MittelFest musica e arti visive Cividale del Friuli Scuola Normale Superiore Pisa Grecia atti del convegno MittelFest 2001 · inaugurazione MittelFest MittelFest · Settore Musica e Arti Visive Scuola Normale Superiore di Pisa AT T I D E L C O N V E G N O MITTELFEST 2001 · INAUGURAZIONE M IT TEL F EST Gustav Klimt, Musik, in “Ver Sacrum”, 1901 6 Grecia C IVIDALE DEL F RIULI , VENERDÌ 20 LUGLIO 2001 C HIESA DI S AN F RANCESCO MITTELFEST IN COPRODUZIONE CON LA SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA Relazioni di: Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Introduzione Chiara Martinelli, ricercatrice della Scuola Normale Musica e poesia in Grecia Carlo Pernigotti e Luisa Prauscello, dottorandi di ricerca della Scuola Normale ‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica: pluralità delle occasioni del canto e discontinuità della tradizione François Lissarrague, centre Louis Gernet, Parigi Iconografia musicale Michael Stüve, direttore Musica Ricercata Gli strumenti musicali dell’antica Grecia Eugenio Lo Sardo, Ministero Beni Culturali Vincenzo Galilei, Athanasius Kircher e la musica greca Concerto: Dialogo della musica antica et della moderna IACOPO PERI (1561-1633) Euridice (1600): Finale “Biond’arcier” JACOPO CORSI (1561-1604) Dafne (1596-1597): Aria di Apollo “Non curi la mia piant” 7 MICHAEL STÜVE (1953) Hellenika: EURIPIDE Frammento dell’Oreste , 408 a.C. (Pap. Vienna G 2315) ANONIMO Peana “Keklyth’, Helikôna bathydendron”, 138 a.C. (Delfi Inv. N. 515, 526, 494, 499) ANONIMO Interludio, IV sec. d. C. (Anonimo Bellermann § 104) SEIKILOS Epigramma e scolion “Hóson zês”, I sec. a.C. (“Epitafio di Sicilo”, Copenaghen Inv. n. 14897 MESOMEDE DI CRETA Proemio alla Musa “Áeide mûsá moi phíle” , 117-138 d.C. (pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et della moderna, Firenze 1581) MESOMEDE DI CRETA Proemio a Calliope “Kalliópeia sophá”, 117-138 d.C. (pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et della moderna, Firenze 1581) ANONIMO Interludio, IV sec. d. C. (Anonimi Bellermann § 100 e 97) ANONIMO Lamento sulla morte di Aiace “Autophóno cherí”, II sec. d.C. (Pap. Berlino 6870) ANONIMO “Chryséa phórminx” (Contraffazione del preludio della prima ode pitica di Pindaro, Athanasius Kircher, Musurgia universalis...., Roma 1650) LIMENIO Prosodion del peana, 128 a.C. (Delfi Inv. 214) 8 MESOMEDE DI CRETA Inno a Nemesi “Némesi pteróessa”, 117-138 d.C. (pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et della moderna, Firenze 1581) ANONIMO Frammento strumentale di Contrapollinopolis, II sec. d.C. (Pap. Berlino 6870) ANONIMO Inno paleocristiano, Ossirinco , III sec. d.C. (Pap. Oxy. 1786) MESOMEDE DI CRETA Inno al Sole “Chionoblephárou pater Aûs”, 117-138 d.C. (pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et della moderna, Firenze 1581) GIULIO CACCINI (1550-1618) Il rapimento di Cefalo (1600) coro finale: Ineffabile ardore Muove sì dolce Quand il bell’anno EMILIO DE’ CAVALIERI (1550-1602) La Pellegrina (1589) VI Intermedio Ballo del Granduca “O che nuovo miracolo” Musica Ricercata Michael Stüve, direttore 9 S ALVATORE S ET TIS Introduzione Il mº Carlo de Incontrera, che ha invitato la Scuola Normale Superiore di Pisa a presentare, nel quadro di questo Mittelfest, qualche riflessione sulla musica degli antichi Greci, conosce benissimo i rischi che correva se noi avessimo accettato di venire a parlare qui a Cividale. Sono due rischi in qualche modo opposti, e legati a quello che la Normale è e a quello che essa non è. La Normale ‘non è’ un istituto di studi musicali, e pertanto parlare davanti a un pubblico con forte e marcata cultura musicologica come quello di Cividale è un rischio, specialmente per me che di musica non so proprio nulla. D’altra parte, la Normale è un luogo di segnalata e alta tradizione in molti campi del sapere, fra cui proprio gli studi sul mondo antico, greco e romano: e pertanto c’è il rischio che quello che vi presenteremo possa eccedere in specialismo. Ma il mº de Incontrera sa anche che la Normale ha un fortissimo interesse per la musica e la sua storia, e infatti organizza da trent’anni la serie “I concerti della Normale”, offerti non solo ai normalisti ma alla città di Pisa, e organizzati prima con la consulenza del mº Piero Farulli e da alcuni anni proprio con l’aiuto di Carlo de Incontrera. Il quale sa anche che proprio in Normale è stato progettato e diretto l’ultimo grande sforzo di sintesi interpretativa della cultura greca, un’opera in cinque volumi pubblicata da Einaudi col titolo “I Greci. Storia Arte Cultura Società” (il quinto volume uscirà in novembre di quest’anno); un’opera il cui successo si misura dal solo fatto che a partire dall’anno prossimo verrà integralmente tradotta in tedesco, e subito dopo in inglese. Se abbiamo accettato di partecipare, è stato dunque non solo per la gioia di essere qui con voi oggi, ma anche per l’interesse che abbiamo al confronto fra le nostre ricerche specialistiche e un pubblico più vasto, il cui profilo culturale è tale da garantire non solo e non tanto l’attenzione al messaggio che intendiamo dare, quanto il controllo della sua qualità. Di tutti, quello che meno conosce il tema proposto sono proprio io: tutto ciò che potrò fare sarà dunque introdurre gli altri relatori con qualche riflessione su due punti diversi e convergenti: da un lato, sul ruolo della civiltà greca nella storia recente dell’Europa e nella stessa idea di una civiltà comune europea; dall’altro, sul ruolo della musica nella cultura greca antica. < Delfi, le rovine del santuario di Atena Pronaia 11 Cominciamo dal primo punto. Vorrei affrontarlo partendo da una piccola serie di citazioni, scelte a caso fra migliaia (letteralmente) di testi simili, che rivendicano una discendenza dai Greci delle nostre coordinate culturali. Cominciamo dalla famosa sentenza di Hegel, secondo cui “Al nome Grecia l’uomo colto europeo subito si sente in patria”. Con spirito non troppo diverso, Hannah Arendt poteva sostenere che nè la rivoluzione americana nè quella francese sarebbero mai state possibili senza l’esempio che veniva dall’antichità classica, e Popper richiamava i filosofi presocratici come modello della dinamica moderna del pensiero scientifico fra congettura e confutazione. John Stuart Mill scrisse che “la battaglia di Maratona, anche come evento della storia inglese, è più importante della battaglia di Hastings. Se in quel remoto giorno il risultato dello scontro fosse stato diverso (se i Greci non avessero vinto), Britanni e Sassoni forse vagherebbero ancora per le selve”. In queste e mille altre citazioni, i Greci compaiono con significato ‘fondante’: e non solo di risultati o di azioni o di memorie, ma di ‘valori’ ancora attuali. Lo vediamo ancor meglio nel contrasto fra due altre citazioni, le ultime: da un lato Gilbert Murray, Regius Professor di greco a Oxford, che assegnava ai Greci “la ricerca di Verità, Libertà, Bellezza, Ragione ed Eccellenza nella vita individuale, e di fratellanza nella vita internazionale”, e più in generale l’origine stessa del “Pensiero Equilibrato”; dall’altro lato, Albert Hofmann (noto come “il padre dell’LSD”, che proprio in questi anni ha argomentato in favore degli stimolatori della psiche sostenendo che anche i Greci, nei misteri di Eleusi, usassero un allucinogeno simile all’LSD. Tutti questi esempi sono accomunati da una tendenza implicita, tanto più potentemente operativa quanto più essa vien data per scontata: la tendenza a considerare i Greci come la radice ultima e unica di tutta la civiltà “occidentale”, e ‘dunque’ aventi titolo a legittimare valori e pratiche del nostro tempo, anche opposte fra loro quanto lo sono il “pensiero equilibrato” e gli “stati alterati di coscienza”. Si dà così per dimostrato il valore preternazionale e fondativo della cultura greca, e la storia dei Greci (come nella citazione di Stuart Mill sulla battaglia di Maratona) assume lo status di storia universale, non solo necessaria a intendere il mondo moderno, ma anche fonte di legittimazione e di ispirazione per il suo (per il nostro) futuro. I Greci, come “primi inventori” della filosofia e dell’arte, della scienza e della bellezza; i Greci, che seppero sperimentare sopra di sé in forma originaria tutte le passioni del mondo e dell’uomo, quelle di Edipo e di Medea, di Antigone e di Odisseo. Un paesaggio culturale fatto di sentenze arcane e pregnanti pronunciate una volta per tutte, d’impeccabili monumenti contro un cielo sempre azzurro dietro il quale s’indovinano dèi benigni pronti a incarnarsi in bronzi e in marmi di bellezza irraggiungibile. Una civiltà popolata di modelli e di archetipi, di pietre di fondazione e di cifre universali, di motti delfici e di colonne doriche, di atleti che s’incoronano e di artisti dediti alla Bellezza, di passioni politiche da cui emerge una polis cristalli- 12 na e una democrazia che dà spazio alla libertà e all’individuo, di filosofi che tracciano con stilo implacabile l’agenda di tutte le filosofie possibili. Paradossalmente, una tale immagine dei Greci resiste, e anzi si consolida, proprio mentre il posto della cultura classica nei percorsi educativi e nella cultura generale sembra restringersi ogni giorno di più. Meno sappiamo il greco, più parliamo dei Greci. Quanto più filosofi e saggisti perdono la capacità di controllare criticamente in prima persona lo spessore e il senso originario dei testi della cultura greca, tanto più marcatamente essa diventa, in uno spirito tutto “postmoderno”, il serbatoio ideale a cui attingere elementi staccati, da rimontare poi ad arbitrio in più o meno gratuiti collages. La patria di quello che con linguaggio degno di un mito di fondazione si volle chiamare “miracolo greco” è diventata così come un retrobottega da cui prelevare a piacimento questo o quell’arnese, quasi fosse attrezzeria di teatro da riciclare di continuo. Ma quanto più arbitrari e meno colti sono questi esercizi di accanito citazionismo, tanto più essi innalzano la cultura greca sopra un piedistallo irraggiungibile, estirpandola dalla storia per proiettarla su un piano che si pretende “universale”. Non è questa l’immagine dei Greci che vogliamo oggi proporvi. Come un monumento provato dagli anni, essa è infatti attraversata da crepe numerose e profonde. Per esempio, se vogliamo simboleggiare il carattere fondante della civiltà greca nella giornata di Maratona, lo identifichiamo implicitamente con una vittoria dei Greci (leggi: degli Europei) sui Persiani, che stanno qui per un Oriente indeterminato e statico, l’ “altro” -perennemente uguale a se stessorispetto a un’Europa caratterizzata, a partire dalla grecità, da un accentuato dinamismo e da un continuo progresso; e per questo radice e madre della modernità. Formulazioni come queste ci appaiono oggi non solo strettamente eurocentriche, ma anche limitative e “datate”; “datate”, intendo, in quanto coestensive a una concezione della civiltà europea come culminazione d’ogni altra, e pertanto legittimata al colonialismo, all’annessione, alla “missione civilizzatrice”. L’opposizione Greci/barbari veniva in tal modo a tradursi in quella Europa/”altri”, riattualizzata e proiettata ora verso le Americhe, ora in Asia o in Africa, ribadendo l’identità fra un “noi” orgogliosamente europeo e i Greci, padri e maestri di una stessa civiltà. Proprio questa identificazione, che sembrò garantire alla cultura greca un ruolo perpetuamente vitale nel mondo moderno -quasi dovesse diffondervisi con le armi, le merci e le tecniche dell’Occidente-, suona oggi al contrario come un canto funebre. Quale può essere il posto dei Greci in un mondo caratterizzato sempre di più dalla mescolanza dei popoli e delle culture, dalla condanna dell’imperialismo e dalla fine delle ideologie, dalla fiera rivendicazione delle identità etniche e nazionali e delle tradizioni locali contro ogni tentazione “annessionistica”? Che senso ha cercare radici “comuni”, quando tutti sembrano piuttosto impegnati a distinguere le proprie da quelle del vicino? Come possiamo 13 vantarci di aver vinto sugli “altri” a Maratona senza pensare all’Algeria o al Vietnam? Con quale ostinata presunzione potremmo mai chiedere ai Cinesi o agli Indiani di riconoscersi nei Greci, implicandone l’identità con un “noi” tutto europeo, senza offrire in cambio il desiderio di identificarci, noi, nella loro antichità? Se quella è la nostra immagine dei Greci, se quello è il loro ruolo nella “storia universale” che vogliamo costruire, riducendo la storia universale a storia dell’Europa e dell’espansione europea, allora davvero i Greci sono destinati a diventare il primo bersaglio di una cultura vicina a soccombere, il prototipo dei dead white males da uccidere domani. Dobbiamo ricordarci, al contrario, che i Greci (i “Greci senza miracolo” di Louis Gernet) non sempre innalzarono monumenti e pronunciarono detti memorabili, nè furono indaffarati a fondare la coscienza dell’Europa moderna per distinzione dall’Oriente, ma anzi nell’Oriente si mossero con gioia e disinvoltura e ansia di scoperta, cercandovi merci e miti e saggezza, imparando e insegnando. Li troviamo sulle coste del Mar Nero o della Spagna, in Sicilia o in India, a costruire un’infinita varietà di culture locali, o a immaginare viaggi dei loro eroi oltre le colonne d’Ercole; sempre curiosi di vedere e di conoscere, con quello spirito che un sacerdote egizio, parlando con Solone, riconobbe come una loro caratteristica: “un Greco vecchio non esiste, voi Greci siete sempre fanciulli” (lo racconta Platone nel Timeo ). Li troveremo sempre pronti a “ibridizzarsi” con le civiltà e i popoli che incontravano, ponendo e ricevendone domande, creando oggetti culturali a volte davvero assai poco “classici”. Potremo, per questa strada, apprezzarli di più e meglio proprio sentendoli meno “uguali a noi”, più “altri”, più “stranieri”. Questo nuovo processo di comprensione, quale è in corso ai livelli più alti degli studi specialistici, significa relativizzare la compattezza della civiltà greca, significa evidenziarne i debiti e i contatti con altre culture e le numerose varianti regionali; significa, in ultimo, incrinare profondamente, fino a distruggerla, quella “rotonda” classicità a cui pure si ancorarono tanti discorsi e tanti progetti della storia e della cultura moderna. Dovremo porre in rilievo l’‘alterità’ dei Greci rispetto alla nostra cultura (quanto sia diversa la loro dalla nostra libertà, la loro dalla nostra politica, la loro dalla nostra uguaglianza), ma anche analizzare di volta in volta le ragioni per cui, anzichè riconoscerne l’alterità, si è preferito così spesso costruirne un’identità fittizia con “noi”. Ogni volta che lo si è fatto non è stato mai per caso, bensì rispetto a una posta in gioco estranea, come è ovvio, ai Greci, alle loro preoccupazioni e pensieri; e costantemente propria, invece, di questo o di quell’altro “noi”: perciò è stato ed è possibile invocare l’esempio greco per ragioni assolutamente opposte fra loro. Perciò le ragioni di quelle identificazioni aiuteranno anche a intendere l’uno o l’altro “noi” di volta in volta in azione, che sia in Germania, in Italia o in America: identità e alterità entreranno in gioco quasi a ogni passo, in perpetua tensione fra loro. Insomma, i Greci senza miracolo saranno 14 molto più interessanti dei Greci del “miracolo”. Forse anche la loro musica ci apparirà più interessante e ricca di spunti se non la vedremo come una proiezione all’indietro della musica europea, ma nel contesto delle pratiche musicali del Mediterraneo orientale, greco e non-greco. Vengo così al mio secondo punto. Quale era il ruolo della musica nella civiltà greca? Una premessa è necessaria: ‘tutto’ quello che sappiamo dei Greci è filtrato attraverso il gigantesco naufragio della maggior parte della loro “produzione culturale”. I testi letterari che abbiamo sono forse il 5, forse il 10 per cento di quelli che si potevano trovare nelle biblioteche di Pergamo o di Alessandria; se passiamo alle arti figurative, la pittura, che vi aveva un ruolo centralissimo (basti pensare ai nomi di Apelle o di Parrasio), è interamente perduta; quanto alla scultura, i Greci avevano ben chiara una gerarchia dei materiali secondo cui la scultura in bronzo era considerata più “nobile” e pregiata di quella in marmo, ma di bronzi greci ne abbiamo pochissimi, meno di cento, quando sappiamo che nella sola Olimpia ce n’erano molte migliaia; quanto alle sculture in marmo, non ne abbiamo che una minima parte. Dell’intero patrimonio figurativo dell’antichità, in altri termini, abbiamo oggi probabilmente meno dell’1-2 per cento. Con la musica, le cose stanno ancora peggio: i resti che ne abbiamo sono certamente molto, molto meno dell’1 per mille. È per porre rimedio a questa documentazione così drammaticamente lacunosa che gli studiosi del mondo antico hanno elaborato negli ultimi secoli le sofisticate tecniche e metodologie della filologia testuale e dell’archeologia, finalizzate a ricostituire un quadro meno incompleto della civiltà antica, della sua cultura letteraria e artistica come della sua storia politica ed economica e della sua cultura “materiale” (gli oggetti della vita quotidiana). Si può anche dire che l’estrema lacunosità della documentazione ha giocato come un potente stimolo all’interpretazione, obbligando a mettere a punto strategie interpretative non solo diverse, ma talora opposte fra loro. Ma è importante osservare che, al di là delle perdite e delle lacune, quello che più si è modificato con l’inesorabile trascorrere del tempo è proprio l’immagine generale della cultura greca. Le enormi perdite di documentazione hanno infatti provocato una ‘dislocazione della percezione’ dei Greci in aree estremamente significative. Farò solo due esempi. Se c’è qualcosa che a tutti viene in mente parlando dei Greci, è l’immagine di un tempio (come il Partenone o i templi di Paestum o di Agrigento), o di una scultura, come i marmi del Partenone al British Museum, o il Laocoonte in Vaticano. Sono immagini ‘monocrome’, dominate dal candore del marmo delle qualità più pregiate: eppure, l’architettura e la scultura greca erano coloratissime, arricchite di una policromia vivace e multiforme, di cui solo un limitato numero di sculture reca una qualche pallida traccia. Immaginiamo di entrare in un grande museo di scultura antica, per esempio ai Musei Vaticani, e di trovarci in una grande sala con centinaia di sculture bianchissime, di quel bianco abbagliante che tanto appartiene 15 alla più comune immagine della classicità. Chiudiamo gli occhi per un istante, immaginiamo le carni degli Apolli e delle Veneri colorarsi come d’incanto, colorarsi i loro panneggi, i loro capelli, i tronchi d’albero a cui a volte si appoggiano, i serpenti che stringono fra le loro spire