ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 Direttore FRANCO SALVATI Comitato di Redazione ALFONSO ALTIERI, FRANCESCO BELLI (Redattore capo), MAURO CALVANI, GIUSEPPE CARDILLO, PAOLO MATTIA, GIOVANNI MINARDI (Coordinatore), MAURIZIO MORUCCI, FABRIZIO NESI, BRUNO NOTARGIACOMO, SERGIO PILLON, ELIO QUARANTOTTO, PIETRO SACCUCCI, MICHELE SCOPPIO, GIANDOMENICO SEBASTIANI, ALESSANDRO SEVERINO Segreteria di Redazione: RITA VESCOVO, ALMERINDA ILARIA Comitato Scientifico-Editoriale Coordinatore ROBERTO CANOVA LOREDANA ADAMI, MARIO GIUSEPPE ALMA, CATERINA AMODDEO, DONATO ANTONELLIS, GIANLUCA BELLOCCHI, FRANCO BERTI, FRANCO BIANCO, PIETRO BORMIOLI, PIO BUONCRISTIANI, ALESSANDRO CALISTI, ILIO CAMMARELLA, ALBERTO CIANETTI, ENRICO COTRONEO, FRANCESCO CREMONESE, ALBERTO DELITALA, EUGENIO DEL TOMA, FILIPPO DE MARINIS, LORENZO DE MEDICI, SALVATORE DI GIULIO, CLAUDIO DONADIO, VITTORIO DONATO, ALDO FELICI, LAURA GASBARRONE, CLAUDIO GIANNELLI, EZIO GIOVANNINI, LUCIA GRILLO, MASSIMO LENTINI, ANNA LOCASCIULLI, IGNAZIO MAJOLINO, CARLO MAMMARELLA, LUCIO MANGO, EMILIO MANNELLA, LAURO MARAZZA, MIRELLA MARIANI, MASSIMO MARTELLI, ANTONIO MENICHETTI, GIOVANNI MINISOLA, CINZIA MONACO, FRANCESCO MUSUMECI, REMO ORSETTI, PAOLO ORSI, GIOVACCHINO PEDICELLI, VINCENZO PETITTI, LUCA PIERELLI, ROBERTO PISA, LUIGI PORTALONE, COSIMO PRANTERA, GIOVANNI PUGLISI, SANDRO ROSSETTI, ENRICO SANTINI, EUGENIO SANTORO, GIOVANNI SCHMID, CIRIACO SCOPPETTA, FABRIZIO SOCCORSI, CORA STERNBERG, GIUSEPPE STORNIELLO, PIERO TANZI, ROBERTO TERSIGNI, ANNA RITA TODINI, CLAUDIO TONDO, MIRELLA TRONCI, ROBERTO VIOLINI Segreteria: GIOVANNA DE PAOLA Società Editrice Universo R OMA Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Roma Direttore Generale: Luigi Macchitella Direttore Sanitario: Diamante Pacchiarini Direttore Amministrativo: Roberto Noto Società Editrice Universo R OMA Abbonamenti 2009 Italia: istituzionali € 100,00; privati € 73,00 Estero: istituzionali € 200,00; privati € 146,00 Il prezzo di ogni fascicolo (solo per l'Italia) è di € 20,00, se arretrato € 40,00 Per la richiesta di abbonamenti e per la richiesta di inserzioni pubblicitarie rivolgersi a Società Editrice Universo s.r.l., Via G.B. 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Giustino (PG) I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i paesi. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 Contenuto EDITORIALE Mycobacterium tuberculosis "dormiente": nuove sfide all'infezione tubercolare latente L. FATTORINI Dormant mycobacterium tuberculosis: a new challenge to latent TB ARTICOLO ORIGINALE Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici F. BELLI Liver transplantation: microbiologic and infectious features EVIDENZE A CONFRONTO - LOMBOSCIATALGIA: RMN O TC? Il parere dell'ortopedico F. PALLOTTA Il radiologo e la RM A. BELLELLI Il parere del radiologo M. GALLUZZO RASSEGNA Prevenzione cardiovascolare: stile di vita in rapporto ad alimentazione, attività fisica e fumo - Parte II G. OLIVA, S. CURTI, B. DI RIENZO, R. PRINCIPE Cardiovascular prevention: lifestyle about nutrition, physical activity and smoke - Part II FOCUS - MALATTIE POLMONARI RARE G. SCHMID Fibrosi polmonare idiopatica G. FARINELLI Sarcoidosi E. LI BIANCHI Markers di infiammazione e severità di malattia nella sarcoidosi G. PAONE Localizzazioni polmonari delle connettiviti S. ANTONELLI L'istiocitosi polmonare a cellule di Langherans (PLCH) e la protezione alveolare F. FIORUCCI Il ruolo della broncoscopia e del BAL G. GALLUCCIO, G. LUCANTONI Il decisivo ruolo del patologo nelle malattie polmonari rare P. GRAZIANO Il ruolo delle immagini nelle interstiziopatie G. PEDICELLI RECENSIONE "POSTUMA" DI UNA PREFAZIONE INEDITA MARIO CALVANI Guardare per vedere, vedere per capire 5 15 27 28 29 31 40 46 48 51 52 53 56 58 60 63 “La Rivista è stata selezionata da ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS” COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE, FLUIDEX E WORLD TEXTILES www.scamilloforlanini.rm.it ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 Editoriale MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS “DORMIENTE”: NUOVE SFIDE ALL’ INFEZIONE TUBERCOLARE LATENTE DORMANT MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS: A NEW CHALLENGE TO LATENT TB LANFRANCO FATTORINI Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate Istituto Superiore di Sanità, Roma Parole chiave: Mycobacterium tuberculosis. Tubercolosi latente. Farmaci antitubercolari Key words: Mycobacterium tuberculosis. Tubercolosis latent. Antitubercular agents Riassunto: Si stima che due miliardi di persone siano infettate in maniera latente con Mycobacterium tuberculosis (Mtb). In questi pazienti Mtb può trovarsi in uno stato di persistenza non replicativa (dormienza) soprattutto in lesioni poco ossigenate dei polmoni (noduli caseosi o tubercolomi). Allo scopo di mimare questa situazione in vitro, vengono prodotte colture ipossiche di Mtb secondo il protocollo di Wayne in cui le cellule dormienti mostrano una aumentata espressione dei geni del regulone DosR, ispessimento della parete cellulare, sensibilità ai farmaci per anaerobi. In risposta ai farmaci antitubercolari si sviluppano cellule dormienti fenotipicamente tolleranti ai farmaci (persisters). In circa il 10% dei patienti con infezione tubercolare latente si ha la riattivazione a tubercolosi attiva. La chemioprofilassi riduce fino al 90% il rischio di riattivazione ma non lo elimina completamente. È pertanto importante conoscere meglio la biologia di Mtb dormiente e la ricerca di farmaci che sterilizzino sia le forme anaerobie che i persisters. Abstract: Two billion people are estimated to be latently infected with Mycobacterium tuberculosis (Mtb). In these individuals, Mtb is presumably to lie in a nonreplicating (dormant) state, particularly in the caseous nodules of the lungs known as tuberculomas, i.e. lesions with little access to oxygen. These observations provided a guideline for the “Wayne model” of Mtb dormancy in oxygen-limited cultures, characterized by upregulation of genes within the DosR regulon, cell wall thickening, susceptibility to drugs for anaerobes. Antitubercular drugs may favor the development of specialized dormant bacilli phenotypically tolerant to drugs (persisters). In about 10% of patients with latent infection dormant Mtb reactivates giving rise to active tuberculosis. Chemoprophylaxis can reduce the risk of reactivation by as much as 90% but does not completely eliminate the development of disease. Overall, a better knowledge of the biology of dormant Mtb, and search for drugs killing both anaerobic and persistent bacilli is an urgent need. I numeri della tubercolosi e dell’ infezione tubercolare latente La tubercolosi (TB) è una malattia infettiva causata da Mycobacterium tuberculosis (Mtb), un batterio descritto per la prima volta da Robert Koch nel 1882. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che ogni anno 8-10 milioni di individui si ammalino di TB e che circa 2 milioni (5000 al giorno) muoiano a causa di essa, di cui il 98% nei paesi poveri1-2. 6 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 A livello individuale la TB è abbastanza controllabile con farmaci specifici ma la terapia dura 6 mesi, di cui 2 con rifampicina, isoniazide, pirazinamide, etambutolo o (streptomicina), e 4 con rifampicina e isoniazide1. L’OMS compie sforzi enormi per diffondere quanto più possibile in Africa, Asia e nei paesi dell’ex Unione Sovietica la cosiddetta “terapia direttamente osservata” allo scopo di assicurare che i pazienti assumano veramente i farmaci. La scarsa aderenza alla terapia è uno dei motivi per cui soprattutto nei paesi poveri è in aumento la TB causata da ceppi MDR (multi-drug resistant, ovvero resistenti almeno a isoniazide e rifampicina, i due farmaci anti-TB più potenti) e XDR (extensively-drug resistant, ceppi MDR resistenti anche a un fluorochinolone ed a un farmaco iniettabile (amikacina, kanamicina o capreomicina)1-2. Molti studi sono in corso per la ricerca di nuovi farmaci in grado di ridurre a 3-4 mesi o meno la durata della terapia ed alcune nuove molecole (R207910, PA-824, OPC 67683, LL-3858 ed altre) vengono attualmente valutate in studi clinici di fase I o II nell’uomo. Anche sul fronte vaccini si sta facendo molto, con almeno 5 vaccini in trials di fase I o II3. Al momento l’unico vaccino in uso è ancora il Bacillus Calmette-Guérin (BCG) che protegge i bambini nei primi 5-10 anni di vita soprattutto verso la TB miliare e meningea ma che non funziona negli adulti né per la prevenzione della TB polmonare né per impedire la riattivazione della LTBI (Latent Tuberculosis Infection), o TB latente, a TB attiva3-5. Occorre infatti ricordare che circa 2 miliardi di persone (un terzo dell’umanità) sono affette da LTBI, ovvero albergano Mtb in forma non replicativa o “dormiente” da qualche parte nei loro tessuti, rivelata dalla positività all’intradermoreazione con un estratto proteico di Mtb noto come tubercolina (PPD, purified protein derivative)4-5. Si stima che il 5% dei tubercolino-positivi sviluppi la TB polmonare entro 2-5 anni dall’infezione (TB primaria) e che un altro 5% si ammali di TB nel corso della vita per riattivazione di Mtb “dormiente” (TB post-primaria). In considerazione dell’enorme serbatoio di Mtb presente in forma latente nell’uomo si comprende come, per il controllo globale della TB sia essenziale conoscere meglio la biologia del bacillo in fase “dormiente” allo scopo di sviluppare nuovi strumenti diagnostici (per ora limitati al test alla tubercolina e/o alla determinazione di IFN-γ nel sangue) e terapeutici (profilassi con isoniazide per 9 mesi) per la LTBI, con il fine ultimo di eradicare la malattia tubercolare dall’uomo4-5. Patogenesi della TB primaria, post-primaria e dell’infezione tubercolare latente La TB può interessare qualsiasi organo ma nella maggior parte dei casi (≈ 80%) è una malattia tipicamente polmonare3-7. Mtb entra con l’aria inspirata e se riesce a raggiungere gli alveoli viene fagocitato dai macrofagi e trasportato nel parenchima polmonare. Anche se in teoria un solo micobatterio è sufficiente ad infettare una persona, è probabile che solo l’esposizione prolungata agli aerosol (1-10 µm di diametro) prodotti con la tosse dai pazienti con TB polmonare determini la trasmissione di Mtb dai malati ai contatti sani, assicurando la trasmissione interumana del germe. All’osservazione microscopica dell’espettorato dei malati mediante colorazione di Ziehl-Neelsen il bacillo di Koch appare come un bastoncello di 3-4 µm di colore rosso, a seguito della capacità del germe di trattenere la carbolfucsina, un colorante specifico per i batteri alcool-acido resistenti. I macrofagi alveolari che hanno fagocitato Mtb migrano nel parenchima polmonare dove richiamano altre cellule fino a formare lesioni caratteristiche (granulomi) contenenti nella parte centrale macrofagi attivati (cellule epitelioidi) e cellule giganti multinucleate originate dalla fusione di macrofagi (cellule di Langherans) e, in periferia, da uno strato di linfociti e fibroblasti allo scopo di circoscrivere il campo di battaglia tra fagociti e germi mediante una capsula fibrosa3-7. I granulomi primari si formano maggiormente alla base del polmone (TB primaria) e sono L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente spesso associati a linfoadenopatia ilare (complessi di Ghon). Reperti autoptici hanno mostrato che il 66% delle lesioni primarie calcificate si trovano nella metà inferiore del polmone mentre solo il 12% è sopraclavicolare4-5. Nel 95% delle persone infettate con Mtb le lesioni primarie guariscono spontaneamente e possono calcificare mentre nel restante 5%, soprattutto bambini e immunodepressi, possono causare una forma tubercolare localizzata (ad esempio pleurite) o sistemica (meningite o TB miliare) entro 2 anni dall’infezione. In studi sui contatti stretti non trattati con terapia anti-TB si è calcolato che il rischio di ammalarsi si azzera dopo 8 anni indicando che la risposta immunitaria umana controlla bene l’infezione primaria4-5. L’intradermorazione con tubercolina, che dimostra l’avvenuto incontro del paziente con il bacillo di Koch, si positivizza dopo 3-8 settimane dall’infezione primaria. Mtb può diffondere per via ematica e/o linfatica dal complesso primario verso le regioni apicali del polmone, in cui si ha la formazione di granulomi post-primari e, in minor misura, verso sedi extrapolmonari (linfonodi, meningi, milza, reni, osso)4-5. Si pensa che i bacilli tubercolari persistano per tutta la vita in forma “dormiente” nei granulomi e che il 5% dei pazienti con LTBI sviluppi la TB post-primaria per riattivazione di Mtb dalla fase dormiente a quella di crescita attiva. Molti di questi casi riguardano individui adulti e anziani dei paesi a bassa endemia tubercolare. La riattivazione in sede apicale potrebbe essere favorita dalla maggior tensione di ossigeno in questa area del polmone rispetto alle regioni basali4-5. Nei paesi a più alta incidenza di TB, oltre alla riattivazione dell’infezione latente, si può avere re-infezione e malattia da ceppi di Mtb esogeni diversi da quello che ha causato l’infezione primaria, come dimostrato con metodi di tipizzazione molecolare4-5. Sulla localizzazione di Mtb “dormiente” nei tessuti dell’ospite non si hanno ancora informazioni definitive. Nei casi piuttosto rari in cui si ha negativizzazione dell’intradermoreazione con tubercolina si pensa che i bacilli siano stati eliminati dall’ospite4. Viceversa, Mtb può moltiplicarsi nel 7 granuloma e rilasciare antigeni che inducono il sistema immunitario a lisare i macrofagi infarciti di bacilli determinando la formazione, nella parte più interna del granuloma, di un materiale solido o semisolido, acellulare e amorfo, dovuto alla cosiddetta necrosi caseosa (caseum). Se il granuloma si circonda di una capsula fibrosa e il caseum va incontro a fibrosi e calcificazione (“closed cavity” o tubercoloma), i micobatteri possono venire uccisi o permanere in uno stato “dormiente”, caratterizzato, fra gli altri, dalla difficoltà di Mtb di replicarsi nei terreni di coltura. A questo proposito vanno ricordati alcuni studi pionieristici condotti fin dagli anni ’50 su campioni biologici ottenuti dopo resezione chirurgica del polmone in pazienti trattati con terapia anti-TB8; in queste ricerche i bacilli alcool-acido resistenti venivano osservati all’esame microscopico delle sezioni polmonari ma non dopo coltivazione per 3-8 settimane in terreno liquido o solido. La discrepanza tra microscopia e colture era particolarmente evidente nei materiali ottenute da cavità chiuse ma non da quelle aperte, dalle quali i micobatteri crescevano normalmente9-10. Prolungando l’incubazione delle colture da 8 settimane fino a 8-10 mesi era però possibile evidenziare la crescita di colonie anche dalle cavità chiuse dimostrando l’esistenza di poche cellule di Mtb in grado di sopravvivere alla terapia e al sistema immunitario e di causare la riattivazione della malattia. In ricerche molto più recenti sono state confermate queste osservazioni. Ad esempio nell’articolo del 2004 di Ulrichs e colleghi sui resecati polmonari le cavità chiuse (tubercolomi) vengono descritte nei casi di TB non progressiva in cui i pazienti, pur avendo un esame batteriologico e colturale negativo dell’espettorato albergano nel polmone sia batteri non coltivabili nei terreni di coltura solidi (dormienti), che batteri coltivabili (103-107 CFU/gr di polmone); tali lesioni erano state individuate mediante chirurgia esplorativa in pazienti asintomatici o trattati con farmaci anti-TB6. Nella forma progressiva (TB polmonare contagiosa) si avevano invece esame batteriologico e colturale positivo dell’espettorato e cavità 8 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 polmonari aperte con molti batteri coltivabili (104-109 CFU/gr di polmone). Lo studio di Ulrichs e colleghi è interessante anche perché mette in relazione la non progressione verso la TB polmonare con la buona vascolarizzazione del parenchima intorno ai granulomi6. Mentre le cavità aperte presentano scarsa vascolarizzazione dell’infiltrato periferico, i tubercolomi hanno una parete ben organizzata e sono circondati da un tessuto molto vascolarizzato, con una risposta imunitaria maggiore dì quella osservata nel caso delle lesioni aperte. Tale attività è concentrata in strutture follicolari (“active follicle-like centres”, contenenti linfociti T CD4+ e CD8+, linfociti B e macrofagi) adiacenti al granuloma iniziale che determinano un “cross-talk” cellulare potente e continuo tra Mtb e sistema immunitario6. Ciò è forse quello che accade nel 95% degli individui con LTBI che non si ammalano, indicando che il sistema immune dell’uomo (a differenza di quello di alcuni animali di laboratorio quali il topo e la cavia, che fanno poca e troppa caseosi, rispettivamente) è sensibile all’infezione ma molto resistente alla malattia tubercolare. Secondo l’interpretazione di Ulrichs e colleghi il granuloma post-primario può diventare una specie di campo di battaglia abbandonato mentre la battaglia immunologica vera e propria avverrebbe soprattutto in queste strutture follicolari satelliti, anch’essi contenenti micobatteri6. Non è chiaro però se i due tipi di lesione, chiusa o aperta, rappresentino stadi patologici distinti presenti nei pazienti con LTBI o TB attiva, rispettivamente, o se entrambi i tipi coesistono nel polmone dello stesso paziente con TB polmonare. Nell’uomo la formazione della necrosi richiede una grandezza minima del granuloma di 0.1 mm3. Nel lavoro di Ulrichs e colleghi si è visto che il rapporto tra il volume del mantello linfocitario e della necrosi centrale dei granulomi è elevato nei granulomi piccoli e tende a 1 in quelli grandi (≥ 20 mm3)6. Questo significa che l’espansione del granuloma è dovuta ad un incremento della necrosi centrale a spese dello strato linfocitario periferico contenente linfociti T CD4+ e CD8+. Il ca- seum contenuto all’interno dei granulomi è un materiale instabile e, se il granuloma si trova in vicinanza di una ramificazione bronchiale ricca di ossigeno tende a liquefare ed a riversare i micobatteri nell’albero bronchiale lasciando delle cavità vuote, le cosiddette caverne tubercolari. Come conseguenza di questo processo di svuotamento Mtb viene espulso nell’ambiente esterno con l’espettorazione, la tosse, lo sternuto o il semplice parlare e, diffondendosi nell’aria, può essere inalato dalle persone che entrano in contatto con il malato. Il micobatterio espulso dalle cavità “aperte” del paziente bacillifero rimane sospeso nell’aria per molto tempo nei cosiddetti “droplet nuclei” e può sopravvivere per anni in ambienti chiusi, contribuendo alla trasmissione per via aerea della TB da un individuo ad un altro. Ma dove si trovano esattamente i micobatteri dormienti? In studio del 2007 Lenaerts e colleghi hanno mostrato che in cavie infettate con Mtb e trattate con un potente farmaco anti-TB in fase sperimentale (R207910) i pochi micobatteri sopravvissuti (“persisters”) sono extracellulari e si trovano in strato acellulare ipossico con una pressione parziale <10 mm/Hg (dimostrata mediante colorazione con pimonidazolo, un marker di anaerobiosi) compreso tra il centro caseoso del granuloma e il mantello linfocitario; non ci sono invece micobatteri nella parte centrale calcificata11. Anche Ulrich e colleghi, usando un anticorpo anti-M.bovis BCG, hanno osservato che Mtb si trova nella parte esterna del centro necrotico dei granulomi e nelle strutture follicolari adiacenti al granuloma iniziale, mentre il centro necrotico iniziale è sterile6. Ancora una volta questi studi non fanno che confermare osservazioni pubblicate fin dall’era pre-antibiotica quali ad esempio il lavoro del 1927 di Opie e Aronson in cui in 169 pazienti deceduti per cause diverse dalla TB, campioni ottenuti dal 76% di lesioni fibrocaseose degli apici polmonari (e solo il 29% da lesioni fibrocalcificate e il 50% da quelle fibrocaseose calcificate) causavano TB nelle cavie12. Questo lavoro è particolarmente interessante perché mostra che anche il tessuto polmonare L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente “normale” (senza TB della base, apici o linfonodi bronchiali) contiene Mtb, come dimostrato dal fatto che il 25-36% delle cavie inoculate con materiali bioptici di “pazienti normali” si ammalavano di TB. Dopo 73 anni dalla pubblicazione di questo lavoro, nel 2000 anche Hernandez-Pando e colleghi, mediante PCR in-situ hanno trovato il DNA di Mtb nel 35% di campioni necroscopici di tessuto polmonare “normale” prelevato da abitanti di paesi ad alta endemia tubercolare deceduti per cause diverse da TB 13. In particolare, il DNA di Mtb è stato ritrovato non solo in macrofagi alveolari e interstiziali ma anche in altre cellule quali pneumociti di tipo II, cellule endoteliali, fibroblasti. Ad ulteriore sostegno della tesi che Mtb “dormiente” possa essere presente nei tessuti senza dare patologia non solo a livello extracellulare intorno al caseum dei granulomi ma anche in fagociti non professionisti ci sono le recenti osservazioni del 2006 di Neyrolles e colleghi i quali hanno mostrato mediante PCR in situ che il DNA di Mtb è presente nel tessuto adiposo di rene, linfonodi, peritoneo, mediastino cuore e pelle in pazienti deceduti per cause diverse dalla TB14. In modelli di infezione ex vivo, questi autori hanno osservato che Mtb persiste in uno stato non replicativo in adipociti di topo coltivati in laboratorio. Dato che il tessuto adiposo costituisce fino al 25% del peso corporeo dell’uomo si comprende come la persistenza di Mtb in tessuti diversi dal polmone possa essere molto importante per l’acquisizione di conoscenze e interventi completamente nuovi sulla LTBI. Dormienza e resuscitazione di Mtb Mtb può rimanere per decenni nei tessuti in uno stato di “dormienza” o persistenza non replicativa (nonreplicating persistence, NRP) e questa sua capacità di resistere al sistema immune e ai farmaci rappresenta la causa più importante della durata incredibilmente lunga della terapia anti-TB e dell’incapacità, a distanza di 65 anni dalla scoperta della streptomicina, di eradicare questa malattia così temibile per l’uomo. Si pensa che i fattori 9 che determinano la “dormienza” possano essere molteplici tra cui variazioni di pH, ipossia, carenza di nutrienti. Il tessuto necrotico ha un pH di circa 6,5, ottimale per la crescita di Mtb15. Altre sostanze che potrebbero indurre la “dormienza” sono l’anidride carbonica, che aumenta l’effetto micobattericida dell’anaerobiosi, e l’ossido nitrico, prodotto dai macrofagi attivati da citochine di tipo Th1, in particolare IFN-γ15. Un denominatore comune della necrosi caseosa è però l’ipossia. Mtb è un microorganismo tipicamente aerobio ma la diminuzione improvvisa della pressione di questo gas è letale per questo germe a meno che la diminuzione non avvenga in maniera graduale15. In questo modo il bacillo tubercolare passa lentamente, come probabilmente avviene in vivo, da una condizione aerobia e replicativa ad una microaerofila/anaerobia e non replicativa adattando le sue strutture a persistere per decenni nei tessuti dei pazienti con LTBI. Nell’uomo non esistono dati sulla pressione parziale di ossigeno nei granulomi tubercolari, ma per fortuna negli animali si hanno maggiori conoscenze. Nel 2008 Via e colleghi hanno pubblicato un lavoro in cui veniva determinata la pressione di ossigeno in topi, cavie, conigli e scimmie infettati con Mtb sia misurandola direttamente nei granulomi con una microsonda, che trattando gli animali con pimonidazolo, un marker di anaerobiosi usato nelle ricerche sui tumori16. Da queste osservazioni si è visto che mentre i granulomi del topo sono poco ipossici, quelli del coniglio (0,1-5 mm di diametro) lo sono molto di più, così come quelli della cavia e della scimmia. In particolare, la pressione parziale di ossigeno nel tessuto normale o infettato del coniglio è circa 60 mm/Hg, mentre nel granuloma è 2 mm/Hg. Per contro la pressione di ossigeno nel granuloma del topo è relativamente elevata (37 mm/Hg) indicando che questo animale non è adatto per studi sull’ipossia nella TB. Sono stati pubblicati vari lavori sulla possibilità di preparare in laboratorio Mtb “dormiente” in varie condizioni