Pubblicato da “Città nuova” n° 3 10/02/2007 Fino a quando? Col cappio al collo L’esecuzione di Saddam Hussein e di altri dirigenti del passato regime irakeno ha messo sotto gli occhi del mondo l’orrore della pena di morte. Mentre aumentano le adesioni alla proposta italiana di una moratoria internazionale, si approfondisce il dibattito sulle radici culturali della pena capitale L’immagine di Saddam Hussein col cappio al collo aveva chiuso il 2006. L’anno nuovo si è aperto con altre esecuzioni. L’Italia, attraverso il proprio ambasciatore alla Nazioni Unite, ha proposto al Consiglio di sicurezza una moratoria universale delle esecuzioni, raccogliendo subito una significativa quantità di adesioni da parte di altri Stati. L’iniziativa italiana, anche per il luogo nel quale viene portata avanti, ha il merito di porre sotto i riflettori un aspetto determinante del problema, ulteriormente sottolineato dalla reazione del neo-segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, che il 2 gennaio ha accolto l’iniziativa italiana commentando che la pena di morte è una scelta riguardante i singoli Stati sovrani. Si è corretto, il giorno dopo, ricordando che tra i principi fondamentali sui quali si regge l’Onu c’è anche il riconoscimento del diritto alla vita di ogni uomo: e a noi sembra che davanti a tale principio la sovranità degli Stati, precedentemente invocata, non sia la soluzione ma, al contrario, il problema, che può venire espresso in questo modo: si può riconoscere agli stati il potere di infliggere la pena di morte? O non si dovrebbe invece stabilire che anche il potere sovrano deve deporre le armi davanti al rispetto assoluto che la vita esige? La domanda mette in causa direttamente la concezione che ognuno di noi ha dello Stato e, dunque, della vita politica. Una domanda pesante, che, per la verità, la richiesta di moratoria non affronta direttamente; essa infatti non mette in questione il potere degli Stati di decidere e infliggere la pena capitale, ma si limita a chiedere – in attesa di giungere alla vera e propria abolizione - che tali pene non vengano eseguite. La tradizione religiosa Un aspetto interessante nel quadro attuale è dato dalla variegata risposta che alla nostra domanda viene dai diversi ambienti religiosi. La stessa esecuzione di Saddam Hussein ha dovuto tenere conto dell’elemento religioso – e non solo politico -, della contrapposizione tra sciiti, che hanno fornito i boia, e i sunniti, ai quali è stato restituito il corpo. E in ambito cristiano, con quale sensibilità si guarda alla pena di morte? Per George Bush, presidente cristiano degli Stati Uniti - una nazione che si autodefinisce come religiosa -, la pena capitale non fa problema: ha dichiarato, dopo l’impiccagione di Saddam, che «egli è stato giustiziato dopo essere stato sottoposto ad un processo equo, ossia quel tipo di giustizia negata alle vittime del suo brutale regime». Che quel regime fosse brutale e che il dittatore dovesse venire giudicato, nessuno lo dubita; ma Bush, anche in questo caso, non rappresenta affatto l’insieme degli Stati Uniti per quanto riguarda la pena di morte, che negli Usa ha avuto una storia tormentata. Abolita dalla Corte Suprema nel 1972, reintrodotta nel 1976, è prevista in 38 Stati su 50. E la battaglia, culturale e politica, infuria. Nelle scorse settimane una commissione parlamentare del New Jersey ha pubblicato un rapporto nel quale mette in dubbio sia che la pena capitale sia legittima, sia che serva come deterrente contro i delitti. Ci si aspetterebbe, da un movimento storico qual è il cristianesimo, che comincia proprio con la crocifissione del suo fondatore, cioè con la condanna a morte di un innocente, una estrema prudenza nei confronti del patibolo, se non altro per la consapevolezza della reale possibilità dell’errore giudiziario. Ma se guardiamo alla tradizione prevalente dei duemila anni della sua storia, 1 ci accorgiamo che, per la maggior parte, i pronunciamenti delle grandi personalità ecclesiali sono stati, a lungo, più vicini alla sensibilità di Bush che a quella di chi non accetta la pena di morte. Il tema, comunque, è controverso da sempre. Nella chiesa antica Atenagora, Tertulliano, Origene e Lattanzio hanno espresso contrarietà. Agostino invece la ammetteva, basandosi su un brano della Lettera ai Romani (Rm 13,4) che fa riferimento all’autorità temporale e al suo potere di usare la