Laocoonte e i suoi figli. Ci parrà, se riapriamo gli occhi davanti a uno spettacolo tanto mutato, di essere in un’altra dimensione, “non-classica”: ebbene, è solo in questa dimensione sorprendentemente, quasi fastidiosamente estranea, che possiamo riconoscere l’autentico “colore” della grecità. Lo stesso accade coi bronzi: siamo così abituati a vedere i bronzi antichi con la patina verdastra creata dai secoli di abbandono, che tutta la scultura in bronzo europea, dal Rinascimento in qua, ha adottato ‘quel’ verde come il colore del bronzo. Eppure, sappiamo che i bronzi antichi erano, invece, lucidi e splendenti, di un colore dorato quasi più vicino all’oro che alla ‘nostra’ immagine del bronzo; che quelle statue sorridevano da labbra di rame rossastro, mostrando denti d’argento; che i loro occhi erano di pietre e vetri colorati. Un’immagine, per la sua violenta policromia, che ci appare quasi “barbarica”, per contrasto alla monocroma compostezza dei bronzi come li vediamo nei musei: ma quell’immagine violenta ed estranea, così difficile da accettare, è la sola immagine autentica dell’arte greca. Non diversamente stanno le cose nella musica greca. Qui, come ho detto, la perdita della documentazione è tanto vasta e radicale da farcene dimenticare perfino l’esistenza. Quasi non sappiamo più quanto profondamente la musica permeasse ogni aspetto della vita pubblica e privata dei Greci; quasi abbiamo dimenticato che le tragedie di Eschilo Sofocle Euripide erano drammi in musica, e che quando leggiamo Pindaro e gli altri poeti lirici dobbiamo immaginare i loro testi non “accompagnati” dalla musica, ma ‘intrisi’ di musica, pensati con la musica e per la musica (visto che l’autore della musica, dei testi e delle danze era di solito la stessa persona, quasi in un grandioso e originario Gesamtkunstwerk). È un’immagine drammaticamente perduta per sempre: come la scultura greca, nata policroma, è “diventata” monocroma, così la parola poetica greca, nata come squisitamente e intimamente musicale, ha perduto per sempre la propria “colonna sonora”. Il potere della musica nella città greca era ritenuto così grande, che i diversi generi della musica furono non solo codificati, ma anche associati a valori etici e civici che si ritennero ‘costitutivi’ della natura stessa del cittadino, della vita associata nella polis, del rapporto fra le varie generazioni all’interno della società. Si spiega così come Platone abbia tanto insistito (in particolare nella Repubblica e nelle Leggi ) sulla necessità di codificare la musica e la danza, e di impedire e punire le innovazioni troppo audaci, considerandole distruttive per la vita politica della città. Si spiega così come la musica non vi fosse intesa come qualcosa di aggiuntivo, un’arte fra le altre, ma come quella che, coinvolgendo emotivamente più di ogni altra, doveva aiutare a comprendere le altre; e come nei testi antichi è molto più facile trovare il lin- 16 guaggio musicale, o metafore tratte dalla pratica musicale, per spiegare le arti figurative, piuttosto che il contrario. Un quadro come questo, del quale le relazioni che seguiranno vi offriranno altri e più ricchi elementi, ha un’enorme potenza evocativa, in nulla diminuita dalla quasi totale assenza di documentazione. Basta a dimostrarlo il fatto stesso che un genere musicale centrale nella tradizione europea, l’opera, sia nato all’origine proprio come un tentativo di “ricreare” la tragedia greca nella sua intima commistione di parola e musica. Se riflettiamo a questa origine dell’opera, possiamo ben comprendere quanto anche le assenze nella documentazione, le perdite anche dolorose, possano alla fine provocare una vitale tensione creativa; quanto persino i processi di distruzione possano, in una storia delle civiltà vista nel lungo periodo, innescare un opposto e fecondo processo produttivo. Ma che cosa può darci, ‘oggi’, la memoria della musica greca antica? Era, essa, più simile alla “nostra”, o a musiche “altre” (per esempio “orientali”)? Come possiamo interpretare, in senso non solo filologico, ma propriamente musicale, le pochissime tracce di partiture musicali che ci sono rimaste? Torna qui la tensione che abbiamo visto fra “identità” e “alterità” dei Greci, e lo si potrebbe mostrare mettendo a confronto le rare esecuzioni della musica greca antica conservata, che ora cercano di rendercela più accettabile col farla più simile a musica a noi già familiare, e ora invece puntano sulla sua totale diversità. Di questi ed altri temi altri parleranno meglio di me. Vorrei concludere con un’ultima citazione, che ‘non’ riguarda i Greci, ma riguarda la musica. La prima registrazione fonografica di un’esecuzione musicale (il pianista era un bambino di undici anni) fu fatta nello studio di Thomas Edison nel 1887, e tutti sappiamo quanta strada si sia fatta da allora ai nostri CD. Ma già nel 1888, l’editoriale (non firmato) dello Spectator si preoccupava del fatto che ascoltare le esecuzioni degli altri potesse limitare la creatività dei musicisti del futuro. “L’ingegnosità scientifica del nostro tempo -scrive l’editorialista- finirà col creare nel mondo che ci lasceremo dietro un “troppo pieno”: forse lasceremo di noi ‘troppo’, e con ciò finiremo col limitare la libera crescita della nostra posterità”. Non intendo, concludendo con questa citazione, implicare che è meglio che la musica greca antica sia andata perduta nei gorghi della storia; ma solo suggerirvi di riflettere alla tensione drammatica fra quello che sappiamo del nostro passato e quello che ne ignoriamo (la più gran parte); a quanto possa essere fecondo e creativo il nostro desiderio di riempire le lacune della documentazione, l’impulso irresistibile a interrogarci su quello che abbiamo perduto per sempre. 17 M ARIA C HIARA M ARTINELLI Musica e poesia in Grecia Della musica della civiltà greca antica ci sono giunti pochissimi documenti, e del periodo in cui essa fu indissolubilmente legata alla grande produzione letteraria non ci è arrivato praticamente niente1. Eppure il significato che essa aveva nella vita dei Greci dei più vari livelli sociali, a partire dal momento della loro formazione culturale e, via via, nelle diverse occasioni della vita quotidiana, lo possiamo ricavare da una serie molteplice di testimonianze dall’arte figurativa, dalla riflessione filosofica, e, in modo particolare, dalla letteratura. Più di una volta nelle parole dei poeti per connotare qualcosa di negativo, la discordia, la guerra, la morte, lo si associa alla mancanza di musica: così, ad esempio, Sofocle, nell’Edipo a Colono2, definisce il destino di morte “senza danze, senza lira, senza canti” e nelle Fenicie di Euripide3 si rimprovera ad Ares, la divinità della guerra che causa enormi sofferenze, di contrapporsi alle feste in cui i giovani danzano accompagnati dal canto, guidando invece una processione dove la musica non ha posto. La gioia e la festa sono, al contrario, indissolubilmente legate alla musica; così i vecchi che formano il coro di un’altra tragedia di Euripide, l’Eracle, si augurano (v. 676) di non dover mai vivere senza i doni delle Muse, appunto la musica, il canto, la danza. Nei più vari tipi di celebrazione i Greci di ogni classe sociale godevano della musica, non solo e non tanto ascoltando l’esibizione di artisti ‘professionali’, ma suonando, cantando e danzando. Il termine da cui è derivato lo stesso nome di “musica”, mouçikhv (sott. tevcnh, “l’arte delle Muse”) definiva infatti non solo l’arte dei suoni, ma anche la poesia e la danza: il giovane, che doveva diventare un mouçiko;ç ajnhvr, veniva formato dunque a saper praticare quest’arte e allo stesso tempo ad essere in grado di recepire il messaggio di una cultura che veniva proposta dai poeti, nei canti per le feste come nelle opere drammatiche, attraverso la parola, che si univa più volte strettamente alla musica e talora all’azione gestuale. Il periodo della grande fioritura della poesia legata al canto e spesso alla danza è quello arcaico e tardo-arcaico della grande lirica (che va dal VII secolo a.C. all’inizio del V secolo) e quello ‘classico’ del dramma attico (V secolo). Si tratta in entrambi i casi di un tipo di poesia che non riusciremmo a capire senza tener < Fig. 1, anfora attica a figure rosse del pittore Brygos, 430 a.C. ca.: citarodo (particolare) (Boston, Museum of Fine Arts 26.61). 19 presente che essa venne composta e “pubblicata”, a differenza di quelle moderne (dove l’occasione è un evento interiore e il destinatario è per lo più l’indefinibile lettore che l’autore immagina o desidera, ma non vede), per una ben individuabile occasione sociale, con precisi committenti, e fece per lo più parte integrante di un cerimoniale. La lirica, che si sviluppa in un contesto storico del tutto rinnovato rispetto a quello dell’epica,4 è composta ed eseguita per particolari occasioni, che la distinguono chiaramente in generi, già chiari alla coscienza degli antichi. Così la lirica corale si rivolge ad un pubblico vasto, riunito in occasione di particolari cerimonie (ad esempio grandi feste pubbliche legate al culto degli dei e agli agoni sportivi). Conosciamo, in parte anche grazie alle testimonianze dirette di quanto ci è arrivato dell’opera di grandi poeti come Pindaro e Bacchilide, diversi generi di canti, alcuni dei quali dovevano affondare le loro radici in epoche precedenti. Così, ad esempio, il peana, per lo più legato al culto di Apollo (con il quale veniva comunemente identificata la divinità “salvifica” Peana o Peone, originariamente indipendente), con la funzione fondamentale di invocare la salvezza da un male o esprimere gratitudine per uno scampato pericolo (nel primo libro dell’Iliade ci viene riferito che lo intonano gli Achei, dopo aver restituito al sacerdote Crise la figlia, fonte dell’ira di Apollo, con il quale si vuole attraverso il canto ribadire appunto la riconciliazione).5 Canti di invocazione o ringraziamento alla divinità, i prosodi, venivano intonati durante solenni processioni ai templi e agli altari degli dei, ad accompagnare dunque le parti introduttive dei riti (ne abbiamo, con ogni probabilità, diverse testimonianze figurative, che mostrano processioni o danze processionali accompagnate da strumenti musicali). Del ditirambo, dedicato a Dioniso, sappiamo che conobbe un’evoluzione in senso fortemente spettacolare: nelle Grandi Dionisie celebrate ad Atene, almeno dalla fine del VI secolo si svolgevano gare6 in cui dieci cori di cinquanta ragazzi e altrettanti di cinquanta uomini, tratti da ciascuna delle tribù in cui era articolata la polis (quindi 20 cori, in tutto un migliaio di cittadini), si esibivano cantando e danzando. Cori entravano in azione anche in vari momenti della cerimonia nuziale: nel corteo di amici che accompagnava la sposa dalla casa di suo padre alla sua nuova casa (l’imeneo: già nell’Iliade 7 ne troviamo una descrizione fra le raffigurazioni dello scudo di Achille, e Saffo ce ne dà un’altra, relativa alle nozze di Ettore e Andromaca8) e, più avanti, durante la notte di nozze, davanti alla camera degli sposi (l’epitalamio). Cori cantano e danzano anche per festeggiare i vincitori delle grandi gare panelleniche (i giochi Olimpici, Pitici, Nemei ed Istmici) e non: ciò avviene con le composizioni dette epinici, di cui abbiamo notevoli esempi soprattutto da Bacchilide e Pindaro, che ci testimoniano quale livello di raffinatezza e anche di 20 magnificenza nell’allestimento un ricco committente poteva aspettarsi. Il coro era in genere formato da individui della stessa classe di età e dello stesso sesso, in numero variabile: dei cori maschili del ditirambo si è già detto, e si possono ricordare anche canti riservati a cori di fanciulle, i cosiddetti parteni, di cui abbiamo testimonianze in alcune odi di Alcmane e di Pindaro. Per alcuni ambiti, ad esempio la Sparta di Alcmane, dove l’istruzione dei cori doveva essere istituzionalizzata, siamo informati che essi erano guidati da un corego (che si distingueva in genere per un abbigliamento più ricco ed era scelto in base a caratteristiche di eccellenza fisica e tecnica). Nei cori che venivano formati di volta in volta per le varie occasioni (come accadeva di solito ad Atene), normalmente erano i poeti-musicisti ad occuparsi dell’addestramento dei cantanti. E in genere i poeti curavano anche l’istruzione coreografica del coro. L’accompagnamento era eseguito precipuamente, a quanto sembra, con la kiqavra [fig. 1, vedi p. 18], uno strumento della famiglia delle lire9, talvolta invece con l’aujlovç [fig. 2]10 (così ad esempio nel ditirambo eseguito alle Grandi Dionisie) e probabilmente, qualche volta, con entrambi11. Ad un ambito più ristretto si rivolgeva la lirica monodica: suo luogo era soprattutto il simposio [fig. 3], dove si riunivano e si intrattenevano dopo un pasto comune persone della stessa cerchia. Si tratta di una vera e propria istituzione, dove, insieme alle varie occupazioni ritualizzate per l’occasione (la preghiera, lo stesso bere secondo precise regole, il gioco, l’amore), si eseguivano canti ora con l’accompagnamento di strumenti a corde, in particolar modo la luvra [fig. 4]12 e il bavrbitoç [fig. 5, vedi p. 27]13, ora al suono dell’ aujlovç. Spesso il simposio aveva un carattere marcatamente politico: in questo caso allora costituiva il momento d’incontro dei 21 Fig. 2, anfora attica a figure rosse del pittore Kleophrades, 480 a.C., auleta (particolare). (London, British Museum E 270). Fig. 3, coppa attica a figure rosse di Douris (?), 480 a.C. ca.: scena simposiale. (München, Staatliche Antikensammlung inv. nr. 2361). Fig. 4, cratere attico a figure rosse da Gela, 440 a.C. ca.: Orfeo suona la lira fra i Traci. (Berlin, Staatliche Museen 3172). partecipanti ad una fazione dove si deliberavano decisioni comuni e venivano eseguite composizioni legate all’hic et nunc della situazione politica: una testimonianza di questo tipo di produzione l’abbiamo nelle odi di Alceo. Ma nel simposio si agitavano anche altre tematiche e così altrove troviamo dominanti i temi dell’amore o della riflessione etica più generale, temi cari soprattutto all’elegia (che pure non disdegnava anche argomenti politici), in epoca arcaica anch’essa cantata con l’accompagnamento dell’aujlovç, mentre in una sorta di recitativo accompagnato ancora dell’aujlovç era eseguita la poesia giambica, che si incentrava sui temi dell’invettiva e della beffa, forse mezzo per risolvere le tensioni interne alla comunità. Se poeti creativi in queste occasioni eseguivano odi di loro composizione, altri partecipanti al simposio ne potevano ripetere di vecchie: così Teognide promette al suo amico Cirno che i canti in suo onore da lui composti avranno un’ampia circolazione nei simposi futuri.14 Ad un ambiente ristretto, che non è il simposio, si rivolgeva anche la produzione di un altro fra i grandi lirici monodici, Saffo: educatrice in una cerchia religiosa, detta tiaso, dove, nel culto reso ad Afrodite, alle Muse e alle Cariti, venivano formate le ragazze in vista dell’unica funzione che la civiltà del tempo riservava alle donne libere, cioè il matrimonio e la vita coniugale. La musica ha un ruolo importante anche nelle rappresentazioni teatrali dell’Atene del V secolo, tragedia -momento di aggregazione della comunità cittadina e insieme sede di un dibattito appassionato al quale la stessa comunità partecipava con profonda adesione- e commedia, dove si rispecchiavano fatti contemporanei, dibattiti politici e culturali, tensioni sociali e civili. In entrambe si alternavano brani puramente recitati a brani eseguiti in recitativo e a canti corali, al suono dell’aujlovç, accompagnati da movenze di danza, oltre a canti solistici degli attori e a dialoghi lirici fra attori e coro. Anche qui l’elemento musicale non era qualcosa di accidentale, ma costituiva un fattore importante nell’impatto che ci si aspettava che lo spettacolo avesse sul pubblico. Quando Aristofane, nelle Rane, sottopone a critica due diversi modi di comporre tragedie quali quello di Eschilo e quello di Euripide, dedica particolare attenzione anche alla loro musica; e, d’altra parte, sappiamo da più di una testimonianza che i brani lirici di maggior impatto rimanevano nella memoria degli Ateniesi, che erano in grado di eseguirli in vari tipi di occasioni.15 In questa unione fra parola, musica e talora danza, dominante fu, nella cultura della Grecia arcaica e classica, il valore della parola, spesso in testi poetici altamente sofisticati e complessi. Era la parola che, come ci risulta da esplicite testimonianze degli stessi poeti (gli inni, dice Pindaro all’inizio della seconda Olimpica, sono “signori della cetra”), doveva condizionare alle sue esigenze l’espressione ritmica e melodica. E così possiamo, pur nella mancanza di documenti di cui si diceva, farci un’idea almeno del ritmo della poesia, che si basava sulla successione ordinata di sillabe brevi e lunghe: fino al V sec. a.C. l’andamento rit- 22 mico era conforme allo schema metrico del testo. La musica che accompagnava questi testi doveva essere molto semplice, consistendo in un accompagnamento monodico che non doveva oscurare la comprensione delle parole. Sembra inoltre che ciascun tipo di pezzo avesse una sua forma e un suo ethos, anche musicale, distinto, con caratteristiche volte a provocare reazioni diverse negli ascoltatori: la fruizione musicale non era infatti qualcosa di meramente estetico, ma, come risulta dall’elaborazione dei filosofi, era considerata avere vere e proprie capacità psicagogiche. Delle caratteristiche musicali più tecniche legate ai tipi di composizione sentiamo parlare dai poeti stessi: fra le aJrmonivai (disposizioni degli intervalli in una determinata successione di suoni) si distingueva ad esempio quella dorica, austera e nobile, da quella frigia, tipica dell’entusiasmo dionisiaco e del ditirambo. Usare una al posto dell’altra, come ci dicono i filosofi, sarebbe stato considerato non solo esteticamente sconveniente, ma deleterio sul piano etico. E inoltre sembra di poter affermare che fino al V secolo i poeti-musicisti non componessero i loro brani con criteri di originalità assoluta, ma per lo più rielaborassero e variassero motivi tradizionali ormai impostisi e definiti con una certa regolarità, secondo un procedimento che ci è noto anche per altre culture musicali come ad esempio quella dell’India: a questo probabilmente tali motivi musicali dovrebbero il nome di novmoi (cioè “leggi” oppure “modi usuali”). I poeti stessi attestano talvolta esplicitamente nelle loro composizioni questo procedimento: così più di una volta Pindaro, ad esempio nella Olimpica I (novmoç i{ppioç)16 e nella Pitica II (Kaçtovreion).17 Anche l’articolazione delle composizioni rispondeva a criteri di regolarità: essa avveniva di solito attraverso la ripetizione (sia nel ritmo che nella melodia) di una struttura più o meno ampia fatta di versi anche differenti fra loro (la strofe); le composizioni più complesse (come alcune odi dei grandi lirici corali) vedevano la ripetizione di una struttura detta triade in cui due strofe uguali tra loro erano seguite da una struttura ritmicamente diversa (l’epodo); il dramma sviluppa soprattutto un tipo di articolazione in cui si susseguono coppie strofiche l’una diversa dall’altra, forse legato alle esigenze del teatro (ad esempio la necessità di introdurre cambiamenti ritmici e melodici in un testo in cui si agitano tematiche e finalità di vario genere in rapporto agli avvenimenti scenici). Ma nella seconda metà del V secolo nasce e si va imponendo, grazie all’azione in Atene di alcuni musicisti, la ‘scuola del Nuovo Ditirambo’, il cui esponente più noto è Timoteo di Mileto,18 un nuovo modo di intendere i rapporti fra musica e poesia: il ritmo e anche il senso del testo sono progressivamente subordinati alle nuove idee musicali che vengono ad essere sviluppate di per se stesse. Nell’ambito di una concezione poetica e musicale tesa soprattutto al mimetismo, dove testo e musica dovevano corrispondere alla varietà delle situazioni e dei sentimenti descritti, la struttura generale tendeva a svincolarsi dall’ordina- 23 ta ripetizione di strutture uguali tra loro a favore di forme libere, con continui cambiamenti di ritmo. Le melodie, prima semplici, venivano ad essere arricchite da abbellimenti, che snaturavano il ritmo verbale, e modulazioni, sia nella linea vocale che, anche indipendentemente, nel suo accompagnamento. Le accresciute potenzialità degli strumenti musicali (un maggior numero di fori negli aujloiv e di corde nella kiqavra) facilitavano la possibilità di modulazioni, in conformità con i mutamenti di carattere delle situazioni descritte. I generi poetici, prima rigorosamente distinti nelle modalità del loro accompagnamento e delle loro caratteristiche musicali, venivano a confondersi in forme nuove e indeterminate. Diventata sempre più complessa, la partitura musicale non poteva in questi casi essere affidata ai ‘dilettanti’ della tradizione, richiedendo il virtuosismo vocale e strumentale di un professionista: così decade la funzione e l’importanza del coro negli spettacoli drammatici, mentre si impongono figure di virtuosi idolatrati dal pubblico. Questa evoluzione, che, insieme alle nuove strutture, individualistiche, di pensiero portate avanti dai sofisti e da Socrate, andò di pari passo con i radicali mutamenti politici e sociali della fine del V secolo, fin dai suoi momenti iniziali non poté che destare scandalo ed esecrazione in chi vedeva da essa minacciata un’arte profondamente integrata in sé e strettamente funzionale alla tradizione religiosa e civile. Ne sappiamo qualcosa dalle feroci parodie dedicate dalla commedia di Aristofane ai nuovi poeti (ma già ad Euripide)19: non è casuale, comunque, che lo stesso Aristofane si trovi a ridurre, nel corso della sua carriera, numero e ampiezza delle parti affidate al coro, per dare maggior spazio ai canti degli attori, evidentemente preferiti dal pubblico. Più tardi, quando ormai la “nuova musica” si è affermata, arriverà la decisa condanna di Platone, che giudica la nuova arte assolutamente pericolosa, visto che essa suscita nell’uomo emozioni e passioni tali da turbarne l’equilibrio.20 Ma, come si è detto, le nuove tendenze si erano ormai affermate. La rivoluzione musicale aveva iniziato un processo che comportò alla fine l’emancipazione della musica pura dalla poesia, che, gradualmente venne ad essere vista come un’arte a sé stante: così è la grande produzione poetica a partire dall’Ellenismo. Il legame parola-musica sopravvisse comunque fino in età romana, soprattutto nella tradizione cultuale, solitamente conservativa, ma anche in vari tipi di composizioni destinate allo spettacolo. Continuavano ad essere eseguiti, almeno nell’epoca ellenistica, brani che passavano per essere (e forse erano veramente) musica dei grandi del passato come Euripide, comunque per lo più destinati ad una esecuzione ben diversa da quella originaria, e cioè come ‘estratti’, arie da concerto per cantanti che si esibivano in poutpourri di composizioni. Ormai le personalità che si affermano nell’ammirazione del pubblico sono gli esecutori, mentre non emergono più grandi personalità di poeti-musicisti paragonabili a quelle del passato. 24 Note: 1. Fino alla metà dell’800 erano noti solo gli inni attribuiti a Mesomede, musico greco vissuto al tempo di Adriano (II sec. d.C.), che erano stati pubblicati da Vincenzo Galilei nel 1581, e i sei brevi brani strumentali posti alla fine di una raccolta di scritti teorici anonimi di età tarda pubblicata nel 1841 da F.Bellermann (Anonyma de musica scripta Bellermanniana); altre composizioni, che erano fatte risalire all’antichità, sono oggi per lo più considerate spurie (il più noto è il frammento della prima Pitica di Pindaro, vv. 1-8, che il gesuita Athanasius Kircher pubblicò nel 1650, dichiarando di averlo scoperto in un manoscritto nella biblioteca di un convento a Messina, manoscritto la cui esistenza non è stata più segnalata, anche perché negli anni successivi la biblioteca venne distrutta da un incendio). A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo il patrimonio dei testi a noi noti si è relativamente arricchito grazie alla scoperta di alcune iscrizioni (fra cui, particolarmente notevoli, due inni, eseguiti a Delfi nel 128 a.C., di musicisti attici, di nome rispettivamente Ateneo e Limenio, testimonianza del successo ottenuto da compositore ed esecutori; un canto che il musico Sicilo fece incidere sulla propria pietra tombale nel II sec. d.C.; il frammento di un inno ad Asclepio trovato ad Epidauro su una pietra incisa probabilmente alla fine del III secolo d.C., ma più vecchio, forse, di alcuni secoli), e un certo numero di brevi frammenti papiracei, il più antico dei quali (P. Leid. inv. 510), contenente una selezione di brani dall’Ifigenia in Aulide di Euripide, risale al III sec. a.C. Dei documenti musicali greci in nostro possesso esiste una recentissima raccolta con edizione critica e commento (Documents of Ancient Greek Music, edited by E.Pöhlmann and M.L. West, Oxford 2001). 2. Vv. 1221 s. 3. Vv. 784 ss. 4. Lo sviluppo della vita associata a livello aristocratico e- in particolare nella polis democratica- a livello popolare offre ai cittadini motivi sempre più frequenti di partecipare, come spettatori o esecutori, a diverse forme di vita sociale che includevano uno ‘spettacolo’: nuove feste religiose, cerimonie di associazioni di devoti a particolari divinità, banchetti a cui partecipavano gli appartenenti alla stessa fazione politica. 5. Iliade I, vv. 472-474:“Tutto il giorno i Greci placarono il dio con il canto, intonando un peana bellissimo in onore del dio arciere, che si rallegrava ad udirli” [trad. G. Paduano, Torino 1997]. 6. La competizione è una caratteristica strutturale dell’agire dei Greci. E così nelle feste come quelle ora descritte si affrontavano non solo cori, ma anche cantanti solisti e strumentisti, quali suonatori di aujlovç e di kiqavra (che eseguivano brani puramente strumentali). 7. Iliade XVIII, 490-496: “Vi fece poi due città di uomini, bellissime: in una erano nozze e banchetti; conducevano spose dalle loro stanze alla luce di fiaccole splendenti, in corteo per la città; si levava alto l’imeneo, e giovani danzatori volteggiavano; fra di loro suonavano flauti e cetre: le donne in piedi, ognuna sulla sua porta, guardavano con stupore” [trad. G.Paduano, cit.]. 8. Fr. 44 Voigt. 9. È questo un gruppo di strumenti a corda (per il quale v. M.L.West, Ancient Greek Music, Oxford 1992, 48 ss.), la cui struttura essenziale consisteva in una cassa armonica e in due bracci che, partendo da essa, erano collegati da una traversina su cui si fissavano -in numero variabile- corde di uguale lunghezza, collegate dall’altro capo alla parte inferiore della cassa. Di questi strumenti la kiqavra rappresenta lo stadio più evoluto: la sua grande cassa di risonanza, che continuava anche nelle basi dei due bracci, consentiva un ampio volume di suono e fece sì che essa diventasse lo strumento professionistico per eccellenza. Per il suo impiego nella lirica corale cfr. West, Ancient Greek Music, cit., 336, 346; M.Maas-J.McIntosh Snyder, Stringed Instruments of Ancient Greece, New Haven and London 1989, 31, 60. 25 10. Di solito tradotto come “flauto”, il termine indica invece uno strumento ad ancia (semplice o doppia); fra gli strumenti moderni il più vicino ad esso nella struttura essenziale è l’oboe. Aveva in genere due canne, ciascuna con un certo numero di fori. 11. Si veda ad esempio Pindaro, Olimpica III, 6 ss.: “Ora da me le ghirlande annodate alla chioma reclamano un debito eretto dal dio: che io fonda in giusta misura il vario tono di cetra e clamore di flauti e una trama di voci per il figlio di Ainesídamos [trad. L.Lehnus, Milano 1981]. 12. Lo strumento a corda di uso più comune (normalmente adoperato nell’educazione dei giovani), che consisteva in una cassa armonica costituita in origine da un guscio di tartaruga e in due bracci che, a differeza della kiqavra, non costituivano un prolungamento della cassa ma erano a questa applicati. 13. Amato in particolare dai poeti di Lesbo, era uno strumento la cui maggiore differenza con la luvra consisteva nella presenza di due lunghi bracci ricurvi. Le dimensioni molto ridotte della cassa di risonanza e la lunghezza delle corde dovevano produrre un suono di volume non ampio e di intonazione grave. 14. Teognide, vv. 239-243: “Sarai presente a tutte le feste e a tutti i banchetti posando sulle labbra di molti: te celebreranno al suono degli auli brevi d’acuta nota giovani seducenti nell’armonia di melodiose canzoni” [trad. F.Ferrari, Milano 1989]. 15. Plutarco, ad esempio, racconta (Vita di Nicia, 29, 4) come alcuni Ateniesi sopravvissuti al disastro militare di Siracusa (413 a.C.) nel corso della guerra del Peloponneso, ottennero cibo e acqua grazie alla loro capacità di cantare brani di Euripide. 16. V. 101. 17. V. 69. 18. Insieme a frammenti minori, di lui ci è giunta una parte piuttosto ampia di una estesa composizione incentrata sulla battaglia di Salamina (fr. 15 Page). 19. Euripide, almeno nell’ultimo periodo della sua attività, sembra partecipe di alcune delle nuove tendenze: così si potrebbe interpretare il maggior ricorrere di canti astrofici, per lo più affidati agli attori. Aristofane, d’altro canto, gli rimproverava, non sappiamo quanto a ragione, l’uso di una ridondante aggettivazione e di frequenti anadiplosi come semplici pretesti per modulazioni musicali. E ancora, ne deprecava la mescolanza di motivi provenienti da generi musicali diversi (Rane, vv. 1301 ss.: “lui prende il suo miele dappertutto: canti di puttane, canzoni di Meleto, motivetti per l’aulo della Caria, compianti funebri, arie di danza”[trad. D.Del Corno, Milano 1985]). D’altra parte variazioni di ritmo compaiono in particolare nelle virtuosistiche monodie tardo-euripidee; ed è ancora Euripide a introdurre in alcune delle sue ultime tragedie canti corali che sembrano scorrelati dall’azione, basati come sono sulla narrazione di vicende mitiche e sul rincorrersi di belle immagini, forse precorrendo o rifacendosi al procedimento, che ci viene attestato per il tragico Agatone, di introdurre al posto degli stasimi della tragedia canti corali privi di aggancio con la situazione scenica, che si configurano come veri e propri riempitivi. 20. Ciò si basa sulla concezione diffusa, attestata tra l’altro dai Pitagorici e da Damone, secondo la quale la musica poteva alterare lo stato d’animo di chi la ascoltava, e che quindi collegava a diversi effetti emozionali ed etici ritmi o modi musicali diversi. > Fig. 5, vaso attico, 470 a.C. ca.: Alceo e Saffo con barbitoi. (München, Staatliche Antikensammlung inv. nr. 2416). 26 27 28 ‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica: pluralità delle occasioni del canto e discontinuità della tradizione L UCIA P RAUSCELLO C ARLO P ERNIGOT TI Nonostante le più antiche testimonianze a noi pervenute, figurative e letterarie, documentino un indissolubile e precoce legame fra elemento musicale, orchestico e testuale, deponendo così a favore di una diffusione generalizzata di una profonda cultura musicale nella società greca fin dai tempi più remoti, il principale ostacolo per chi voglia tentare di ricostruire gli aspetti più propriamente tecnici di questa intensa attività, come ad es. la tecnica di composizione, le modalità di diffusione e trasmissione dei testi musicali, è dato, paradossalmente, proprio dall’esiguità e parzialità dell’evidenza documentaria. Attualmente infatti, sebbene si tratti di un corpus suscettibile di aumentare nel corso degli anni grazie a nuove scoperte papirologiche ed epigrafiche, per fare luce sul sistema notazionale della musica greca1 non possediamo più di una quarantina di scarni frammenti di tradizione diretta, tutti databili in un periodo compreso fra il III sec. a.C. e il IV/V d.C.2 Ci si trova dinanzi ad una selettività della testimonianza che investe in primo luogo l’asse cronologico: si tratta cioé di documenti posteriori almeno di due secoli alla grande stagione della lirica corale e del teatro attico del V sec. a.C. Perché dunque un tale vacat temporale nella nostra evidenza documentaria? Una prima ragione va sicuramente ricercata nel fatto che sino alla fine del V/inizi del IV sec. a.C. il principale veicolo di conoscenza e diffusione del patrimonio musicale era la performance orale, strettamente legata all’hinc et nunc della singola occasione del canto, capace di condizionarne l’esecuzione non solo a livello testuale ma anche ritmico e melodico, rapportandosi in prima istanza all’orizzonte di attesa del pubblico di volta in volta presupposto. Questo complesso intreccio di improvvisazione secondo le singole istanze performative e di osservanza dei novmoi ereditati, unitamente alla conseguente semplicità/ripetitività della linea melodica tradizionale presupposta da una tale realtà, non doveva verosimilmente comportare l’esigenza di un complesso sistema notazionale,3 supporto necessario per le fioriture, i melismi e le barocche modulazioni (kampaiv) della musica del ‘nuovo ditirambo’. Tale ricostruzione, pur nella sua riconosciuta problematicità per quanto riguarda la possibilità di stabilire con esattezza i limiti temporali della comparsa degli spartiti,4 < Fig. 3, Neapolitanus Gr. III C 4, 83r, XV saec. = Mesomede, Inni 4-5. 29 sembra comunque confortata, nelle sue linee generali, dall’evidenza iconografica (questa volta fortunatamente già di epoca classica). Infatti varie raffigurazioni vascolari del VI/V sec. a.C rappresentanti scene di scuola5 mostrano con chiarezza come l’insegnamento del canto e della pratica strumentale, nei suoi vari livelli (dilettantesco e professionale), fosse, a quanto sembra, interamente orale: l’allievo apprendeva la tecnica per via mimetica, tentando di riprodurre il più fedelmente possibile la gestualità e prassi esecutiva del maestro. All’evidenza iconografica si affiancano inoltre significative testimonianze letterarie che, sebbene più tarde, sembrano confermare la relativa stabilità e continuità6 del sistema educativo musicale nei suoi vari gradi di specializzazione. In tal senso, per un livello di istruzione musicale di base (come sembra suggerire l’associazione con la figura del grammatodidavvçkaloç), una delle testimonianze più esplicite è Plut. Mor. 790 e 7- f 2: wJç ga;r oiJ gravmmata kai; mouçikh;n didavçkonteç aujtoi; proanakrouvontai kai; proanaginwvçkouçin uJfhgouvmenoi toi'ç manqavnouçin, ou{twç oJ politiko;ç ouj levgwn movnon oujd uj p J agoreuvwn e[xwqen, ajlla; pravttwn ta; koina; kai; dioikw'n ejpeuquvnei to;n nevon, e[rgoiç a{ma kai; lovgoiç plattovmenon ejmyuvcwç kai; kataçchmatizovmenon. “I maestri di grammatica e di musica guidano gli allievi eseguendo loro per primi il pezzo o dando lettura del testo: così non è solo parlando o dando suggerimenti dall’esterno, ma impegnandosi di persona nell’amministrazione della cosa pubblica, che un politico indirizza sulla giusta via i giovani, che vengono plasmati e formati dall’insegnamento vivo e combinato delle azioni e delle parole” (traduz. di G. Pisani, Plutarco, Moralia III, Pordenone 1992). L’intero passo plutarcheo, istituendo una ben precisa equiparazione tra la figura del maestro (didavçkaloç) e quella dell’uomo pubblico (politikovç), evidenzia in entrambi i casi la priorità, educativa e maieutica, dell’exemplum pratico: compito del grammatodidavvçkaloç (colui che impartiva i primi rudimenti dell’istruzione: leggere e scrivere), così come del maestro di musica strumentale (kroumatopoiovç), era quello di guidare l’allievo mostrandogli per primo le varie tecniche esecutive.7 Una distinzione così netta, quella greca, fra teoria e prassi esecutiva, che la tecnica della notazione, in altre parole l’atto stesso di trasferire per iscritto il dettato musicale, non veniva considerata come specifica sfera di competenza del futuro compositore-esecutore: la composizione e la notazione erano percepite e praticate come due distinte attività professionali (da qui la difficoltà di noi moderni a dissociare due pratiche attualmente coincidenti),8 per cui non era sorprendente il caso di un compositore (melopoiovç: letteralmente “autore di canti”) che non fosse in grado di notare i segni musicali o di decifrare a prima vista uno spartito.9 30 Una dimensione ‘educativa’, scolastica, profondamente diversa, dunque, dalla nostra, che richiede una progressiva e parallela acquisizione di un bagaglio di informazioni sia teoriche sia pratiche da parte dell’allievo. Allo stesso modo, l’aspetto più propriamente teorico come la riflessione matematica sull’ampiezza degli intervalli, la loro divisibilità interna e scomposizione numerica sono riservati, nell’universo culturale greco, esclusivamente all’ambito della speculazione filosofico-matematica. A questa prima ‘strozzatura’ diacronica si sovrappone un ulteriore ‘filtro’ interpretativo: l’estrema settorialità del destinatario di questi scritti. La quasi totalità dei testi con notazioni musicali a noi pervenuti è costituita infatti da ‘copioni’ annotati degli stessi cantanti, strumentisti o maestri: in altri termini da quelli che potremmo chiamare i ‘professionisti della musica’. L’evoluzione del gusto musicale, precorsa e nel contempo testimoniata dalla scuola del ‘nuovo ditirambo’ (aspramente criticata, sul versante filosofico, da Platone e Aristotele, e ridicolizzata, su quello letterario, dal conservatore Aristofane), con il progressivo affermarsi della monodia astrofica, dotata di maggiori possibilità espressionistiche e mimetiche rispetto alla struttura strofica corale, garante, con la sua uniformità ritmico-melodica, anche dell’uniformità dell’ethos, portava con sé, come naturale conseguenza, l’esigenza di un nuovo tipo di virtuoso del canto, di attore professionista (tragwidovç), che, grazie a numerose fonti epigrafiche di età ellenistica, sappiamo facente parte, a partire dal III sec. a.C., di vere e proprie compagnie teatrali istituzionalizzate (çuvnodoi o koina; tw'n Dionuçiakw'n tecnitw'n), legalmente riconosciute e articolate secondo una precisa gerarchia interna. La tecnicità del destinatario presupposta da questi spartiti è per noi estremamente interessante sia in quanto strumento privilegiato per ricostruire la complessa realtà sociale ed artistica sottesa a nuove forme di spettacolo teatrale proprie dell’età ellenistica (il teatro ormai divenuto luogo di ejpideivxeiç o ajkroavçeiç, esibizioni pubbliche in cui i virtuosi cantavano, accompagnati dalla kiqavra o dall’aujlovç, qualsiasi testo sia lirico sia drammatico),10 sia come prezioso elemento di confronto/verifica testuale con quello che per noi è il principale ‘bacino collettore’ della nostra tradizione manoscritta per i testi classici: la prassi editoriale alessandrina.11 Gran parte di questi testi con notazioni musicali rientrano infatti in una omogenea e ben precisa categoria tipologica: selezioni antologiche di brani tragici (monodie, excerpta corali ma anche sezioni in metri originariamente destinati alla sola recitazione o, tutt’al più, al recitativo: trimetri giambici e sistemi anapestici) e non (peani, prosodi, nomoi, accanto a interludi puramente strumentali), destinate non tanto ad essere adoperate come testi di lettura ad uso della scuola, quanto all’ampio spettro di soluzioni esecutive in cui si articolava il macrocosmo musicale greco, pubblico e privato, in età ellenistica. Si tratta 31 Fig. 7, P. Leid. inv. 510 = Eur. I. A. 1499 (?)