quali quelle indotte da anaerobiosi stretta (atmosfera di azoto), mancanza di nutrienti (trasferimento dei batteri in tampone 10 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 fosfato), fase stazionaria, esposizione a ossido nitrico, ma il metodo più noto è sicuramente il metodo descritto da Lawrence Wayne, un ricercatore statunitense che fin dagli anni ‘60 si era dedicato a studi sulla fisiologia e la biochimica di Mtb in differenti condizioni di crescita17. Nel 1996 Wayne e Hayes descrissero il protocollo per la preparazione di Mtb “dormiente” in terreno liquido coltivando il germe in provette agitate con un magnetino e con il tappo perfettamente chiuso17. In queste condizioni la pressione di ossigeno nelle colture diminuisce gradualmente a causa della moltiplicazione del germe fino a raggiungere una condizione in cui le cellule non si replicano più. Il batterio entra in una prima fase non-replicativa microaerofila che Wayne chiama (nonreplicating persistance) NRP-1, quando la concentrazione di ossigeno è pari a circa l’1%, seguita da una seconda fase, anaerobia o NRP-2, quando l’ossigeno è ≤ 0,06%. Le cellule in fase NRP-1 (3-5 giorni dopo l’inoculo) sono caratterizzate da varie modificazioni strutturali e metaboliche tra cui: i) inibizione della replicazione cellulare e del DNA; ii) ispessimento della parete cellulare dovuto alla iperproduzione della proteina α-cristallina; iii) aumento di isocitrico liasi, un enzima che determina la produzione di ATP a partire dagli acidi grassi attraverso lo shunt del gliossilato quando il germe non può usare il ciclo di Krebs per mancanza di glucosio; iv) uso dei nitrati al posto dell’ossigeno come accettori di elettroni per la produzione di ATP, confermato dall’aumentata sintesi di nitrato reduttasi e trasportatori di nitrato/nitrito7, 17. Una delle caratteristiche più importanti della fase NRP-2 (10-12 giorni dopo l’inoculo) è la sensibilità a farmaci quali il metronidazolo, un farmaco che in microorganismi anaerobi come Giardia intestinalis viene attivato dalla piruvato ferredoxin ossidoreduttasi (PFOR), un enzima che lo trasforma in radicali liberi in grado di danneggiare il DNA del microrganismo7, 18 . Non è noto se il metronidazolo funzioni nello stesso modo in Mtb anche se è stato osservato un aumento dei messaggeri di Rv2554c e Rv2455c, due geni con por- zioni di sequenza simili alle subunità di PFOR18. Le cellule NRP2 sono resistenti a isoniazide e ciprofloxacina e parzialmente sensibili a rifampicina. Wayne ha descritto un effetto sinergico tra rifampicina e metronidazolo17. Dati recenti hanno mostrato che le fasi molto tardive delle colture dormienti (26 giorni dall’inoculo) vengono sterilizzate in vitro da rifampicina più metronidazolo17. È difficile confrontare la pressione parziale del granuloma tubercolare del coniglio (2 mm Hg) con la percentuale di ossigeno presente nel terreno di coltura di Wayne (Dubos Medium Albumin) per le fasi NRP1 e 2 (0,1 e 0,06%, rispettivamente)16. Via e colleghi hanno però osservato che in conigli infettati con Mtb e trattati con metronidazolo (20 mg/kg, 2 volte al giorno) o rifampicina (10 mg/kg, 1 volta al giorno) per 28 giorni, il numero delle unità formanti colonia (CFU, colony forming units) diminuisce di circa 1 log10 in entrambi casi, dimostrando che i) il metronidazolo funziona in vivo in un modello di TB molto simile a quello dell’uomo, e che ii) la fase NRP2 descritta da Wayne (in cui funziona il metronidazolo) mima una situazione in vivo in cui il farmaco agisce bene16. Gli stessi autori hanno trovato che il trattamento di colture NRP2 con 7.5 ug/ ml di metronidazolo per 7 giorni determina un calo di 1,3 log10 nel numero delle CFU in vitro, similmente a quello visto nel coniglio. La possibilità che il metronidazolo possa avere un futuro come farmaco per la profilassi della LTBI nell’uomo in sostituzione dell’isoniazide resta però del tutto aperta. Purtroppo il metronidazolo si è dimostrato inefficace nel topo (come atteso) e, recentemente, nella cavia; in quest’ultimo caso il metronidazolo era addirittura tossico quando somministrato in combinazione con rifampicina + isoniazide + pirazinamide19. Maggiori informazioni sulla possibilità di usare il metronidazolo nell’uomo dipenderanno dai risultati di un trial in corso in Corea su 60 malati di TB MDR trattati con metronidazolo e farmaci di seconda scelta. L’ipossia ed altri segnali inducono in Mtb l’attivazione di una cascata di eventi controllati da un regulone specifico (regulone della dormienza) che comprende L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente 48 geni tra cui un regolatore (DosR) e due sensori, DosS (sensore redox) e DosT (sensore di ipossia), questi ultimi presenti nella parete cellulare del batterio20. In esperimenti in vitro si è visto che la diminuzione della pressione di ossigeno e l’aumento di ossido nitrico (NO) e/o di ossido di carbonio (CO) attivano DosS e/o DosT. Questi segnali vengono trasmessi al regolatore intracellulare DosR che attiva i 48 geni del regulone della dormienza. Tra gli eventi maggiormente caratterizzanti il programma di dormienza, oltre a quelli già citati, va ricordata la capacità di Mtb “dormiente” di overesprimere diacilglycerol aciltransferase e accumulare vacuoli contenenti trigliceridi come riserve di energia, similmente agli animali che vanno in letargo. In linea con queste osservazioni, le colture “dormienti” che hanno accumulato trigliceridi, se sottoposte ad affamamento sintetizzano una lipasi codificata dal gene lipY molto efficiente nell’idrolizzare queste sostanze ad acidi grassi21. Questi vacuoli sono stati osservati anche da Neyrolles e colleghi all’interno degli adipociti e suggeriscono che il tessuto adiposo può essere un ambiente privilegiato per la persistenza di Mtb nell’uomo14. Ovviamente le colture ipossiche di Wayne sono un modello con cui mimare in laboratorio la risposta di Mtb all’ipossia. Questo modello è però utile anche per capire come fa il batterio “dormiente” a “resuscitare”, ovvero a causare la riattivazione da LTBI a TB attiva; ciò è possibile semplicemente aprendo il tappo delle provette ipossiche e studiando le caratteristiche fenotipiche e genotipiche della ricrescita a vari tempi, ma al momento sono pochissimi i ricercatori che hanno intrapreso questi studi. Conoscere meglio la biologia della resuscitazione sarebbe sicuramente importante anche per lo studio di nuovi farmaci e vaccini22. Mtb produce cinque proteine della resuscitazione codificate da altrettanti geni (rpf A-E) ed uno di queste proteine (rpf B) ha proprietà simili ai lisozimi e alle transglicosilasi solubili, enzimi coinvolti nella idrolisi del peptidoglicano della parete cellulare. Le proteine della resuscitazione vengono prodotte da molti 11 microrganismi e sono state studiate particolarmente in Micrococcus luteus, che ne secerne una sola. In base al confronto delle sequenze nucleotidiche di proteine della resuscitazione di vari batteri, rpf C e D di Mtb potrebbero essere proteine secrete mentre le altre tre potrebbero essere legate al peptidoglicano della cellula produttrice. Le proteine della resuscitazione agiscono a concentrazioni picomolari e, similmente alle citochine delle cellule eucarotiche, agiscono come segnali intercellulari; se una cellula viene “svegliata” secerne queste proteine in modo da svegliare altre cellule. Non si sa se il peptidoglicano delle cellule dormienti abbia una struttura diversa da quello delle cellule vegetative; si pensa ad esempio che le proteine della resuscitazione possano agire sul macchinario proteico che regola il setto del micobatterio dormiente inducendo così il germe a riprendere la divisione cellulare quando la pressione di ossigeno aumenta. Al momento non si hanno informazioni né sui sensori né sui messaggeri intracellulari che avviano la ricrescita. Perché la terapia antitubercolare è così lunga? La lunga durata della terapia anti-TB è dovuta a vari fattori tra cui l’enorme numero di batteri presenti nelle pareti delle caverne tubercolari (fino a 1011 CFU/gr) e la recalcitranza con cui Mtb si oppone all’azione sterilizzante degli antibiotici23. Per quanto riguarda il primo punto è noto che le caverne possono contenere mutanti di resistenza spontanea (1/106 e 1/108 per isoniazide o pirazinamide e rifampicina, rispettivamente) che obbligano a trattare il paziente con molti farmaci. L’assunzione di farmaci singoli porta infatti allo sviluppo di ceppi resistenti a causa della formazione di mutazioni in geni bersaglio specifici quali ad esempio katG e inhA per isoniazide, rpoB per rifampicina, pncA per pirazinamide. A ciò si aggiunge il fatto che Mtb cresce molto lentamente (circa un giorno per ogni ciclo di replicazione e tre settimane per la crescita di colonie in terreno solido) per cui anche i farma- 12 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 ci maggiormente battericidi (isoniazide e rifampicina) impiegano settimane per negativizzare la coltura dell’espettorato nei pazienti con TB polmonare. Occorre inoltre ricordare una certa peculiarità d’azione dei farmaci anti-TB. Così ad esempio streptomicina e isoniazide uccidono soprattutto cellule in attiva replicazione, rifampicina uccide quelle a crescita lenta, pirazinamide solo cellule a lenta moltiplicazione e a pH acido; etambutolo è invece un farmaco batteriostatico. Per tutte queste ragioni si comprende perchè occorre usare quattro farmaci nei primi due mesi e due farmaci nei quattro mesi successivi. Questa terapia incredibilmente lunga per una malattia batterica (paradossalmente nota come “Short Course Chemotherapy) è però molto efficace nel controllare la TB e, se seguita pedissequamente dai pazienti, non determina fallimenti terapeutici significativi. Purtroppo in molti paesi in via di sviluppo in Asia, Africa e ex Unione Sovietica i farmaci non vengono assunti per periodi così lunghi per varie ragioni (problemi economici, discontinuità nelle disponibilità dei farmaci, scarsa compliance da parte dei pazienti) determinando così lo sviluppo di ceppi con un elevato numero di resistenze (TB MDR e XDR)1-2. Oltre a questi motivi occorre però ricordare che la causa più importante per comprendere a fondo la lunga durata della terapia antitubercolare è la grande refrattarietà di alcune sottopopolazioni di Mtb agli antibiotici23. Gli studi più recenti tendono infatti a far ritenere che anche in questo microrganismo esistano cellule specializzate a persistere (persisters) ovvero cellule genotipicamente sensibili ma fenotipicamente resistenti (tolleranti) ai farmaci23. L’esposizione ai farmaci determina l’arricchimento in persisters all’interno di una popolazione. Tale fenomeno non è nuovo in microbiologia. La resistenza fenotipica in vivo è infatti una delle cause maggiori di cistiti da Escherichia coli o endocarditi da Staphylococcus aureus23. In E.coli sono stati descritti persisters di tipo I e II24. I persisters di tipo I sono una popolazione preesistente di cellule non replicanti generate nella fase stazionaria, quelli di tipo II sono rare cellule della fase logaritimica che passano spontaneamente dalla fase di crescita normale alla non crescita o ad una crescita lentissima. Resta da capire se i persisters abbiano o meno un metabolismo sia pur lentissimo, magari limitato a pochi geni, perché questo potrebbe essere utile per la ricerca di nuovi farmaci e vaccini. Studi recentissimi su singole cellule di E.coli hanno dimostrato un periodo di vulnerabilità agli antibiotici in persisters di tipo I25. Per quello che concerne Mtb è stato visto che persisters ottenuti per esposizione di sedimenti di colture di 100 giorni (fase stazionaria) ad alte concentrazione di rifampicina (100 µg/ml) sono coltivabili in brodo ma non in agar, ed esprimono rRNA 16S e mRNA di vari geni26. Il pensiero prevalente è che i persisters di Mtb respirino senza replicarsi7. Molti studi sono in corso allo scopo di identificare i geni implicati nella persistenza, allo scopo di caratterizzare bene questo stato basale di sopravvivenza che rende così difficile l’eradicazione della TB. I persisters di altri microorganismi possono formare biofilms, come ad esempio Pseudomonas aeruginosa nel caso della fibrosi cistica23. Anche nel caso della LTBI si comincia a pensare che le cellule “dormienti” presenti nelle lesioni tubercolari possano essere incluse in qualche forma di biofilm. Recentemente è stato dimostrato che Mtb forma biofilms contenenti acidi micolici (alcuni dei costituenti maggiori della parete micobatterica) dei quali ci sono cellule tolleranti ai farmaci27. Non si sa se Mtb possa produrre biofilms in vivo, ma questa è un’ipotesi proposta recentemente da Lenaerts e colleghi per spiegare il fatto che solo 46 micobatteri su 223000 venivano ritrovati in un’area ipossica intorno al centro caseoso dei polmoni di cavie trattate per 28 giorni con R207910, un potente farmaco anti-TB in corso di sperimentazione clinica11. È possibile che se i “dormant persisters” sono extracellulari ma si trovano all’interno di una matrice costituita da acidi micolici o trigliceridi (come nel caso degli adipociti) diventerà difficile stanarli. Sappiamo però che non sono come le spore ma hanno un minimo di metabolismo e questo potrebbe essere il loro tallone L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente di Achille. Occorrerebbe pertanto trovare nuovi farmaci e/o combinazioni di farmaci in grado di uccidere in tempi ragionevoli in vitro e in vivo tutte le fasi biologiche di Mtb, aerobiche, ipossiche, persistenti28. Per il momento è noto che un certo numero di farmaci hanno un certa attività sia pure parziale sulle cellule generate nel modello in coltura ipossica di Wayne. Tra questi ricordiamo sia farmaci già in uso per la TB o altre malattie quali rifampicina, rifabutina, moxifloxacina, amikacina, capreomicina, metronidazolo, clofazimina, tioridazina, econazolo, niclosamide, o nuovi farmaci alcuni dei quali in studi di fase 1 quali PA-824 o R207910, ma resta da vedere la loro attività perlomeno in modelli di infezione nell’animale29-30. Paradossalmente, l’isoniazide che viene usata da decenni per il trattamento profilattico della LTBI è inattiva verso le colture ipossiche17. Tuttavia questo farmaco, se assunto per 9 mesi è in grado di impedire la riattivazione della LTBI in circa il 90% degli individui tubercolino-positivi a rischio di riattivazione; una possibile spiegazione è che l’isoniazide (che lisa i bacilli in attiva replicazione) uccida i micobatteri dormienti che escono dal centro caseoso e che cercano di moltiplicarsi. Occorre però considerare che come nel caso della terapia della TB, la terapia della LTBI è lunghissima e che pochi pazienti assumono veramente l’isoniazide per 9 mesi, come raccomandato dalle norme statunitensi. Un’alternativa all’isoniazide è l’assunzione di rifampicina per quattro mesi, soprattutto nel Regno Unito. È pertanto urgente individuare terapie alternative allo scopo, idealmente, di trattare rapidamente sia TB attiva che LTBI, per eradicare tutte le forme biologiche di Mtb. Per quanto al momento questo sembri impossibile dobbiamo considerare un fattore a nostro favore ovvero il fatto che, se si escludono i casi di tubercolosi bovina, il serbatoio di Mtb è nell’uomo stesso mentre in altre malattie infettive il reservoir microbico è quasi sempre nell’ambiente, rendendone praticamente impossibile l’eradicazione. Da queste considerazioni si comprende come l’acquisizione di nuove conoscenze sulla dormienza di Mtb intesa sia come 13 stato non replicativo in condizioni di bassa tensione di ossigeno (microaerofila e anaerobia) che come difesa fenotipica verso gli antibiotici (persisters) possa costituire una nuova frontiera per il miglior controllo della TB, una delle cause di mortalità più importanti nei paesi poveri. Bibliografia 1. World Health Organization. The WHO/IUATLD Global Project on Anti-Tuberculosis Drug Resistance Surveillance. Anti-tuberculosis drug resistance in the world. Report No. 3. World Health Organization Document WHO/CDS/ TB/2004; 343: 1-129 2. Fattorini L, Migliori GB, Cassone A. Extensively drug-resistant (XDR) tuberculosis: an old and new threat. Ann Ist Super Sanità 2007; 43: 317-9 3. Fattorini L. Strategies for the development of new tuberculosis vaccines. Minerva Med 2007; 98: 109-19 4. Cardona PJ, Ruiz-Manzano J. 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Lanfranco Fattorini Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate Istituto Superiore di Sanità, Viale Regina Elena 299, 00161 Roma e-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 Articolo originale TRAPIANTO DI FEGATO: ASPETTI MICROBIOLOGICI ED INFETTIVOLOGICI LIVER TRANSPLANTATION: MICROBIOLOGIC AND INFECTIOUS FEATURES FRANCESCO BELLI Laboratorio Microbiologia e Virologia Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: HBV. HCV. Rigetto. Recidiva Key words: Hepatitis B Virus. Hepatitis C Virus. Rejection. Relapse Riassunto: Il trapianto di fegato è ormai considerato una procedura basilare per affrontare quadri di insufficienza epatica, acuta o cronica, in fase terminale. Le indicazioni più frequenti nell’adulto sono rappresentate dalle epatopatie croniche cirrogene HCV correlate e, da alcuni anni, dopo l’introduzione di nuove strategie di gestione immunologica e terapeutica, anche dalle forme HBV correlate. La scelta del momento ottimale in cui intervenire è uno step fondamentale nella fase decisionale pre-trapianto, cui concorrono numerosi specialisti, ognuno con le proprie competenze. In quest’ambito microbiologo e infettivologo svolgono un ruolo importante: 1) valutando indicazioni e controindicazioni nell’inserimento dei pazienti in lista di trapianto; 2) nella gestione delle complicanze infettive opportunistiche post-trapianto; 3) nella prevenzione e gestione delle reinfezioni o recidive della malattia di base. Abstract: Liver transplantation is now a fundamental surgical intervention to treat acute or chronic hepatic insufficiency in last stage. The most frequent indications in adults are HCV-related chronic cirroghenic liver diseases and, in the last years, with the introduction of new immunologic and therapeutic procedures, also in HBV-related diseases. The choice of optimum time to transplant is a fundamental step in pre-transplant determination phase: several specialists contribute with their competences. In this sphere microbiology and infectious disease specialists have an important role: 1) to asses indications and controindications for patient introduction in transplant list; 2) to manage the opportunistic infections after transplantation; 3) to prevent and manage the reinfections and relapses of primary disease. Introduzione La sostituzione del fegato originale, malato, con un organo sano si è trasformata, da procedura sperimentale riservata a pazienti terminali, in intervento che può salvare la vita, anche precocemente: indi- spensabile è la scelta ottimale della fase in cui intervenire, nella storia naturale dell’epatopatia. L’approccio preferito e tecnicamente più avanzato è il trapianto ortotopico, nel quale l’organo nativo viene rimosso e quello del donatore inserito nella stessa sede 16 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 anatomica. Poco utilizzato è il trapianto eterotopico, in cui il fegato del donatore viene trapiantato senza che venga rimosso quello del malato: richiede, in attesa di trapianto, la perfusione extracorporea con fegato bioartificiale. Sperimentali sono il trapianto di epatociti e lo xenotrapianto (organo non umano geneticamente modificato). Nonostante la morbilità e la mortalità peri e post-operatorie ancora apprezzabili, le difficoltà tecniche e di gestione e i costi, il trapianto di fegato è divenuto una procedura medico-chirurgica di scelta in pazienti selezionati con epatopatia cronica o acuta rapidamente progressiva, associata a prognosi infausta e refrattaria alle terapie convenzionali. La storia del trapianto di fegato inizia negli anni ’60 del secolo passato, precedendo di poco quella relativa ai trapianti di cuore, ma con una risonanza di gran lunga inferiore a questi ultimi: mentre i cardiochirurghi occupavano le prime pa- gine dei giornali e i titoli d’apertura dei notiziari radiotelevisivi, divenendo popolari al pari dei divi del cinema, i pionieri del trapianto di fegato lavoravano spesso nell’anonimato e lontano dalla cassa di risonanza dei mass-media: anzi, tanto dalla comunità scientifica quanto dai non addetti ai lavori il trapianto di un viscere quale il fegato era visto ora con scetticismo, ora con sufficienza, talora con disgusto. Il retaggio di ancestrali credenze popolari e religiose su quest’organo ha sopravvissuto a lungo nella cultura e nei comportamenti di alcune popolazioni: come non ricordare che per gli antichi egizi il fegato era la sede dell’anima1, ove avveniva la comunicazione tra mondo spirituale e fisico (non a caso era conservato, dopo eviscerazione del defunto, in un canopo, l’unico a testa umana, protetto da Imesty, figlio del grande Horo – Fig.1 -), oppure che gli etruschi e i primi romani dal fegato o da sue copie bronzee traevano auspici per la vita sociale e religiosa2: sono esempi di credenze e antiche saggezze che oggi, a noi occidentali smaliziati e talora “ignoranti” del passato ci fanno sorridere, ma che hanno a lungo influenzato soprattutto le culture orientali e pertanto non deve sorprenderci il distacco o persino la negazione di una pratica medico-chirurgica che oggi si sta affermando in quei contesti che andremo a discutere. Il primo trapianto di fegato nell’uomo fu effettuato nel 1963 a Denver da Thomas Starlz3, ma ci vollero diversi anni per ottenere risultati clinici soddisfacenti con una medio-lunga sopravvivenza dopo trapianto. In Europa i primi interventi risalgono al 1968 in Gran Bretagna e da allora la pratica si è diffusa dapprima agli altri paesi occidentali, quindi in Giappone e Asia, da ultimo ai paesi del- Fig. 1 - Tomba di Aye: i guardiani ei visceri reali, tra cui il fegato. Tebe, Valle dei Re F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici l’est europeo; in Italia il primo trapianto è stato effettuato nel 1982, a metà degli anni ’90 i centri abilitati erano 8, oggi sono più di 20, diffusi prevalentemente al centro-nord. Il centro di riferimento a livello internazionale è quello di Pittsburgh, fondato e intitolato allo stesso Starlz. Fra il 1968 e il 2006 sono stati eseguiti in Europa oltre 65.000 trapianti di fegato, con una crescita costante fino al 20024: da quell’anno le statistiche denunciano un decremento che nel 2007 è stato anche in Italia di circa il 3%; se è vero che alcuni protocolli e criteri di inserimento dei pazienti sono stati rivisti o sono in via di revisione, è soprattutto da ascrivere alla difficoltà di reperire organi idonei per il trapianto, problema condiviso da numerosi paesi, la flessione evidenziata nell’ultimo quinquennio. In Italia dai 200 trapianti l’anno effettuati agli inizi degli anni ’90 si è passati ai 1089 del 2006 e ad un decremento del 3,3% nel 20075. Attualmente il decorso post-operatorio dei trapiantati di fegato ha un andamento sovrapponibile a quello di altri organi, con una morbilità e mortalità elevate nei primi 12 mesi, ove si perde circa il 30% dei pazienti, per complicanze infettive, rigetto o problematiche connesse a reinfezione o recidiva della malattia di base (*); ricordiamo che negli anni ’70-’80 a 12 mesi dal trapianto la sopravvivenza non superava il 40%. Dopo un anno le curve di sopravvivenza si stabilizzano e si registra il 74% di trapiantati viventi al quarto anno (e l’82% di questi lavorano o sono in condizione di farlo), il 67% al quinto e diversi casi a 10 o più anni dall’innesto. Tutto questo è dovuto al miglioramento delle tecniche di supporto intensivistiche ed anti-infettive, all’affinamento delle tecniche chirurgiche e della conservazione degli organi, al miglioramento delle metodiche di controllo del rigetto, (*) La reinfezione è un evento praticamente “universale” che si verifica entro il primo mese dal trapianto; la recidiva si osserva invece nel 50-70% dei trapiantati fino a due anni. Tuttavia, specie dagli Autori inglesi, i due termini sono spesso usati indifferentemente o è preferita in ogni caso la dizione di recidiva. 