spada. Finché domina la visione “organica” della società – e questo avviene fin dentro l’epoca moderna -, che vede il singolo semplicemente come una parte dipendente dall’insieme, la conclusione logica di chi riflette sulla pena di morte è quella di tagliare la parte infetta (il criminale), per proteggere il resto del corpo. In questi termini si esprime anche Tommaso d’Aquino, che arriva ad affermare una teoria di “perdita del diritto” a causa della colpevolezza: «Col peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità umana, che consiste nell’esser liberi e nell’esistere per se stessi, degenerando in qualche modo nell’asservimento delle bestie, che implica la subordinazione all’altrui vantaggio […] Perciò sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia: infatti un uomo cattivo, come insiste a dire il Filosofo, è peggiore e più nocivo di una bestia»1. Il potere di comminare la pena di morte da parte dell’autorità legittima viene ribadito con continuità e in maniera formale sia dal Catechismo di Trento, sia da quello di Pio X, e da Pio XII ancora nel 19522. Una svolta importante inizia col Concilio Vaticano II, che si esprime in modo molto diverso: la Gaudium et Spes (27, 28, 51) condanna «ogni specie di omicidio», sostenendo che Dio ha affidato agli uomini il compito di proteggere la vita, e sottolineando che anche l'autore di delitti conserva la propria dignità di essere umano. Paolo VI non si è pronunciato direttamente sulla questione, ma - pur non contestando formalmente il diritto degli stati di infliggere la pena capitale è intervenuto, nel 1970, chiedendo di non uccidere i condannati nei processi di Burgos e Leningrado. Per quanto riguarda poi Giovanni Paolo II, numerosissimi sono i suoi interventi che affermano l'inviolabilità della vita umana e tale è anche la posizione di Benedetto XVI. L’ultimo passo della chiesa Come spiegare questa evoluzione del magistero cattolico? Con il fatto che i contenuti della fede, compresi quelli che riguardano la verità sull’uomo, vengono compresi nel tempo, e in maniera sempre più profonda, grazie all’esperienza storica. La chiesa assorbe, almeno in parte, i contenuti culturali dell'epoca in cui vive - e ci sono state epoche in cui la pena di morte era considerata del tutto accettabile secondo la mentalità comune -, ma non li accoglie in maniera acritica; al contrario, anche se con fatica e non senza errori, per l'azione dello Spirito purifica e rettifica i contenuti culturali dell'epoca in cui vive, riconducendoli mano a mano al progetto di Dio; da una parte, riceve aiuto da ciò che gli uomini, credenti e non credenti, sperimentano e comprendono; dall’altra, li illumina sul significato profondo dei valori che essi, nel corso della storia, vengono scoprendo. Il caso dell’attuale Catechismo della chiesa cattolica è interessante anche perché mostra questa corrispondenza, questo cammino comune tra chiesa e umanità. Il tema della dignità della vita è ad un tempo unitario e complesso: complesso, perché gli attentati alla vita sono molteplici; unitario, perché contro ognuno di tali attentati si afferma lo stesso principio: «Non uccidere». In questo senso, il Catechismo è davvero paradigmatico, costituisce cioè un modello di come si debba ordinare ed affrontare la materia. Le affermazioni riguardanti la pena di morte vengono infatti inserite sotto il titolo della «Legittima difesa», all’interno della parte relativa al quinto comandamento («Non uccidere») e al corrispondente obbligo del «rispetto della vita umana». La legittima difesa apre un approfondimento che tocca, successivamente, l’omicidio volontario, l’aborto, l’eutanasia, il suicidio. 1 2 La Somma Teologica, II-II, q. 64, a. 2. Allocuzione del 13 settembre 1952. 