-1509, 784-792, III a.C. Fig. 8, P. Vind. G 2315 = Eur. Or. 338344, III a.C. infatti di una tipologia di documenti che presuppone una pratica profondamente diversa da quella attuale: la trascrizione fisica della partitura non serviva unicamente a garantirne la diffusione e riproducibilità ad opera di ogni potenziale fruitore e/o esecutore come avviene oggi, ma rispondeva soprattutto all’esigenza della singola performance puntualmente circoscritta nella sua dimensione temporale e spaziale. Da questo punto di vista l’alta frequenza di papiri musicali che presentano una successione contigua di componimenti di natura spesso molto diversa, come ad es. il già citato P.Berol. 6870, sembra deporre a favore di un utilizzo del supporto scrittorio essenzialmente come promemoria specifico del programma da eseguire: più che di antologia in questo caso sarebbe forse preferibile parlare pertanto di vere e proprie suites di brani di volta in volta apprestate dal musicista. Tutto questo in un universo estremamente diversificato e pluralista, che comprendeva dunque non solo ejpideivxeiç teatrali, cavallo di battaglia di richiestissimi virtuosi che radunavano folle oceaniche per i loro recitals,12 così come di più umili e periferici mestieranti radunati in associazioni minori (çumfwnivai) che percorrevano la cwvra egiziana guadagnandosi a mala pena di che vivere,13 ma anche singole esibizioni simposiali, in occasione di occorrenze più o meno ufficiali o private che abbracciavano così gran parte della vita quotidiana greca,14 cerimonie festive e religiose,15 sino a sconfinare in performances ecletticamente eterodosse.16 Inoltre, come si è già sopra accennato, alcuni di questi papiri musicali rappresentano per noi la più antica fase della tradizione del testo di Euripide: si tratta di P.Leid. inv. 510, antologia euripidea con excerpta dell’Ifigenia in Aulide della metà del III sec. a.C. [fig. 7] e P.Vind. G 2315, recante parte del I stasimo dell’Oreste, anch’esso testimone della fine del III sec. a.C [fig. 8]. 32 Entrambi i testi ci consegnano infatti significative varianti testuali rispetto al resto della tradizione medievale, lasciandoci nel contempo gettare uno sguardo su quello che doveva essere un filone di tradizione tendenzialmente distinto ed indipendente da quello testimoniatoci dall’ecdotica alessandrina, strettamente legato agli aspetti performativi dei testi eseguiti e vincolato a sistemi di organizzazione interna (ritmizzazione e articolazione metrica) più fluidi ed ‘altri’ rispetto a quelli codificati dalla moderna prassi colometrica. Nel III sec. a.C. si possono così osservare già operanti le linee di un graduale, profondo mutamento culturale che ha di fatto determinato la perdita di gran parte del patrimonio musicale scritto: già per i dotti filologi alessandrini la produzione poetica arcaica e classica (lirica corale, monodica e poesia drammatica) doveva essere percepita come destinata esclusivamente alla lettura, con conseguente disinteresse agli aspetti più propriamente performativi. Lo stretto legame che i testi musicali a noi giunti mostrano con l’alta professionalità e specializzazione presupposte devono presumibilmente già da prima avere contribuito ad una precoce separazione fra tradizione della musica e tradizione del testo. Un insieme di testimonianze, dunque, quelle offerte dai papiri musicali, che lasciano problematicamente aperte molteplici prospettive di ricerca, che dovranno essere affrontate non solo dagli specialisti dello studio della musica nell’antichità ma da chiunque voglia tentare di avere una visione globale e onnicomprensiva della civiltà greca. Note: 1. La notazione greca comprendeva due diversi sistemi semiografici: uno destinato alla musica strumentale, presumibilmente più antico, forse derivato da un alfabeto epicorico argivo, ed un secondo destinato alla musica vocale (tale distinzione, netta nei trattati teorici, sembra in parte sfumare negli spartiti a noi giunti). Entrambi utilizzavano le lettere dell’alfabeto ionico classico o nella forma normale (ojrqovn), o disposte orizzontalmente (ajneçtrammevnon: suono innalzato di una diesis enarmonica o cromatica) o rovesciate (ajpeçtrammevnon: ulteriore innalzamento di una seconda diesis enarmonica o cromatica) o con l’aggiunta di un apex o modificate nella figura. A ciò va aggiunta la presenza di segni chironomici (indicanti effetti di pausazione, superallungamento della sillaba - anche attraverso la reduplicazione vocale -, legatura etc.) che dovevano servire ad interpretare ritmicamente il dettato, spesso andando a modificare la maglia metrica sottostante. Tutti questi çhvmata (segni) venivano solitamente apposti supra lineam rispetto al testo del mevloç a cui 33 Fig. 1, Kopenhagen inv. nr. 14897 = epitafio di Sicilo, II d.C. si riferivano, cfr. M.L. West, Ancient Greek Music, Oxford 1992, pp. 254-276. 2. Si tratta per lo più di frammenti papiracei, a cui va aggiunta qualche iscrizione - i peani delfici (128 a.C.), un inno esametrico ad Asclepio (SEG 30. 390) e uno a Sinuri (Mylasa inv. 3) di età ellenistica, l’epitafio di Sicilo (II d.C., vd. fig. 1): tutti documenti conosciuti solo a partire dalla metà dell’800 - unitamente alla testimonianza della tradizione manoscritta (gli inni citarodici di Mesomede di Creta, di età adrianea - vd. figg. 2-3 (fig. 3, vedi p. 28) - e numerosi scritti teorici di tarda età imperiale). L’edizione più recente di tali documenti è quella di E. Pöhlmann-M.L. West, Documents of Ancient Greek Music, Oxford 2001. 3. Basti pensare all’importanza dell’elemento estemporaneo nella prassi simposiale e, conseguentemente, alla scarsa rilevanza ed utilità del testo scritto: eseguire era molto spesso un ricreare, un rifare ogni volta. Fig. 2, Neapolitanus Gr. III C 4, 82v, XV saec. = Mesomede, Inni 1-4. 4. L’altezza cronologica in cui sarebbe stata introdotta e si sarebbe diffusa l’adozione del sistema notazionale è uno dei problemi tuttora più dibattuti e su cui manca un consenso generale da parte degli studiosi, fondamentalmente divisi tra metà V (notazione strumentale)/fine V (notazione vocale) e tardo IV sec. a.C., cfr. e.g. rispettivamente West, op. cit., pp. 269-273 e G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, Torino 19912, p. 9. Per i tentativi di E. Pöhlmann, Beiträge zur antiken und neueren Musikgeschichte, Frankfurt am Main 1988, pp. 61-69, di individuare traccia di spartiti musicali in raffigurazioni vascolari antecedenti alla fine del V sec. a.C., rappresentanti scene di canto e di lettura (probabilmente si tratta in realtà di semplici “libretti”), cfr. le giuste obiezioni mosse da A. Bélis, La trasmissione della musica nell’antichità, in F. Berti-D. Restani, Lo specchio della musica. Iconografia musicale nella ceramica attica di Spina, Bologna 1988, pp. 34-35, West, op. cit., pp. 263-264 n. 23 e L.P.E. Parker, Consilium et ratio? Papyrus A of Bacchylides and Alexandrian Metrical Scholarship, «CQ» 51 (2001), p. 36 n. 19. Sull’ipotetica esistenza, già nel V sec. a.C., di una rudimentale semiografia per il solfeggio concorrente a quella “savant”, cfr. Pöhlmann-West, op. cit., p. 8. 5. Cfr. e.g. hydria di Phintias, 500 a.C. ca.: lezione di lira (München, Staatliche Antikensammlung, n. inv. 2421); skyphos attico a figure rosse di Pistoxenos, datato al 475 a.C.: Ificle a lezione di lira da Lino (Schwerin, Landesmuseum, n. inv. 708), vd. fig. 4; skyphos attico a figure rosse di Douris, 480 a.C. ca.: lezione di lira ed aulo (Berlin, Staatliche Museen, n. inv. F 2285), vd. fig. 5-6. 6. H.-I. Marrou, Histoire de l’éducation dans l’anti- 34 quité, Paris 1965 6, p. 553 n. 7 ribadisce l’aspetto eminentemente orale dell’insegnamento musicale anche per epoche successive a quella classica. 7. Un livello sempre elementare dell’insegnamento musicale è testimoniato anche da Ael. V.H. 3. 32 (Alessandro Magno impara a suonare la kiqavra): la dinamica del racconto, con il maestro che dice, al cospetto dell’alunno, quale corda pizzicare e l’alunno che ne indica (deivxaç) un’altra, lascia presupporre una modalità di apprendimento ugualmente mimetica. Sul versante dell’istruzione professionistica cfr. invece Plut. Demet. 1. 6 (i maestri in questo caso sono i tebani Ismenia ed Antigenida, acclamati virtuosi dell’auletica fra il V/IV sec. a.C.). 8. Cfr. A. Bélis, Les Musiciens dans l’Antiquité, Paris 1999, pp. 159 e 163. 9. Conosciamo comunque delle eccezioni significative, vd. ad es. P.Berol. 6870 (antologia musicale del IIIII sec. d.C., contenente, nell’ordine, un peana, un interludio strumentale, un excerptum tragico: anche questa sola contiguità esecutiva di ‘occasioni’ del canto così statutariamente diverse in epoca classica traduce bene la profonda modificazione della percezione della dimensione spettacolare in età imperiale). In questo importante papiro infatti la mano che ha vergato il pezzo strumentale è la medesima che ha redatto il testo, e l’interludio strumentale stesso presenta tante e tali correzioni, così profondamente diverse dalla prima versione, da fare pensare non ad un semplice errore di copiatura ma alle tracce materiali di un compositore al lavoro: ci troveremmo dunque dinanzi addirittura ad un esemplare autografo di una partitura originale. Il medesimo problema si ripresenta anche per P. Mich. 2958 (II d.C.); cfr. Bélis, op. cit., p. 177. 10. Talora con interventi episodici di un coro, quasi a riprodurre, mimeticamente e visivamente, l’integrità dello spazio orchestico del teatro classico del V sec. a.C. L’esempio più noto è quello di S.I.G. 648 B: l’auleta Satiro di Samo nel 194 a.C., nello stadio di Delfi, si esibì in uno spettacolo comprendente il canto delle parti di Dioniso nelle Baccanti di Euripide, con l’accompagnamento della cetra e con l’intervento amebeo del coro (a\içma meta; corou' Diovnuçon kai; kiqavriçma ejk Bakcw'n Eujripivdou; cfr. B. Gentili, Lo spettacolo nel mondo antico, Roma-Bari 1977, pp. 17-18 n. 39): un’abile operazione di antologizzazione musicale, con conversione in canto anche di metri originariamente recitati (trimetri giambici). Un altro esempio di canto amebeo fra coro e attore, questa volta nel I sec. a.C., sempre nell’ambito di una performance che prevedeva selezioni tragiche, ancora una volta dalle Baccanti 35 Fig. 4, skyphos attico a figure rosse di Pistoxenos, da Cerveteri, 475 a.C. ca.: Ificle a lezione di lyra da Lino. (Schwerin, Landesmuseum n. inv. 708). Fig. 5, coppa attica a figure rosse di Douris, 480 a.C. ca.: lezione di musica (lyra). (Berlin, Staatliche Museen F 2285). Fig. 6, coppa attica a figure rosse di Douris, 480 a.C. ca.: lezione di musica (aulos). (Berlin, Staatliche Museen F 2285). di Euripide, è testimoniato da Plut. Crass. 33. 6, sebbene in un contesto significativamente diverso (simposiale): quando la testa di Crasso venne portata al cospetto di Orode, re dei Parti, durante un banchetto (eJçtiavçeiç kai; povtoi) che comprendeva la rappresentazione di molti spettacoli provenienti dalla Grecia (kai; polla; pareiçhvgeto tw'n ajpo; th'ç JEllavdoç ajkouçmavtwn), l’uJpokrithvç (attore) Giasone di Tralle stava per l’appunto intrattenendo i convitati con una selezione tragica comprendente parti di Agave che includevano anche l’intervento del coro: ∆Iavçwn o[noma Tralliano;ç h\iden Eujripivdou Bakcw'n ta; peri; th;n A j gauvhn [...] ajidomevnwn de; tw'n ejfexh'ç ajmoibaivwn pro;ç corovn ktl. (“un attore tragico, di nome Giasone, di Tralle, stava cantando il brano delle Baccanti di Euripide che riguardava Agave [...] quando poi fu cantato il dialogo seguente col coro...”, trad. di C. Carena, Plutarco. Le vite di Nicia e di Crasso, Milano 1993). 11. Contro il tentativo di T.J. Fleming-E.C. Kopff, Colometry of Greek Lyric Verses in Tragic Texts, «SIFC» s. III 10 (1992), pp. 758-770, e T.J. Fleming, The Survival of Greek Dramatic Music from the Fifth Century to the Roman Period, in B. Gentili- F. Perusino, La colometria antica dei testi poetici greci, Roma 1999, pp. 17-29, di istituire un legame diretto fra filologia alessandrina e testi con notazioni musicali, cfr. da ultimo le obiezioni della Parker, art. cit., pp. 35-36 n. 16. 12. Uno degli elementi più appariscenti della vita culturale ellenistica è proprio una più accentuata spettacolarità, insieme con la creazione di nuovi contesti performativi. L’esibizione di questi tragwidoiv era vissuta come un momento di puro intrattenimento che godeva di grande popolarità: è in contesti come questo che il testo poetico continuò ad essere espresso in stretto legame con l’elemento musicale, diversamente da quanto avveniva nella cultura ‘alta’, erudita e scritta delle corti ellenistiche, cfr. R. Pretagostini, «Mousike»: poesia e «performance», in S. Settis, I Greci. Storia Cultura Arte Società. 2. III, Torino 1998, p. 626. 13. Il mondo sommerso di questi spesso mediocri ‘artisti di provincia’, secondo la felice definizione di P. Collart, Réjouissances, divertissements et artistes de province dans l’Egypte romaine, «RPh» 18 (1944), pp. 132-155, ci è noto soprattutto grazie a papiri egiziani di età tolemaica e romana: statutariamente inferiori rispetto alla potente corporazione dei tecni'tai dionisiaci, le loro associazioni, interamente profane, erano costituite da effettivi variabili (essenzialmente strumentisti, danzatori e qualche cantante: da un minimo di due a dieci e più elementi) solitamente ingaggiati da committenze private per un periodo limitato di tempo, cfr. Bélis, op. cit., pp. 61 ss. 14. Si pensi al già citato episodio narrato da Plut. Crass. 33. 2 ss., ancora più significativo in quanto attesta il persistere di tale prassi simposiale in zone periferiche della cultura mediterranea del I sec. a.C. Un’altra testimonianza, sempre in un contesto di banchetto e brindisi privato, è Plut. Lys. 15. 4 ss., in cui si narra della commovente esibizione ‘estemporanea’ di un vecchio focese che, per impedire la distruzione di Atene (404 a.C.) dinanzi ai generali spartani brindanti alla sconfitta del nemico, intona un brano euripideo (celebre episodio immortalato anche da J. Milton, Sonn. VIII, 12-14): ei\ta mevntoi çunouçivaç genomevnhç tw'n hJgemovnwn kai; para; povton tino;ç Fwkevwç a[içantoç ejk th'ç Eujripivdou H j levktraç th;n pavrodon, [...] pavntaç ejpiklaçqh'nai, kai; fanh'nai çcevtlion e[rgon th;n ou{twç eujklea' kai; toiouvtouç a[ndraç fevrouçan ajnelei'n kai; diergavçaçqai povlin (“I capi si riunirono allora per decidere, ma quando, nel corso di una bevuta, un Focese intonò l’inizio della parodo dell’Elettra di Euripide [...] tutti furono presi da un moto di pietà e compresero l’assurdità di voler distruggere e cancellare dalla faccia della terra una città tanto gloriosa e che dava i natali a uomini di tanto valore”, trad. di G. Pisani, Plutarco, Le vite di Lisandro e di Silla, Milano 1997). 15. Cfr. la celebrazione della panhvguriç tw'n Nemeivwn nel 205 a.C. descritta in Plut. Philop. 11. Qui Pilade, rinomato kiqarwidovç del suo tempo, intona casualmente l’incipit dei Persiani di Timoteo proprio durante l’ingresso nel teatro di Filopemene, vincitore di Mantinea: a[rti d j aujtw'n eijçelhluqovtwn, kata; tuvchn Pulavdhn to;n kiqarwido;n a[idonta tou;ç Timoqevou 36 Pevrçaç ejnarxavçqai ktl. (“Essi erano appena entrati quando per un caso fortuito il citaredo Pilade, eseguendo i Persiani di Timoteo, cominciò a cantare”, trad. di E. Melandri, Plutarco, Vite parallele. Filopemene. Tito Flaminio, Milano 1997). 16. Si pensi soprattutto all’episodio dei prigionieri ateniesi nelle latomie quale descritto da Plut. Nic. 29. 2 ss., parte dei quali ebbe salva la vita sia per avere insegnato ciò che essi ricordavano delle tragedie di Euripide (ejkdidavxanteç o{ça tw'n ejkeivnou poihmavtwn ejmevmnhto: dunque presumibilmente i pezzi più famosi - quelli che chiameremmo highlights) sulla base della loro esperienza di spettatori tragici e occasionali coreuti, sia intonando i canti in prima persona (tw'n melw'n a[içanteç). Questo passo plutarcheo è inoltre particolarmente importante perché testimonia non solo la consolidata fama di Euripide nella Magna Grecia dell’ ultimo squarcio del V sec. a.C., ma sembra anche prevedere come modalità di diffusione della poesia euripidea una qualche forma di operazione antologizzante: mavliçta ga;r wJç e[oike tw'n ejkto;ç E J llhvnwn ejpovqhçan aujtou' th;n mou'çan oiJ peri; Sikelivan kai; mikra; tw'n ajfiknoumevnwn eJkavçtote deivgmata kai; geuvmata komizovntwn ejkmanqavnonteç ajgaphtw'ç metedivdoçan ajllhvloiç (“Infatti pare che quelli di Sicilia amassero la poesia di Euripide più di tutti gli altri Greci abitanti fuori della Grecia, studiavano a memoria con amore i brevi brani e saggi che via via giungevano fino a loro, portati da qualcuno, e se li scambiavano a vicenda”, trad. di C. Carena, op. cit., corsivi nostri). 