17 alla selezione del paziente e alla scelta del momento ottimale del trapianto. Oggi l’indicazione al trapianto di fegato6 è posta per numerose forme di insufficienza epatica cronica in fase terminale (malattie colestatiche croniche, cirrosi postepatitiche, cirrosi post-alcoolica, malattie metaboliche, cirrosi criptogenetiche, carcinoma epatocellulare, in casi limitati) e per forme selezionate di epatite fulminante. L’indicazione più frequente, attualmente, nell’adulto è rappresentata dalla cirrosi epatica HCV-relata e l’introduzione di nuove strategie di gestione immunologia e terapeutica (Ig anti-HBV) nelle forme HBV-relate ha modificato in positivo il trend di risultati anche in questi pazienti, fino a poco tempo fa o non trattati con il trapianto o solo in pochi centri e casi limitati. Il numero di pazienti elegibili per trapianto (a fronte della cronica difficoltà di reperire organi idonei) e lo sviluppo dei centri autorizzati per numero e per attività è in continuo progresso. Negli ultimi anni, per far fronte alla grande sproporzione tra la disponibilità di organi trapiantabili ed il sempre più elevato numero di pazienti inseriti in lista d’attesa, sono stati sviluppati due nuovi approcci7: da una parte vi è stata una revisione dei criteri di utilizzo di organi che prima venivano scartati a priori in quanto non standard (per età, instabilità emodinamica, quadro infettivologico, parametri biochimici) e talora utilizzabili in casi particolari, controllati e selezionati, dall’altra è stata perfezionata e sempre più utilizzata la tecnica chirurgica del prelievo e successivo innesto di una parte di fegato da donatore vivente. La scelta del momento più adatto per eseguire il trapianto è d’importanza critica: secondo Dienstag8, l’abbinamento tra la scelta ottimale della fase di malattia in cui eseguire il trapianto e la selezione dei pazienti, ha contribuito a migliorare i risultati del trapianto stesso più della combinazione di tutti i miglioramenti tecnici ed immunologici. Tale scelta richiede una valutazione coordinata tra epatologi, chirurghi, anestesisti, specialisti dei servizi di supporto, infettivologi, microbiologi ed immunologi. 18 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Tabella 1 - Principali indicazioni attuali al trapianto di fegato Tabella 2 - Controindicazioni al trapianto di fegato BAMBINI Atresia delle vie biliari Epatite neonatale Fibrosi epatica congenita Malattia di Alagille Malattia di Byler Deficit di alfa-1-antitripsina Fibrosi cistica Malattie ereditarie del metabolismo: – Malattia di Wilson – Tirosinemia – Glicogenosi – Malattie da accumulo lisosomiale – Protoporfiria – Malattia di Crigler-Najjar tipo I – Ipercolesterolemia familiare – Ossalosi ereditaria – Epatite trasfusionale e insufficienza epatica negli emofilici ASSOLUTE Malattia epatica grave con importante interessamento multiorgano AIDS Neoplasie non epatobiliari Cardiopatie, pneumopatie severe Colangiocarcinoma Infezione epatobiliare non controllata Sepsi non trattata o non responder alla terapia Anomalie congenite non curabili che limitano la durata di vita Abuso di alcool o droghe Metastasi epatiche Malattie sistemiche ADULTI Cirrosi biliare primitiva Cirrosi biliare secondaria Colangite sclerosante primitiva Malattia di Caroli Cirrosi criptogenetica Epatite cronica attiva con cirrosi Sindrome di Budd-Chiari Epatite fulminante (non l’epatite acuta alcoolica) Cirrosi alcoolica Epatite virale cronica Casi selezionati di neoplasie epatocellulari primitive Adenomi epatici Nelle tabelle n. 1 e 2 abbiamo illustrato le principali indicazioni e controindicazioni, al momento attuale, al trapianto di fegato; trattasi di una materia in continuo divenire: tra le prime, il trapianto viene attuato con successo in patologie pediatriche, per quanto rare, come malformazioni congenite o malattie metaboliche e tesaurismosi, a prognosi infausta. Nell’adulto, come riferito, le epatiti croniche cirrogene da HCV (ed oggi anche da HBV) rappresentano i 2/3 dei casi avviati al trapianto; il rimanente è costituito da anomalie delle vie biliari o dei vasi e da forme limitate di neoplasie primitive. Sono soprattutto i criteri relativi alle controindicazioni che vengono continuamente rivisti, in base a nuovi parametri sociodemografici (aumento dell’età media della popolazione), nuove acquisizioni metaboliche e biochimiche, mutate condizio- RELATIVE Età > 60-65 anni, comunque in rapporto alla valutazione delle condizioni cliniche del paziente Gravi disturbi psichiatrici Trombosi dell’asse spleno-mesenterico-portale e della vena porta Ipertensione polmonare Precedenti interventi chirurgici a livello epatobiliare Insufficienza renale Precedenti neoplasie extraepatiche Obesità grave Stato di grave malnutrizione Non osservanza delle prescrizioni mediche Colangite Grave ipossiemia secondaria a shunt intrapolmonari destra-sinistra HIV+ (vedi testo) ni infettivologiche e nuovi approcci terapeutici. L’esempio più eclatante riguarda l’infezione da HIV: se l’AIDS conclamato rimane una controindicazione a qualsivoglia trapianto, nei soggetti coinfettati HIV-HCV, con epatopatia cronica rapidamente evolutiva verso l’insufficienza epatica e qualora il paziente risponda positivamente alla terapia antiretrovirale HAART con viremia HIV ridotta e controllata, il trapianto di fegato è oggi previsto ed anche in Italia è stato allestito un protocollo specifico; fra il 2002 e il 2006 23 sono stati i soggetti HIV+ trapiantati e 18 di questi sopravvivono a tutt’oggi9. In Europa, secondo i dati forniti dall’ European Liver Transplant Registry, la cirrosi epatica, perlopiù conseguente ad un’epatite virale cronica, costituisce la principale indicazione al trapianto (57%), seguita dall’insufficienza epatica acuta F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici post-epatitica o tossica (12%), dalle patologie colestatiche (12%), dai tumori epatici (11%) e dalle malattie metaboliche (4,5%). In Italia il 60% dei trapianti è realizzato per epatopatia terminale conseguente ad infezione virale: di questi, oltre i 2/3 per infezione da HCV, i rimanenti da HBV (avviata al trapianto solo negli ultimi anni) e, nel 4% dei casi, da coinfezione B+C. Epatite B e trapianto Le epatiti acute da HBV sono clinicamente rare e solo in casi eccezionali esitano in un trapianto di fegato: in un’indagine condotta dall’ “United State Acute Failure Study Group” fra il 1998 e il 2002 in 24 ospedali americani, su 467 casi di epatite acuta, solo 34 – 7,28% - erano da attribuire ad HBV; 9 ebbero una risoluzione spontanea, 7 un esito infausto, 18 furono trapiantati con una sopravvivenza ad oggi dell’ 80%10. In queste forme di epatite acuta HBV-correlata, negli USA, era predominante il genotipo D (Wai, 2005)11. Per quanto riguarda le ben più frequenti infezioni croniche, le forme osservabili nelle varie aree geografiche sono differenti, a causa della circolazione di diverse specie, ceppi e genotipi; in Italia nel 90% dei casi predominano forme HBeAg-, con livelli viremici contenuti perlopiù tra 104 e 108 copie/ml, indici di citonecrosi epatica fluttuanti, discontinui e non marcatamente persistenti, danno necroinfiammatorio da moderato a severo. Le restanti forme, HBeAg+, simili alle più diffuse epatiti croniche HBV-correlate osservabili in altre aree come quelle asiatiche, sono più aggressive: la carica viremica può raggiungere o superare le 1010 copie/ml, gli indici di citonecrosi persistentemente elevati, il danno necroinfiammatorio rilevante. Ricordiamo come nell’infezione da HBV i livelli di DNA virale circolanti correlano con la gravità della malattia. Nelle forme croniche avviate o meno al trapianto, gli obiettivi terapeutici sono diversi e possono essere così riassunti: 1) Soppressione o controllo durevole della replica virale, evidenziati dalla riduzione di HBV-DNA < 106 copie/ml e dalle sierocon- 19 versioni HBeAg→HBeAb e HBsAg→HBsAb; 2) Remissione della malattia epatica, segnalata dalla normalizzazione di ALT e dalla riduzione dello score necroinfiammatorio; 3) Miglioramento della prognosi, che si traduce in riduzione del rischio di sviluppare, a seconda dello stadio clinico, cirrosi, insufficienza epatica o epatocarcinoma nonché nel miglioramento della sopravvivenza e della qualità della vita (Antonucci, 200512). Predittori di una risposta clinico-terapeutica positiva sono l’abbassamento dei livelli sierici di HBV-DNA, il riscontro, con metodiche istochimiche nelle biopsie epatiche, di basse aliquote di HBcAg, l’innalzamento, specie nelle prime fasi della terapia con interferon, di ALT, elevati punteggi “HAI grading” alle biopsie. Predittori negativi sono l’età (i pazienti pediatrici rispondono poco o affatto alle terapie) e la provenienza da aree geografiche quali l’Asia centro-orientale, ove circolano i ceppi virali più aggressivi (Craxi, 200313). I problemi di gestione di un paziente con epatite cronica HBV-correlata, in rapporto ai parametri viremici, sono argomenti cruciali per l’epatologo e l’infettivologo. In base all’ “European Consensus Conference”14 e all’ “American Consensus Conference” del 200215, un valore di HBVDNA di 105 copie/ml è da considerare come soglia per discriminare condizioni di portatore silente ed epatite cronica. Tuttavia anche valori inferiori possono essere correlati ad un’epatite cronica, soprattutto casi HBeAg-: indispensabile è la correlazione con il quadro clinico, quello istologico e la ripetizione seriale dei livelli di HBV-DNA. Valori di DNA pari a 104 copie/ml, secondo alcuni gruppi, costituirebbero già un indice predittivo indipendente di evoluzione verso la cirrosi e/o l’epatocarcinoma. Oltre il 50% dei pazienti trattati con lamivudina (prima o dopo trapianto) sviluppa resistenza al farmaco e presenta quadri più evolutivi: importante è il riscontro di mutanti YMDD lamivudino-resistenti per indirizzare verso nuovi farmaci. L’identificazione genotipica è oggi eseguita soprattutto a scopi epidemiologici: la correlazione con la clinica, con le resistenze agli antivirali e con la risposta terapeu- 20 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 tica è ancora da valutare compiutamente, anche in relazione ai costi dei test. Ricordiamo che nell’ Europa centro-occidentale predomina il genotipo A (sottotipi adw2, ayw1) e nell’area mediterranea il genotipo D (sottotipi ayw2/3). Tuttavia studi più recenti dimostrano la possibilità di una qualche correlazione di rilievo, specie in Asia: ad esempio, il genotipo B, nelle epatiti croniche HBeAg+, è associato ad una sieroconversione Ag/Ab più precoce rispetto al genotipo C e il dato può spiegare la minor progressione di malattia nei pazienti con genotipo B (Chu, 200216). Epatite C e trapianto La diagnostica di laboratorio dell’infezione da HCV si avvale di numerosi ausili virologici, da impiegare in tappe successive o insieme, ma nessuno di questi è indicativo dell’entità del danno epatico o ha significato prognostico. Se la sierologia esaurisce il suo ruolo alla fase diagnostica (ricerca degli anticorpi e, con esito e significato discusso, dell’antigene), il reperto istologico coadiuva in questa fase ma soprattutto contribuisce alla stadiazione e ad impostare, in alcuni casi, la terapia. Ma è il supporto della biologia molecolare che oggi è imprescindibile: il dosaggio di HCV-RNA qualitativo (in alcune diagnosi controverse e nella stadiazione) e quantitativo (impostazione della terapia, monitoraggio e follow-up del paziente, eventuale gestione post-terapia) accompagna ogni fase del lavoro dell’epatologo nel management del singolo caso clinico; importante è anche la genotipizzazione per contribuire ad impostare e monitorare il trattamento farmacologico. Pertanto la mancanza di metodiche di isolamento virale e i limiti di sensibilità dei test sierologici sono oggi suppliti dall’impiego della biologia molecolare: la determinazione qualitativa di HCV-RNA permette di identificare anche soggetti scarsamente viremici per una bassa replicazione virale o per effetto della terapia e pertanto coadiuva o sostituisce la sierologia nella diagnosi di epatite C acuta, cronica o materno-fetale, anche se perman- gono difficoltà nell’identificare viremie elevate o molto basse, vicine ai limiti di determinazione del metodo. La determinazione quantitativa di HCV-RNA consente una più corretta impostazione e gestione dei trattamenti antivirali, nonché il monitoraggio e il followup del paziente in trattamento. L’uniformità dei risultati, l’indipendenza dalle metodiche utilizzate e lo sviluppo di standard di riferimento sono garantiti da linee-guida e raccomandazioni internazionali (ad esempio, NIH Consensus Statement on Management of HCV, 200217). La determinazione dei genotipi è importante per studi epidemiologici (distribuzione geografica), ma anche per contribuire ad una valutazione dell’andamento dell’infezione e della risposta alla terapia; ricordiamo, per quanto riguarda l’impostazione della terapia, che solo i pazienti HCV-RNA+ sono potenziali candidati al trattamento con PEG-interferon e/o ribavirina. I soggetti con genotipi 2 e 3 hanno di solito una buona risposta terapeutica alla ribavirina con dosaggi ridotti e trattamenti di breve durata, mentre i genotipi 1, 4, 5 e 6 necessitano di dosi più elevate e per più tempo. Dopo 12 settimane di trattamento (per alcuni gruppi anche meno) con PEG-interferon e/o ribavirina, la mancata riduzione della viremia è un fattore predittivo sfavorevole molto sensibile. Ruolo del microbiologo e dell’infettivologo in caso di trapianto di fegato L’interesse di questi specialisti al trapianto di fegato è molteplice; in un’ottica multidisciplinare la loro competenza è richiesta nell’iter trapiantologico in tre momenti principali: 1) Inserimento dei pazienti in lista di trapianto, nel senso di contribuire a stabilire le indicazioni (quando la malattia di base è un’epatite fulminante, una cirrosi o, più di rado, una neoplasia post-epatitica) e le controindicazioni (situazione infettivologica preesistente o concomitante) al trapianto stesso, in senso assoluto o relativo; 2) Gestione F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici delle complicanze infettive opportunistiche post-trapianto; 3) Prevenzione delle reinfezioni o delle recidive della malattia infettiva di base (epatite virale). Una valutazione molecolare dei virus epatitici è indispensabile nell’ambito dei numerosi accertamenti clinici del ricevente prima del trapianto; i pazienti HBsAg+ sono inseriti in lista anche se HBV-DNA+, ma vengono sospesi dalla lista attiva fino a che i valori di DNA non si abbassano < 100.000 copie/ml sotto terapia antivirale. I pazienti HDV+ sono immessi in lista di trapianto se HBV-DNA-. I pazienti HCV-RNA+ sono ammessi in lista di trapianto senza preclusioni. Gli organi ottenuti da donatori con morte cerebrale accertata, ritenuti idonei per tutti gli altri parametri (età, condizioni fisiologiche ed emodinamiche), sono accettabili, da un punto di vista microbiologico: – in assenza di infezioni batteriche e micotiche in atto; – in assenza di infezione da HIV 1/2 (indicazione assoluta!); – in assenza di infezione da HBV e HDV, con alcune eccezioni limitate riguardanti donatori HBsAg+ e/o HBcAb+ (vedi oltre); – in assenza di infezione da HCV: alcune eccezioni di provata gravità e urgenza sono consentite e regolate in caso di positività da protocolli specifici; – in assenza di altre infezioni selezionate: toxoplasmosi, sifilide, virosi da varicella zoster, herpes simplex 1-2, cytomegalovirus, Epstein-Bar. Numerosi sono i patogeni che possono essere trasmessi da un fegato candidato al trapianto (Panichi et Al, 200518): batteri (enterobatteri, ps.aeruginosa, st.aureus, bact.fragilis), miceti (candida albicans, histoplasma capsulatum, criptococco), micobatteri (tuberculosis, chelonae), protozoi (toxoplasma gondii, str.stercoralis), virus (herpes 1, 2, 8, cytomegalovirus, adenovirus, Epstein Bar, HBV, HIV). Diverso il discorso per HCV: è sì trasmissibile mediante un fegato infettato, ma altri tessuti e cellule, come quelle emolinfopoietiche, possono essere un altrettanto importante fonte e non dobbiamo dimenticare mai il 21 carattere di infezione generalizzata e sistemica che HCV può determinare. Le più frequenti complicanze del trapianto di fegato sono senz’altro quelle infettive: circa il 70% dei pazienti, ancora oggi, sviluppa tal complicanza nel corso del primo anno dal trapianto. Per contro, la letalità direttamente attribuibile ad una causa infettiva è andata progressivamente riducendosi dal 50% negli anni ’70, al 25 – 35% negli anni ’80, fino all’attuale 10%. Le infezioni rimangono comunque la principale causa di morte nel paziente sottoposto a trapianto di fegato e sono oggi strettamente correlate, più che allo stato infettivologico del donatore, ampiamente controllato, a fattori inerenti l’iter trapiantologico e fattori legati al ricevente, quali le sue condizioni cliniche generali, il tempo d’attesa in lista di trapianto, l’intervento chirurgico di per se, l’anestesia, il tempo di ripresa funzionale del fegato, la permanenza in terapia intensiva, l’abbassamento delle difese immunitarie: deficit delle difese meccaniche, dovuti a salti di barriera per alterazioni della cute e delle mucose secondari all’intervento chirurgico e alle procedure di terapia intensiva, e deficit più specifici per la situazione di base che ha condotto il paziente al trapianto e la successiva terapia immunosoppressiva per il controllo dei fenomeni di rigetto. Complicanze extraepatiche e sistemiche di natura infettivologica e immunologica. Importante è l’attenzione scrupolosa alle potenziali fonti e siti di infezione tanto del donatore (oggi più difficile ma sempre possibile è la trasmissione di infezioni virali o batteriche dall’organo trapiantato) quanto del ricevente. Fondamentali sono la diagnosi precoce e una terapia immediata: nel primo periodo post-operatorio viene attuata comunque una profilassi antibiotica e somministrati farmaci verso agenti opportunisti, come, ad esempio, Pneumocystis jiroveci. Le infezioni batteriche prevalgono nel primo periodo post-operatorio: polmoniti, infezioni della ferita chirurgica, raccolte infette intraaddominali, infezioni delle vie urinarie, dei cateteri endovenosi, delle vie biliari. Le forme micotiche (da aspergillus, nocardia, candida, criptococco), quelle 22 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 parassitarie (pneumocystis, toxoplasma), perlopiù da agenti opportunisti, quelle virali (herpes, cytomegalovirus) e da batteri intracellulari (micobatteri, specie MOTT, listeria, legionella) sono tutte più tardive, ad un mese e più dal trapianto. Oggi con i controlli infettivologici attuati sia a carico del donatore e del ricevente che del sangue ed emoderivati da trasfondere, sono assai infrequenti le infezioni trasmesse dall’organo impiantato, con le procedure di trapianto e a seguito di trasfusione di emocomponenti. Nella tabella n. 3 abbiamo correlato gli agenti patogeni e il tempo dal trapianto nel determinismo delle complicanze infettive. Collegata alle terapie antinfettive e antirigetto è la nefrotossicità di numerosi antibiotici impiegati a dosi massicce e soprattutto di immunosoppressori quali la ciclosporina. Un quadro immunologico particolare è l’anemia emolitica autoimmune che può insorgere con la mediazione di linfociti intraepatici del donatore che riconoscono gli antigeni A e B sulle emazie del ricevente: è transitoria e si risolve quando il fegato trapiantato si ripopola con linfociti prodotti dal midollo osseo del ricevente. Complicanze epatiche del trapianto di fegato di natura infettivologica ed immunologica. Alcuni quadri sono comuni ad altri interventi chirurgici rilevanti, quali l’ipoperfusione del fegato in corso di sepsi, evento precoce o l’epatite post-trasfusionale, tardiva e oggi rara. Ma le due situazioni più importanti, frequenti e di grande impatto clinico sono il rigetto, acuto o cronico e la recidiva della malattia epatica primitiva. Rigetto Rigetto acuto. È ancora oggi un’evenienza frequente, nonostante la terapia immunosoppressiva, specie 1-2 settimane dopo l’intervento. I segni clinici e di laboratorio, da soli, difficilmente sono in grado di permettere una diagnosi differenziale da altre complicanze, quali l’ostruzione biliare, il deficit funzionale primitivo, un’alterazione vascolare, un’epatite virale, un’infezione da cytomegalovirus, la recidiva della malattia di base (importanti sono i test virologici tradizionali e molecolari per una diagnosi di esclusione), un’epatotossicità da farmaci. Il quadro istologico da biopsia, per alcuni aspetti, ricorda la “graft versus host disease” e la cirrosi biliare primitiva. La terapia consiste nel cortisone in boli endovena, anticorpi anti-Cd3+ o le globuline policlonali antilinfociti. Rigetto cronico. È raro, può verificarsi primitivamente o conseguire a più episodi di rigetto acuto. Richiede per la diagnosi la biopsia epatica, in cui diversi aspetti sono simili a quelli di un’epatite virale cronica. Le terapie farmacologiche hanno scarsa efficacia e talora si rende necessario un nuovo trapianto. Tabella 3 - Correlazione tra agenti patogeni e tempo dal trapianto di fegato nel determinismo di complicanze infettive Tipo di infezioni 0-30 Giorni 31-180 Giorni > 180 Giorni Batteriche (33-68%) Polmoniti nosocomiali Infezioni da CVC Ascessi addominali Tubercolosi Nocardiosi Polmoniti comunitarie Listeriosi, nocardiosi Rodococcosi Micotiche (2 – 4%) Aspergillosi invasiva Mucormicosi Candidosi Invasiva (10-25%) Asp. Invasiva Pn. jiroveci Criptococcosi Pn. Jiroveci (4-10%) Virali Herpes simplex (3-14%) HH6 Parvovirus B19 CMV (22-29%), EBV, HHV8, HBV, HCV Parvovirus b19 Adenovirus, RSV, Virus influenzali, VZ (5-10%), EBV, HBV, HCV Toxoplasmosi Leishmaniosi Protozoarie (da: G.Panichi, G.Ferretti, Congresso SIMIT, Fiuggi, 2005, modificata) F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici Recidiva, dopo trapianto, della malattia epatica primitiva: le epatiti virali Epatite virale A. Può recidivare dopo il trapianto per epatite fulminante da HAV, ma questa reinfezione acuta non ha conseguenze cliniche gravi. Epatite virale da HBV. In riceventi HBsAg+ la reinfezione, senza profilassi, si verifica in > l’ 80% dei casi, soprattutto con livelli viremici > 5 log: vi è pertanto una precisa indicazione ad abbattere la viremia pre-trapianto e a considerare trapiantabili solo i soggetti con carica virale < 5 log. La profilassi pretrapianto (vedi oltre) è poco efficace in portatori della variante YMDD, lamivudino-resistente o di ceppi “wild virus”. I pazienti con viremia tra 2 e 4 log (portatori della variante e-minus o coinfettati B+D) recidivano in percentuale minore, tra il 20 e il 40%, abbattibile mediante profilassi. Coloro che non recidivano, si trasformano nel post-trapianto in HBsAg- e HBcAb+ e bassi livelli di HBV-DNA, con la necessità di proseguire la profilassi a tempo indeterminato. In riceventi HBsAg-/HBcAb+ il rischio di reinfezione del graft è alto, anche precocemente, con una situazione subdola, poiché i livelli viremici si mantengono bassi, fluttuanti, talora appena apprezzabili e l’evidenza clinica si rende manifesta in non più del 5% dei casi. Il trapianto di fegato proveniente da un soggetto HBsAg+ comporta un rischio di trasmissione dell’infezione praticamente assoluto: in Italia il Ministero della Salute lo autorizza, nell’ambito di un protocollo sperimentale, solo in casi di provata urgenza e necessità, purchè il donatore sia HDV Ag-, HDV IgM- e HDV Ig totali negativo o positivo a basso titolo, in riceventi HBsAg+ e HDV-, sottoposti a profilassi al momento del trapianto (organo salvavita!). Qualora il donatore sia HBcAb+ il rischio di reinfezione varia dal 10 al 20% in riceventi con marcatori di pregresso contatto con HBV, sino al 70% in riceventi “naive”; pertanto è preferibile destinare questi organi a pazienti HBsAg+ sotto- 23 posti a profilassi, come seconda scelta a soggetti HBsAg-/HBcAb+ e solo in casi di assoluta necessità a pazienti “naive”: in tutti i casi è fondamentale la profilassi con Ig anti-HBV + farmaci antivirali, secondo posologie e tempi ancora suscettibili di dibattito. La profilassi. Mentre la recidiva dopo trapianto per epatite fulminante B non era e non è frequente, in caso di trapianto per epatite cronica terminale B questa evenienza era praticamente la norma quando alla terapia