2 Ed è molto interessante costatare come una simile struttura di pensiero e di argomentazioni sia presente in uno dei maggiori rappresentanti del “pensiero laico” del Novecento, Norberto Bobbio: «Per dare un’idea anche soltanto approssimativa - egli scrive - dell’ampiezza e della rilevanza di questo dibattito si consideri che esso comprende, oltre il tema del diritto alla vita, in senso stretto, ovvero il diritto a non essere uccisi, il diritto a nascere o a essere lasciati venire alla vita, il diritto a non essere lasciati morire e il diritto a essere mantenuti in vita o diritto alla sopravvivenza. Poiché non vi è diritto di un individuo senza il corrispondente dovere di un altro, e poiché ogni dovere presuppone una norma imperativa, il dibattito sulle quattro forme in cui si esplica il diritto alla vita rinvia al dibattito sul fondamento di validità ed eventualmente sui limiti del dovere di non uccidere, di non abortire (o di non procurare l’aborto), di soccorrere chi è in pericolo di vita, di offrire i mezzi minimi di sostentamento a chi ne è privo»3. Battersi per la difesa della vita, in sostanza, dev’essere chiaro a credenti e non credenti, richiede un atteggiamento coerente che si impegni su tutti i fronti di applicazione di tale principio. Che cosa dice dunque il nuovo Catechismo? Tra la prima edizione del 1992 e quella successiva del 1997, attualmente in vigore, esso introduce una sostanziale variazione nell’argomento che ci interessa. Nel 1992 esso sottolinea la legittimità della difesa della propria vita, che va intesa non solo come un diritto, ma come «un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile» (2265). D’altra parte, citando Tommaso, sostiene che «se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito» (2264). Questo criterio della proporzionalità, che accompagna la legittima difesa quando è attuata da un privato, va applicato anche nel caso della legittima difesa attuata dallo stato. Infatti il Catechismo, pur riconoscendo, in accordo con «l’insegnamento tradizionale della chiesa», alla «legittima autorità pubblica» il diritto e il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, «senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte» (2266), aggiunge che l’autorità deve limitarsi ad usare mezzi incruenti, se questi sono sufficienti a raggiungere lo scopo di difendere le vite umana, proteggere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone (2267). Questa formulazione era già di per se sufficiente ad impedire il ricorso alla pena di morte da parte degli attuali stati, che dispongono delle risorse per impedire al colpevole di rendersi ancora pericoloso, pur senza ucciderlo. Ma il Catechismo, pur escludendo l’applicazione della pena capitale nella pratica, continuava ad accettare il potere dello stato di erogare pene in proporzione alla gravità del crimine fino ad arrivare alla pena di morte: ma così facendo, il Catechismo accettava un criterio di giustizia retributiva che si radica nella legge del “occhio per occhio” e non ha nulla a che fare col principio di difesa dell’aggredito e di contenimento dell’aggressore. Il dibattito sorto in seno alla chiesa su questo punto ha portato, nel giro di pochissimi anni, ad un sostanziale cambiamento: nell’edizione successiva del Catechismo, attualmente in vigore, non si sostiene più che la proporzionalità della pena possa arrivare fino alla morte; e si ammette il ricorso alla pena di morte solo per difendere con efficacia dall’aggressore ingiusto: è evidente che tale necessità di difendersi è ammissibile sono in presenza di un pericolo grave, attuale, non altrimenti superabile; e che tale necessità non sussiste più nel momento in cui l’aggressore è stato fermato e viene sottoposto al giudizio; in tal modo, si applica allo stato, in maniera rigorosa, la logica della legittima difesa: lo stato può uccidere solo per difendere la comunità nel corso di un pericolo, mentre non possiede in sé il potere di dare la morte, con una sentenza, quando il pericolo è stato superato. Questo traguardo raggiunto dalla chiesa cattolica corrisponde ad una analoga consapevolezza che sta crescendo anche nell’umanità. C’è dunque speranza, nonostante le attuali difficoltà, di riuscire a togliere il cappio dal collo del nostro tempo. 3 Bobbio N., Il dibattito attuale sulla pena di morte, in La pena di morte nel mondo. Convegno internazionale di Bologna (28-30 ottobre 1982), Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 20-21. 