37 Iconografia musicale F RANÇOIS L ISSARRAGUE Non è facile intervenire dopo queste relazioni, oltretutto parlo in italiano da francese e vi chiedo scusa per i miei errori. Vorrei fare un discorso un po’ diverso da quelli fatti fino ad ora: anch’io mi lamento della perdita della musica antica, non voglio però farvi piangere di più, basta così! È però vero, siamo quasi nella condizione degli affreschi che si intravedono in questa chiesa: qualcosa che c’era, ma che è andata perduta. Quello che abbiamo sulla musica greca sono in primo luogo i discorsi dei Greci - ovvero i trattati teorici -, secondariamente gli elenchi dei vincitori nelle competizioni e, infine, bellissimo materiale visivo. Possediamo un intero percorso visivo sulla musica, che non posso esplorare in tutti i particolari in questa mezz’ora; voglio solo sceglierne un aspetto: quello dell’inquadramento religioso e mitologico. Consideriamo i vasi che abbiamo già esaminato come ‘documenti’, in quanto permettono di vedere aspetti tecnici degli strumenti - come ‘monumenti’. Qui [fig. 1] abbiamo Apollo con la lyra, raffigurata in modo molto preciso, che ci aiuta a capire la struttura degli strumenti; ma questo oggetto è anche un vaso per bere, che viene utilizzato per il simposio. Il simposio è il momento in cui si beve tra amici, è una attività maschile, prettamente maschile, senza la presenza di donne (aspetto di cui bisognerà forse parlare in seguito); è una attività collettiva in cui la memoria comune della poesia e della musica viene attivata nei bevitori dagli oggetti d’uso, dai vasi illu- 39 Fig. 1, coppa attica a fondo bianco, da Delfi, 470 a. C., Apollo (Delfi, Museo archeologico) < Fig. 1a, lyra. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1991. Fig. 2, cratere attico a figure nere, firmato da Kleitias, 570 a. C., la Musa Calliope (Firenze, Museo archeologico 4209) Fig. 3, anfora attica a figure rosse, pittore di Berlino, 490 a. C., suonatore di kitara (New York MMA 56. 171.38) Fig. 4, cratere attico a figure rosse, firmato da Euphronios, 510 a. C., concorso musicale (Parigi, Louvre G 103) strati con i più vari argomenti, comprese le raffigurazioni della pratica musicale, della didattica, come abbiamo visto, ma anche dei grandi miti e delle divinità legate alla musica, tra le quali Apollo, chiaramente, è la figura più cospicua. Faccio un brevissimo elenco di questi casi. Su questo particolare del vaso François a Firenze [fig. 2] c’è una lunga processione di divinità tra le quali le Muse. Calliope è vista di fronte, sta suonando la syrinx inventata da Pan, uno strumento che nella pratica musicale trasforma il viso, deformandolo. La Musa, invece, ha un nome molto preciso “colei che ha un bel viso”, che non viene deformata e che quindi controlla lo strumento. Altro è la cetra ovvero la kithara non ne parlerò a lungo perché lo farò in seguito - che è lo strumento del concertista, del vero virtuoso. Qui [fig. 3] abbiamo un bellissimo disegno del Pittore di Berlino, siamo intorno al 500 a. C., che fa vedere la vivacità, la forza della musica dalla quale il suonatore è preso. Ultimo in questa brevissima lista di strumenti è l’aulos, di cui si è già parlato. Alla figura 4 abbiamo l’esempio di un cratere per mescolare il vino, su cui si vede un giovane suonatore che sta salendo su una piccola tribuna, forse una piccola scena, per un concorso. Queste raffigurazioni, dunque, non sono da parte dei Greci frutto di un interesse da musicologi, ma da bevitori al simposio, che amano il connubio della musica col vino. Un secondo scopo delle rappresentazioni può essere il voler tramandare il ricordo della vittoria ad un bel concorso, un successo: pertanto è questo che abbiamo, non “documenti” ma “monumenti”, che mantengono in circolo la memoria di un evento tra i bevitori. Non posso prendere in esame tutte le storie mitiche che circolano sulla musica, poiché ce ne sono moltissime; ne ho scelte due: quella di Orfeo e quella di Marsia, giacché tutte e due mettono in questione, problematizzano lo sta- 40 tuto della musica nella cultura, oppure lo statuto degli strumenti. Nella cultura moderna noi conosciamo la storia di Orfeo come legata ad Euridice, al tema della vittoria sulla morte, della forza superiore dell’amore, ma nella versione in cui lui la guarda e lei sparisce negli Inferi: una storia tristissima sulla quale non voglio insistere anche perché i Greci non lo fanno. I Greci, o meglio, quelli che hanno prodotto questi vasi, gli Ateniesi del V secolo a. C., non hanno creato alcuna iconografia di Euridice; ciò che abbiamo nei vasi del V sec. è la storia di Orfeo divisa in due momenti, quello del potere della sua musica e quello della sua morte. Parto da questo vaso [fig. 5] sul quale è raffigurato un suonatore di kithara in un concorso, che sta per salire sul bema (piedistallo). C’è una iscrizione “chaire Orpheus” che è un saluto: “Salve Orfeo”. Non credo che questo sia il nome del musicista; lo interpreto come un saluto, un paragone, una metafora della bravura del musicista paragonabile a quella di Orfeo, ma sono sicuro che questa non sia la raffigurazione di Orfeo stesso, perché l’iconografia che lo riguarda è diversa: non suonando lui la kithara, come questo musicista, ma la lyra. Un filone iconografico relativo ad Orfeo è di questo tipo [fig. 6]: un suonatore dall’aspetto perfettamente greco, seduto, con la lyra, è attorniato da uomini che lo ascoltano, vestiti da barbari, da Traci: ne hanno i capelli, gli animali, la zeira, il vestito che li caratterizza come barbari; siamo dunque nella Tracia, cioè “fuori” dalla Grecia, luogo in cui Orfeo suona e incanta il mondo intorno a lui. Una osservazione va fatta anche riguardo a questo aspetto: nella pittura moderna noi siamo abituati a vedere Orfeo che incanta gli animali, non i guerrieri, ma l’iconografia del V secolo non conosce questa rappresentazione e al contrario è veramente specifica: mette in scena Orfeo che immobilizza i cavalieri. 41 Fig. 5, oinochoe a figure nere, classe di Briachos, 500 a. C., concorso musicale (Roma Villa Giulia, M 534) Fig. 6, cratere attico a figure rosse, pittore di Orfeo, 440 a. C., Orfeo fra i Traci (Berlino Staatliche Museen 3172) Fig. 7, cratere attico a figure rosse, pittore di Napoli, 440 a. C., Orfeo fra i Traci (Hamburgo 1968. 79) Fig. 8, stamnos attico a figure rosse, pittore della Dokimasia, 490 a. C., la morte di Orfeo (Basilea, ex collezione Bolla, in deposito all’ Antikensammlung) Fig. 9 e 9a, id, particolare Fig. 9a. Che siano cavalieri lo si vede dal vestito: di solito il guerriero si muove, ma in queste raffigurazioni essi sono completamente immobilizzati. Osservate come il secondo a sinistra, che vediamo frontalmente, tenga gli occhi chiusi, totalmente assorbito nell’ascoltare la musica: è quasi pietrificato, immobilizzato, come se il potere della musica fosse capace di bloccare l’attività dei guerrieri. Ci sono molti altri esempi dello stesso periodo (460 a. C.), in cui vediamo alcuni guerrieri con il cavallo alla loro destra, dunque cavalieri che non si muovono. Su questa immagine [fig. 7] c’è un particolare molto interessante: vediamo Orfeo seduto, con una corona d’alloro - raffigurato in modo molto apollineo, dunque - e sotto di lui ci sono una tartaruga e una pietra. La tartaruga, l’animale che serve a creare la lyra - e sappiamo da un Inno omerico che è stato Ermes a inventare lo strumento - finché è viva non ha voce, ma appena muore suona, prende voce. L’oggetto stesso, inoltre, è duro come una pietra. Il simbolo, però, è più profondo, giacché per i Greci la pietra è simbolo della morte, e pietrificare qualcuno (come nel mito della Gorgone che pietrifica gli uomini) è un tipo di morte. Nuovamente dunque le immagini giocano sul concetto di “vivo” e sul simbolo della “pietra”, sulla capacità di immobilizzare gli uomini, su un mondo che si blocca. L’altro aspetto del mito di Orfeo compare quasi contemporaneamente nell’iconografia. Le prime immagini che abbiamo raccontano la morte di Orfeo e qui [fig. 8] lo si vede a terra ammazzato dalle donne. La forza di Orfeo è capace di bloccare tutte le attività maschili; per questa ragione sono le donne ad ammazzarlo e in modo molto violento: a sinistra una tiene un sasso enorme, un’altra ha una pietra, altre hanno dei pestelli e nella coscia di Orfeo c’è uno spiedo. Non usano, pertanto, delle armi da 42 guerra, ma oggetti, sia naturali (pietre, sassi) sia della vita quotidiana, della cucina, del lavoro, che vengono utilizzati nella violenza istantanea di questo scatenamento da parte delle donne tracie. Vediamo nei particolari (figg. 9, 9a) i sassi e il pestello - strumento che serve per lavorare il grano - diventare un bastone, un’arma violentissima. C’è una distorsione tra l’uso normale degli oggetti e quello che accade. Se mettiamo assieme queste immagini con quelle analizzate poco fa, concludiamo che abbiamo da una parte gli uomini che non fanno più nulla, dall’altra le donne che si scatenano: c’è quindi un contrasto molto forte tra la percezione della musica da parte degli uomini e delle donne. Quello che le donne fanno, però, è solo salvare l’oikos e la vita di famiglia, giacché gli uomini sono bloccati. In questo racconto - non sono io a inventarlo, è così che viene raccontato dalle immagini - l’unico modo per sbloccare questa situazione è sopprimere Orfeo, ammazzarlo. Su questo vaso [fig. 10], una hydria - un vaso attico della metà del V secolo, utilizzato dalle donne per prendere l’acqua alla fontana e portarla a casa - vediamo due disegni [figg. 11 e 12] che fanno capire meglio lo svolgersi dell’azione: abbiamo Orfeo al centro, che compare nuovamente a destra mentre sta cadendo, cercando di difendersi con la lyra - diventata un’arma, in questo caso - mentre le donne lo aggrediscono con degli spiedi. Dietro un albero c’è un uomo che si nasconde, quindi ne deduco che l’episodio non riguardi una lotta tra uomini e donne giacché gli uomini non fanno nulla, sono ancora bloccati - e che il motivo del conflitto sia lo statuto stranissimo della musica nel mondo dei barbari. C’è un eccesso da parte degli uomini che ascoltano e non fanno più nulla e c’è un eccesso da parte delle donne che al posto di ascoltarla la distruggono. Ci troviamo, credo, davanti ad una visione del “cattivo uso della 43 Fig. 10, idria attica a figure rosse, pittore delle Niobidi, 460 a. C., morte di Orfeo (Boston MFA 90.156) Fig. 11 e 12 (sotto), id, disegno Fig. 13, cratere attico a figure rosse, pittore della Centauromachia del Louvre, 440 a. C., Orfeo i Traci e le donne trace (Napoli, Museo Archeologico H 2889, inv. 81 868) Fig. 14, id, particolare musica”. È di questo che parlano le immagini relative al “non ascoltare bene”. Sull’altra parte dello stesso vaso [fig. 12]: compaiono di nuovo Orfeo, una donna con una spada, poi un’altra con una falce - utensile per il lavoro dei campi ma anche strumento che serve a tagliare la testa e altre… “parti”, pensate a Urano che fu castrato - poi di nuovo un uomo che non si muove: dunque è veramente insistente la descrizione di questo contrasto tra il movimento delle donne e l’immobilità degli uomini. In un altro vaso [fig. 13], al Museo di Napoli, abbiamo una soluzione grafica un po’ diversa. Si tratta di un cratere in cui l’immagine viene divisa su due livelli. Al livello superiore c’è Orfeo, nello stesso schema iconografico, seduto con la lyra e intorno a lui uomini che non si muovono tra i quali uno è un Tracio, con un bel vestito ornato di bende nere e il cappello da cavaliere; al livello inferiore ci sono già le donne che arrivano correndo di nuovo con un’ascia, una lancia e altri strumenti. L’ascia non è un’arma di guerra, chiaramente: veniva usata per tagliare il legno, ma serve anche per il sacrificio e si evidenziano, dunque, dietro questa storia, anche delle connotazioni sacrificali. Esaminiamo un altro particolare [fig. 14] dello stesso vaso, con il contrasto già descritto con Orfeo ascoltato da uomini e ammazzato da donne: versione stranissima per noi. Noi siamo abituati a una mitologia organizzata, da dizionario, da libri scolastici, ma di fatto non c’è mitologia al di fuori dei testi o delle immagini che la fanno funzionare: non c’è nel mondo greco una mitologia teorica come la Bibbia, un libro chiuso, completo, intoccabile; la mitologia greca è sempre aperta alle trasformazioni, un mito agisce sull’altro, è molto malleabile. Anche la musica funzionava così: si parlava di improvvisare, di ricreare, non di conservare e bloccare, ma di far giocare le possibilità significative di 44 ognuna di queste storie. Il caso di Orfeo è interessante perché vediamo che le storie per noi prestabilite - Euridice, gli animali - in realtà non appaiono; sappiamo altresì che c’è una tragedia, quasi contemporanea a questi vasi, perduta per noi, di Eschilo, nella quale le donne che uccidono Orfeo sono delle Menadi, cioè delle donne della cerchia di Dioniso. In questa raffigurazione, da quello che vediamo, nessuna delle donne ha il tirso, né gli elementi dionisiaci, quindi i pittori hanno scelto di rappresentarla come ho cercato di descriverla: con donne e uomini “barbari” dal punto di vista greco, e anche se le donne hanno dei tatuaggi, questi le possono caratterizzare come barbare o come schiave, ma certamente non come seguaci di Dioniso. Poi con il tempo compaiono altri miti che raccontano la versione eschilea: Orfeo, che voleva onorare solo Apollo e non aveva alcun interesse per Dioniso, viene ammazzato dalla donne che sono, in questo caso, delle Menadi. La versione dei vasi, ripeto, è un contrasto tra uomini e donne e in questo conflitto ciascuno non usa bene la musica, non la sa “sentire” e “utilizzare” adeguatamente. Ci sono, poi, altri miti attorno ad Orfeo: le donne lo ammazzano, lo fanno a pezzi e la testa di Orfeo ha vita sua propria, viene trasportata dal mare e finisce a Lesbo, luogo ove sorge un oracolo di Orfeo. Abbiamo pochissime immagini della fine del V secolo, tra le quali questa [fig. 15] su cui vediamo alcune delle Muse con gli strumenti, una a sinistra con l’aulos, l’altra a destra con la lyra; la testa di Orfeo è al suolo, l’uomo che la sta guardando forse è Eumolpo, ma l’identificazione non è sicura. La testa [fig. 16] è interessantissima: è una testa viva, ha occhi aperti che parlano. Si è anche insistito sullo statuto della parola nella pratica musicale greca e quanto descritto è un caso limite, perché riguarda la parola “oracolare”, che profetizza dicendo cose che 45 Fig. 15, idria attica a figure rosse, Gruppo di polignoto, 440 a. C., scoperta della testa di Orfeo (Basilea, in deposito all’ Antikensammlung) Fig. 16, id, particolare Fig. 17, coppa attica a figure rosse, pittore della testa di Orfeo, 400 a.C., la testa oracolare di Orfeo (Cambrige, Corpus Christi College) Fig. 18, oinochoe attica a figure rosse, 450 a. C., Atena butta l’aulos di fronte a un satiro (Berlino, F 2418) acquistano senso tramite un’interpretazione specifica. È proprio ciò che si vede su questo vaso [fig. 17] della fine del V secolo, sul quale vediamo la testa “viva”, con occhi e bocca aperti e un giovane seduto che scrive le parole dell’oracolo; a destra il dio Apollo, con un ramo d’alloro, indica la testa e lo scrittore. Il potere della musica di Orfeo diventa, in questo episodio, il potere oracolare della parola, sotto il controllo di Apollo. Un’altra storia importante nell’iconografia musicale e mitologica è quella di Marsia e dell’aulos. L’aulos è uno strumento inventato da Atena al momento della morte di Medusa: quando la Gorgone viene decapitata da Perseo, le sorelle piangono, emettendo grida stridenti che Atena cerca di imitare usando una canna e inventando così uno strumento simile all’aulos. Suonando questo strumento mimetico, che imita un grido naturale - o quasi naturale - si accorge però che il suo viso ne viene deformato e quindi lo getta via, perché, ovviamente, vuole essere una dea con un bel viso - capite adesso perché in precedenza avevo insistito sull’importanza del significato del nome della musa Calliope. Gettato da Atena, lo strumento viene raccolto da Marsia il satiro, già brutto di viso e che quindi non si preoccupa della propria bellezza ma solo del suono dell’aulos. Qui [fig. 18] abbiamo una delle poche immagini con Atena che ha da poco gettato via l’aulos: si vedono i due tubi e il satiro che sembra accorgersi in questo stesso momento di questo bellissimo strumento. La storia prosegue: Marsia suona l’aulos, diventa un suonatore perfetto, eccezionale, e si vanta di poter suonare meglio di Apollo, commettendo il peccato di hybris, d’orgoglio, nel paragonarsi alla divinità: atto insopportabile, poiché non si deve gareggiare con gli dei (e credo proprio che Apollo sia una delle divinità più suscettibili). Abbiamo una iconografia specifica sulla 46 gara tra Apollo e Marsia. Questa [fig. 19] è l’unica scultura che in questa occasione prendo in esame: è un rilievo di Mantinea della fine del IV sec. a. C., dunque più tardo dei vasi esaminati fino ad ora. Lo faccio vedere perché il disegno con Marsia che suona somiglia molto allo schema del Marsia che scopre l’aulos, iconografia che sarà probabilmente una citazione, forse da Mirone, ma non voglio discutere questo. In questo rilievo si vede a sinistra, seduto sulla roccia, Apollo con la kithara, il grande strumento, e a destra Marsia, che suona; al centro, infine, uno schiavo in costume barbaro con un coltello in mano, particolare molto importante, perché - vi ricordate la storia? - Marsia perderà la gara e verrà scorticato da Apollo, con una violenza spaventosa. Non ho portato il quadro di Tiziano su questo argomento, una delle cose più spaventose nella storia dell’arte, una vera e propria macelleria. Dietro anche a questa pratica musicale, pertanto, c’è una violenza pari a quella delle donne tracie che ho fatto vedere prima: un vero e proprio delirio, lo scatenamento di un furore incredibile. Non credo, dunque, che la musica serva sempre ad “adoucir les mœurs”: c’è di più, dietro a questo semplicistico assunto. Il concorso, dunque, si svolge così: Marsia suona, il giudice re Mida stabilisce che lui è più bravo di Apollo, ma a questo punto il dio gli tende un tranello e chiede a Marsia di suonare rovesciando lo strumento, cosa che con la lyra si può fare, mentre con l’aulos è impossibile. Un’altra versione dice che Apollo decide di cantare mentre suona, altra cosa che con l’aulos non si può fare. Questo aspetto è molto importante: di nuovo il mito tratta di una riflessione sulla parola del canto legata allo strumento, evidenziando come questo sia il limite dell’aulos, col quale non si può cantare e suonare assieme, possibilità che, al contrario, la lyra si ha. Questa considerazione ha delle conseguenze rilevanti 47 Fig. 19, rilievo attico, da Mantinea, 350 a. C, Apollo e Marsia (Atene, Museo Archeologico 215) Fig. 20, cratere attico a figure rosse, pittore di