immunosoppressiva antirigetto (che contribuisce quasi sempre ad un aumento della viremia), non si associava una profilassi antivirale pre e peri/posttrapianto. In questi casi la sopravvivenza era bassa per il sopraggiungere di un’epatite fulminante o di una grave epatite cronica con elevati livelli viremici o di una epatite colestatica fibrosante, caratterizzata da infarcimento e soffocamento degli epatociti da parte di massicce dosi di proteine di origine virale. Altre complicanze erano la pancreatite e la sepsi. Inefficaci si sono dimostrate misure profilattiche quali la vaccinazione anti-HBV, la terapia pre e post-trapianto con interferone, l’impiego di Ig anti-HBV a breve termine, misure impiegate con i farmaci immunosoppressori che non ridussero né il rischio di reinfezione né la mortalità. La svolta radicale si è avuta con l’impiego delle immunoglobuline anti-HBV a lungo termine (almeno 6 mesi): il rischio di reinfezione si è ridotto dal 75 al 35% e la mortalità dal 50 al 20%. I protocolli impiegati, diversi per durata e dosaggio, prevedono comunque la titolazione di HBsAb (titolo ottimale: 200-400 mUI/ml) e di continuare o riprendere la terapia qualora il valore scenda < 100 mUI/ml. Un ulteriore miglioramento del decorso post-trapianto si è avuto affiancando alle Ig anti-HBV antivirali quali la lamivudina e l’adefovir dipivoxil; la prima, somministrata prima del trapianto, previene la recidiva, dopo, controlla le recidive stesse e blocca il decorso infausto dell’epatite colestatica fibrosante. Il farmaco riduce i livelli di replicazione di HBV, talvolta con eliminazione dell’antigene di superficie, riduce le transaminasi e gli indici di flogo- 24 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Fig. 2 - Incidenza e progressione della resistenza alla lamivudina nell’epatite cronica da HBV si. Il problema maggiore è rappresentato dallo sviluppo di resistenze, cui si associa inevitabilmente un peggioramento del quadro virologico e clinico; nella figura n. 2 è riportata l’incidenza di resistenza alla lamivudina nell’epatite cronica B. L’adefovir dipivoxil si impiega nei casi che hanno sviluppato una resistenza alla lamivudina e pertanto trattasi di un farmaco di salvataggio nei pazienti con recidiva e scompenso epatico dopo riacutizzazione e resistenti alla lamivudina. Meno utilizzati, a tutt’oggi, sono il ganciclovir e il famciclovir. In conclusione, l’attuale gold standard19 della profilassi-terapia delle recidive dell’infezione da HBV dopo trapianto è la somministrazione di Ig anti-HBV con l’aggiunta di un antivirale (lamivudina o adefovir) o altri in sperimentazione. La coinfezione HBV-HDV. Ai riceventi con questa situazione si applicano gli stessi schemi terapeutici e profilattici illustrati nel precedente paragrafo: tuttavia costoro mostrano minor frequenza di recidive rispetto ai pazienti infettati dal solo HBV. Epatite virale da HCV. La malattia epatica terminale da HCV è oggi l’indicazione più frequente al trapianto (>40%), ma recidiva universalmente in quasi tutti i pazienti – in particolare in coloro che hanno un’attiva replicazione virale pretrapianto, > 106 copie/ml -, come evidenziato da indagini virologiche molecolari sensibili. La recidiva si manifesta come danno epatico acuto o cronico, con ripercussioni cliniche soprattutto nei primi 5 anni dal trapianto. Il 50% di questi pa- zienti sviluppa un’epatite cronica di grado medio-elevato e il 10% di questi evolve verso la cirrosi, con sopravvivenza < 12 mesi; anche nei soggetti che sviluppano un’epatite di grado moderato l’evoluzione verso la cirrosi è frequente20. L’istituzione di una terapia con interferon pegilato + ribavirina, alla comparsa dei segni clinici, funzionali e virologici di recidiva, riduce il danno epatico HCV-correlato ma la risposta non si prolunga nel tempo, così come il controllo della carica viremica; inoltre l’impiego protratto dei farmaci è limitato dalla ridotta tollerabilità. Sono allo studio protocolli che prevedono l’inizio della terapia antivirale sempre e comunque subito dopo il trapianto o addirittura prima come profilassi, anche se alcuni studi hanno dimostrato una correlazione tra aumento del rigetto dell’organo e precocità d’inizio della terapia con interferone. Segni prognostici sfavorevoli, per la comparsa di recidive in tempi brevi dopo il trapianto, sono livelli viremici elevati o in aumento e il riscontro di genotipi quali 1b. La dose di immunosoppressori è importante: tanto più è elevata quanto maggiore è il grado di immunodepressione che si instaura con associato un aumento di replicazione di HCV: sono i pazienti che, rischiando o andando effettivamente incontro ad episodi di rigetto acuto o cronico, ricevono più dosi di farmaci immunosoppressori e manifestano una tendenza più precoce allo sviluppo di recidive. Pertanto è importante valutare questa sequela prognosticamente sfavorevole: rigetto-terapia immunosoppressiva-immunodeficit-aumento replicazione virale-recidiva. Gestione immunologica post-trapianto: i farmaci immunosoppressori impiegati e la loro azione Nell’ambito della nostra trattazione, per completezza, riportiamo alcune caratteristiche d’ azione, d’impiego e possibili complicanze dei farmaci immunosoppressori utilizzati nei trapiantati di fegato, argomento che coinvolge la figura professionale del microbiologo e dell’immunologo. F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici Ciclosporina. Introdotta agli inizi degli anni ’80, agisce a livello immunologico su più fronti: blocca l’attivazione precoce dei linfociti T (Cd3+HLADr+), blocca l’interazione dei Cd3+ con i propri recettori, interferendo con la trasduzione del segnale Ca-dipendente, inibisce i geni che codificano per le citochine prodotte dai Cd3+, sia di tipo Th1 (IL2), che di tipo Th2 (IL4) che proinfiammatorie (TNFα), inibisce alcune funzioni dei linfociti B, ma non interferisce con le cellule midollari che si dividono rapidamente e precocemente nel post-trapianto, come le mieloidi: ciò spiega la relativamente bassa frequenza di infezioni batteriche sistemiche dopo il trapianto stesso. Il principale effetto collaterale del farmaco è la nefrotossicità. Tacrolimus (e i nuovi derivati, sirolimus, everolimus). È un antibiotico macrolide isolato da Streptomyces tsukubaensis; ha praticamente gli stessi meccanismi d’azione della ciclosporina, ma molto più potenti. Riduce la frequenza sia del rigetto acuto che di quello cronico e il numero di episodi di infezioni batteriche e da cytomegalovirus. Può essere somministrato oralmente, ma il suo impiego è condizionato dall’effetto nefrotossico, ancor più marcato rispetto alla ciclosporina e dalla neurotossicità. Inoltre va tenuto conto delle interferenze con altri farmaci che possono essere impiegati nei trapiantati in caso di complicanze infettive: la rifampicina, che riduce i livelli plasmatici sia della ciclosporina che del tacrolimus, eritromicina, fluconazolo, chetoconazolo, clotrimazolo, itraconazolo che invece li aumentano. Anticorpi anti Cd3+. Si impiegano nell’induzione o nel mantenimento della terapia immunosoppressiva qualora ciclosporina e tacrolimus non possono essere impiegati o vanno sospesi; l’indicazione maggiore è nel trattamento del rigetto acuto post-trapianto, soprattutto nei casi che non rispondono ai boli di metilprednisolone. In corso di terapia con anti-Cd3+ sono abbastanza frequenti le infezioni batteriche, fungine e da cytomegalovirus: per queste ultime è utile la profilassi con ganciclovir. Di recenti sono stati intrapresi nuovi trattamenti con anticorpi anti Cd25+ (re- 25 cettore per IL2), acido micofenolico (che è causa tuttavia di leucopenia) e la rapamicina, un inibitore “long action” dei Cd3+. Conclusioni Il trapianto di fegato è ormai da considerare come una procedura basilare per affrontare quadri di insufficienza epatica, acuta e soprattutto cronica, in fase terminale e come atto medico salvavita. La scelta del momento giusto in cui intervenire è uno step fondamentale nella fase decisionale pre-trapianto, che deve essere gestita comunque multidisciplinarmente anche al fine di una corretta impostazione delle fasi peri e post-trapianto. Infettivologo e microbiologo, nell’equipe di specialisti coinvolti, giocano oggi un ruolo primario: 1) nella valutazione infettivologica del donatore e del ricevente pre-trapianto e nell’indicare eventuali controindicazioni o limiti in tal senso; 2) nella gestione delle complicanze infettive dopo l’intervento e nel prosieguo; 3) nella prevenzione delle recidive della malattia di base (epatiti virali B o C). Pertanto, pur restando una misura terapeutica “estrema”, la sicurezza, la sopravvivenza e la qualità di vita in questi pazienti hanno raggiunto oggi livelli impensabili fino a qualche anno fa: si sono costituite, anche nel nostro paese, equipe di grande livello ed è ormai terminata la fase sperimentale del trapianto di fegato o l’opera pionieristica di pochi decenni fa. Bibliografia 1. Hawass Z, Tannini S. Le tombe reali di Tebe. Un ponte verso l’eternità. Novara: 2006. Istituto Geografico de Agostini 2. “La divinazione in Etruria”, in: Thesaurus cultus et rituum Antiquorum. Los Angeles: JP Getty Museum Ed 2005 3. Starzl TE. History o clinical transplantation. World J Surgery 2000; 24: 759-82 4. Adam R, McMaster P, O’Grady JG, et al. Evolution of liver transplantation in Europe: report of the European Liver Transplant Registry. Liver Transpl 2003; 9: 1231-43 26 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 5. Venettoni S, Rossi M, Rizzato L, et al. Il trapianto di fegato in Italia. Rapporti ISTISAN 03/29, Centro Nazionale Trapianti, Istituto Superiore di Sanità, Roma, 2007 6. Sorrell MF. Liver transplantation in the new millennium. Semin Liver Dis 2000; 20: 409-18 7. Keeffe EB. Liver transplantation: current status and novel approaches to liver replacement. Gastroent 2001; 120: 749-60 8. Dienstag JL. Liver transplantation. In: Harrison’s principles of internal medicine. The Mc Graw-Hill Companies srl Ed 16° Ed New York 2005 9. Vennarecci G, Ettorre GM, Antonini M, et al. Acute liver toxicity of antiretroviral therapy (HAART) after liver transplantation in a patient with HIV-HCV coinfection and associated HCC. Tumori 2003; 89(4): 159-61 10. Report of “United State Acute Failure Study Group”: Acute Liver Failure in the United States. Ann Int Med 2002; 137(12): 1-24 11. Wai CT, Fontana RJ, Polson J, et al. Clinical outcome and virological characteristics of hepatitis B-related acute liver failure in the United States. J Viral Hepat 2005; 12(2): 192-8 12. Abbate I, Lo Iacono O, Antonucci G, et al. HVR-1 quasispecies modifications occur early and are correlated to initial but not sustained response in HCV-infected patients treated with pegylated- or standard-interferon and ribavirin. J Hepatol 2004; 40: 831-6 13. Craxi A, Cooksley WG. Pegylated interferons for chronic hepatitis B. Antiviral Res 2003; 60(2): 87-9 14. The EASL Jury: EASL International Consensus Conference on Hepatitis B. 13-14 September, 2002. Geneva, Switzerland, Consensus statement. 2003; 39: S3-S25 15. Lok ASF, McMahon BJ. Aasld Practice Guidelines: Chronic hepatitis B. Hepatol 2002; 1225-41 16. Chu CJ, Wai CT, Hussain M, et al. HBV genotype B is associated with better response to interferon therapy in HBeAg(+) chronic hepatitis than genotype C Hepatol 2002; 36: 1425-30 17. NIH Consensus Conference Statement on Management of Hepatitis C. Bethesda, 10-12 Giugno 2002 18. Panichi G, Ferretti G. Infezioni nel paziente sottoposto a trapianto di fegato, rene, rene-pancreas. Relazione al: “IV Congresso Nazionale Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali”. Fiuggi, 12-15 Dicembre 2005 19. Oldakowska-Jedynak U, Paczek L, Foroncewicz B, et al. Prevention of hepatitis B recurrence after liver transplantation using lamivudine and hepatitis B immune globulin. Ann Transplant 2007; 12(3): 28-32 20. Berenguer M. Management of hepatitis C virus infection in liver transplantation. Gastroenterol Hepatol 2006; 29: 422-7 Per corrispondenza e richiesta estratti: Dr. Francesco Belli Lab. Microbiologia e Virologia Ospedale C.Forlanini, Roma. P.za C.Forlanini1. 00151 Roma. E-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 “Evidenze a confronto” Una nuova rubrica: presentazione di Francesco Belli Inizia con questo primo numero del 2009 una nuova rubrica, peraltro già apparsa, sia pur con diverse sfumature, in altre riviste medico-scientifiche italiane ed internazionali. L’obiettivo è insito nel titolo: nel mondo della comunicazione, dei dibattiti, degli scambi culturali è sempre più rimarchevole l’esigenza del confronto, dello scambio di idee ed esperienze, della conoscenza di ogni aspetto della prassi medica nelle sue varie sfaccettature. Talora spendidi lavori scientifici rimangono fini a stessi o in attesa di un commento o di una replica che sulle pagine di una rivista può non arrivare mai. Ecco perchè, su parere di diversi redattori e membri del comitato scientifico, ma anche di lettori ed abbonati, cogliamo l’invito per aprire una rubrica-confronto che porti contemporaneamente all’attenzione due o più aspetti di un percorso diagnostico o terapeutico od assistenziale. Lo scopo è anche e soprattutto di stimolare i nostri prossimi Autori a confrontarsi e ad offrire il frutto della propria esperienza ed attività quotidiana ad un ulteriore analisi critica da parte dei lettori: un modo, secondo noi, moderno di fare cultura scientifica. Primo argomento proposto è una patologia di larga diffusione ed impatto nella pratica quotidiana: la lombosciatalgia, della quale offrono il proprio contributo ed esperienza illustri ortopedici e radiologi in fase di approccio diagnostico. LOMBOSCIATALGIA: RMN O TC? LUMBAR ISCHIALGIA: RM OR TC? Parole chiave: Lombosciatalgia, RMN, TC Key words: Lumbar ischialgia, RMN, TC IL PARERE DELL’ORTOPEDICO FRANCESCO PALLOTTA U.O.S.D. Ortogeriatria Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma Quando viene chiesto ad un clinico, ortopedico, neurochirurgo o neurologo, se in una lombosciatalgia sia meglio una TAC od un RMN la risposta più ovvia che si può ottenere è “dipende da cosa si sta cercando”, infatti occorre sempre tenere a mente che la lombosciatalgia non è una diagnosi ma bensì un sintomo. Lombosciatalgia è un termine unico che indica un dolore (algia) in sede lombare (lombo) che si irradia all’arto inferiore lungo il decorso del nervo sciatico ma nulla aggiunge alla causa che determina tale sintomatologia clinica. Una domanda frequentemente seguita da bocciatura nelle Scuole di Specializzazione di Ortopedia è: “Cause di lombosciatalgia”: infatti dopo che il canditato ha esposto con dovizia di particolari le cause legate a patologia della colonna vertebrale egli dimentica, per inesperienza, di citare le cause legate a patologie di organi addominali. Di recente ho osservato un signore anziano con lombosciatalgia ribelle alle terapie ed esame TAC ed RMN mirati alla colonna vertebrale che evidenziavano un grave quadro di artrosi, sicuramente 28 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Tabella 1 Fanuele, Jason C. MS *; Birkmeyer, Nancy J. O. PhD +; Abdu, William A. MD ++; Tosteson, Tor D. ScD [S]; Weinstein, James N. DO, MS *++/; The Impact of Spinal Problems on the Health Status of Patients: Have We Underestimated the Effect? Spine. 25(12):1509-1514, June 15, 2000. compatibile con il quadro clinico lombosciatalgico, che però era conseguente ad un grave aneurisma dell’aorta addominale diagnosticato solo in un secondo momento. Un lavoro multicentrico publicato su SPINE (2000) ha esaminato 17.774 soggetti affetti da lombosciatalgia con età compresa fra i 17 ed i 98 anni (47,5 anni di età media) ed ha stilato una classifica delle prime 10 cause (Tab. 1). Appare pertanto evidente che le cause di lombosciatalgia possono essere le più diverse e che il clinico non solo deve dare una esatta indicazione sulla più giusta metodica strumentale da eseguire ma a mio avviso dovrebbe anche porre dei quesiti o meglio sospetti diagnostici al radiologo esecutore dell’esame richiesto. Quindi la scelta più appropriata di un indagine strumentale si deve avvalere di un attento esame clinico basato sull’accurata anamnesi e sull’esame obiettivo che deve sempre porre una sospetta diagnosi. Un recente trauma lombare, con comparsa di dolore improvviso lombosciatalgico in un soggetto femminile in menopausa e affetta da osteoporosi, pone una probabile diagnosi di frattura vertebrale che, se solo sospettata con la radiografia convenzionale, può essere confermata con un esame tac; al contrario una lombosciatalgia recidivante in assenza di evento traumatico in un soggetto in età compreso fra i 20-40 con positività ai tests che indicano un impegno e/o deficit radicolare può far supporre una diagnosi di ernia del disco ed indicazione ad un esame RMN. Per concludere, in genere si preferisce una TAC quando si sospetta una diagnosi che coinvolge la struttura ossea della colonna vertebrale: fratture vertebrali, spondilolisi e spondilolistesi, stenosi vertebrale, tumori vertebrali, ecc., mentre la RMN dà maggiori indicazioni sulle parti molli della colonna vertebrale: ernie discali, neurinomi, alterazioni della morfologia e calibro del canale spinale e delle radici nervose, raccolte di natura infettiva quali quelle ascessuali, ecc. Va infine ribadito che la scelta di una metodica piuttosto che di un’ altra si basa su un sospetto diagnostico che si deduce da un attento esame clinico che spesso può anche evidenziare la non necessità di un approfondimento diagnostico strumentale. Infatti ritengo che, ancora ai nostri giorni sempre più spesso vengono richieste, in maniera superficiale e affrettata, indagini strumentali inutili, che aumentano i costi della Sanità e le liste di attesa a danno di quei pazienti che invece hanno una reale e/o necessità di una particolare indagine strumentale. IL RADIOLOGO E LA RM ALBERTO BELLELLI U.O.C. di Radiologia Diagnostica ed Interventistica Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli, Isola Tiberina, Roma Di fronte ad un Paziente con dolore al rachide nella regione lombare e di tipo sciatalgico la domanda diagnostica pone al Clinico e di conseguenza al Radiologo l’obbligo della scelta della tecnica di imaging idonea. Nel corso degli anni la RM si è sempre di più affermata come tecnica di I scelta rispetto alla ben nota e, molto 29 Evidenze a confronto utile, Tomografia Computerizzata. I vantaggi che mi fanno scegliere la prima sono molteplici: primo l’assenza di radiazioni ionizzanti e quindi la possibilità di studiare una fascia più ampia di Pazienti, ad esclusione dei pochi con controindicazioni assolute (quali i portatori di Pace Maker cardiaco, in cui la TC rappresenta l’unica vera alternativa diagnostica), secondo la possibilità di differenziare le molteplici componenti tessutali della regione in studio, sulla base delle modifiche del segnale di RM, tipizzando il tessuto adiposo, il liquido, il sangue, il materiale discale, le strutture nervose, gli spazi meningei, le ossa e la spongiosa ossea e, soprattutto, la possibilità di effettuare tutto questo in maniera molto accurata su tutti e tre i piani dello spazio con enormi vantaggi di caratterizzazione anatomica. Non va assolutamente trascurata, anzi è un punto di forza della tecnica RM, la possibilità di estendere l’indagine allo studio delle radici del plesso lombare e lungo il decorso del nervo sciatico nel contesto del bacino e lungo i carrefour ossei, osteotendinei e muscolo-tendinei. In queste sedi si possono riscontrare le patologie non discali che possono essere la causa del dolore compressivo; altrettanto nelle Pazienti donne la possibilità di uno studio della pelvi con la conseguenza di svelare la presenza e la sede anatomica di origine di una massa pelvica, causa della compressione sul plesso lombare. Esiste una clinica profondamente diversa tra dolore tipico dell’ernia discale e riscontro obiettivo clinico e compressione dello sciatico a livello extra-rachideo, ma spesso tale differenza non viene apprezzata e la richiesta di indagini diagnostiche arriva con la dicitura aspecifica di lombalgia di ndd. In questi casi comunque la RM rimane nettamente superiore alla TC per i motivi appena ricordati. Darei uno spazio elettivo alla TC nel caso di studio di dettaglio del canale vertebrale nell’eventualità di una stenosi rachidea osteo-legamentosa ipertrofica su base acquisita e nei casi di terapia interventistica TC guidata per il dolore lombarem mediante infiltrazioni farmacologiche mirate, che attualmente mostrano risultati molto promettenti a condizione di una tecnica corretta e di indicazioni rigorose, nella selezione dei Pazienti da trattare. IL PARERE DEL RADIOLOGO MICHELE GALLUZZO Radiologia D.E.A. Ospedale San Camillo - Forlanini, Roma Il dolore lombare, molto frequente nella popolazione occidentale, a causa dell’aumento della vita sedentaria e dell’aumento del numero degli obesi, colpisce almeno una volta nella vita una percentuale significativa della popolazione, specie quella giovane - adulta, con significative conseguenze sui bilanci sociali, a causa di assenze, spesso prolungate, dai luoghi di lavoro. Negli ultimi anni si è inoltre osservato un incremento del numero dei praticanti l’attività sportiva soprattutto amatoriale, con un incremento del numero di traumi e delle sintomatologie sport specifiche. La lombalgia, secondo diverse statistiche, rappresenta uno dei principali motivi di richiesta di visite ambulatoriali e prestazioni diagnostiche altamente specialistiche. Il “low back pain”, per gli anglosassoni, può essere schematicamente classificato in spondilogenica o neurogena, quando prende origine dai costituenti del rachide, ed in viscerale, vascolare o psicogena quando determinata da cause extrarachidee. Clinicamente è spesso difficile l’inquadramento dei pazienti e distinguere quelli in cui la sintomatologia è dovuta a cause intrinseche alla colonna, da quelli in cui 30 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 il quadro clinico è dovuto a patologie più complesse con coinvolgimento della colonna vertebrale (5% dei casi). Le cause che possono determinare l’insorgenza della sintomatologia sono diverse e, per tale motivo, la diagnostica per immagini può fornire informazioni fondamentali per il clinico ai fini della diagnosi e della successiva scelta terapeutica. In letteratura sono presenti linee guida elaborate con l’obiettivo di sistematizzare quale sia il percorso diagnostico cui dovrebbe essere sottoposto il paziente affetto da dolore lombare, e lavori da cui emerge che come spesso non ci sia un significativo grado di correlazione fra la clinica del paziente e le anaomalie riscontrabili radiologicamente. È noto che la radiologia tradizionale è frequentemente utilizzata quale metodica di primo approccio al paziente con sintomatologia dolorosa lombare, grazie alla sua facile reperibilità ed ai costi contenuti. Dalla letteratura emerge che la risonanza magnetica può essere definita metodica di “elezione” nel paziente con dolore lombare, e che si possono prevedere in futuro sviluppi molto interessanti dagli studi “sottocarico”. All’interrogativo circa il ruolo della TC nel paziente affetto da dolore lombare, è doveroso rispondere a seguito di alcune considerazioni. Negli ultimi anni l’evoluzione tecnologica è stata rapidissima ed in breve tempo dalla introduzione della TC “spirale” si è passati all’introduzione di macchine a tecnologia spirale “multistrato”, che hanno richiesto al mondo dei radiologi un grande impegno culturale per conoscerne le potenzialità diagnostiche e sfruttarne al meglio le potenzialità diagnostiche. Con la TC multistrato (TC ms) il tempo di esecuzione dell’esame è brevissimo, e le immagini ottenute possono essere rapidamente ricostruite su piani sagittali e coronali e successivamente rielaborate in ricostruzioni tridimensionali di elevatissima qualità. Circa le applicazioni della metodica a livello del rachide, la TC rappresenta il “reference standard” nello studio e nella classificazione delle spondilolisi, specie nella ricerca di piccole alterazioni a livello dell’arco vertebrale e nella valutazione della morfologia dell’ampiezza del canale rachideo. La TC ms ha un ruolo fondamentale, in urgenza, nello studio del rachide traumatico, attraverso una definizione accurata del numero, della sede, della morfologia delle fratture e dei rapporti con il canale spinale. È da considerare metodica fondamentale nello studio di patologie tumorali dell’osso e nella ricerca di eventuali calcificazioni paravertebrali. Può essere talvolta utilizzata per valutare l’evoluzione ed i tempi di guarigione di una frattura e nello studio di patologie infettive. Si può impiegare come guida in caso di procedure interventistiche, con particolare riferimento alla vertebroplastica e nello studio di alcune patologie rotazionali del rachide nella fase pre e postchirurgica. Va sempre ricordato che la metodica prevede l’uso di radiazioni ionizzanti, di cui bisogna sempre tener conto, anche in riferimento alle recenti normative sulla radioprotezione. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 Rassegna PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE: STILE DI VITA IN RAPPORTO AD ALIMENTAZIONE, ATTIVITÀ FISICA E FUMO - Parte II CARDIOVASCULAR PREVENTION: LIFESTYLE ABOUT NUTRITION, PHYSICAL ACTIVITY AND SMOKE - Part II GIUSEPPE OLIVA, STEFANO CURTI, 1BRUNONE DI RIENZO, 2ROSASTELLA PRINCIPE Dipartimento Cardiovascolare, U.O. Cardiologia Riabilitativa; 1Dipartimento Cardiovascolare, Servizio Centrale di Cardiologia e PS; 2Dipartimento Malattie Polmonari, 3 U.O. Pneumologia Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma Parole chiave: Stile di vita. Prevenzione cardiovascolare Key words: Lifestyle. Cardiovascular prevention Riassunto – In questa rassegna gli AA propongono le regole di un corretto stile di vita in rapporto all’attività fisica ed al fumo per contrastare gli effetti dei fattori di rischio cardiovascolare. Il rischio cardiovascolare è notevolmente ridotto da un’attività fisica costante, come dimostrano i vari studi osservazionali e d’intervento. Riguardo alla lotta contro il fumo, gli AA riportano le strategie d’intervento sulla popolazione e sul singolo individuo. Abstract – This review explains the rules of a correct lifestyle about physical activity and smoke in order to fight the cardiovascular risk factors. The cardiovascular risk is reduced by a constant physical activity, as proved by osservation and intervention research. In regard to fight against smoke, the authors report the actual strategies of massive intervention and on individual subject. Attività fisica e prevenzione cardiovascolare Cenni di fisiologia cardiocircolatoria Negli ultimi decenni è stato dimostrato che uno stile di vita basato su un’attività fìsica pianificata e ripetitiva può contrastare lo sviluppo dell’arteriosclerosi ed, in particolare, della cardiopatia ischemica. Non è stata riscontrata alcuna correlazione tra esercizio fisico esclusivamente anaerobico e prevenzione dell’arteriosclerosi, mentre con l’esercizio fisico aerobico viene contrastata l’azione di mediatori metabolici ed infiammatori coinvolti nel- la patogenesi dell’arteriosclerosi1-3. Con il termine esercizio fisico di tipo aerobico si intende un’attività fisica pianifìcata, strutturata, ripetitiva e di intensità submassimale tale da prevenire l’accumulo di acido lattico attraverso l’ossidazione di una miscela quasi paritaria di glucosio e di acidi grassi grazie alla maggiore o minore capacità di trasportare l’ossigeno (O2) ai muscoli (VO2max). Il consumo di O2 aumenta proporzionalmente con l’intensità dello sforzo, che varia da soggetto a soggetto (“potenza aerobica”). Ad intensità superiori al 50% del VO2 max e con intervalli di esecuzione inferiori alle 72 ore si instaurano progressivamente (3-6 mesi) 32 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 importanti modificazioni nei muscoli e negli apparati cardiocircolatorio e respiratorio, che sono il risultato dell’allenamento fisico (Tabelle 1-6)1-3. La capacità degli apparati cardiocircolatorio e respiratorio di fornire O2 durante attività fìsica prolungata viene valutata Tabella 1 – Definizione di allenamento fisico L’allenamento fisico e’ l’insieme di attività compiute dal soggetto allo scopo di migliorare la propria capacità di prestazione lavorativa o sportiva con una intensità submassimale e con continuità (ad intervalli inferiori alle 72 ore). Tabella 2 – Effetti dell’allenamento fisico sui muscoli • • • • • • Sviluppo dei capillari Aumento della sintesi di mioglobina Aumento del numero e del volume dei mitocondri Modificazione dell’attività di alcuni enzimi Ridotta deplezione di glicogeno muscolare dopo esercizi fisici aerobici submassimali Soglia anaerobica spostata ad un carico lavorativo più elevato con il test ergospirometrico, mentre la capacità di trasporto di O2 può anche essere espressa in MET, che è l’equivalente metabolico (Tab. 7)3. La VO2max raggiunge i valori più elevati fra i 20 ed i 30 anni e poi tende a ridursi con l’età, di circa 1% l’anno. Tra la sesta e la settima decade di vita la VO2max si riduce di circa il 40% per riduzione della frequenza cardiaca massimale (Tab. 8), diminuzione della massa muscolare e ridotta utilizzazione di O2. Questo declino può essere rallentato o addirittura arrestato da un’attività fisica costante di tipo aerobico4. Infatti in un soggetto maschio sedentario di 40 anni la VO2max è intorno a 35 ml/kg/min e con l’allenamento aerobico può aumentare anche del 3050%: l’obiettivo da raggiungere nelle persone oltre i 50 anni è una VO2max di circa 35 ml/Kg/min negli uomini, 29 ml/Kg/min Tabella 5 – Effetti dell’allenamento sul letto coronarico • • • Tabella 3 – Effetti dell’allenamento fisico sull’apparato cardiovascolare a riposo • • • • • Riduzione della frequenza cardiaca per aumento del tono vagale Aumento della gittata cardiaca Riduzione della pressione arteriosa sistemica (2-5 mmHg nel normoteso, 5-15 mmHg nell’iperteso) Riduzione della pressione arteriosa polmonare Riduzione dell’indice tensione-tempo nel miocardio Tabella 4 – Effetti dell’allenamento sugli apparati cardiovascolare e respiratorio durante l’esercizio Nel soggetto allenato, allo stesso carico lavorativo,si riscontrano, rispetto al soggetto non allenato: • minor incremento della FC e della PA • aumento della gittata cardiaca • riduzione relativa delle resistenze periferiche sistemiche • aumento del volume corrente respiratorio • riduzione marcata della frequenza respiratoria Tutto ciò si traduce in una riduzione del lavoro cardiaco e quindi del consumo miocardio di ossigeno allo stesso carico. • Ampliamento del lume delle arterie coronariche maggiori Aumento del flusso coronarico massimale Riduzione della reattività coronarica agli stimoli vasocostrittori Miglioramento del trasporto di ossigeno Tabella 6 – Effetti benefici dell’attività fisica nella prevenzione dell’arteriosclerosi • • • • • • Riduzione del grasso viscerale Riduzione dei trigliceridi Aumento del colesterolo HDL Aumento della sensibilità insulinica Aumento dell’attività antitrombotica ed antiflogistica a livello endoteliale Prevenzione del diabete mellito di tipo 2 Tabella 7 – Definizione di MET MET = unità di intensità equivalente alla spesa energetica a riposo (pari a 3,5 mL/Kg/ m di O2 o a circa 1 Kcal7Kg/ora in un soggetto di 70 Kg). MET-ora = unità di misura quantitativa dell’esercizio fisico: si moltiplica l’intensità dell’esercizio (in MET) per la durata (in ore). MET-ora-settimana = dispendio energetico settimanale ottenuto con l’attività fisica 33 G. Oliva et al.: Prevenzione cardiovascolare Tabella 8 – Frequenza cardiaca massimale teorica Età FC 50-75% FC max teorica 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 100-150 98-146 95-142 93-138 90-135 88-131 85-127 83-123 80-120 78-116 75-113 200 195 190 185 180 175 170 165 160 155 150 nelle donne, perché è stata documentata una correlazione inversa tra VO2max e mortalità da tutte le cause, in particolare quella coronarica. Il passaggio da uno stile di vita sedentario ad un regime di attività fisica giornaliera di media intensità (5-7 MET) deve essere graduale, con esercizi di intensità tale da indurre un aumento della frequenza cardiaca (FC) fino al 50-60% di quella massima teorica nei primi giorni, non oltre il 75% dopo una settimana (Tab. 8). Nella Tab. 9 è illustrato un program- ma semplice ed efficace di attività fisica continuativa e gradualmente crescente fino a raggiungere un’efficienza fisica tale da poter praticare qualsiasi sport a livello amatoriale. Tale programma può essere integrato in combinazioni infinite con altri esercizi d’intensità variabile (Tab. 10), a seconda della situazione socio-economica di ognuno e delle sue attitudini psico-fisiche. Comunque qualsiasi impegno fisico giornaliero, anche se di modesta entità, può determinare effetti benefici a lungo termine, soprattutto a livello degli apparati cardiocircolatorio e respiratorio5,6. È dimostrato infatti che l’esercizio fisico regolare esercita degli effetti protettivi nei confronti dell’arteriosclerosi attraverso molteplici azioni a livello cardiovascolare e metabolico (Tab. 2-7). Il sistema endocrino ed il metabolismo sono profondamente influenzati dall’attività fisica: durante l’esercizio fisico si riduce l’insulinemia e aumentano gli ormoni controregolatori (catecolamine, glucagone, growth hormone, cortisolo), i quali stimolano la glucogenesi e la lipolisi, mentre nelle ore successive all’esercizio fisico viene Tabella 9 – Programma di attività fisica progressiva (American Hearth Association) Riscaldamento Obiettivo Settimana 1 Camminare 5 min. Settimana 2 Camminare 5 min. Settimana 3 Camminare 5 min. Settimana 4 Camminare 5 min. Settimana 5 Camminare 5 min. Settimana 6 Camminare 5 min. Settimana 7 Camminare 5 min. Settimana 8 Camminare 5 min. Settimana 9 Camminare 5 min. Settimana 10 Camminare 5 min. Settimana 11 Camminare 5 min. Settimana 12 Camminare 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 7 min. Camminare per 9 min. Camminare per 11 min. Camminare per 13 min. Camminare per 15 min. Camminare per 18 min. Camminare per 20 min. Camminare per 23 min. Camminare per 26 min. Camminare per 28 min. Camminare per 30 min. Raffreddamento con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido con passo rapido Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. Camminare per 5 min. lentamente Durata Totale 15 minuti lentamente 17 minuti lentamente 19 minuti lentamente 18 minuti lentamente 21 minuti lentamente 23 minuti lentamente 25 minuti lentamente 28 minuti lentamente 33 minuti lentamente 36 minuti lentamente 38 minuti lentamente 40 minuti 34 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Tabella 10 – Livello energetico delle diverse attività Molto leggero: < 3 MET < 4 Kcal Leggero: 3-5 MET 4-6 Kcal Moderato: 5-7 MET 6-8 Kcal Pesante 7-9 MET 8-10 Kcal Molto pesante > 9 MET > 10 Kcal Attività domestiche • igiene personale •scrivere • cucinare •pulizia delle finestre e dei pavimenti •verniciare •portare pesi (7-15 kg) •salire le scale lentamente •giardinaggio •pesi (15-30 kg)** • salire le scale a media velocità •segare la legna •portare pesi (30-45 kg)** •salire le scale rapidamente o portando pesi** •spalare la neve (10 palate/minuto)** •portare pesi (>45 kg)** Attività lavorative •lavoro impiegatizio •stare in piedi •guidare un camion* •lavori manuali artigianali •montare uno pneumatico** •lavori di muratura** •scavare la terra con la pala** •taglialegna** • manovale** Attività sportive • • • • •ballo •golf (a piedi) •vela •ippica (trotto) •tennis (doppio) •tennis (singolo) •sci(discesa) •basket/pallavolo •calcio •pattinaggio •ippica (galoppo) •canoa** •alpinismo** • scherma** •pallamano •squash • sci (fondo)** •qualunque sport a livello agonistico** Allenamento fisico •camminare (3-4 km/h) •cyclette (resistenza molto leggera) • ginnastica molto leggera •camminare (5-7 km/h) •bicicletta (9-13 km/h) •ginnastica moderata •camminare (8-9 km/h) •bicicletta (14-16 km/h) • nuoto (rana) •jogging (9-10 km/h) •nuoto (stile libero) •canottaggio • bicicletta (20 km/h) •corsa (>10 km/h) •bicicletta (>20 km/h o in salita) pesca biliardo tiro con l’arco* golf (con cart) * può provocare stress psicologico con incremento del consumo miocardico di O2 **si può verificare aumento del consumo miocardico di O2 in caso di esercizio isometrico o di impiego delle braccia Modificata da: Haskel WL: Design and Implementation of cardiac conditions programs. In: Wenger NK, Hellerstein HK (eds.). Rehabilitation of the coronary patient. New York, John Wiley 1978; 208 (214) stimolato l’anabolismo proteico per l’azione combinata del growth hormone e del testosterone: la sintesi proteica muscolare in presenza di un pasto contenente aminoacidi può aumentare di oltre il 100%7. L’effetto lipolitico del growth hormone e delle catecolamine si esplica soprattutto sul grasso viscerale, con conseguente riduzione della circonferenza vita, la quale è fortemente predittiva di eventi cardiovascolari. La riduzione della massa grassa e l’aumento della massa magra determinano una aumentata sensibilità insulinica: a parità di glicemia l’insulinemia dei maratoneti è inferiore di circa il 50% rispetto a quella dei sedentari8. L’aumentata sensibilità insulinica e la riduzione della massa magra ri- ducono l’apporto di acidi grassi esterificati al fegato e la produzione delle VLDL (very low density lipoproteins) ricche in trigliceridi. La trigliceridemia si riduce fino al 5070% ei valori basali dopo un’attività fìsica costante e diminuisce nel plasma il passaggio dei trigliceridi dalle VLDL alle LDL7. Il risultato finale è l’aumento delle HDL e la riduzione delle LDL piccole e dense7,8. L’attività fìsica continuata riduce anche le concentrazioni di diversi mediatori o markers di infiammazione coinvolti nella formazione della placca aterosclerotica (proteina C reattiva, amiloide A, globuli bianchi, fattore chemiotattico monocitario o MCP-1, interleuchina8,9,10. G. Oliva et al.: Prevenzione cardiovascolare Studi osservazionali e di intervento L’esercizio fisico è molto importante anche nella prevenzione del diabete mellito tipo 2. Infatti nel Malmo study11 vari programmi basati su dieta ed esercizio fisico continuato hanno ridotto del 40-60% l’incidenza di nuovi casi di diabete in soggetti con l’intolleranza ai carboidrati. Nel Diabets Prevention Program12, condotto su 3.234 soggetti in 25 centri degli Stati Uniti, 1’end-point era quello di determinare se la terapia farmacologica con metformina e/o il cambiamento dello stile di vita fossero in grado di ridurre l’incidenza di nuovi casi di diabete in soggetti con IGT. L’intervento sullo stile di vita, eseguito in 1079 partecipanti, aveva l’obiettivo di ridurre del 7% il peso corporeo e di aumentare di almeno 700 kcal/settimana il dispendio energetico con attività fìsica (camminare a passo svelto almeno 150 minuti a settimana): con l’ausilio di personale specializzato (dietiste, istruttori di educazione fìsica) si utilizzavano strategie di tipo cognitivo-comportamentale per promuovere il cambiamento dello stile di vita. Lo studio è stato interrotto prima del termine previsto per motivi etici: nel gruppo di intervento con lo stile di vita si è verifi- 35 cata una riduzione del 58% di nuovi casi di diabete rispetto al placebo e del 41% di sindrome metabolica in un periodo medio di 2,8 anni, nel gruppo con l’aggiunta di metformina si è avuto il 31% di riduzione del diabete ed il 17% di sindrome metabolica solo nei soggetti obesi. In molti studi epidemiologici, sia prospettici che retrospettivi, è stata dimostrata una correlazione inversa tra attività fìsica ed incidenza di cardiopatia ischemica e/o mortalità cardiovascolare mediante due approcci metodologici diversi: il rilievo dell’attività fìsica con questionario o la misurazione effettiva dello sforzo con test ergometrico (cicloergometro o treadmill). Nel primo approccio rientra il famoso studio sugli allievi del College di Harvard, nel quale fra il 1962-1966 sono state raccolte le abitudini di 21.582 allievi (iscritti fra il 1916 ed il 1950) e 15 anni dopo (nel 1977) sono stati registrati i cambiamenti dello stile di vita di 10.269 allievi (45-84 anni di età). Il follow-up negli anni successivi (1977-1985) ha consentito di rilevare una correlazione inversa tra intensità dell’attività fìsica e mortalità da tutte le cause (Fig. 1)13. Tra gli studi che hanno utilizzato il test ergometrico il più ampio per casistica è 1’Aerobics Center Longitudinal Study, nel quale è stato utilizzato il test al treadmill in 2 occasioni a distanza di 5 anni in 9.777 uomini ( 2 0 8 2 anni di età) con followup nei successivi 1-18 anni (in media circa 5 anni) per correlare l’effetto delle variazioni della capacità fìsica su mortalità totale e cardiovascolare14: dai dati di questo studio È emerso che la mortalità totale e cardiovascolare è inversamente correlata con la capacità fisica e che, nei soggetti che al primo test Fig. 1 – Riduzione della mortalità in relazione al grado di attività fisica. Rischio relativo di mortalità 36 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 avevano una scarsa capacità funzionale e la miglioravano al secondo test grazie ad un aumento dell’attività fisica giornaliera, la mortalità risultava significativamente ridotta rispetto a quelli costantemente sedentari. Pertanto l’effetto sulla mortalità non può essere attribuito a una favorevole o sfavorevole predisposizione genetica, ma è strettamente dipendente da una costante attivività fisica. Altri studi15-17 hanno dimostrato che capacità fìsica e riduzione della frequenza cardiaca dopo un periodo di attività fìsica costante riducono la mortalità indipendentemente da diabete mellito, ipertensione arteriosa, obesità, dislipidemia, fumo ed età. Nello studio di Myers la capacità fìsica ha un valore predittivo molto alto in quanto l’incremento di 1 MET riduce del 12% il rischio di mortalità16. Un obiettivo ragionevole per un paziente di 40-50 anni è l’aumento della sua massima capacità fìsica ad almeno 9-10 MET, che equivale ad una VO2max di 30-35 mL/kg/min. Recentemente Di Loreto e coll.18 hanno verificato gli effetti di diversi livelli di attività fìsica sul rischio cardiovascolare in un gruppo di 179 pazienti che sono stati seguiti per due anni: l’attività fìsica volontaria del tempo libero è stata documentata ogni tre mesi mediante un diario settimanale ed i pazienti sono stati suddivisi in 6 gruppi, utilizzando come unità di classificazione il dispendio di 10 MET-ora a settimana che era l’obiettivo dell’intervento e che è la quantità minima di attività fìsica consigliata da varie società scientifiche interna- zionali1-3. I risultati dello studio (Tab. 11) confermano che i fattori di rischio cardiovascolare classici si possono modificare con almeno 10 MET-ora/settimana di esercizio e che l’aumento di attività fìsica riduce ulteriormente il rischio cadiovascolare e la spesa per farmaci e ricoveri. Pertanto ogni MET di dispendio energetico quotidiano ed il camminare per 4 km al giorno potrebbero ridurre il rischio coronarico rispettivamente dello 0,08% e del 2,2%. Tabagismo: strategie di intervento Tra le cause di morte evitabili il fumo di tabacco è la principale: in tutto il mondo esso è responsabile del decesso di un adulto su dieci (uno ogni 6,5 secondi, pari a circa 5 milioni ogni anno, che raddoppieranno entro 20 anni se non saranno presi provvedimenti efficaci), causato, nella maggior parte dei casi, da malattie cardiovascolari e da neoplasie polmonari19. Dai dati ISTAT relativi all’anno 2007 risulta che in Italia i fumatori sono oltre 11 miolioni, pari al 21,3% della popolazione superiore ai 14 anni (28,2% maschi, 16,5% femmine)20. In Italia l’abitudine al fumo è responsabile di 85.000 decessi l’anno20,21, pari al 15-20% di tutti i casi di morte (1 persona su 6), tra i quali il 36% (circa 29.000 morti, cioè un decesso ogni 20 minuti) è dovuto ad alterazioni morfologiche e funzionali dell’apparato cardiovascolare, provocate essenzialmente dalla nicotina22. Essa determina liberazione di catecolami- Tabella 11 – Modificazione di vari parametri della sindrome metabolica e del rischio coronarico dopo 2 anni di attività fisica a diversi livelli rispetto ai soggetti di controllo17 P<0,05 Peso kg Cm vita HBA1c PA max mmHg PA min mmHg COL tot mg % COL LDL mg % COL HDL mg % TG MG % CHD % O I-X XI-XX XXI-XXX XXXI-KL >XL 0,8 1 0,03 -1,8 -4,6 -3,8 -4,5 0,1 3,4 0,1 0,6 1 -0,06 -1,5 -2,4 -5,6 -7,1 1,1 2,1 -0,3 0,1 -0,9 -0,44 -6,4 -2,9 -10,2 -3,4 2,9 -48,2 -2,6 -2,2 -3,8 -0,88 -5,5 -4,8 -10,7 -5,3 5,6 -55,2 -3,7 -3 -5,5 -1,11 -6,6 -5,3 -7,4 -6,3 10,4 -57,4 -4,8 -3,2 -7,1 1,19 -9,2 -7,1 -10,9 -7,7 6,3 -68,4 -4,3 G. Oliva et al.: Prevenzione cardiovascolare ne dalle terminazioni nervose simpatiche e dalla midollare del surrene: ne consegue aumento della pressione arteriosa per 2040 minuti e della FC del 30-40% ad ogni sigaretta fumata e quindi aumento del consumo miocardico di O2 (effetto alfaadrenergico). Questi meccanismi di tipo “funzionale” spiegano la frequenza di infarto miocardico con coronarie pervie e di angina vasospastica nei fumatori, mentre la morte improvvisa è attribuita all’effetto proaritmico dell’ossido di carbonio, degli acidi grassi liberi e delle catecolamine in eccesso22. Interventi sulla popolazione La storia naturale di molte malattie fumo-correlate può essere modificata da un efficace trattamento del tabagismo: per raggiungere questo obiettivo è necessario conoscere i presupposti teorici e l’operatività della lotta contro il fumo di tabacco. La scelta di focalizzare l’attenzione su sospensione dal fumo, abitudini di vita e comportamenti è spesso più efficace rispetto alla scelta di smettere di fumare come unico obiettivo dell’intervento terapeutico. Pertanto occorre impedire o ridurre l’iniziazione al fumo degli adolescenti, far nascere nei fumatori attivi la motivazione a smettere, mantenere l’astinenza dal fumo negli ex-fumatori. In alcune nazioni sono stati ottenuti risultati positivi nel ridurre la prevalenza dei fumatori attraverso tre interventi prioritari23: 1) Programmi di intervento a livello scolastico - Sono stati usati soprattutto negli Stati Uniti per prevenire il fumo nei giovani e si basano di solito su un training per imparare a riconoscere le influenze esterne che spingono a fumare, a darsi delle regole, a promettere o impegnarsi pubblicamente a non fumare, con particolare attenzione allo sviluppo della personalità23. Questi programmi di intervento devono iniziare tra i 4 e gli 8 anni attraverso un linguaggio pedagogico adatto per quelle fasce di età ed essere rivolti ad insegnanti motivati, al fine di evitare il consolidamento di modelli di comportamento verso il fumo. 37 2) Campagne di informazione - Radio, spot TV, giornali e cinema influenzano notevolmente usi e costumi attraverso messaggi di tipo comportamentale. È ormai dimostrato che la televisione è capace di modificare la percezione del mondo reale e dei comportamenti sociali accettabili da parte dei giovani, di contribuire alla definizione di norme culturali e di creare una immagine negativa dell’abitudine al fumo anche attraverso l’individuazione critica delle pubblicità subdole che spingono al fumo23. Purtroppo i costi di tali campagne pubblicitarie sono molto elevati e le case produttrici di sigarette hanno avuto negli anni passati il sopravvento con una pubblicità esattamente contraria. Dall’ottobre 2006 le disposizioni di legge della Comunità Europea hanno vietato la pubblicità diretta ed indiretta del tabacco. 