3 BOX 1 Che cosa dice il Nuovo Testamento? Nel Nuovo Testamento tre testi in particolare, in passato, sono stati utilizzati per far dire loro ciò che in effetti – da soli - non dicono, e cioè una accettazione o un rifiuto espliciti della pena di morte. Anzitutto, i due passi tra loro vicini della Lettera ai Romani: il primo, «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore» (Rm 12,19), non è tale da farne discendere un ripudio di principio contro la pena di morte; mentre il secondo, che sottolinea la caratteristica da parte dello stato di esercitare la giustizia anche attraverso la forza, non può venire inteso come una giustificazione di principio della pena capitale: «Ma se fai il male allora temi, perché non invano essa [l’autorità] porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male» (Rm 13,4). E neppure l’ordine dato da Gesù a chi lo accompagnava, al momento del suo arresto, di rimettere la spada nel fodero, può venire interpretato come una indicazione su come lo stato debba comportarsi con la pena capitale, ma semplicemente come la sottolineatura da parte di Gesù che quella delle armi non è la sua logica (Mt 26,52). Ma il vangelo di Giovanni (Gv 8, 2-11) riporta un episodio che ha valore dirimente sulla questione, quando Gesù interviene per sospendere l’esecuzione di una pena capitale nei confronti dell’adultera. Con le parole: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», egli mette i giudiciesecutori che si apprestavano a lapidarla, di fronte alla realtà della propria condizione umana: voi che siete peccatori, come potete pensare di disporre della vita umana? Col suo intervento Gesù vuole chiarire, nella coscienza di ciascuno, la differenza tra il Creatore, che dispone della vita, ma ne dispone creandola e donandola, e le creature, le quali, di fronte alla grandezza misteriosa della vita ricevuta, devono ammettere di non avere potere su di essa. Gesù, in un primo momento, non entra nel merito del giudizio sul criminale - la donna aveva certamente infranto la legge - , ma contesta il principio del potere umano sulla vita umana, aprendo la legge mosaica, interprete della volontà divina, ad una sua lettura secondo lo Spirito di un Dio che è Amore. Gesù rivela le intenzioni originarie di Dio al di là della durezza dei cuori di cui la legge è denuncia. La venuta di Gesù annuncia quella “pienezza dei tempi” in cui l'uomo può aprire il cuore all'azione dello Spirito, che lo rende capace di una adesione sempre più perfetta al disegno di Dio. Questa perfezione a cui l'uomo è chiamato è già vissuta da Gesù. Nell'episodio dell'adultera infatti, dopo che tutti se ne sono andati senza scagliare la pietra, Gesù aggiunge: «Neppure io ti condanno». Eppure Gesù, essendo senza peccato, avrebbe potuto condannarla: il suo perdono invece è manifestazione del rispetto e dell'amore di Dio per la creatura, amore cui anche l'uomo deve giungere. BOX 2 Pena di morte e Islam L’Islam può uscire da una tradizione profondamente contrassegnata dalla presenza della pena di morte? Maxime Rodinson sottolinea che il diritto musulmano tradizionale si sovrappone ad un precedente sustrato arabo, che l’islamismo cerca di mitigare: «Il Corano stabilisce anche che bisogna arrestare la catena delle vendette, affinché gli assassinii non c continuino all’infinito. E poi c’è l’incoraggiamento ad accettare un’indennità in denaro invece del sacrifico umano»4. 4 Rodinson M., La pena di morte nella tradizione islamica, in La pena di morte nel mondo, cit., p.63. 4 Questa possibilità – spiega Dalil Boubakeur - non è motivata soltanto ad esigenze di ordine pubblico e di pacificazione, ma ha anche un fondamento religioso: «Così l’Islam in numerosi versetti del Corano ricorda il comportamento di giustizia equa raccomandato da Dio, ossia sforzarsi di non rispondere al male con il male; e che, anche se si tratta di un’offesa o di un delitto di sangue, la riparazione o il perdono sono preferibili alla perpetuazione della vendetta e particolarmente all’antica legge del taglione»5. Il Profeta stesso ha più volte comminato la pena di morte; d’altra parte, ha anche esortato ad aiutare il fratello, anche se oppressore, per ricondurlo alla giustizia. Perché non si potrebbe pensare di arrivare, allora, ad applicare questo atteggiamento non solo ai rapporti interpersonali, ma anche come limitazione al potere dello stato? Boubakeur vuole appunto sottolineare la possibilità di una evoluzione del diritto, quando ricorda che certe prescrizioni della shari’a, quali la lapidazione per l’adulterio e le punizioni corporee per il furto, lo stupro e l’assassinio, appartengono al periodo medinese (dalla Hijira del 622): «Fu in questa seconda fase dell’Islam che quelle prescrizioni della shari’a vennero rivelate, in circostanze storiche particolari che relativizzano quei versetti a quelle circostanze»6. Antonio Maria Baggio 5 6 Boubakeur D., Colpevolezza e punizione nell’Islam, in “Humanitas”, LIX (2004), p. 288. Ivi, p.293. 5