Cadmos, 430 a. C., satiro auleta e Apollo con la lira (Bologna, Museo Civico, Pell. 301) Fig. 21, cratere attico a figure rosse, 430 A. C., satiro suonatore e Apollo (mercato antiquario, New York, Sotheby’s 11.XII.1989 n°125) Fig. 22, cratere attico a figure rosse, pittore di Cadmos, 430 a. C., particolare del collo con satiro auleta e Apollo (Ruvo, Museo Jatta 1093) nella pratica musicale: attorno alla fine del V e inizio del IV secolo c’è una forte critica all’aulos, coerentemente con quanto indicato; Alcibiade, ad esempio, dice di non voler suonare l’aulos perché è brutto e rende brutto il viso e, in secondo luogo, impedisce di cantare, mentre la parola è più importante della musica. Dunque, nel mito di Marsia c’è tutto questo, però, se esaminiamo come alla fine del V secolo a. C. i pittori attici hanno trattato l’argomento, facciamo nuovamente alcune scoperte interessanti. Anche se questa versione del mito è conosciuta da tutti, perché già Erodoto nella sua Storia parla di un posto in Frigia in cui si vede, sulla piazza, appesa ad un albero, la pelle di Marsia, testimoniando la diffusione del racconto, l’interesse dei pittori nelle raffigurazioni non riguarda il momento del castigo, l’aspetto violento della vicenda, ma il mettere insieme, come in questa immagine [fig. 20], un satiro che suona l’aulos - che potrebbe essere Marsia - e Apollo con l’alloro che tiene la lyra. Viene evidenziata la competizione tra i due strumenti, affiancati, però, in una sfida che non finisce in modo violento. La stessa cosa qui [fig. 21]: siamo intorno al 440, 430 a. C.: l’iconografia di Marsia viene organizzata in un modo che definirei “pacifico”, con Apollo di fronte ad un satiro e la lyra sotto di esso, dunque non in contrapposizione conflittuale, o che addirittura escluda l’uno o l’altro dei due strumenti, ma in una combinazione degli stessi. Poi abbiamo alcune donne con strumenti musicali, probabilmente le Muse e direi, quindi, che secondo la logica di queste immagini Marsia risulta essere uno degli esseri della cerchia di Dioniso che viene integrato nel mondo di Apollo. Abbiamo un disegno molto bello [fig. 22] - vi do forse l’impressione di inventare tutto, ma, al contrario, è tutto chiaramente espresso - su un grande cratere del Museo Jatta di Ruvo. Sul col- 48 lo abbiamo un satiro seduto che suona, Apollo che l’ascolta, un altro satiro che danza e probabilmente una Musa a sinistra. Esaminando l’insieme del vaso [fig. 23] - un cratere per mescolare il vino del banchetto e ribadisco che il contesto è importantissimo, poiché il vino è Dioniso e le raffigurazioni di satiri sono legate anche a questo aspetto - al centro abbiamo un satiro, posto di fronte ad Atena, l’inventrice dell’aulos e ad Apollo seduto un po’ a destra. Forse il disegno è più chiaro [fig. 24]: c’è il satiro Marsia che suona la kithara accanto ad un albero di palma, l’albero di Apollo, poi Atena in piedi, quindi Apollo - i nomi sono scritti: la cosa notevole è che Marsia suona lo strumento di Apollo, dunque non è rappresentato alcun conflitto, quanto piuttosto uno scambio. Il pittore ha scelto di non far vedere la violenza e la contrapposizione tra Dioniso e Apollo, ma piuttosto di integrarli in modo pacificato. C’è poi un tripode accanto al satiro, forse è il premio ad un concorso o una offerta al dio Apollo. Abbiamo moltissimi di questi tripodi ad Atene o a Delfi. In questa raffigurazione c’è forse l’accenno ad un concorso musicale, il ditirambo - è una delle possibilità che possono essere prese in esame ma la cosa che mi interessa è farvi vedere il gioco tra Dioniso, Apollo e Marsia, secondo modalità che sembrano abbastanza pacifiche. Andando avanti nel tempo ritroviamo nella ceramica italiota, campana e lucana la raffigurazione del coltello già vista sul rilievo di Mantinea. In questo vaso [fig. 25], oggi perduto, c’è il satiro inginocchiato e Apollo stesso che tiene il coltello: è evidente che non è più il momento della gara ma quello del castigo. Inequivocabilmente si sta suggerendo il momento dello scorticare, che, però, non si fa esplicitamente vedere (l’esplicitazione avverrà solo nella scultura romana, mai nella pittura vascolare). Consideriamo ancora questo cratere per il vino [fig. 26], 49 Fig. 23, id, insieme del vaso Fig. 24, id, disegno Fig. 25, cratere campano a figure rosse, 360 a. C., Apollo con il coltello, (vaso perduto, ex collezione Hope) Fig. 26, cratere campano a figure rosse, 350 a. C., Apollo con la harpe (mercato antiquario, New York, NFA 11.XII.1991) Fig. 27, oinochoe lucana a figure rosse, 360 a. C., Apollo con la lira e satiro con il coltello (Taranto, Museo Nazionale 20305) di provenienza campana, con evidenziata non la qualità musicale del satiro o di Apollo, ma la forza del dio che è in grado di castigare ogni essere umano che pretenda di essere più bravo di lui. Questo significato del mito, dunque, è differente da quelli precedentemente esaminati: il dio tiene uno strumento che è un tipo di harpe, di falce, lo stesso strumento che Perseo utilizza per tagliare la testa della Gorgone. Il punto notevole è che, come scrive Erodoto quando parla della pelle del satiro nella città di Frigia dove è stato scorticato Marsia, questa pelle viene chiamata askos, parola greca molto interessante. Askos può essere la pelle di Marsia come in questo caso, oppure può essere la pelle di capra che serve per fare un otre per il vino, ma può essere anche la parte che nel sacrificio greco viene data al sacerdote, può essere vocabolo specifico legato al rito del sacrificio. Su questa immagine [fig. 27], infine, di una piccola brocca per il vino, abbiamo una donna, Apollo con la lyra e un satiro che tiene egli stesso il coltello del sacrificio, quasi anticipando il suo castigo. Non c’è più alcuno strumento musicale, solo il coltello; il satiro ha un piede su una roccia e di fronte a lui, sulla linea del sole, c’è un oggetto che può sembrare due cose: può essere un askos, un otre, ma assomiglia anche molto alla custodia di un flauto. È chiaro che il pittore fa una specie di anticipazione della conclusione della vicenda, che acquista senso solo conoscendo il mito, ovvero è necessario che ci sia qualcuno in grado di narrarlo, come sto facendo io, o forse, ancora meglio, in grado di cantare questa storia al simposio. Dunque sono le immagini che creano le possibilità di espressione musicale, poetica o narrativa, e queste possibilità possono venire o no utilizzate, a seconda della voglia dei bevitori: ne traggono ispirazione se lo desiderano, altrimenti discorrono d’altro. Per non lasciarvi con queste storie così violente 50 e tristi, torniamo ora ad occuparci di satiri e musica esaminando alcune immagini in cui gli strumenti musicali sono diversamente utilizzati. Su questa scena di simposio [fig. 28] il satiro porta sulla spalla un otre pieno di vino; regge un tipo di lyra lunga, tipo barbitos, per cantare al simposio, ma dal suo braccio pende anche una custodia, la sybene, che serve per custodire l’aulos; porta infine un cestino con gli oggetti e la coppa necessari al banchetto. Il satiro è una figura centrale nell’immaginario del simposio (credo che nella realtà non ce ne siano molti, forse alcuni, ma non molti…); questo immaginario animale-umano, questo simbolo del bestializzarsi nel bere e nel cantare, viene, molto spesso, nell’iconografia del banchetto, collegato ad un tipo di musica che combina la lyra e l’aulos, ricordando però che l’aulos è uno degli strumenti più influenti sull’animo umano e che provoca la mania dionisiaca più della lyra. Abbiamo anche dei satiri come questo [fig. 29], vestito da concertista, che suona la grande kithara tra Ermes a sinistra e Dionisio a destra: non so se questa sia una versione comica o no, ma chiaramente è un décalage, uno slittamento tra l’iconografia standard del concorso musicale di cui si è parlato e una versione divina e satiresca assieme, con molto garbo ed eleganza. Abbiamo altre situazioni musicali di satiri che giungono all’oscenità, raffigurati nel denudarsi e nell’esibire il sesso [fig. 30, vedi p. 49], oppure giocate con analogie, sulle quali vi lascio meditare, tra l’aulos e il sesso [fig. 31]. In questo caso la scena è rappresentata con un po’ di discrezione: la custodia viene appesa al sesso del satiro che tiene l’aulos in mano... Stiamo esaminando raffigurazioni antecedenti all’iconografia di Marsia che abbiamo già visto, ma il mito completo esiste già nella cultura greca, perché Erodoto scrive poco dopo questo periodo. Per concludere brevemente: vi ho fatto vedere, 51 Fig. 28, idria attica a figure rosse, 500 a. C., il satiro sulla strada del symposio (Monaco, Antikensammlung 2424) Fig. 29, cratere attico a figure rosse, da Spina, 460 a. C., satiro concertista tra Ermes e Dionisos (Ferrara, Museo Archeologico, inv. 4110, T55A VP) Fig. 31, piatto attico a figure rosse, firmato da Epictetos, 510 a. C. (Parigi, Cabinet des Médailles) passando da Orfeo a Marsia, diverse cose; credo che ci sia una poesia grafica in queste storie musicali. Altri miti sono più gradevoli, io ho scelto questi due che sono violentissimi, ma legati ai confini del mondo greco, alla Frigia e al mondo tracio. Non una Frigia storica, quanto una “Frigia per gli Ateniesi”: è il punto di vista degli Ateniesi sul mondo estero e quindi sul loro stesso. All’interno di questo mondo si descrive, destinando la riflessione all’ambito del simposio, il cattivo uso della musica, ma anche il buon ascolto senza esagerazioni e con l’attento controllo della parola, del canto e del gioco con il vino e la musica. > Fig. 30, coppa attica a figure nere, 520 a.C., Satiro con l’aulos (Monaco, Antikensammlung WAF 2088) 52 53 Gli strumenti musicali dell’antica Grecia M ICHAEL S TÜVE Assai poco sappiamo degli strumenti musicali dell’antica Grecia, come del resto del suono e della musica da essi prodotti. Il turbamento che suscita la consapevolezza che le nostre conoscenze sull’antico stile musicale sono talmente insufficienti da non permetterci neppure di giudicare se la melodia della prima ode pitica di Pindaro tramandataci da Athanasius Kircher sia autentica oppure sia solo una contraffazione (anche se indubbiamente molto suggestiva), è paragonabile al disagio che proverebbe un musicista di oggi, se dovesse spiegare ad esempio, come erano fissate le corde dell’antica lyra allo zygon, la traversa fra i due bracci dello strumento, per non parlare del problema della loro accordatura. Gli scarsi reperti archeologici, le tante raffigurazioni e le descrizioni riportate in letteratura da Omero (VIII sec. a. C.) a Polluce (II sec. d. C.) ci danno un quadro di grande vivacità musicale, ma dal punto di vista organologico rimangono aperti molti problemi. Mi limiterò dunque a presentare a grandi linee gli strumenti dei quali esiste maggiore documentazione, suddivisi in tre gruppi in accordo con la maggior parte dei testi: i cordofoni, gli strumenti a fiato e quelli a percussione. Occorre precisare che essi erano già noti da molto tempo in Medio-Oriente e che i Greci quindi hanno copiato semplicemente strumenti già in uso fin dai tempi dei Sumeri e degli Assiri (come l’arpa, le lyre a undici e a dodici corde, il liuto, cioè la cosidetta pandoura). Vorrei ricordare anche che l’interesse per la musica greca antica è dovuto alla grande influenza che essa ha esercitato sulla nostra musica, la musica dell’Abendland, ed il fatto che a sua volta abbia risentito di numerosi influssi esterni non diminuisce l’importanza che ha avuto per la nostra cultura. I. Strumenti a corda La lyra, con le sue numerose varianti, è lo strumento più antico e rappresentativo dell’antica Grecia. Nelle raffigurazioni vascolari l’arpa è rappresentata soltanto una volta prima della fine del V sec a. C., mentre il liuto vi compare dalla metà del IV sec. a. C. Questi strumenti tuttavia erano già presenti in Mesopotamia nel 2000 a. C. e venivano suonati con le dita o con il plettro, mai con l’arco. < Fig. 2a, kithara, ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1989. 55 La lyra era costituita da una cassa di risonanza con due bracci uniti all’apice mediante una traversa; ad essa venivano assicurate le corde, tese in mezzo ai bracci, poggiate su un ponticello (magas) e fissate ad una cordiera situata alla base della cassa di risonanza. Lo strumento veniva sostenuto dal braccio sinistro del suonatore, infilato in una fascia dello strumento stesso; il plettro - come dimostrano molte raffigurazioni - di solito era legato allo strumento mediante una cordicella. La parola chelys, tartaruga, nell’antichità significava anche ‘lyra’. Martin Litchfield West distingue fra ‘box lyres’ (lyre a cassa) e ‘bowl lyres’ (lyre a scodella) [vedi fig. 1a, p. 34] e fa rientrare la chelys tra queste ultime: essa consisteva in un guscio di tartaruga chiuso da una pelle, al quale venivano legate le corna di un animale. Un altro tipo di lyra a scodella era il barbitos [fig. 1 e 1a], con lunghi bracci, quindi con lunghe corde, che emetteva un suono piuttosto grave. È possibile vederlo raffigutato sul famoso vaso 2416 di Monaco [vedi fig. 5, p. 23] in mano a Saffo ed Alceo vissuti tra il VII ed il VI sec. a. C. I poeti di Lesbo lo chiamavano barmos. La chelys appare nell’iconografia solo verso la fine dell’VIII secolo a. C., il barbitos ancora più tardi. Erano strumenti suonati per lo più dai dilettanti ed in occasioni conviviali. Già nelle culture minoica e micenea (dopo il 1600 a. C.) era in uso una lyra appartenente alla famiglia delle ‘lyre a cassa’, con una cassa di legno il cui fondo era di forma rotonda. Di solito veniva raffigurata con sette corde. Più tardi, invece, nell’ VIII sec., essa stranamente si presentava con solo tre o quattro corde: si tratta della lyra che Omero chiama phorminx, lo strumento dell’aedo, del poeta cantore-narratore che raccontava le gesta divine degli dei e degli eroi. Certo, il fatto che vi fossero ora tre, ora quattro corde ci fa pensare al tetracordo, all’in1. La lyra. Fig. 1, Barbitos e doppio aulos. Pelike a figure rosse Pittore dell'Angelo Volante Provenienza: Chiusi (480 a.C. ca) Museo Archeologico di Firenze Fig. 1a, Barbitos, ricostruzione Giorgos Polyzos, 1989. 56 tervallo di quarta, diviso in un primo momento da una sola nota, più tardi da due. Ma c’è chi sostiene, che le quattro corde della phorminx non si limitassero all’intervallo di quarta, ma fossero accordate in re-la-fa-mi; altri ancora ritengono che l’accordatura fosse estremamente variabile. In verità non ne sappiamo nulla. A Terpandro (VIII - VII sec. a. C.) viene attribuito il merito di aver riportato le corde a sette. Siamo nel periodo di transizione dalla musica pentatonica a quella eptatonica. Terpandro viene considerato il padre della citarodia, del canto accompagnato dalla kithara. Si ritiene che i termini kitharis o kithara appartenessero ad una lingua diversa dal greco, ma non sappiamo a quale. La kithara [fig. 2a, p. 50], la lyra più grande e pesante dell’antichità, era lo strumento del virtuoso che si esibiva durante i giochi panellenici. I bracci dello strumento erano formati da un prolungamento della cassa di legno. Le volute ed i meccanismi a zig-zag [fig. 2], simili a quelli degli strumenti egiziani e minoici, fanno supporre che lo strumento avesse un sistema di accordatura molto sofisticato. Il loro funzionamento tuttavia non è tuttora noto. Il dorso della kithara non era piatto, ma alquanto convesso, come evidenziano alcune raffigurazioni che mostrano lo strumento di lato. Il fondo invece era piatto. Vi era anche una lyra più piccola con una cassa armonica il cui fondo era simile ad una culla vista di lato, che viene perciò chiamata dagli organologi tedeschi ‘Wiegen-Kithara’. Era lo strumento delle Muse e delle donne. La kithara, contrariamente al più leggero barbitos ed alla chelys, veniva tenuta in posizione retta, parallela al corpo. La corda più vicina al corpo era quella più grave, chiamata hypate: ‘la più alta’. Le corde successive - salendo la scala - erano denominate: Parhypate: ‘la corda accanto alla più alta’ 57 Fig. 2, Kithara. Anfora a collo distinto a figure nere Produzione attica (510-500 a.C.) Museo Archeologico di Firenze Fig. 3, Trigonon (arpa). Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1990. Fig. 4, Trichordon (Pandoura). Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1991. Lichanos: ‘dito indice’ Mese: ‘la media’ Trite: ‘la terza’ Paranete: ‘la corda accanto alla più bassa’ Nete: ‘la più bassa’ La nete, ‘la più bassa’, produceva il suono più acuto. Tale nomenclatura fu poi utilizzata per indicare i suoni della scala eptatonica. Nel periodo classico nel quale Frinide e Timoteo invocavano la ‘nuova Musa’, le corde della kithara vennero aumentate fino ad un massimo di dodici. Nell’antichità esistevano molti altri tipi di lyra e di alcuni conosciamo anche i nomi: la phoinix o phoinikion proveniva probabilmente dalla Fenicia; il pythikon o daktylikon veniva suonato in occasione dei giochi pitici, forse con tutte le dita, senza plettro; il pentachordon era una lyra molto antica proveniente dalla Scizia; altri nomi noti sono: skindapsos o kindapsos, lyrophoinix o lyrophoinikion, spadix, byrte, psaltinx ecc. Mentre di questi tipi di lyra non sappiamo molto, conosciamo invece molto bene la forma di una lyra proveniente dalla Tracia e raffigurata molte volte: uno strumento simile al barbitos, ma più corto. Di esso tuttavia non conosciamo il nome. 2. L’arpa. L’arpa [fig. 3], sicuramente uno degli strumenti più antichi, si trova rappresentata in Grecia solo a partire dal V secolo. Tuttavia Saffo ed Alceo conoscevano già questo strumento e lo chiamavano paktis (pektis nel dialetto ionicoattico). Lo consideravano lo strumento dell’amore e del piacere. Lo si vede di solito in mano alle Muse o a donne sedute, appoggiato sul loro ginocchio sinistro. Il numero delle corde variava da nove a venti. Spesso la cassa di risonanza era appoggiata al seno della suonatrice; le corde erano tese tra la cassa ed una base sottile che poggiava sul ginocchio. 