3) Interventi mirati da parte delle istituzioni - Consistono essenzialmente in: restrizione della vendita di tabacco a soggetti di età inferiori ai 16 anni; aumento del prezzo delle sigarette in modo da ridurre il consumo di sigarette da parte dei ragazzi; creazione di luoghi per fumatori; convegni sul problema del fumo e sulle attività antifumo, con la partecipazione attiva di personaggi famosi; divieto di fumare in tutte le strutture pubbliche (es. ospedali, uffici postali, banche); manifestazioni di promozione della salute; istituzione di centri per la terapia del tabagismo23. Terapia antifumo individuale o di gruppo Per quanto riguarda la terapia antifumo sul singolo individuo sono stati proposti i seguenti metodi: – intervento minimo; – terapia cognitivo-comportamentale individuale o di gruppo; – terapia farmacologica della dipendenza da nicotina. L’intervento minimo è quello richiesto soprattutto al medico di famiglia, poiché anche il solo consiglio verbale “breve” (2-3 minuti) si è dimostrato efficace nel promuovere la motivazione del fumatore a 38 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 smettere e nell’aumentare la percentuale di coloro che smettono definitivamente24. Si tratta di un intervento standardizzato denominato nei paesi anglosassoni con la sigla 5°A: Ask (chiedere se fuma); Advice (raccomandare di smettere); Assess (identificare i fumatori motivati a smettere); Assist (aiutare a smettere con un programma terapeutico); Arrange (pianificare incontri futuri). Se questo tipo di intervento non è sufficiente e soprattutto se il paziente è già affetto da una malattia fumo correlata, è opportuno rivolgersi ad un centro antifumo, dove tale intervento sarà svolto in modo più ampio. La terapia cognitivo-comportamentale deve essere svolta da uno psicologo o da un pneumologo esperto di questi problemi25. Il trattamento farmacologico della dipendenza da nicotina consiste essenzialmente nella cosiddetta terapia sostitutiva della nicotina a base di cerotti, gomme da masticare, inalatori e capsule sublinguali26. Inoltre si sono rivelati efficaci nella disassuefazione al fumo il bupropione27 e, più recentemente, la vareniclina, la quale agisce sui recettori nicotinici28. Conclusioni Un corretto stile di vita può ridurre l’incidenza di malattie cardiovascolari di oltre l’80%29. Su quest’argomento così importante molto è stato scritto e detto a tutti i livelli (riviste mediche specialistiche e non, congressi, rotocalchi, televisione, ecc.), ma poco è stato fatto da parte della sanità pubblica (ospedali, cliniche universitarie, ASL, ecc.). Attualmente la classe medica si limita a dare istruzioni più o meno mirate sullo stile di vita solo ai cardiopatici con fattori di rischio, mentre i soggetti sani con o senza fattori di rischio sono abbandonati a se stessi. La prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari viene effettuata soltanto da qualche medico volenteroso e motivato che, con molta fatica e soltanto con progetti a termine riesce ad ottenere dalle istituzioni i mezzi necessari (attrezzature, locali, personale, agevolazioni economiche e burocratiche per la popolazione). In considerazione del fatto che le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte, è auspicabile l’istituzione di strutture ambulatoriali idonee ad un’efficace prevenzione primaria attraverso un’attenta e mirata strategia di popolazione, simile a quella attualmente in vigore per altre patologie (neoplasie dell’utero e della mammella). Bibliografia 1. Task Force on Community Preventive Services: Increasing Physical Activity: A Report on Recommendations of the Task Force on Community Preventive Services: Morbidity and Mortality Weekly Reports Recommendations and Reports 2001. Center for Disease Control 2001; 50: RR18 2. 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Carini, 71 00152 Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 Focus (Extendend abstracts del corso ECM, Ospedale San Camillo - Forlanini, Roma, 19/11/2008) MALATTIE POLMONARI RARE RARE PULMONARY DISEASES GIOVANNI SCHMID già Direttore II Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Respiratorio, Università “La Sapienza” Roma Parole chiave: Polmone. Malattie rare Key words: Lung Rare diseases Introduzione Il concetto di malattia rara deriva da un fattore numerico: si definisce come rara una malattia che colpisce cinque cittadini su diecimila nella popolazione comunitaria. Il registro delle malattie rare tenuto dalla NIH (National Institute for Health) comprende moltissime tipologie di malattie rare, per cui, nella pratica identificazione di queste malattie, esistono, in realtà, criteri molto variabili. Ad esempio, lo stesso NIH, nella relazione dell’Agosto 2006, informa che oggetto di programmi di ricerca nell’ambito polmonare sono state le seguenti malattie rare: 1) Sindrome di avanzata fase del sonno (ASPS) - 2) Deficit di alfa- l-antitripsina 3) Asbestosi - 4) Displasia broncopolmonare (BTP) - 5) Sindrome da ipoventilazione centrale congenita (CCHS) - 6) Ernia diaframmatica congenita - 7) Fibrosi cistica - 8) Fibrosi polmonare idiopatica - 9) Linfangioleiomiomatosi - 10) Narcolessia - 11) Ipertensione polmonare persistente del neonato (PPHN) - 12) Discinesia ciliare primaria (PCD) - 13) Ipertensione polmonare primaria (PPH) - 14) Proteinosi alveolare del polmone (PAP) - 15) Sarcoidosi. Una emanazione del BTS (British Thoracic Society): il BOLD (British Orphan Lung Disease) prevede le seguenti patologie polmonari rare: 1) Fibrosi polmonare idiopatica 2) Proteinosi alveolare 3) Amiloidosi bronchiale o polmonare 4) Sindrome di Churg-Strauss 5) Discinesia ciliare 6) Istiocitosi a cellule di Langerhans 7) Linfangioleiomiomatosi 8) Neurofibromatosi con coinvolgimento polmonare 9) Ipertensione polmonare primaria 10) Tumori primitivi della trachea 11) Malformazioni arterovenose polmonari 14) Malattie cutanee rare con coinvolgimento polmonare 15) Malattie digestive con coinvolgimento polmonare 16) Teleangectasia emorragica ereditaria (Malattia di Rendu-Osler) 17) Endometriosi pleuropolmonare 18) Sclerodermia con coinvolgimento polmonare 19) Deficit di alfa- l-antitripsina 20) Miopatie idiopatiche infiammatorie con coinvolgimento polmonare 21) Pneumopatia organizzata con coinvolgimento peribronchiolare 22) Pseudotumori infiammatori polmonari gravi. Nell’identificazione italiana delle malattie rare come da decreto ministeriale del 18/05/2001 n. 279 (allegato 1 del Ministro della Sanità) le malattie polmonari come tali non compaiono e l’unica citazione in proposito è nell’ambito dell’eventuale coinvolgimento polmonare delle collagenopatie. Da tutto ciò deriva che, rispettando il criterio numerico della definizione di malattia rara (5/10.000), si può proporre, considerata la tipologia dell’Azienda Ospedaliera, le afferenze per patologia e la localizzazione geografica, un elenco di malattie rare polmonari come appresso specificato: 1) Fibrosi polmonare idiopatica (FPI) 2) Sarcoidosi 3) Localizzazioni polmonari delle collagenopatie 4) Istiocitosi X e Proteinosi alveolare. 41 G. Schmid: Malattie polmonari rare Metodologia Hanno preso parte allo studio i Dr. Fabio Fiorucci, Enrico Li Bianchi, Gregorino Paone (del CUBE-Forlanini); Salvatore Antonelli (della Reumatologia-San Camillo), Gianfranco Farinelli (della 3° UOC- Forlanini), Giovanni Galluccio (della Endoscopia toracica-Forlanini), Paolo Graziano (dell’Anatomia patologicaForlanini). Le diagnosi sono state ricavate dall’archivio centrale dell’azienda usando la classificazione ICD (International Classification of Diseases) e ricavando le informazioni attraverso la scheda di dimissione ospedaliera (SDO). Un particolare elemento di difficoltà è stato rappresentato dalla identificazione della FPI in quanto questa malattia è stata sottoposta a una revisione classificatoria (Idiopatic Pulmonary Fibrosis –International Consensus Statement in Am J Respir Crit Care Med 2000; 161:646-664) che ha cercato di riorganizzare su rigorosi criteri anatomo-clinici le innumerevoli varianti e dizioni con le quali questa patologia è stata in passato riconosciuta. La identificazione più pertinente della FPI, rispetto a quella a dell’elenco sistematico delle malattie, è stata quella di Alveolite fibrosante idiopatica (codice 5163). L’esistenza, peraltro, di altre denominazioni come quella di “Altre pneumopatie alveolari e parieto-alveolari specificate” (codice 5168) e “Pneumopatie alveolari e parieto-alveolari non specificate” (codice 5169) e ancora quella di “Fibrosi polmonare post infiammatoria” (codice 515) hanno determinato una percentuale di diagnosi errate abbastanza considerevoli cosicché si è reso necessario uno studio analitico delle varie diagnosi richiamando le cartelle originali. La revisione sistematica delle cartelle relative alle altre diagnosi di malattie polmonari rare ha invece dimostrato percentuali di diagnosi errate notevolmente più contenute. Nel caso della Ipertensione polmonare primitiva, infine, la percentuale di casi nei quali la presenza di cardiopatie e/o di pneumopatie primitive è risultata, sulla base clinica e dei dati di laboratorio, così elevata da impedirci di valutare con attendibilità l’ incidenza di tale malattia nella casistica dell’ospedale. Fibrosi polmonare idiopatica (FPI) L’andamento dei ricoveri per tale patologia nel quinquennio 2002-2006 è riportato nella Tabella 1. Tabella 1 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per FPI Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH Totale: Ordinario +DH 2002 141 92 233 2003 120 108 228 2004 129 97 226 2005 155 100 255 2006 114 30 144 Totale 659 427 1086 Naturalmente molti pazienti hanno avuto, nel quinquennio, ricoveri ripetuti; pertanto nella Tabella 2 sono indicati i rapporti tra “ricoveri” e “casi” in funzione del “livello” di diagnosi. Dal punto di vista della frequenza dei ricoveri per FPI risulta evidente un andamento abbastanza omogeneo dei ricoveri negli anni 2002-2005 ed un discreto calo di questi nell’anno 2006. Le spiegazioni di tale fenomeno possono essere molteplici: per un verso l’andamento generale dei ricoveri è stato più basso in quell’anno per la riduzione di posti letto (pl) su base regionale imposta per il riequilibrio dello “sforamento” della spesa sanitaria. Inoltre nel 2006 la ristrutturazione di vari reparti all’interno dell’Azienda ha richiesto ulteriori tagli temporanei di pl. Il calo più accentuato dei ricoveri in DH nel 2006 è invece la diretta conseguenza dei nuovi criteri di accettazione dei pazienti in DH: molto più restrittivi rispetto agli anni precedenti. A conferma di tale interpretazione vi è anche il calo dei ricoveri in DH nel primo semestre del 2007, in confronto con quelli dell’anno precedente: ricoveri DH del 1° semestre 2006: 8821 vs 6604 del 1° semestre 2007. Nel grafico 1 si può notare che il calo dei ricoveri per FPI nel 2006 ha interessato tutte le UOC “mediche”. Invece in chirurgia toracica vi è un trend in aumento, confermato anche nel 2006 Grafico 1 - Distribuzione negli anni dei casi di FPI nelle 5 UOC con maggiore frequenza di casistica. Tabella 2 – FPI - Rapporto tra Ricoveri e casi in funzione del tipo di diagnosi Tipi di diagnosi Ricoveri Casi Diagnosi principale 1° Diagnosi secondaria 2° Diagnosi secondaria 3° Diagnosi secondaria 4° Diagnosi secondaria 5° Diagnosi secondaria 793 237 37 16 2 1 482 195 37 15 2 1 Totali 1086 732 42 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Tabella 3 – FPI: stima delle diagnosi “errate” su 732 casi Casi Grafico 1 – Distribuzione negli anni dei casi di FPI nelle 5 UOC con maggiore frequenza di casistica Ciò è dovuto alla sempre maggiore frequenza con cui si ricorre alla biopsia polmonare a cielo aperto, mediante “minitoracotomia”, ovvero mediante videotoracoscopia, per ottenere una diagnosi istologica di FPI, essendo il pattern istologico di UIP (Usual Interstitial Pneumonia) quello più significativamente correlato a questa patologia. Vi è da aggiungere, peraltro, che solo una minoranza di pazienti, in tutte la casistiche mondiali, è in condizioni cliniche che consentano una procedura diagnostica invasiva poichè spesso il sospetto clinico è tardivo e avviene in fase di avanzata insufficienza respiratoria. In ogni caso una diagnosi clinica di FPI è accettabile qualora si rispettino i quattro criteri maggiori previsti dalla Letteratura internazionale: 1) esclusione di altre cause di malattia interstiziale polmonare; 2) deficit ventilatorio restrittivo, spesso associato ad ipossiemia; 3) HRCT con opacità a “vetro smerigliato” o reperto di “polmone ad alveare”; 4) biopsia transbronchiale o BAL escludenti altre ipotesi diagnostiche ed almeno 3 criteri minori: età >di 50; progressiva dispnea da sforzo; durata dei sintomi > di 3 mesi; rantoli crepitanti basali. Per tale notevole complessità di diagnosi clinica (anche strumentale), nonché per le già accennate ambiguità della classificazione ICD, nella nostra casistica, in una considerevole percentuale di casi la diagnosi di dimissione di Alveolite fibrosante idiopatica (Codice 5163) non era ragionevolmente confermabile. Nella Tabella 3 sono indicate le cause maggiori di tali diagnosi “errate”agnosi “errate”. Pertanto, nel quinquennio, dalla revisione sistematica della casistica risultano ricoverati 419 “veri” casi di Fibrosi Polmonare Idiopatica. Si tratta di una casistica molto cospicua, ove si consideri che il Registro Italiano delle Pneumopatie Innfiltrative Diffuse (RIPID), cui afferiscono 79 Centri in 20 Regioni italiane, ha censito in 4 anni (dal 2000 al 2004) 864 casi (Sarcoidosis Vasc Diffuse Lung Dis 2005; 22 Suppl 1: S4-8). Esami insufficienti Altre interstiziopatie:(a lveolite desquamativa, BOOP,) Altre cause “infiammatorie”: (HIV polm interstiziale, bronchiettasie) Collagenopatie e vasculiti Polmone da stasi Fibrotorace post Tbc Connesse a neoplasie: fibrosi da reggi e/o chemioterapia Sarcoidosi Totale 146 43 % su diagnosi “errate” 46 13 % su tutte le diagnosi di FPI 20 6 30 10 4 22 7 3 21 21 7 7 3 3 17 6 2 13 313 4 100 2 Analizzando le principali associazioni morbose della FPI (Tab. 4) si può rilevare che esse sono “in sintonia” con l’età medio-avanzata di insorgenza della malattia e con le conseguenze funzionali e cliniche –anche a livello cardiovascolare- di una patologia polmonare fibrosante e progressiva. Sarcoidosi Nella Tabella 5 sono riportati i ricoveri per sarcoidosi nei vari anni. Tabella 4 – FPI: principali associazioni morbose in % Fibrosi: associazioni morbose Insufficienza respiratoria Diabete tipo II Dispnea Ipertensione e cardiopatia ipertensiva Cuore polmonare cronico Cardiopatia ischemica % 12 7,5 5,6 4 2,9 2,9 Tabella 5 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per Sarcoidosi Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH 2002 2003 2004 2005 2006 Totale 50 40 36 38 63 227 60 93 124 122 18 417 Totale: Ordinario +DH 110 133 160 160 81 644 43 G. Schmid: Malattie polmonari rare Analogamente a quanto osservato per la FPI, anche per la Sarcoidosi nel 2006 si è registrato un importante diminuzione dei ricoveri (circa la metà, rispetto ai 2 anni precedenti) con una redistribuzione dei ricoveri a favore della Degenza Ordinaria, vista la difficoltà di ricorrere al DH. Nel Grafico 2, relativo alle 5 UOC in cui i Ricoveri per Sarcoidosi sono stati maggiori, è evidenziato il trend di crescita dei Ricoveri per Sarcoidosi fino al 2005 e il calo dei Ricoveri nel 2006 (con l’eccezione della Chirurgia Toracica). I motivi di tale andamento sono verosimilmente gli stessi invocati per la FPI. Nella Tabella 6 sono indicati i rapporti tra Ricoveri e Casi in funzione dei diversi livelli di diagnosi. Per la Sarcoidosi i Ricoveri multipli sono risultati percentualmente maggiori rispetto alla FPI, verosimilmente in funzione dei frequenti controlli durante il trattamento steroideo e dei successivi ripetuti follow-up per verificare eventuali recidive di malattia. In ogni caso il numero di casi di Sarcoidosi nel quinquennio (338) è di tutto rispetto nei confronti dei 1063 casi censiti dal RIPID su scala nazionale in un quadriennio. Anche per la Sarcoidosi si è proceduto ad una “verifica” delle diagnosi richiamando le cartelle cliniche. In questo caso però tutte le diagnosi sono risultate corrette (salvo 4 errori di codifica e 2 casi di successiva diagnosi di Grafico 2 – Distribuzione negli anni dei ricoveri per Sarcoidosi nelle 5 UOC con maggiore frequenza casistica Tabella 6 – Sarcoidosi - Rapporto tra Ricoveri e casi in funzione del tipo di diagnosi Tipi di diagnosi Diagnosi principale Ricoveri 583 Casi 285 1° Diagnosi secondaria 45 38 2° Diagnosi secondaria 8 7 3° Diagnosi secondaria 6 6 4° Diagnosi secondaria 1 1 5° Diagnosi secondaria 1 1 644 338 Totali Grafico 3 – Sarcoidosi: principali associazioni morbose; in % (Ipertens = Ipertensione arteriosa; Osteopor = Osteoporosi; Bronch cr = Bronchite cronica; Insuff res = Insufficienza respiratoria; Gozzo = Gozzo nodulare) Tbc) e ciò in quanto nel 98% dei casi si è trattato di diagnosi istologiche. Nel Grafico 3 sono indicate le frequenze percentuali delle principali associazioni morbose con la Sarcoidosi. Come si può notare, con l’eccezione del gozzo si tratta di patologie verosimilmente secondarie al trattamento steroideo protratto ed alla evoluzione verso il rimodellamento e la fibrosi di alcune forme a localizzazione polmonare. Localizzazioni polmonari delle connettiviti Sclerosi Sistemica-Sclerodermia (SS) con interessamento pleuro-polmonare Nel quinquennio, i casi di SS con interessamento polmonare sono riportati nella Tabella 7. Sul totale di 193 ricoveri per sclerodermia/ sclerosi sistemica ad interessamento polmonare, tenendo conto dei ricoveri ripetuti, i casi nel quinquennio sono stati 107. Di questi 86 femmine e 21 maschi. Le principali associazioni morbose sono riportate nella Tabella 8. Dermatomiosite-Polimiosite I ricoveri per Dermatomiosite-Polimiosite dal 2002 al 2006 sono indicati nella Tabella 9. Tabella 7 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per SS con interessamento polmonare Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH 2002 2003 2004 2005 2006 Totale 17 23 30 46 22 138 2 25 13 8 7 55 Totale: Ordinario +DH 19 48 43 54 29 193 44 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Tabella 8 – SS con interessamento polmonare: principali associazioni morbose SS a loc polm: associazioni morbose Raynaud Ipertensione polmonare Ipertensione arteriosa Osteoporosi e fratture vertebrali patologiche Esofagite da reflusso Casi stimati 19 22 16 8 9 Tabella 9 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per Dermatomiosite-Polimiosite Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH 2002 2003 2004 2005 2006 Totale 3 5 9 3 9 29 4 8 10 5 6 33 Totale: Ordinario +DH 7 13 19 8 15 62 Tenendo conto dei ricoveri ripetuti i casi di Dermatomiosite-Polimiosite nel quinquennio sono stati 32. Di tali 24 erano femmine e 8 maschi. Le principali associazioni morbose sono riportate nel Grafico 4. Sindrome di Sjögren Nella tabella 10 sono indicati i ricoveri per Sindrome di Sjögren Tenendo conto dei ricoveri multipli i casi di Sjögren nel quinquennio sono stati 150. Di questi le femmine erano 144 e i maschi 6. Le principali associazioni morbose sono indicate nel Grafico 5. Lupus Eritematoso Sistemico (LES) L’andamento dei ricoveri nel quinquennio è riportato nella Tabella 11. Tabella 10 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per Sjögren Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH 2002 2003 2004 2005 2006 Totale 22 34 24 18 13 111 20 21 24 23 9 97 Grafico 4 – Dermatomiosite-Polimiosite: principali associazioni morbose: in % Totale: Ordinario +DH 42 55 48 41 22 208 (Ipertens = Ipertensione arteriosa; Fratt vert = Fratture vertebrali patologiche; Br cron = Bronchite cronica; Fibr polm = Fibrosi polmonare) Grafico 5 – Sjögren: principali associazioni morbose; in % (Iprtens = Ipertensione arteriosa; Paraprote = Paproteinemia monoclinale; Tiroidite = Tiroidine linfocitaria). Tabella 11 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per LES Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH 2002 2003 2004 2005 2006 Totale 41 53 49 53 36 232 62 70 66 63 42 303 Totale: Ordinario +DH 103 123 115 116 78 535 Tenendo conto dei ricoveri ripetuti i casi di LES nel quinquennio sono stati 225. Di questi casi 202 erano relativi a femmine e 23 a maschi. Nella Tabella 12 sono indicate le principali associazioni morbose. Tabella 12 – LES: principali associazioni morbose su 535 ricoveri LES: associazioni morbose Nefropatie o insufficienza renale cronica Ipertensione arteriosa Complicanze pleuro-polmonari Raynaud Arterite non specifica Diabete tipo II Anemia sideropenica Osteoporosi Frattura patologica vertebrale Casi 64 42 35 19 16 16 13 20 14 45 G. Schmid: Malattie polmonari rare Com’è noto nelle collagenopatie le femmine prevalgono nettamente sui maschi: nel Grafico 6 sono riportate le differenze per singola malattia. Istiocitosi a cellule di Langherans (Istiocitosi X). Nel quinquennio si sono avuti 23 ricoveri la cui distribuzione annuale è indicata nella Tabella 13. Tenendo conto dei ricoveri successivi il numero dei casi di Istiocitosi X nel quinquennio è di 14, così distribuiti nelle varie UO: 3 casi dalla Chirurgia plastica; 2 casi da Broncopneumologia e da Epatologia; 1 caso da Ematologia, Malattie dell’Apparato digerente, Dietologia, Neurologia, Neurochirurgia,Chirurgia d’urgenza, Pediatria. Proteinosi alveolare Nel quinquennio si sono avuti 20 ricoveri la cui distribuzione annuale è indicata nella Tabella 14. Tenendo conto dei ricoveri successivi il numero dei casi di Proteinosi alveolare nel quinquennio è di 7, così distribuiti nelle varie UO: Grafico 6 – Numero di femmine per ciascun maschio nelle varie collagenopatie Tabella 14 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per Proteinosi alveolare Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH 2002 2003 2004 2005 2006 Totale 1 0 1 3 13 18 1 1 0 0 0 2 Totale: Ordinario +DH 2 1 1 3 13 20 Tabella 13 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per Istiocitosi X Anno Ricovero Ordinario Ricovero DH 2002 2003 2004 2005 2006 Totale 8 4 2 5 1 20 0 0 1 1 1 3 Totale: Ordinario +DH 8 4 3 6 2 23 2 casi dall’Endoscopia toracica ed uno ciascuno da STIRS, 2 Broncopneumologia, 6 Broncopneumologia, TIRER, Chirurgia toracica. Conclusioni Nell’Azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini molte delle cd “Malattie polmonari rare” non lo sono affatto, a conferma dell’importanza e del richiamo dell’Azienda nell’ambito delle malattie respiratorie. 1086 ricoveri per Fibrosi polmonare idiopatica e 644 per Sarcoidosi, nel quinquennio, rappresentano una casistica, rispetto a quella del Registro Italiano delle Pneumopatie Infiltrative Diffuse (RIPID) di circa la metà (per la FPI) e di circa il 25% (per la sarcoidosi). Inoltre un alto riscontro di frequenza emerge dalla casistica del coinvolgimento polmonare nelle malattie del connettivo nonché dalla Casistica di Istiocitosi X e Proteinosi alveolare. Questi risultati sono il frutto di un’ intensa collaborazione e tra le UOC di Pneumologia, di Reumatologia, di Chirurgia toracica, di Radiologia, di Anatomia patologica di Endoscopia toracica e di molti altri. È auspicabile che tale collaborazione sia mantenuta in seguito alla prevista redistribuzione, con accorpamento, delle UOC all’interno del solo Ospedale S. Camillo. 