sociale, e cioè alla trasformazione nel segno della fraternità, della giustizia e della pace, delle relazioni umane. Il sociale non va gestito: va gestato nella luce e nella forza perseverante dell’amore vero e sincero. Per questo, oggi, sulla scia del Concilio, è l’ora dei laici: l’ora di penetrare nella più alta contemplazione di Dio condividendo sino in fondo le ferite e le invocazioni degli uomini, per versare su di esse – come preghiamo nella liturgia – l’olio della consolazione e il vino della speranza. Piero Coda 2 705-711. P. Coda, Ontologia della carità. Intervista a L. Sartori, in "Il Regno - attualità", XLIX (2004), n. 20,