58 Il trigonos era un’arpa di forma triangolare e con la cassa di risonanza situata al lato opposto della suonatrice. La sambyke (latino sambuca) era invece un’arpa dal registro acuto e dal “suono ignobile” (Quintiliano), simile all’omonima macchina da guerra costituita da due navi sulle quali poggiava una scala inclinata verso le mura della città assediata. Non sappiamo quale forma avessero le arpe denominate klepsiambos, enneachordon, cioè arpa a nove corde, nablas e heptagonon che Aristotele definisce “strumento edonistico”. Alla fine del IV secolo tutti i tipi di arpa erano denominati psalterion, cioè ‘strumento pizzicato’. Nel medioevo il termine salterio venne poi attribuito ad un tipo di cetra con corde tese su una cassa di risonanza. Strumenti simili, forse usati soprattutto per impartire lezioni di musica, nell’antichità furono l’epigoneion con quaranta corde e il simikon con trentacinque. Il termine simikon probabilmente deriva da Simos, teorico vissuto nel V secolo a. C., mentre l’epigoneion indicherebbe la posizione dello strumento, che veniva tenuto sulle ginocchia, come nel mondo arabo, turco e greco ancora oggi viene suonato il kanonaki, strumento il cui nome fa riferimento ai ‘canonisti’, gli antichi teorici della musica. Il liuto antico è rappresentato in una dozzina di raffigurazioni fra il 330 ed il 200 a. C. Veniva suonato dalle Muse e dalle donne, con il plettro o con le dita. Il liuto a tre corde era detto trichordon [fig. 4]. Dal III secolo in poi il liuto venne chiamato pandoura. Nel Medioevo la pandoura fu detta mandora. Il liuto bulgaro dal lungo manico viene ancora chiamato tanbura. Nella Bibbia, verso nono del salmo 144 attribuito a Davide (1000-960 a. C.), viene nominato uno strumento a dieci corde: “O Dio, voglio cantare a te un nuovo canto, voglio inneggiare a te sul decacordo.” Sulla base di questo verso durante la riforma cistercense del XII secolo, i monaci che codificavano il canto gregoriano costrinsero ogni melodia in un ambito di decima. L’antico decacordo però era probabilmente uno strumento a cinque corde doppie accordate in modo pentatonico 3. Il liuto. II. Strumenti a fiato Fin dall’antichità esistevano i tre tipi di strumenti a fiato che ritroviamo ancora oggi: gli strumenti ad ancia (cennamelle), i flauti e gli strumenti a bocchino (trombe). Essi erano detti aulos, syrinx o iynx e salpinx. L’ aulos (termine che inizialmente significava semplicemente ‘tubo’ o ‘condotto’) è la cennamella antica, non è quindi un flauto, come spesso viene erroneamente tradotto. Come la lyra tra gli strumenti a corda, era il più diffuso tra gli strumenti a fiato. Veniva di solito suonato in coppia come doppio aulos [fig. 1, 1. L’aulos. 59 Fig. 1b, Aulos doppio. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1989. vedi p. 52, e 1b]: il suonatore teneva in bocca le ancie di due strumenti diversi. Per evitare una fuga d’aria incontrollata (chiudere strettamente le labbra attorno a due ancie non è affatto facile) e per sostenere la pressione che occorre per soffiare dentro due strumenti nello stesso tempo, i virtuosi di questo strumento indossavano spesso la phorbeia (lat. capistrum) [vedi fig. 2, p. 17], una specie di bavaglio con due fori, il cui scopo forse era anche quello di ridurre le inevitabili smorfie. Si narra che l’ aulos fu gettato via dalla sua inventrice, la dea Atena, quando si accorse quanto esso deturpasse il suo bel viso; lo strumento - dice il mito - fu raccolto da Marsia che come auleta entrò in competizione con Apollo, virtuoso suonatore di lyra. Come i nostri clarinetti ed i nostri oboi, anche l’aulos è composto da più parti: il bocchino con un ancia semplice o - più frequentemente - con una doppia ancia che il suonatore teneva in bocca, era inserito nella parte superiore della canna ornata da un rigonfiamento (holmos), ben visibile nella maggior parte delle raffigurazioni. La canna cilindrica si inseriva all’interno di holmoi puramente ornamentali, senza cambiare diametro, che di solito era di 8 - 10 mm. L’aulos poteva essere allungato mediante più holmoi che separavano il bocchino dalla canna principale nella quale si trovavano cinque fori, uno per ogni dito di una mano. In questo modo lo strumento poteva essere allungato ed il suono portato ad un registro più grave. Con Pronomo di Tebe (circa 400 a. C.) i fori dell’aulos vennero aumentati fino a 24 e, non potendo più essere chiusi contemporaneamente dalle dita, fu introdotto un meccanismo di chiavi (anelli e chiavistelli) per realizzare con un unico strumento l’intera gamma dei modi e delle armonie. Tuttavia per i diversi registri erano necessari più strumenti: secondo Aristosseno (ca. 354 - 300 a. C.) la famiglia dell’ aulos era 60 formata da cinque tipi di strumenti: parthenioi, l’ aulos delle fanciulle; paidikoi, dei ragazzi; kitharisterioi, dei suonatori di lyra; teleioi, degli adulti; hyperteleioi, dei più maturi. La nomenclatura più moderna definisce tali registri come soprano, mezzosoprano, tenore, baritono e basso. L’intervallo fra la nota più grave dell’hyperteleion e quella più acuta del parthenion era di oltre tre ottave. Gli auloi erano di canna, di osso (tibie di daino), di avorio, di legno o di metallo, oppure avevano parti di osso o di legno inserite in strutture metalliche. Quando non veniva usato, lo strumento veniva custodito nella sybene, un sacco di pelle, che spesso vediamo raffigurato, mentre il delicato bocchino era riposto in una scatolina chiamata glottokomeion. Come la lyra, anche l’aulos comprendeva numerose sottoclassi di strumenti come gli elymoi di origine frigia, un doppio aulos con la canna sinistra allungata mediante l’aggiunta di un corno di bovino. Secondo Aristofane emetteva un suono piuttosto rozzo, forse simile al ronzio delle vespe. Nato come strumento di culto, nell’epoca romana venne impiegato nel teatro. Gingros, gingras, gingrias o gingrainos era chiamato un aulos corto, dal registro acuto e dal suono lamentoso, usato spesso per l’insegnamento della musica. Ginglaros era invece il nome di un aulos singolo di provenienza egiziana, che per la sua lunghezza impegnava entrambe le mani. Nell’Italia meridionale fu chiamato tityrinos. I pythikoi erano auloi dal registro di baritono (teleioi) e venivano suonati durante i giochi pitici. Tecnicamente molto elaborati, permettevano di suonare molti modi diversi su una larga scala di registri. In questo si distinguevano dagli auloi dal registro acuto, usati per accompagnare i cori e la poesia ditirambica. I paroinioi erano auloi con una canna piuttosto corta ed erano usati nei convivi. Gli auloi suonati nello spondeion, la parte più solenne del nomos pitico, erano strumenti lunghi, dal suono cupo e dal registro grave. Accompagnavano anche gli inni. Nelle processioni invece si suonavano gli embaterioi, mentre la musica da danza era accompagnata dai daktylikoi, nome con il quale vengono indicati sia un tipo di lyra che di aulos. Alcuni auloi avevano il bocchino in posizione laterale. Forse venivano anch’essi chiamati plagiauloi, benchè questo termine si riferisse soprattutto al flauto. Tra le cennamelle si può annoverare anche la zampogna, raffigurata per la prima volta su un cammeo del periodo ellenistico. Si dice che fosse lo strumento suonato dall’imperatore Nerone. 2. Il flauto. Il flauto dell’antichità era costituito da un’unica canna forata o 61 da più canne di diversa lunghezza. La syrinx, il flauto di Pan, è un flauto con canne di diversa lunghezza. Nell’antica Grecia erano di uguale lunghezza all’esterno, ma accorciate all’interno mediante tappi di cera. Era lo strumento dei pastori e non ha avuto grande importanza nell’antichità, se non come base di partenza per la costruzione dell’organo. La Musa Calliope rappresentata sul vaso François di Firenze suona proprio la syrinx utilizzata anche in ambito cultuale ad Efeso e Delo. Iynx era il nome di un flauto formato da un’unica canna forata. Veniva suonato come la syrinx, soffiando l’aria attraverso il taglio apicale, oppure - come nei nostri flauti traversi - attraverso un foro laterale (plagiaulos). Il suono dell’iynx era dolce ed assomigliava al fruscio del vento. L’epitonion era un piccolo flauto usato dal maestro del coro per indicare ai cantanti la nota con la quale iniziare. Parlando dei flauti non possiamo non citare l’organo (tyrrhenos aulos), inventato dall’ingegnere Ctesibio di Alessandria (III sec. a. C.), chiamato anche hydraulis, perché inizialmente funzionava mediante un meccanismo idraulico tramite il quale l’aria veniva forzata in una galleria sottostante ad una serie di canne di bronzo fissate ad una tastiera. Ogni canna aveva un tappo comunicante con la galleria, che poteva essere aperto attraverso la tastiera, permettendo così all’aria di entrare nella canna. Filone di Bisanzio, allievo di Ctesibio, descrive l’organo come “una syrinx suonata con le mani, detta hydraulis”. Sembra che l’organo fosse lo strumento preferito da Nerone e forse è stata proprio sua l’idea di sostituire il meccanismo idraulico con quello pneumatico per diminuirne le dimensioni. Certo, si parla anche di un organo il cui polmone venne realizzato con la pelle di due elefanti e che suonava grazie a 12 mantici. Il suo suono poteva essere sentito a distanza di un miglio. Nel VIII secolo l’organo pneumatico da Bisanzio si diffuse anche nell’Europa del Nord. L’organo. La salpinx era la tromba dell’antica Grecia. Non era un vero e proprio strumento musicale come sembra fosse per gli etruschi, ma serviva piuttosto per fare segnalazioni durante i combattimenti, nei concorsi sportivi come le corse dei cavalli, nel lavoro, in occasione di riunioni ed anche durante le cerimonie religiose. La salpinx (latino tuba) consiste, appunto, di un tubo cilindrico di bronzo di lunghezza compresa fra gli 80 ed i 120 cm. Il fondo dello strumento, la campana, aveva la forma di un tulipano. Il bocchino era di osso. La tromba era già conosciuta da Omero che la menziona nell’Iliade (XVIII, 219; XXI, 388), ma sembra non fosse nota ai suoi eroi che non la suonano mai. Dopo il IV secolo a. C. vennero istituiti concorsi di salpinx e si dice che alcuni virtuosi di questo strumento fossero in grado di farlo sentire dalla distanza di sei miglia. 3. La salpinx. 62 Gli strumenti più comuni per le segnalazioni erano tuttavia le conchiglie ed i corni ai quali veniva aggiunto un bocchino. Il Museo Nazionale degli Strumenti musicali di Roma possiede una bellissima raccolta di strumenti antichi tra i quali vi sono anche dei fischietti in terracotta a forma di cinghiale e di gallo, di epoca ellenistica. Passando dagli strumenti a fiato agli aerofoni in generale, dobbiamo nominare il rhombos, un pezzo di legno legato ad una corda che, fatto roteare nell’aria, emetteva un suono simile al muggito del bue. Veniva suonato nel culto di Dioniso assieme al tamburo ed ai piatti a sonagli. Fig. 5, Krotala. Coppa attica a figure rosse Pittore di Antiphon (intorno a 480 a.C.) Museo Archeologico di Firenze III.Strumenti a percussione Gli strumenti a percussione nell’antichità avevano due diverse funzioni: evidenziare il ritmo e produrre suoni chiassosi durante il culto orgiastico. 1. Gli strumenti ritmici. Le melodie dell’aulos o della lyra potevano essere accentuate dal battito delle mani o dei piedi (specialmente nelle danze, come riportato nell’Odissea, VIII, 256), ma spesso si vedono raffigurate donne che danzano accompagnandosi con i krotala [fig. 5a], strumenti simili alle castagnette o nacchere, formati da due pezzi di legno uniti da un lato, che venivano battuti l’uno contro l’altro dalle dita di una mano [fig. 5]. Erano lunghe circa 12-15 cm, quindi il loro ritmo doveva essere più lento di quello delle castagnette spagnole che sono più corte. L’auleta, quando accompagnava il coro, spesso indicava il ritmo battendo per terra il kroupalon (denominato anche kroupeza, lat. scabellum), una calzatura dalla doppia suola di legno. 2. Gli strumenti di culto. Tra gli strumenti a percussione maggiormente usati nelle cerimonie in onore di Dioniso e di Cibele vi era il tympanon 63 Fig. 5a, Krotala. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1989. Fig. 6, Tympanon. Hydria greca a figure rosse Pittore di Meidias (420-410 a.C.) Museo Archeologico di Firenze Fig. 6a, Tympanon. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1989. Fig. 7, Kymbala. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1989. > (il nostro tamburello), spesso suonato da donne. Il suo diametro era di 30 - 50 cm ed ambedue i lati erano ricoperti di pelle [fig. 6 e 6a]. I kymbala [fig. 7] erano una tipica coppia di piatti a sonagli di bronzo, di circa 18 cm. di diametro, che venivano impugnati tramite un anello situato sul dorso. Sono ancora in uso in Medio Oriente. I rhoptra erano strumenti di metallo simili ai krotala di legno. Nel culto di Iside, che dall’antico Egitto si era diffuso anche a Roma, venivano suonati i sistri [seistron, fig. 8] dei quali esiste una grande collezione nel Museo nazionale di Strumenti musicali di Roma. Erano formati da una staffa sorretta da un manico, alla quale erano fissati dei cavetti ricoperti da una spirale di filo di bronzo. Lo strumento produceva un piacevole suono quando veniva agitato. Alcune raffigurazioni mostrano donne che tengono nella mano sinistra uno strumento particolare a forma di scala e lo toccano con la mano destra. Si presume che si tratti della psithyra analoga ai sistri. Bibliografia: L. Cervelli, (ed.), La Galleria armonica, Catalogo del Museo degli strumenti musicali di Roma, Roma 1994. G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, Torino 19912. R.H. Hoppin, Medieval Music, New York, London 1978. D. Minrow, Instruments of the Middle Ages and the Renaissance, London 1976. Soc. Biblica Italiana, La Bibbia concordata, IV, Antico Testamento, Libri poetici, Milano 1982. M. West, Ancient Greek Music, Oxford 1992. Le illustrazioni 1, 2, 5, 6, sono qui riprodotte per gentile concessione della Soprintendenza Archeologica della Toscana. Fig. 8, Seistron. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1990. 64 65 Vincenzo Galilei, Athanasius Kircher e la musica greca E UGENIO L O S ARDO Devo concludere questa bellissima serata e trascinarvi via a malincuore dal mondo greco. L’argomento di cui parlerò è ben lontano dagli eroi di Maratona e dalla splendida armonia dei vasi antichi. Sposterò la leva del tempo di due millenni in una Italia snervata, post-michelangiolesca, con due figure che, a distanza di tempo, si fronteggiano: Vincenzo Galilei (1520-1591), da un lato, grande teorico della musica, fiorentino, padre di Galileo e, dall’altro, Athanasius Kircher, gesuita nato in Germania nel 1602 e vissuto a Roma dove fondò un famoso Museo e scrisse moltissime opere, di cui una sulla musica, intitolata Musurgia universalis.1 Quella in cui ci troviamo non è più l’Italia dell’alto Rinascimento percorsa da geni universali, ma è ancora un paese pieno di fermenti, di accademie e di fornitissime biblioteche, tanto che i primi ritrovamenti di musica greca avvennero proprio nelle nostre collezioni. Vincenzo Galilei e Athanasius Kircher furono i primi a pubblicare i brevi frammenti di musica antica2 che per secoli restarono le uniche testimonianze di una grande tradizione artistica, rimasta inesplorata e difficilmente studiabile per la scarsità delle fonti. Nelle loro opere narrano come questi ritrovamenti avvennero e giustificano e teorizzano il motivo per cui hanno ricercato e pubblicato le antiche melodie. Ma, mentre gli Inni attribuiti a Mesomede - pubblicati da Vincenzo Galilei - sono in genere ritenuti autentici, poiché esistono più codici che riportano le stesse trascrizioni, diverso è il caso della melodia della Prima ode pitica di Pindaro - pubblicata da Kircher - che i filologi per lo più ritengono un intelligente falso d’autore. Su tale giudizio pesano dei preconcetti basati su una valutazione poco lusinghiera dei lavori del grande gesuita tedesco, spesso accusato di essere un geniale millantatore per aver propugnato una teoria interpretativa dei geroglifici egizi dimostratasi infondata. In realtà gli egittologi riconoscono a Kircher il merito innegabile di essere stato il vero iniziatore della loro disciplina. Il tentativo fallito di leggere l’antica scrittura va per loro inquadrato in un preciso ambito cronologico, come ha chiarito Sergio Donadoni in un recente articolo, per cui il codice di lettura del gesuita non poteva non essere che quello del< Athanasius Kircher, Musurgia universalis, Lib. VII, p. 541, Romae, Typis Ludovici Grignani, 1650. 67 la sapientia aegyptia, tramandata da Orfeo, Pitagora e Platone e poi dai neoplatonici come Proclo e Giamblico e tradotta da grandi umanisti, della levatura di Marsilio Ficino.3 Ritengo, tra l’altro, che nel confronto tra le figure di Athanasius Kircher e di Vincenzo Galilei pesi - almeno dal punto di vista di chi si occupa della storia moderna dell’Italia - un antico discrimine. La definitiva chiusura e la dispersione delle collezioni del museo kircheriano, uno dei più grandi musei scientifici d’Europa, furono in parte dovute alla volontà dei liberali italiani di cancellare la memoria degli studi compiuti nello Stato della Chiesa da insigni ecclesiastici. Chiesa e oscurantismo nella Nuova Italia, dovevano coincidere, Chiesa e condanna di Galilei, Chiesa e rogo di Giordano Bruno. I Gesuiti erano il simbolo più evidente della politica controriformista e Kircher ne era stato uno dei maggiori ideologi nella seconda metà del Seicento. È una disputa antica che non è qui il caso di affrontare, perché molte posizioni che, sentimentalmente o politicamente, si possono condividere, da un punto di vista storiografico andrebbero almeno riviste. Il gesuita di Fulda, che fu una figura centrale del mondo intellettuale del secondo Seicento, successore di Clavio e di Scheiner alla cattedra di matematiche del Collegio Romano, come risulta da una lettera all’amico e protettore Fabri de Peiresc, era ad esempio convinto della fondatezza dell’eliocentrismo galileiano, teoria che non poteva abbracciare pubblicamente. Galilei e Kircher, quindi, due nomi e due simboli di un radicato dilemma italiano, della profonda frattura che attraversa la società civile e che emerge ogniqualvolta si parla di scuola e di sistema educativo: Galilei da un lato (anche se si tratta di Vincenzo) e Kircher dall’altro, ragione e oscurantismo, nuova scienza e aristotelismo. Vedremo come anche in questo caso le generalizzazioni non aiutino a comprendere la complessità del tema, anche se i pregiudizi continuano ad avere il loro peso. Da un punto di vista cronologico Vincenzo Galilei fu il primo a pubblicare dei testi musicali greci nell’Occidente europeo. Erano testi trascritti in diversi codici, conservati in biblioteche italiane e straniere. Ma la pubblicazione avvenne nell’ambito di una riforma della tradizione musicale, per rafforzare le basi teoriche delle nuove tendenze che la Camerata dei Bardi, di cui Galilei era un importante esponente, intendeva imporre nel panorama fiorentino del tardo Rinascimento. Vincenzo, liutista e grande virtuoso, era nato a Santa Maria del Monte nel 1520, e aveva compiuto i suoi studi musicali a Firenze. Risiedè per un lungo periodo a Venezia e a Pisa dove sposò Giulia, figlia di Cosimo Ammanati. Nel 1568 pubblicò la sua prima opera teorica, il Fronimo, un dialogo Sopra l’arte di ben intavolare la musica negli strumenti artificiali sia di corde come di fiato, et in particolare nel liuto (ripubblicato a Venezia nel 1584) e lì affermava che i Greci erano stati i