46 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 FIBROSI POLMONARE IDIOPATICA GIANFRANCO FARINELLI III UO Pneumologia, Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma La Fibrosi Polmonare Idiopatica (IPF) viene definita(Consensus Steatment ATS/ERS 2002) come una forma di polmonite interstiziale fibrosante cronica da causa sconosciuta, limitata al polmone, associata ad un quadro istopatologico di UIP (Usual Interstitial Pneumonia). La malattia è caratterizzata clinicamente da dispnea da sforzo e tosse stizzosa ad esordio cronico, e da insufficienza ventilatoria di tipo restrittivo che porta ad un progressivo deterioramento funzionale. Essa manifesta purtroppo una cattiva prognosi: la maggioranza degli studi riporta infatti una mediana di sopravvivenza di circa 4 anni dall’inizio dei sintomi, più ridotta se valutata dal momento della diagnosi La IPF appartiene a quel gruppo di patologie polmonari conosciute come malattie interstiziali polmonari (ILD: interstitial lung diseases, o anche DPLD: diffuse parenchymal lung diseases). In particolare fa parte del sottogruppo delle Polmoniti Interstiziali Idiopatiche, di cui rappresenta la forma di più frequente riscontro. Come detto la IPF è la malattia che si associa al pattern anatomopatologico conosciuto come Usual Interstitial Pneumonia (UIP), e per tale motivo è correntemente definita anche con il termine di IPF/UIP. Incidenza e prevalenza sono difficilmente valutabili Si tratta comunque di una malattia “rara”, di cui si ritiene siano affette circa 5 milioni di persone al mondo. I dati più affidabili indicano una incidenza presumibile del 10,7 per 100.000 per gli uomini e del 7,4 per 100.000 per le donne, mentre la prevalenza è stimata rispettivamente al 20,2 e al 13,2 per 100.000. I dati dell’ultimo decennio stanno ad indicare un deciso aumento di incidenza in tutto il mondo. La malattia si manifesta comunemente fra la quinta e la settima decade di vita; meno di frequente sono colpiti individui <ai 40 anni, assai raramente i bambini. Sono descritti casi familiari. L’eziologia rimane tuttora pressoché sconosciuta. Alcuni fattori ambientali sono stati chiamati in causa; tra questi il fumo di sigaretta, anche se non ne è stato ancora stabilito l’esatto ruolo patogenetico. La patogenesi non è ancora sufficientemente chiarita: attualmente si ipotizza che alla base della malattia non vi siano fenomeni puramente infiammatori –come precedentemente ritenuto- bensì un danno diffuso e ripetuto dell’epitelio alveolare che si accompagna ad un’ alterazione dei meccanismi di riparazione cicatriziale e che conduce ad un incontrollato processo di trasformazione fibrotica. La diagnosi La classificazione delle IIP è basata su criteri istologici (pattern istologici). Secondo le Linee Guida ATS/ERS la diagnosi finale di ciascuna forma si raggiunge attraverso la stretta correlazione fra dati clinici, aspetti radiologici (pattern radiologico) ed aspetti istopatologici (diagnosi clinico-radiologico-patologica). La distinzione fra IPF/UIP e le altre forme di polmonite interstiziale (in particolare la NSIP, molto simile alla IPF per aspetti morfologici) è di fondamentale importanza, poichè la IPF/UIP è la forma che presenta la prognosi di gran lunga più grave rispetto alle altre. L’algoritmo diagnostico prevede la raccolta dei diversi elementi clinici e strumentali, anche con il ricorso ad indagini invasive o seminvasive (in particolare la Fibrobronoscopia con BAL e Biopsia Transbronchiale, e la Biopsia polmonare chirurgica) per poter differenziare la IPF da tutte le altre forme di interstiziopatia polmonare. È da rilevare che pattern morfologici assai simili a quelli della IPF possono essere riscontrati in altre condizioni, come le localizzazioni polmonari di malattie collageno-vascolari, le polmoniti da ipersensibilità, le pneumopatie da farmaci e alcune di quelle da esposizione ambientale; tutte queste forme secondarie devono essere escluse con criteri clinici. Aspetti clinici Il sintomo fondamentale è costituito dalla dispnea da sforzo, progressivamente ingravescente, associato a tosse stizzosa. L’ intervallo fra comparsa della sintomatologia e diagnosi è in genere fra i 6 e i 24 mesi. Sintomi generali (dimagramento, febbre, artralgie…) non sono usuali, e orientano verso forme secondarie. In circa il 90% dei casi paucisintomatico. Dita a bacchetta di tamburo si riscontrano in circa il 50% dei pazienti. Il reperto ascoltatorio è costituito dai crepitii inspiratori, prevalentemente basali (tipo velcro). Nelle forme avanzate è frequente l’ipertensione polmonare, e il quadro 47 G. Schmid: Malattie polmonari rare clinico è quello dell’insufficienza respiratoria cronica, cui può associarsi cuore polmonare. Non esistono specifiche anormalità nei parametri di laboratorio; è frequente il riscontro di positività a basso titolo del fattore reumatoide e dell’ANA, di significato aspecifico. Dal punto di vista funzionale si osserva: deficit ventilatorio restrittivo, riduzione della capacità di diffusione del CO (DLCO) assai precoce (spesso precede la riduzione dei volumi), ipossiemia con normo-ipocapnia, il cui grado correla con l’entità e l’evoluzione della malattia. La tolleranza allo sforzo, valutabile con il test del cammino, è ridotta. degli scambi gassosi; -HRCT dimostrativa di un pattern “confident” o possibile di IPF. In assenza di biopsia la diagnosi rimane incerta, ma può essere formulata sulla base di diversi criteri (definiti dalle Linee Guida come maggiori e minori), i più importanti dei quali sono quelli radiologici (pattern HRCT tipico), funzionali (deficit restrittivo, ipossiemia) e clinici (dispnea, crepitii, età>50 anni, esclusione di condizioni patologiche note), quando BAL e Biopsia Transbronchiale non supportino diagnosi alternative. Aspetti radiologici La IPF può avere decorso variabile, L’andamento tipico descritto è cronico, con graduale declino della funzione respiratoria; in alcuni casi però si osserva una progressione molto veloce con un rapido exitus. In genere l’evoluzione procede “a gradini”, con periodi di relativa stabilità intervallati a successive fasi di peggioramento legate a fenomeni di riacutizzazione. Frequenti gli eventi sovrapposti: complicanze infettive, tromboembolia polmonare, scompenso cardiaco, carcinoma broncogeno. Sono definite “esacerbazioni acute” o “fasi accelerate” della IPF gli episodi di improvviso peggioramento della malattia in assenza di fattori scatenanti che comportano peggioramento del quadro clinico-funzionale e HRCT con gli aspetti caratteristici della forma definita AIP (acute interstitial pneumonia), e che conducono spesso a exitus. Per monitorare decorso e risposta alla terapia è necessario controllare nel tempo l’evoluzione dei dati funzionali (PFR, DLCO, emogasanalisi, test del cammino) e del quadro HRCT. Diversi parametri sono stati individuati come predittori prognostici, principalmente le variazioni della FVC, della DLCO, del test del cammino, del quadro HRCT. La Rx torace standard è generalmente alterata, ma con aspetti poco specifici (quadri reticolonodulari). Le alterazioni radiologiche caratteristiche della IPF possono riscontrarsi con la HRCT, e sono costituite da: -Ispessimento fibrotico del piccolo interstizio con opacità a chiazza prevalentemente periferiche, subpleuriche, bibasali, di tipo reticolare – Honeycomb subpleurico - Bronchiettasie e bronchioloectasie da trazione - Enfisema parafibrotico e da trazione-Sovvertimento strutturale - Riduzione volumetrica dei lobi. L’associazione di ispessimento dei setti ad interessamento subpleurico, honeycomb e bronchiettasie è altamente diagnostico e assolutamente specifico della IPF (confident IPF pattern). Va esclusa la presenza di aspetti non caratteristici che orientino verso differenti diagnosi: groundglass predominante, infiltrati nodulari, adenopatie significative. Aspetti istopatologici La biopsia polmonare chirurgica (VATS o toracotomica) rappresenta il gold standard per la diagnosi ed è raccomandata in tutti i casi sospetti. Il pattern istopatologico è come detto quello definito Usual Interstitial Pneumonia (UIP), caratterizzato da: zone di fibrosi di aspetto eterogeneo, con disomogeneità spaziale e temporale delle lesioni (alternanza di aree di parenchima normale e aree colpite); presenza di foci fibroblastici; aree di honeycomb. Un pattern UIP è riscontrabile anche in forme secondarie: malattie del collageno, pneumopatie da farmaci o da ipersensibilità, asbestosi, sindrome di Hermansky-Pudlak. La diagnosi certa è possibile solo con dati istopatologici, e richiede: -pattern istopatologico UIP; -esclusione di malattie da cause note; -deficit ventilatorio restrittivo e/o riduzione Decorso Terapia Non esiste tuttora una terapia che possa considerarsi realmente efficace nel migliorare la sopravvivenza o la qualità della vita. La strategia “classica”, in assenza di valide alternative, prevede un trattamento immunosoppressivo con steroidi + azatioprima o ciclofosfamide; la sua efficacia però non è supportata da evidenze scientifiche. Sulla base delle attuali conoscenze patogenetiche (preminenza di disordini fibroploriferativi piuttosto che infiammazione) sono stati sperimentati nuovi farmaci per la prevenzione o il blocco della fibrosi, per i quali sono già disponibili risultati 48 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 di trials clinici. L’Interferon gamma-1b è quello che ha suscitato il maggior interesse e sono emersi in diversi studi risultati incoraggianti in quanto a sopravvivenza e decadenza funzionale, risultati che non sono però stati confermati dall’ultimo trial clinico randomizzato.La N-acetilcisteina al dosaggio di 1800 mg/die –in associazione alla terapia immunosoppressivasi è dimostrata efficace nel preservare i para- metri funzionali. Il Pirfenidone ha dimostrato risultati promettenti su parametri funzionali ed è attualmente in corso di sperimentazione su larga casistica. Altre molecole sono state già oggetto di sperimentazione, senza però evidenza di provata efficacia. Per il momento, quindi. il trapianto di polmone costituisce l’unica strategia terapeutica in grado di prolungare la sopravvivenza. SARCOIDOSI ENRICO LI BIANCHI Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti (CUBE) Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma La Sarcoidosi è una malattia multisistemica, ad eziologia ignota, ad impronta granulomatosa, che frequentemente colpisce il polmone e può, in alcuni casi, evolvere verso la fibrosi polmonare. Nel polmone si manifesta con una adenopatia ilare bilaterale ed infiltrati polmonari, spesso si associa a lesioni oculari e cutanee ma gli organi colpiti sono anche le ghiandole salivari, i linfonodi, il fegato, la milza, il cuore, le ossa, i muscoli ed anche il sistema nervoso. Il granuloma non caseicante è la lesione diagnostica fondamentale della malattia. Caratterizza la malattia una esagerata reattività immunologica locale di tipo TH1 (helper inducer) CD4+ per la produzione di IFN-γ ed IL-2. Associata all’attivazione immunologica locale, può presentarsi una depressione sistemica della reattività immune T cellulare, che esprime una linfopenia CD4, con depressione della reattività tubercolinica, in contrapposizione ad una attivazione policlonale della reattività immune di tipo B, che si evidenzia con esagerata attività anticorpale contro diversi antigeni e la presenza di immunocomplessi. Epidemiologia Nonostante il grande numero di studi immunologici ed anatomopatologici condotti l’epidemiologia della Sarcoidosi presenta problematiche irrisolte, favorite sicuramente dalla variabilità della presentazione clinica, dalla mancanza di un test diagnostico preciso, associato all’assenza di una precisa definizione di malattia e di procedure diagnostiche standardizzate. La malattia può colpire persone di qualsiasi razza, sesso ed età, tuttavia mostra una consistente predilezione per gli adulti di età inferiore ai 40 anni, con prevalenza per la fascia compresa tra i 20 e i 29 anni. In Giappone e nei paesi scandinavi si evidenzia un secondo picco di incidenza tra le donne di età superiore ai 50 anni. Per quanto concerne la distribuzione per razza, numerosi studi mostrano che gli Afroamericani mostrano forme più acute e gravi rispetto ai pazienti Caucasici, che frequentemente manifestano forme cliniche asintomatiche o ad andamento cronico. La mortalità per Sarcoidosi è stimata tra 1 e il 5%. Genetica La possibilità di trasmissione della malattia e l’esistenza di una causa ambientale sono stati evidenziate in alcuni studi epidemiologici, mentre altri hanno mostrato, come per la tubercolosi, una maggiore espressione della malattia alla fine del periodo invernale e durante la primavera. È stata evidenziata, in numerosi studi, l’esistenza di cluster familiari di malattia, tra i fratelli in Irlanda e Giappone e tra gli Afroamericani in USA, suggerendo una suscettibilità ereditaria della malattia. Lo studio del Complesso Maggiore di Istocompatibilità HLA evidenzia come il rischio di malattia sia legato ad una espressione multigenica, in particolare è stata evidenziata una associazione tra la malattia e i geni HLA-B8 e HLA-DR3, HLA-DR5 e HLA-DP Nello stadio I l’esordio acuto e la risoluzione spontanea di malattia nei soggetti di razza 49 G. Schmid: Malattie polmonari rare Caucasica si associa la presentazione dei geni HLA-B8 e HLA-DR3, mentre sia nei Caucasici che negli Asiatici, i geni HLA-DR5, DR14 e DR15 si associano agi stadi II e III che non risolvono e mostrano progressione. È stato riscontrato recentemente che le forme che tendono alla risoluzione presentano frequentemente HLA-DRB1*03, mentre nelle forme ad andamento cronico frequente si associa HLA-DRB1*15. Ed ancora sembrano esistere degli alleli legati alla possibilità di indurre la malattia, come HLA-DR11, 12, 14, 15, 17, ed altri quali HLA-DR9 ad azione protettiva per gli scandinavi e gli HLA-DR1, HLA-DR4 e HLA-DQ*0202 protettivi per molte popolazioni. Due sono le ipotesi sul ruolo dei geni nella risposta immune nella Sarcoidosi, nella prima, i geni HLA funzionano come regolatori della risposta immune nel rispondere alla stimolazione di antigeni o superantigeni, con esagerata espansione di cloni TH1 ed esagerata e continua risposta immune che è tipica della malattia, nella seconda ipotesi i geni HLA-B8 e HLA-D3 agiscano non nella selezione e presentazione dell’antigene ma, avendo espressione per vicinanza ai loci HLA di classe II sul cromosoma 6, al gene polimorfico del TNF-α, una citochina in grado di regolare l’intensità e il tipo di risposta immune, che con un suo allele TNF2 legato al HLA-DR3 contribuisce ad indurre esaltata risposta caratteristica della malattia in stadio I e della frequente risoluzione spontanea. Nei pazienti HLA-DR5, il TNF1 contribuirebbe allo sviluppo di una reazione più torpida, con caratteristiche dell’esordio in stadio II e III legate ad una minore guarigione spontanea. Eziologia Per quanto l’eziologia della malattia rimanga sconosciuta ci sono tre differenti aspetti che esprimono l’idea che la Sarcoidosi sia il risultato di una esposizione a particolari agenti ambientali, in soggetti geneticamente predisposti alla reazione, quali gli studi epidemiologici già citati, la risposta infiammatoria che, nei pazienti con Sarcoidosi, esprime un modello di produzione di citochine nel polmone più accentuata verso la risposta TH1 innescata da un antigene ed infine i diversi studi sui recettori delle cellule T (TCR) nei pazienti con tale malattia. Sul ruolo dei diversi antigeni, in grado di stimolare la risposta immune caratteristica del quadro patologico, la lista dei responsabili si è continuamente ampliata nel corso degli anni: tra gli agenti infettanti Virus (Herpes, Epstein Barr, Retrovirus, Cytomegalovirus, Coxsakie B), la Borrelia burgdorferi, il Mycoplasma, il Propionibacterium acnes, la Nocardia, la Chlamydia, il Mycobacterium tubercolosis ed altri Mycobatteri; tra le sostanze inorganiche il Talco, lo Zirconio e l’Alluminio mentre tra le sostanze organiche sono stati ipotizzati il polline del Pino e l’Argilla. Immunologia L’alterazione immunologia che caratterizza la malattia è rappresentata dall’accumulo di linfociti CD4+ di tipo Th1 e di Macrofagi, Tale espressione è caratteristica dell’alveolite essudativa con marcato aumento dell’ ELF (epithelial lining fluid), presente negli spazi aerei e nell’interstizio polmonare, come evidenziato dallo studio del BAL. Il rapporto CD4/CD8 risulta aumentato, fino oltre il 20:1. I Linfociti attivati esprimono spontaneamente il gene dell’ IL2, con rilascio di IL2 e produzione di IFNγ, citochine che caratterizzano la risposta immune granulomatosa TH1, ciò determina una attivazione dei Macrofagi e trasformazione in cellule giganti. I Macrofagi, fenotipicamente caratterizzati come di provenienza dal circolo ematico, sono capaci di presentare l’Ag, di stimolare la proliferazione linfocitaria e di indurre risposta TH1. I Macrofagi esprimono un elevata densità di molecole HLA di classe II ed esprimono una capacità di presentazione degli Ag più marcata rispetto ai normali Macrofagi. La secrezione di IL2 e IFNγ da parte de CD4 e la successiva produzione di IL12 e 18, determina una esaltata reazione T mediata, ulteriore rilascio di citochine e chemiochine con attivazione di cellule infiammatorie cui consegue, nelle sedi di lesione, la formazione dei granulomi. I Macrofagi attivati, con la produzione di citochine proinfiammatorie quali IL12, 6 e TNFα che partecipano alla formazione e mantenimento del granuloma, vengono secreti fattori di crescita per i fibroblasti che intervengono nel processo della fibrosi. La reazione granulomatosa si spegne in un periodo compreso tra i 3 e i 5 anni, probabilmente per l’azione inibente esplicata dai CD8 e dalla IL10 che inibisce la reazione infiammatoria, non è ancora del tutto chiaro come in alcuni soggetti la malattia si risolva rispetto ad altri dove il processo continua ne come tale persistenza conduca alla fibrosi, si ritiene che il passaggio da una espressione TH1 ad una TH2, con produzione di IL4 e 10, favorisca il persistere della malattia e il successivo determinismo della fibrosi. 50 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Anatomia Patologica Il granuloma sarcoideo può esprimersi in una lesione di noduli millimetrici o in conglomerati di diversi centimetri, caratteristico è l’aspetto a catenelle, distribuiti lungo il decorso dei linfatici che nei polmoni hanno distribuzione subpleurica, settale, pervasale e peribronchiale. Nella fase avanzata di malattia sono evidenti conglomerati, fibrosi e cisti. Le cellule epitelioidi, di derivazione macrofagica, voluminose con citoplasma eosinofilo e attività metabolica, a volta fuse a formare cellule giganti con caratteristici nuclei periferici. Sono presenti inclusi cellulari, quali i corpi di Schaumann e i corpi steroidi, espressione dell’invecchiamento cellulare. Al centro del granuloma sono disposti i CD4 e i Macrofagi attivati mentre in periferia si evidenziano i CD8 e i Macrofagi con attività di presentazione dell’Ag. I granulomi possono risolversi completamente o lasciare una cicatrice fibro-ialina. Clinica La malattia può avere un esordio asintomatico, acuto o subacuto, nella forma asintomatica la diagnosi occasionale viene posta successivamente ad una rx del torace, mentre nelle forme acute si manifestano astenia, febbricola, artralgie, calo ponderale, tosse e dispnea, A livello cutaneo può presentarsi eritema nodoso che se associata ad adenopatia ilare, febbre e artralgie qualifica la sindrome di Löfgren. A volte nelle forme croniche gli unici sintomi sono la tosse stizzosa e la dispnea da sforzo ingravescente. La manifestazione polmonare rappresenta il 90% dei casi; la classificazione internazionale suddivide la malattia in 4 stadi, 0 con rx normale, I linfoadenopatia ilo-mediastinica bilaterale, II adenopatia ilare ed infiltrati interstiziopatici polmonari, III infiltrati polmonari talvolta ad aspetto fibrotico. Il quadro della funzionalità respiratoria mostra un sindrome disventilatoria restrittiva e una riduzione del trasporto alveolo capillare dei gas (DLCO), può associarsi iperreattività nel test alla metacolina. Raro il versamento pleurico. Le lesioni oculari (uveite) è presente in una percentuale variabile tra 11 e 83%. L’interessamento cutaneo è presente nel 25% dei casi, mentre il fegato può presentare lesioni in una percentuale fino al 50-80% ed il coinvolgimento cardiaco è presente nel 5%. La Neurosarcoidosi è presente in meno del 10% dei pazienti, raro l’interessamento dei muscoli ed ossa ma frequente è la presenza di artralgie, mentre le ghiandole salivari presentano interessamento in circa il 10% dei pazienti. Diagnosi L’accertamento di malattia si avvale: di una corretta anamnesi, per raccogliere l’eventuale esposizione ambientale o occupazionale, lo studio radiologico del torace fino all’esecuzione di una HRCT, i test di funzionalità respiratoria, gli esami ematici, sierologici e delle urine,ECG, PPD, la visita oculistica, la diagnosi istologica delle lesioni ottenuta con biopsia intratoracica o mediante biopsia transbronchiale, il lavaggio broncoalveolare con studio delle sottopopolazioni linfocitarie CD4 e CD8, la scintigrafia con Ga67. Terapia In considerazione dell’alta percentuale di guarigione spontanea della malattia nello stadio I il trattamento farmacologico va riservato allo stadio II con presenza di sintomi e/o progressione radiologica o deficit della funzione respiratoria, allo stadio III, alla sarcoidosi extratoracica con localizzazioni pericolose e di fronte ad una severa astenia o perdita di peso. Gli steroidi per via sistemica rappresentano la terapia di elezione, lo Statement ATS/ ERS/WASOG raccomanda prednisone 20-40 mg/die per 30-90 gg con successiva riduzione a 5-10 mg/die e prosecuzione per un anno. Nelle forme resistenti sono raccomandati, in alternativa o in associazione agli steroidi, i farmaci immunosoppressori: Methotrexate 10-25 mg/ week, Azathioprina 50-200 mg/die, Cyclofosfamide 50-150 mg/die o 500-2000 mg ogni 2 settimane ev. , Clorochina 200-400 mg/die. Attualmente sono in atto studi controllati con Inflixamab. 51 G. Schmid: Malattie polmonari rare MARKERS DI INFIAMMAZIONE E SEVERITÀ DI MALATTIA NELLA SARCOIDOSI GREGORIO PAONE Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti (CUBE) Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma La Sarcoidosi è una malattia granulomatosa sistemica ad eziologia sconosciuta caratterizzata da una risposta immunitaria di tipo T-helper-1 con accumulo di linfociti CD4+ e di macrofagi attivati con conseguente formazione di granulomi. Può colpire qualsiasi organo ma rivela una particolare predilezione per il distretto toracico (polmone e stazioni linfonodali). Dal punto di vista clinico si caratterizza per la notevole variabilità di manifestazioni che sembra essere dovuta non tanto all’agente eziologico (peraltro a tutt’oggi sconosciuto) ma soprattutto alla risposta dell’ospite. In altre parole è il nostro patrimonio genetico che determina la predisposizione alla malattia, la sua manifestazione clinica, la sua evoluzione e la sua sensibilità o meno alla terapia. A tale proposito è ampiamente riportato in letteratura che tra le diverse etnie esistono differenze nella presentazione, nella severità e nel decorso della malattia. Per esempio è stato evidenziato che la Sarcoidosi si presenta nella razza nera in modo più severo, mentre nei bianchi è più frequentemente asintomatica o non progressiva. Per quanto riguarda le manifestazioni cliniche è stato osservato che l’uveite è più frequente negli afro-americani, l’eritema nodoso negli scandinavi, il lupus pernio nei portoricani, mentre le manifestazioni cardiologiche si presentano soprattutto nei giapponesi. Anche per quanto riguarda la storia naturale della patologia si è osservato che una quota di pazienti va incontro a remissione spontanea (20-50%), una parte di essi (15-25%) ha bisogno di terapia e ancora in qualcuno la malattia progredisce nonostante l’utilizzo ottimale di regimi terapeutici appropriati. Nel corso degli anni sono stati sviluppati numerosi studi genetici alla ricerca di geni candidati per la sarcoidosi. I loro prodotti sono proteine o gruppi di proteine che hanno importanza biologica nella malattia. Va sottolineato che non sempre esiste una relazione lineare tra gene, proteina e malattia, a volte il gene può essere legato ad un altro gene che è il vero “responsabile” o “co-responsabile” della patologia. Oggi è chiaro che, numerosi geni, (come quelli che regolano l’espressione degli antigeni di istocompatibilità –HLA- o che codificano molecole coinvolte nei meccanismi immunologici), regolati in modo polimorfico, contribui- scono alla suscettibilità ed alle modalità di presentazione della sarcoidosi (Tab. 1). La possibilità di sapere “ a priori” i pazienti che regrediranno spontaneamente o quelli che avranno bisogno della terapia o ancora che tenderanno a non rispondere ad essa, ha stimolato una serie di ricerche per individuare biomarkers capaci di predire l’evoluzione di tale disordine. Nel 1999 lo Statement on Sarcoidosis dell’American Thoracic Society fornendo un preciso scenario dello stato dell’arte su questa patologia fa il punto “cosa noi sappiamo” e “cosa ci piacerebbe sapere” su questo disordine . Nell’elenco dei desiderata uno dei primi posti viene occupato dall’identificazione di test capaci di predire l’eventuale progressione di malattia o la sua non risposta alla terapia. Se prendiamo in esame la storia naturale della patologia ci rendiamo conto probabilmente di due cose: la prima è che di fronte alla elevata possibilità di guarigione spontanea il primo interrogativo è quali pazienti trattare; la seconda è che probabilmente trattiamo più pazienti di quanti in realtà ne avrebbero bisogno. Questo spiega perché nel corso degli anni sono stati effettuati innumerevoli studi (più di 1500 pubblicazioni) allo scopo di identificare markers di evoluzione della sarcoidosi. Tabella 1 Recettori antigenici dei linfociti T e B • Iperespressione di Va2.3 TCR (nella sarcoidosi acuta) • Immumoglobulin-G heavy chain (effetto protettivo del fenotipo Gm sulla suscettibilità alla malattia) Regolatori ella