veri inventori di quell’arte, di cui avevano studiato scientificamente gli effetti sull’ascoltatore. Essi pensavano, egli scriveva, che “gli animi 68 umani fossero armonia” e “ credeano che da dolci et soavi concenti fossero eccitati a temperare i discordanti affetti”. Alcuni anni dopo, nel 1581, dette alle stampe il Dialogo sopra la musica antica et moderna, dedicato a Giovanni Bardi, uno dei maggiori esponenti di quella Camerata fiorentina di cui si è detto. Nell’opera, in cui gli interlocutori sono lo stesso Bardi e Pietro Strozzi, Galilei riafferma quanto accennato nel primo dialogo. I Greci sono per lui i veri maestri ed inventori della musica e presso di loro quell’arte era tenuta in altissima considerazione. Nel Dialogo l’autore si soffermava particolarmente sulla riscoperta della monodia antica e sulla sua possibile applicazione al panorama musicale contemporaneo. Esprimeva in tal modo l’avversione “al contrappunto esasperato” e auspicava il ritorno alla presunta semplicità della scuola musicale greca. Citando Platone ribadiva la superiorità della parola sulla musica. Questa evoluzione dette luogo alla nascita degli “intermedi” (messi in scena durante le nozze di Francesco de’ Medici con Bianca Capello nel 1579) e da questo si giunse al melodramma. Scrive al riguardo Mario Baroni che il proposito degli intellettuali che dettero vita alla Camerata fiorentina aveva le sue radici nell’idea tipicamente umanistica di studiare e di ridare circolazione moderna non solo alla concezione musicale degli antichi greci, ma all’uso che della musica essi avevano fatto nello spettacolo tragico. Ebbe pertanto origine uno stile adatto a sottolineare le situazioni emotive, e a studiare gli “affetti” indotti nell’animo di chi ascolta dalla musica. Vedremo come questa linea di sviluppo musicale incontrò tra i suoi maggiori interpreti personaggi come Marin Mersenne, lo stesso Kircher e Cartesio, nel Seicento, per giungere, nel Settecento a Rameau, a Matheson ecc. Non si trattava, come avevano teorizzato i primi musicisti e umanisti della Camerata fiorentina, di una subordinazione della musica alla parola o meglio all’orazione, ma piuttosto di una subordinazione di parola e musica insieme a questo ideale pervasivo di tutta la civiltà artistica barocca: esprimere o imitare gli affetti al fine di soggiogare il pubblico, per commuoverlo ed emozionarlo.4 Le opere di Vincenzo Galilei, il “lamento del conte Ugolino” e le “lamentazioni di Geremia” sono andate perdute, ma ci sono rimaste varie testimonianze della produzione della Camerata. Galilei, oltre che sugli strumenti musicali greci, dissertava nel suo dialogo sul sistema di notazione musicale degli antichi. In un volume della seconda metà del IV secolo dopo Cristo, conservato nella biblioteca del “Cardinal Sant’Angiolo” (ora alla Vaticana), intitolato delle note degli antichi musici greci opera di un autore noto come Alypio, egli trovava i differenti segni che usavano gli “antichi per dinotare le corde dello strumento, a differenza”, come egli stesso scriveva, “di quelli che significavano il suono della voce”.5 In altri termini Galilei riferiva come nell’antichità si usassero due sistemi di notazione alfabetica: quella strumentale con le lettere dell’alfabeto fenicio e quella vocale con le lettere dell’alfabeto attico. Cosa confermata dagli scritti di Boezio. 69 Troppo complesso e superiore alle mie capacità sarebbe ora, senza l’aiuto di supporti grafici addentrarsi, nell’intricatissimo mondo della musica classica e della sua notazione. Basta qui ricordare che il sistema descritto da Alypio era noto ai musicisti bizantini e che alcuni dei frammenti di cui trattiamo, tramandati attraverso Bisanzio, ne rispettavano l’impostazione. Operazione simile a quella di Galilei compì Kircher che, dopo aver già trattato di musica greca nel suo excursus storico e in particolare alle pagine 212 e 213 della Musurgia, pubblicava nel libro VII della stessa opera (iconismo XIII) una tabella tratta dall’Alypio. Alla suddetta tabella aggiungeva un esempio, Musicae veteris Specimen,6 dove, trascritta con la notazione antica, diciamo Alypiana, apparivano i primi versi dell’ode pitica di Pindaro: “o aurea cetra d’Apollo”. Stranamente Kircher, che aveva citato l’opera di Galilei (ma molte sono le lacune e gli errori delle opere del gesuita!) affermava che quello, per quanto se ne sapeva, era l’unico esempio rimasto di musica antica. L’aveva trovato nella famosa biblioteca del monastero del S. Salvatore di Messina, durante il viaggio che aveva compiuto da Roma a Malta tra il 1637 e il 1638, viaggio che gli permise di osservare i vulcani siciliani e di sollevare fondamentali ipotesi sul nucleo ardente della terra e sulla deriva dei continenti. Anche in questo caso è necessario controllare quanto egli afferma, perché di quel frammento da lui pubblicato si è successivamente persa ogni traccia. Ciò che scrive appare però, alla luce delle ricerche compiute, quanto meno verosimile. Il monastero del San Salvatore al Faro era infatti uno dei più antichi monasteri basiliani della città dello stretto. Nel 1546 Carlo V ne ordinò lo spostamento per permettere la costruzione di una fortezza che dominava il fondamentale specchio d’acqua. Il S. Salvatore trovò una nuova sede presso il porto di Messina, iuxta portum, come scrive il Kircher nella Musurgia. È proprio lì che i monaci gli avrebbero mostrato questo libro di inni tra le cui pagine era trascritta la prima ode pitica e la relativa melodia. Molti manoscritti provenienti dal S. Salvatore, anche musicali si conservano oggi nel mondo. Alcuni sono alla biblioteca dell’Università di Messina7 altri nel monastero di San Nilo di Grottaferrata presso Roma, altri ancora in Spagna alla Biblioteca dell’Escurial e alla Biblioteca Reale di Madrid, altri forse si conservano, come è avvenuto per le pergamene della città dello stretto, in chissà quale biblioteca privata. La dispersione di questo ingente patrimonio è dovuta agli eventi connessi alla ribellione anti-spagnola di Messina del 1674 e alla riconquista della città nel 1678. Gravissimi furono le distruzioni e i saccheggi. Fu raso al suolo il palazzo civico (i cui archivi si sono ritrovati solo di recente) e la popolazione si ridusse drasticamente da 120.000 a 15.000 abitanti. Kircher > Organo idraulico da Musurgia universalis, 1650. 70 71 morì nel 1680, due anni dopo lo svolgersi di questi drammatici eventi, e fino a quel momento nessuno dei suoi tanti acerrimi critici smentì quanto egli aveva scritto nella Musurgia Universalis, pubblicata nel 1650, trenta anni prima quindi. Il fatto che egli avesse visto un codice di inni risalente al nono secolo dopo Cristo a Messina - città di grandi tradizioni greche, dove trovò rifugio nel ’400 anche Costantino Lascaris, profugo da Costantinopoli, che vi fondò una scuola - appare assolutamente verosimile. Nella stessa Musurgia,8 affrontando il tema della musica greca nel capitolo dedicato alla polifonia antica, egli riferiva che i bibliotecari messinesi, appartenenti all’ordine basiliano presso cui è ancora viva la tradizione del canto bizantino, avevano voluto mostrargli quel manoscritto redatto, egli dice, circa settecento anni prima del momento dell’incontro (ergo nel nono-decimo secolo d.C.) e in cui erano trascritti molti inni su otto linee, non su cinque. Con Galilei e con Kircher ci troviamo quindi dinanzi a due casi simili: trascrizioni certamente bizantine d’antiche musiche greche e sappiamo quanto la cultura contemporanea sia in debito per gli accurati lavori compiuti nel “Greco impero”.9 Sta di fatto che molti filologi e grecisti, per giusta prudenza, usano due pesi e due misure perché nel caso di Kircher, non essendosi trovato l’originale, parlano apertamente di contraffazione. Personalmente non ne sarei tanto sicuro. Credo che il gesuita abbia effettivamente avuto tra le mani un libro di inni, quello su cui dubiterei è la datazione, sapendo quanto egli fosse poco attento al riguardo, come dimostra il caso dell’Asclepio e degli Hermetica che egli faceva risalire al mitico Ermete Trismegisto, mentre il Casaubon aveva già dimostrato l’inconsistenza di tale attribuzione. Ma di Kircher non ci si libera facilmente perché l’uomo, con le sue contraddizioni, ha dei tratti d’altissimo genio e le sue luci e le sue ombre non sono esclusivamente personali. Nei suoi libri la difformità dello stile latino lascia intravedere più mani all’opera. Le sue erano posizioni largamente dibattute all’interno della Compagnia di Gesù, che sottoponeva ad attenta verifica i libri dei propri membri. Abbiamo parlato dei meriti di Kircher nell’egittologia e nella vulcanologia e, senza voler cadere nell’errore dei suoi fautori - di affermare con Antonio “For Brutus is an honourable man, So are they all, all honourable men”10 - bisogna dire che anche in campo musicale molti riconoscono al sapiente gesuita grandi virtù, non ultima quella di altissima testimonianza della scuola musicale romana e della pubblicazione filologicamente corretta, riscontrata su altri manoscritti esistenti, di un famoso oratorio di Giacomo Carissimi, lo Jephte. Ciò non basterebbe a stabilire l’autenticità della melodia dell’ode pitica, ma rende meno aprioristicamente scettici su quanto da lui pubblicato. Marchingegni e artifizi ad esempio, da lui inventati, che oggi potrebbero sembrare vacui sogni barocchi, come le cassette matematiche, hanno una invece 72 loro perfetta utilità. Mara Miniati, del Museo della scienza di Firenze, descrive nei dettagli l’uso dell’unico originale a noi pervenuto. Si trattava di uno strumento da consultare con l’aiuto di un manuale di riferimento, un po’ come il sestante e le tavole delle effemeridi. Permetteva di compiere una serie di operazioni complesse: matematiche, algebriche, astronomiche … musicali. Spostando delle barrette inserite in nove differenti alloggiamenti, con un funzionamento simile a quello di un regolo matematico, si ottenevano le relative risposte. L’ultima fila della cassetta, ideata per soddisfare le necessità di un sovrano e il poco tempo a lui riservato per apprendere, concerneva la musica. Grazie alla combinazione corretta dei “bacoli musurgici” tutti avrebbero potuto scrivere e apprendere differenti stili, anche in quelli dell’antica Grecia. Giancarlo Bizzi, in Enciclopedismo e Roma barocca11 definisce la Musurgia universalis uno straordinario viaggio nell’universo dei suoni e delle macchine sonanti e dedica un interessante articolo alla tabula mirifica, omnia contrapunctisticae artis arcana rivelans. Bizzi dimostra come questa Tabula mirifica sia uno schema logico-assiomatico che contiene in sé la rete delle relazioni possibili tra i suoni. Non sono in grado di seguire le sue dimostrazioni ma so che Pierre Boulez era fortemente attratto da questo aspetto della musicologia kircheriana. Come dimostrano questi due esempi egli comunque aveva una tale padronanza della tecnica musicale e delle matematiche combinatorie da poter proporre e produrre musiche derivanti da algoritmi o da schemi logico-assiomatici, procedura mutuata in seguito dal grande Bach. Vediamo quindi quasi due partiti contrapporsi: da un lato i grecisti, come il grande Bruno Gentili che negli atti del convegno internazionale sulla musica antica tenuto ad Urbino nel 1985, dichiara che la melodia dell’ode pitica è un falso12, dall’altro i musicisti. Gentili poi nell’edizione valliana delle Pitiche di Pindaro, nel vasto apparato di note di corredo, non ritiene neanche necessario citare l’esistenza di questo falso che, comunque viene sempre riproposto nelle edizioni di musica greca, almeno nelle due che sono riuscito a trovare. Diversi i giudizi dei musicisti13 che, più attenti all’aspetto estetico, restano affascinati dal frammento edito da Kircher. Carlo Del Grande nel suo Dizionario della musica e dei musicisti ritiene che il brano edito dal gesuita “in quanto melodia è bella e degna di Pindaro”14. Potremmo concludere con queste parole e con quello che dice Vlad al riguardo. “La melodia in questione è davvero bellissima ed essere stato capace di inventare una melodia degna di Pindaro è di per sé un titolo di gloria tale da compensare ogni accusa di falso”. Non sapremo mai se Kircher veramente vide quest’antica testimonianza della musica greca nel convento di Messina. Forse la famosa ode pitica non è che una delle tante applicazioni della sua tabula mirifica, un geniale esperimento di arte combinatoria. Ma saremmo oggi, con tutti i nostri strumenti elettronici, capaci di padroneggiare con eguale maestria lo sterminato universo dei suoni? 73 74 Note: 1. Musurgia universalis, sive Ars magna consoni et dissoni in X. Libros digesta. Qua universa Sonorum doctrina, et Philosophia, Musicaeque tam theoricae, quam practicae scientia, summa varietate traditur, admirandae Consoni, et Dissoni in mundo, adeòque universâ naturâ vires effectusque, uti noua, ita peregrina variorum speciminum exhibitione ad singulares usus, tum in omnipoenè facultate, tum potissimùm in Philologià, Mathematicà, Physicà, Mechanicà, Medecinà, Politicà, Metaphysicà, Theologià, aperiuntur et demonstrantur. Tomus I. Romae, ex typographia haeredum F. Corbelletti, Anno Jubilaei 1650. 2 vol. In-fol. , 690 pp. tavv., ill..-Tomus II. Qui continet In Lib. VII. Musicam Mirificam. In Lib. IX Magiam Consoni et Dissoni, in Lib X. Harmoniam Mundi, Romae, Typis Ludovici Grignani, 1650. In-fol.,462 pp 2. Le opere edite di Vincenzo Galilei sono le seguenti: Intavolatura del liuto, 1563, Fronimo, I ed. 1568, Primo libro di Madrigali a quattro e cinque voci, 1574, Dialogo della musica antica e moderna, 1581 Firenze. Nel Dialogo della musica antica et della moderna alle pp.96-97 editò gli inni attribuiti al musicista cretese Mesomede, musicista alla corte di Adriano (II sec. d.C), ritrovati in un codice della “libreria del cardinal Sant’Angiolo a Roma”. Le maggiori opere di storia della musica che trattano del periodo greco, come la New Oxford History of Music, a cura di Egon Wellesz (la sezione dedicata alla musica greca è a firma di Isobel Henderson), annoverano tra i frammenti di musica ellenica anche questi testé citati. Kircher compì nella Musurgia universalis (Roma 1650) un’operazione non dissimile stampando il testo e la melodia della prima ode pitica di Pindaro, dando luogo però ad una infinità di diversi pareri, a tal punto divergenti che un famoso musicologo, R.P. Winnington-Ingram in un articolo uscito nel 1958 su “Lustrum” elencava una pagina intera di studiosi che dibattevano sull’autenticità o meno del frammento musicale edito dal gesuita. 3. Sergio Donadoni, I geroglifici di Athanasius Kircher, pp.101-110, p. 104, in Athanasius Kircher. Il Museo del Mondo. Macchine, esoterismo, arte, catalogo a cura di E. Lo Sardo, Edizioni De Luca, Roma 2001, della mostra tenuta a Roma, Palazzo di Venezia, nel feb.apr. 2001. Del resto con il suo dizionario arabo-copto-latino è considerato oggi dagli egittologi l’iniziatore della loro disciplina e il nostro Sergio Donadoni scrive al riguardo che il Kircher nella sua grandiosa opulenza barocca tentò di “dar voce all’ineffabile, di cogliere nel passato la potenzialità di un futuro”. 4. Mario Baroni, Enrico Fubini, Paolo Petazzi, Piero Santi, Gianfranco Vinay, Storia della musica, Torino, Einaudi 1988, testo di Baroni, p. 119. 5. Dialogo, cit. ed. 1581, pp. 96-97. Scrive al riguardo Kircher: “Duplicemque signorum characterum, notarumque ordinem servat: primus ordo significat characteres, qui cantui voce perficiendo servirent; secundus ordo instrumentis competit, ea fere ratione, qua etiamnum, notae musicae vocalis distinctae sunt a notis, quas tabulaturas vulgo vocant musicae instrumentali servientibus, quem ordinem Alipij multi non intelligentes binas hasce notas pro una sumentes, uti Liardus, et ex eo salomon Caus specimina, quae mundo exhibere voluerunt, antiquae musicae vitiosissime et falsissime reddiderunt”. Musurgia univeralis, cit., p. 540. 6. “Inveni autem hoc musicae specimen, ut alias memini in celeberrima illa totius Siciliae Bibliotheca monasterij S. Salvatoris iuxta Portum Messanensem in fragmento Pindari antiquissimo, notis musicis veterum Graecorum insignito, quae quidem notae, sive characteres musici cum iis, quos Alypius in tono Lydio exhibet sunt iidem; verba odes Pindaricae notis musicis veteribus usitatis expressa sequuntur; tempus non notae; sed quantitas syllabarum dabant “, Musurgia universalis, cit. p. 541. < Athanasius Kircher, antiporta da De Sepi, Romani Collegii, 1678. 75 7. Maria Bianca Foti, in particolare in I codici basiliani del Fondo del SS. Salvatore. Catalogo della Mostra, Messina 1979. 8. Pp. 212-213. 9. Raffaele Cantarella scrive nell’edizione da lui curata dei Tragici greci edita da Mondadori a proposito dei ritrovamenti papiracei e delle trascrizioni medievali :”E tuttavia, dopo i comprensibili entusiasmi dei primi ritrovamenti, abbiamo avuto conferma che la qualità dei testi medievalli più autorevoli non è, in generale, inferiore a quella dei papiri: ciò che testimonia gli alti meriti filologici dei dotti bizantini”. P. LIII. 10. W. Shakespeare, Julius Caesar, atto III, scena II, l. 79. 11. In Enciclopedismo e Roma barocca: Athanasius Kircher e il Museo del Collegio Romano tra Wunderkammer e Museo scientifico, a cura di Mariastella Casciato, Maria Grazia Ianniello e Maria Vitale, Venezia, Marsilio 1986. 12. Come dimostrato da A. Rome, secondo Gentili (in La musica in Grecia, a c. di B. Gentili e R. Pretagostini, Roma - Bari, 1988, p. VI n 1), nel 1932 in Les études classiques, I, 1932, pp.3-11 e IV, 1935, pp. 337-350, cfr. Vlad, infra. 13. Vedi al riguardo gli articoli apparsi di recente in due opere a cura di chi scrive: R. Zarpellon, La musica degli affetti, in Il Museo del Mondo, cit., pp. 261-276 e R. Vlad, Kircher sapiente musicologo, in Iconismi e Mirabilia da Athanasius Kircher, Edizioni dell’Elefante, Roma 1999, pp. 63-67. All’articolo di Vlad devo molte delle informazioni sulle opinioni di musicologi e musicisti sull’Ode pitica di Kircher. 14. Cit. in Vlad, p. 65, vedi supra. 76 77 78 Indice Grecia · Cividale del Friuli, 20 luglio 2001 Introduzione · Salvatore Settis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Musica e poesia in Grecia · Maria Chiara Martinelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica: pluralità delle occasioni del canto · Carlo Pernigotti e Luisa Prauscello Iconografia musicale · François Lissarrague 11 19 . . . . . . . . 29 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Gli strumenti musicali dell’antica Grecia · Michael Stüve Vincenzo Galilei, Athanasius Kircher e la musica greca · Eugenio Lo Sardo . 7 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 79 Finito di stampare nel mese di febbraio dell’anno 2002 dalla Stella Arti Grafiche di Trieste