presentazione e processazione antigenica • Tap (transporte associated with antigen processing) regola suscettibilità alla malattia • Erythocyte complement receptor 1 (CR1) (il genotipo Pro1827 Arg aumenta la suscettibilità a sviluppare sarcoidosi) Chemochine • CCR2-641 allele (effetto protettivo sulla suscettibilità a sviluppare la malattia) • CCR5 δ 32 (la delezione aumenta la suscettibilità) Molecole proinfiammatorie • IL1 (aumenta rischio) • IL18 (aumenta rischio) • TNFα (S. di Loefgren) • TNFβ (sarcoidosi acuta) 52 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Lo studio delle molecole implicate nella patogenesi della sarcoidosi ha portato sicuramente un notevole avanzamento delle nostre conoscenze sui meccanismi di tale patologia e potrebbe rivelarsi utile nella ricerca di “indicatori” di comportamento di questo disordine. Nel corso degli anni molte citochine sono state evidenziate come possibili indicatori di evoluzione di malattia (IL-2, TNF-alfa IL-8 , IL-12, IL-18,IL-10), a volte anche con risultati non del tutto concordanti. La sarcoidosi è stata la patologia più ampiamente studiata attraverso l’analisi del liquido di lavaggio bronchiale dall’avvento di tale metodica e lo studio del profilo cellulare e della componente molecolare ha contribuito all’individuazione di markers con un qualche potenziale utilizzo clinico. Per quanto riguarda lo studio della componente cellulare nel corso degli anni è stata evidenziata di volta in volta l’importanza di linfociti, neutrofili, eosinofili e cellule natural killer come markers diagnostici, prognostici e di risposta alla terapia. Se gli studi effettuati su cellule e sarcoidosi sono stati nel corso degli anni molto numerosi, la letteratura abbonda di articoli che propongono indicatori molecolari in grado di predire il decorso clinico di tale patologia con particolare attenzione allo stato di attività della stessa. Nel corso degli anni si è passati da molecole “storiche” come l’angiotensin converting enzyme (ACE) a molecole del tutto recenti come la chitotriosidasi, la CC chemokine ligand 18, gli anticorpi anti-cellule endoteliali e le defensine. Ognuna di queste molecole si è dimostrata utile nel monitorare questa patologia ma purtroppo una elevata sensibilità e specificità si è dimostrata possibile solo per alcune. Un notevole miglioramento è stato possibile attraverso l’impiego di pannelli di marcatori usati in combinazione. Nuovo e carico di speranze è senz’ altro l’approccio proteomico che consente di analizzare contemporaneamente il profilo proteico di un determinato campione biologico, permettendo in questo modo di caratterizzare uno specifico pattern proteico per ogni patologia. Si è potuto osservare in tal modo che alcune proteine correlano con la stadiazione della sarcoidosi. Allo stato attuale è presto per dire quale proteina o gruppo di proteina possa rivelarsi utile come marker diagnostico o di evoluzione della sarcoidosi ma le differenze osservate tra sarcoidosi e altre patologie interstiziali come la fibrosi polmonare idiopatica fanno pensare che in futuro tale approccio possa essere usato con successo. In conclusione, dopo molti anni di ricerca non è stato individuato un marker sufficientemente sensibile e specifico per la diagnosi di sarcoidosi (solo il rapporto CD4/CD8 sembra essere d’aiuto), per la prognosi (esiste una discreta correlazione tra clinica , chitotriosidasi e sIL-2R), per il rischio di fibrosi ( sembra correlare con TNF-alfa e CCL18). Sono passati circa 10 anni da quando gli esperti di ATS/ERS nel loro statement auspicavano lo sviluppo di markers capaci di predire la progressione di malattia e ad oggi possiamo dire di non essere ancora in grado di rispondere esaurientemente a questa domanda. Molti sforzi sono stati fatti e molti progressi sono stati ottenuti ma ad oggi il miglior marker di malattia sembra essere ancora il monitoraggio dei cambiamenti funzionali indotti dalla sarcoidosi negli organi coinvolti …. Senza dimenticare però che nella ricerca scientifica quello che alcuni anni prima sembrava confinato ad una “mera” speculazione è diventato oggi parte integrante di una pratica diagnostica sicuramente avanzata ma ormai interamente acquisita … Alcuni geni coinvolti nella patogenesi della sarcoidosi. LOCALIZZAZIONI POLMONARI DELLE CONNETTIVITI SALVATORE ANTONELLI U.O.C. di Reumatologia, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma L’impegno polmonare in corso di malattie del tessuto connettivo è sicuramente una complicanza temibile sia per la prognosi, spesso sfavorevole, che la scarsa efficacia dei presidi terapeutici attualmente a disposizione. Nonostante il polimorfismo dei quadri clinici e istopatologici, a cui la localizzazione polmonare può dar luogo, è possibile identificare alcuni pattern peculiari: polmonite interstiziale usuale (UIP), polmonite interstiziale non specifica (NSIP), danno alveolare diffuso (DAD), bronchiolite obliterante polmonare organizzativa (BOOP), capillarite necrotizzante, emorragia polmonare, polmonite interstiziale linfocitaria (LIP), linfomi MALT, noduli reumatoidi. In corso di Lupus Eritematoso Sistemico (LES) il coinvolgimento dell’apparato respiratorio può essere suddiviso in tre gruppi: pleuropolmonare primitivo, pleuropolmonare secondario, complicanze infettive. Tra le prime 53 G. Schmid: Malattie polmonari rare la più frequente è la pleurite che ricorre nel 40-60% dei casi, risente favorevolmente della terapia rappresentata prevalentemente da cortisone e antimalarici e può quindi contare su una prognosi favorevole. Il secondo gruppo è rappresentato dalla polmonite interstiziale cronica (5% dei casi), dalla polmonite lupica (4%), dall’emorragia alveolare (1%), dall’ipertensione polmonare (1%). Si tratta di evenienze per fortuna rare ma estremamente severe, che conducono spesso il paziente a morte, sia per la gravità del quadro clinico che per la scarsa responsività alla terapia. Per completezza ricordiamo infine il deficit restrittivo di origine extrapolmonare (Shrinking Lung Syndrome), la tromboembolia (tipica della sindrome da anticorpi antifosfolipidi associata a LES), la bronchiolite obliterante (BO) e la bronchiolite obliterante con polmonite in fase di organizzazione (BOOP), l’ipossiemia acuta reversibile e la sindrome da distress acuta dell’adulto (ARDS). La terapia prevede l’uso di cortisone ad alte dosi (compresa la somministrazione di boli e.v.) e di immunosoppressori (azatioprina, ciclofosfamide). Nelle forme particolarmente gravi è prevista l’intubazione e la ventilazione meccanica assistita. La pneumopatia sclerodermica viene distinta in due quadri: l’alveolite fibrosante (AF) e l’ipertensione polmonare (IP) secondaria a vasculopatia. La prima ricorre prevalentemente nella sclerosi sistemica a forma cutanea diffusa (ScScd), compare nei primi 4 anni e si caratterizza per la presenza dell’anticorpo anti Scl-70. L’IP è più frequente nella sclerosi cutanea limitata (ScScl), si manifesta a 10-20 anni dall’esordio della connettivite ed è sostenuta dalla cosiddetta “lesione plessiforme”, caratterizzata da zone di vasi disorganizzati nel cui interno si rilevano cellule endoteliali, muscolari lisce e miofibroblasti. La terapia della AF è costituita dall’associazione di steroidi e ciclofosfamide mentre nell’IP si è soliti somministrare calcio-antagonisti, pro- staciclina e suoi analoghi, bosentan (antagonista recettoriale dell’endotelina-1). La sindrome di Sjogren (SS) primitiva, malattia sistemica autoimmune rappresentata da compromissione delle ghiandole salivari esocrine e talvolta associata a sviluppo di malattie linfoproliferative a partenza dai linfociti B, si caratterizza per un impegno polmonare, secondario al coinvolgimento dell’epitelio tracheo-bronchiale o ad infiltrazione interstiziale con quadri di polmonite interstiziale, alveolite linfocitaria, localizzazione da linfomi. La pleurite, l’amiloidosi, il granuloma plasmacellulare e la miopatia diaframmatica sono lesioni di raro riscontro. L’impegno polmonare in corso di Dermatomiosite/Polimiosite è tutt’altro che infrequente e spesso di entità così rilevante da rappresentare una importante causa di invalidità e/o di morte. I quadri più frequenti sono rappresentati da interstiziopatia, da complicanze di natura infettiva favorite dalla terapia rappresentata da steroidi e immunosoppressori, da polmoniti provocate da aspirazione di materiale gastrico, da insufficienza respiratoria secondaria a lesione dei muscoli respiratori, infine da ipertensione polmonare. Caratteristica è la correlazione tra l’interstiziopatia e la presenza dell’anticorpo anti Jo-1. Il trattamento prevede l’uso dei corticosteroidi e immunosoppressori tra cui trova indicazione preminente la ciclofosfamide. Nella Connettivite Mista (CM) il quadro polmonare più temibile è costituito dall’ipertensione polmonare, la cui presenza è stimata tra il 23 e il 30%. Seguono la pleurite e la fibrosi polmonare. Rare manifestazioni sono rappresentate dalla tromboembolia polmonare (associata alla presenza di anticorpi antifosfolipidi) e dalle polmoniti da aspirazione. La terapia della CM è sovrapponibile a quella in uso nelle altre connettiviti: cortisone e immunosoppressori. Nell’IP è indicato l’impiego di vasodilatatori, anticoagulanti, analoghi delle prostaglandine e antagonisti del recettore dell’endotelina-1. L’ISTIOCITOSI POLMONARE A CELLULE DI LANGHERANS (PLCH) E LA PROTEZIONE ALVEOLARE FABIO FIORUCCI Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti (CUBE) Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma Istiocitosi polmonare (PLCH) È definita come una rara malattia granulomatosa ad eziologia sconosciuta, che si riscontra in giovani adulti fumatori, prevalentemente di sesso maschile, caratterizzata da accumulo di cellule di Langherans (LCs). Rappresenta meno del 5% delle interstiziopatie polmonari. Costituisce la forma, prevalentemente localizzata, di un gruppo di malattie, dette istiocitosi, la cui definizione si è andata delineando solo negli ultimi anni. 54 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 La cellula di Langherans, da questi scoperta nel 1868, è un istiocita specializzato, che si trova nello strato malpighiano ed ha il compito di captare antigeni, processarli e presentarli ai linfociti T presenti sulla cute. Ha positività per antigeni CD1a, CD68 e HLA-Dr e la proteina S-100 Nel 1961 venivano scoperti con il microscopio elettronico i granuli di Birbeck, ritenuti uno specifico marker delle cellule di Langherans. Le Istiocitosi (LCH) Farber nel 1941 trovava caratteristiche anatomo patologiche simili in tre malattie, definite istiocitosi X, e riteneva che queste fossero espressione dello stesso disordine immunologico, con diversa espressione clinica ed interessamento di organi diversi: 1. Malattia di Letterer Siwe 2. Malattia di Hand-Schuller- Christian 3. Granuloma eosinofilo dell’osso. Malattia di Letterer-Siwe: nei bambini. È una forma diffusa, con interessamento di polmoni, ossa, fegato, milza, linfonodi. Ha un decorso rapidamente infausto. Malattia di Hand-Schuller-Christian: nell’infanzia o adolescenza. Si manifesta con esoftalmo, diabete insipido e lesioni osteolitiche del cranio. Progressione lenta. Granuloma eosinofilo dell’osso: interessa le ossa degli adulti, con prognosi favorevole. A queste 3 forme nel 1973 Hashimoto e Pritzker aggiungevano una quarta malattia, con il nome di Reticolo-istiocitosi congenita, una forma di istiocitosi presente alla nascita e localizzata alla cute (Malattia di Hashimoto e Pritzker). In 1987, la Histiocyte Society proponeva il termine Langerhans cell histiocytosis per definire le histiocytosis X. I pazienti con LCH si dividono in: (a) quelli con interessamento di un singolo organo; (c) quelli con interessamento di più organi. Inoltre anche le forme isolate possono avere evoluzione diversa, cioè diffusa. Tuttavia la maggioranza dei pazienti con interessamento polmonare ha malattia localizzata al polmone. (Favara BE, Feller AC, Pauli M, et al. Contemporary classification of histiocytic disorders: the WHO Committee on Histiocytic/ Reticulum Cell Proliferations. Reclassification Working Group of the Histiocyte Society Med Pediatr Oncol 1997; 29:157). Le cellule che si trovano in queste malattie sono uguali a quelle di Langherans della cute, infatti: – sono cellule istiocitarie contenenti i granuli di Birbeck, cioè strutture citoplasmatiche presenti anche nelle cellule dell’epidermide (Nezelof 1973) – presentano reazioni immuno-istochimiche identiche agli stessi tipi cellulari dell’epidermide. Tuttavia a differenza di queste: Hanno un numero più elevato di granuli di Birbeck: – Si colorano più intensamente con il CD1a ed esprimono più antigeni, più molecole leucocitarie e molecole di adesione. – Conclusione: si tratta di cellule attivate. Il danno tissutale è dato dall’interazione con macrofagi e linfociti e la formazione di granulomi. A livello polmonare la proliferazione cellulare può essere ritenuta di tipo neoplastico? In realtà l’evoluzione maligna è rara ed il tasso di proliferazione è per lo più basso. Eziologia: il fumo L’associazione con il fumo di tabacco è presente con frequenza elevata, vicina al 100%. Le lesioni iniziali hanno sede peribronchiale, come nel danno da fumo. Nel BAL dei fumatori si trovano cellule di Langherans in numero più elevato rispetto ai non fumatori. La PLCH rappresenta una risposta immune non controllata ad antigeni esogeni sconosciuti nella quale le LCs si comportano come cellule accessorie nell’attivazione di T linfociti. L’attivazione cellulare sembra dovuta ad aumentata produzione di citochine quali in particolare il GM-CSF, il TNF. Infatti l’evoluzione delle lesioni è quella tipica di una risposta immune, con predominanza iniziale di linfociti e LCs, e finale di fibrosi con scarsa cellularità. (Gerald F. Abbott,et al. Pulmonary Langerhans Cell Histiocytosis. RadioGraphics 2004; 24:821). Anatomia patologica Le lesioni caratteristiche sono granulomi mal definiti, costituiti da C. di Langerhans attivate, associate a cellule infiammatorie, come linfociti, macrofagi ed eosinofili. Un numero elevato di eosinofili, in particolare nelle lesioni ossee, è all’origine della denominazione di Granuloma eosinofilo utilizzata per le forme localizzate. L’aspetto delle lesioni dipende dallo stadio: le lesioni precoci (fase attiva) sono granulomatose, composte essenzialmente da numerosissi- 55 G. Schmid: Malattie polmonari rare me CL raggruppate, morfologicamente simili alle CL normali, fatta eccezione per la presenza di un numero maggiore di granuli di Birbeck. Clinica Interessa giovani adulti con età media di 20-40 anni. Il quadro d’esordio è variabile, asintomatico con riscontro occasionale nel 25% dei casi. I sintomi sono aspecifici. BAL La cellularità totale è aumentata, con modesto aumento dei neutrofili e degli eosinofili; nella malattia in fase attiva aumentano anche i linfociti, con riduzione del rapporto CD4:CD8. Le cellule di Langerhans nel BAL possono essere identificate mediante uno specifico anticorpo monoclonale (MT-1) per la loro positività CD1 (OKT-6); vengono inoltre marcate da anticorpi diretti contro la proteina S-100; altro dato importante è la presenza dei granuli di Birbeck, visibili in microscopia elettronica. Diagnosi Un valore di cellule di Langerhans superiore al 5% nel BAL è fortemente suggestivo. La biopsia transbronchiale presenta un’alta percentuale di falsi negativi, devono essere pertanto attuate tecniche più invasive, come la biopsia polmonare toracoscopica o toracotomica. Funzionalità respiratoria Le alterazioni variano a seconda dello stadio e dell’estensione della malattia. In fase iniziale: Riduzione della DLCO, attribuibile ad una distruzione della membrana alveolo-capillare più che ad un suo ispessimento, al coinvolgimento vascolare ed alla conseguente alterazione del rapporto ventilazione-perfusione. Inizialmente i volumi polmonari statici sono normali anche in presenza di alterazioni radiologiche Nell’evoluzione si ha riduzione della capacità vitale (CV) e della capacità polmonare totale (CPT); quest’ ultima può anche risultare normale, in seguito ad un aumento del volume residuo (VR), conseguenza dell’intrappolamento aereo nelle cisti. Prognosi Non prevedibile: frequenti le remissioni spontanee, ma anche il progressivo peggioramento, con lo sviluppo di insufficienza respiratoria; mortalità variabile dal 2% al 30% nelle differenti casistiche. Indici prognostici sfavorevoli: 1. un’età più avanzata al momento della diagnosi (>26 anni), 2. l’interessamento di più organi, 3. una storia clinica più lunga, 4. la presenza di numerose cisti alla TAC, 5. la riduzione del DLCO all’atto della diagnosi, 6. un quadro funzionale di tipo ostruttivo con iperdistensione parenchimale e la persistenza del fumo. Terapia Sospensione dal fumo: possibili remissioni spontanee. La pleurodesi nei pazienti con pneumotorace spontaneo può comportare benefici. Gli steroidi, solo nei casi di malattia progressiva e caratterizzata da grave compromissione clinico-funzionale; pur non essendo disponibili dati univoci sulla loro reale efficacia. In associazione o in alternativa agli steroidi alcuni autori utilizzano differenti farmaci: citostatici alchilanti (come la ciclofosfamide), antimetaboliti o alcaloidi della vinca, prevalentemente nelle forme di malattia diffusa; mancano, tuttavia, dati univoci sul loro utilizzo nelle forme ad esclusivo interessamento polmonare. In letteratura sono presenti segnalazioni sporadiche di terapie alternative, soprattutto in forme diffuse e steroido-resistenti, come ad esempio la penicillamina, la 2clorodeossiadenosina o il trapianto di midollo allogenico. Nei pazienti non responsivi alla terapia medica e caratterizzati da una severa insufficienza respiratoria il trattamento elettivo è il trapianto polmonare. La proteinosi alveolare È una pneumopatia infiltrante, diffusa, rara, caratterizzata dal riempimento alveolare di materiale ricco di proteine e lipidi, PAS positivo, che ricorda il surfactante. Interessa soggetti di età media, prevalentemente maschi ( rapporto M/F = da 2 a 4/1), ma può trovarsi in bambini molto piccoli. Un’alterazione della clearance del surfactante, insieme ad anomalie dei macrofagi alveolari, porta all’accumulo di frazioni di surfactante anormale In lavori recenti messo in evidenza il ruolo del GM-CSF. Si distinguono: Forme primitive: ad eziologia non determinata, sono le più frequenti. 56 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Forme secondarie, dovute a: 1. Inalazione di polvere. Malattie ematologiche (linfomi, leucemie), od immunitarie (deficit immunologici come aplasia timica nei bambini o AIDS negli adulti). 2. Nei bambini: deficit ereditario di proteina B del surfactante. 3. Infezioni, come la nocardiosi e la TBC. Sintomatologia Radiologia – Opacità a vetro smerigliato bilaterali. – Aree di consolidamento ad aspetto di noduli o chiazze nelle zone centrali e che tendono a confluire nelle zone inferiori. – d.d. con edema polmonare. – Raramente forme asimmetriche. – HRCT: patologica anche in Rx normali. – Aspetto a “pavimentazione pazza”. Diagnosi 1. Nel 30% assenza di sintomi (scoperta casuale). 2. Dispnea da sforzo ingravescente, ipossia ed ipocapnia. 3. Tosse secca o con espettorato gelatinoso od a blocchi come un “calco bronchiale”. 4. Emottisi rara. 5. Sintomi sistemici come astenia, febbricola. BAL – Nel 70% aspetto lattescente. – Presenza di materiale amorfo, PAS positivo. – Cellularità aumentata. – Diminuzione dei macrofagi, lieve aumento di linfociti e neutrofili. – Presenza di grossi corpi eosinofili acellulari su un fondo di materiale basofilo. – Livelli elevati di proteine del surfactante. – Presenza di un quadro radiologico compatibile con edema polmonare, in presenza di sintomi scarsi e non compatibili. – BAL: liquido lattiginoso, materiale proteinaceo PAS positivo. Terapia L’evoluzione della malattia è molto variabile con remissioni completa in oltre 1/3 dei pazienti. La terapia si basa su lavaggi polmonari localizzati, effettuati con il fibrobroncoscopio, o diffusi, in anestesia generale. I risultati di questo trattamento portano ad un miglioramento nella quasi totalità dei casi, con aumento della PO2. Possibili le recidive. La prognosi può essere infausta in presenza di forme secondarie a malattie ematopoietiche (E. Briens et al. Lipoproteinose alveolare polmonaire. Rev Mal Respir 2002; 19:166). IL RUOLO DELLA BRONCOSCOPIA E DEL BAL GIOVANNI GALLUCCIO, GABRIELE LUCANTONI U.O di Endoscopia Toracica, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma La broncoscopia riveste un ruolo fondamentale nella raccolta di materiale cito-istologico per la diagnosi delle malattie polmonari rare, con particolare riguardo alle interstiziopatie. Le tecniche principalmente utilizzate sono il Lavaggio Bronco-Alveolare (BAL), la biopsia transbronchiale (BTB), l’Ago-aspirato transbronchiale (TBNA) e la biopsia transcarenale (BTC). Si ritiene che nella storia naturale delle patologie interstiziali del polmone il primo processo anatomicamente riconoscibile sia l’alveolite cioè l’aumento del numero di cellule a funzione infiammatoria ed immunitaria nell’interstizio e anche all’interno dell’alveolo. Il BAL rappresenta una possibilità importante per conoscere le popolazioni cellulari presenti nell’ambiente alveolare durante l’evoluzione di una interstiziopatia. Alcuni pattern cellulari sono tipici di forme particolari di interstiziopatia anche se tranne rari casi non possono essere considerati in assoluto definitivi per la diagnosi ma vanno interpretati nel contesto della storia della malattia, e del quadro complessivo clinico-radiologico. Il lavaggio broncoalveolare (BAL) consiste nella instillazione di soluzione fisiologica in piccole quote ripetute nelle vie aeree distali e nel recupero dell’aspirato per l’analisi delle componenti cellulari e non cellulari. Si tratta di una tecnica che differisce concettualmente dal semplice aspirato bronchiale in quanto la instillazione ed il recupero di materiale riguardano il tratto bronchiolo-al- 57 G. Schmid: Malattie polmonari rare veolare le cui cellule e i vari componenti non cellulari sono rappresentativi del sistema infiammatorio ed immunitario di tutto il tratto respiratorio inferiore. Quadro cellulare normale nel BAL Il liquido del Bal presenta in genere una percentuale di macrofagi intorno al 92%, il 7% di linfociti e meno dell’1% di altre cellule (neutrofili, eosinofili, basofili). Per quanto riguarda i linfociti va precisato che pur assumendo il numero masiimo normale intorno al 10-15% sono possibili in soggetti sani incrementi transitori del loro numero senza che questo rifletta una situazione patologica. Nei fumatori il numero totale di cellule può essere tre volte superiore a quello dei soggetti normali e il numero di macrofagi anche 4 volte superiore rispetto ai non fumatori con aumento percentuale anche in rapporto alle altre cellule. Anche i neutrofili sono aumentati nei fumatori (circa 6 volte) e inoltre rimangono elevati anche negli ex fumatori (circa il doppio dei non fumatori). Analizzando i sottotipi di linfociti del BAL si rileva che il 73% sono linfociti T, il 7% linfociti B e il rimanente 19% non è classificabile con i marcatori di superficie. Il rapporto normale tra linfociti Th e Ts è di 1,6-1,8. Il rapporto H/S è inoltre inferiore nei fumatori. Utilità clinica del Bal La utilità diagnostica è molto limitata. Nella Istiocitosi X le cellule di Langherans CD1+ aumentano oltre il 4%. Nella emorragia alveolare la quantità di emosiderina correla con la gravità del sanguinamento. Notevole valore riveste il BAL nella proteinosi alveolare dove il liquido recuperato è tipicamente lattiginoso e contiene macrofagi schiumosi, detriti cellulari, globuli extracellulari positivi alla colorazione con PAS. Nel paziente immunocompromesso con sospetto di infezione opportunistica il BAL è la metodica di scelta per raccogliere campioni dalle vie aeree distali e in caso di infezione da P. Carinii la sensibilità supera il 95%. Sarcoidosi I linfociti sono aumentati e in particolare aumentano i CD4 che sono considerati i marcatori dell’alveolite in fase acuta. Il rapporto CD4/CD8 è aumentato e valori tra 3,5 e 4,0 sono virtualmente diagnostici ma sempre in relazione al quadro clinico complessivo in quanto la diagnosi di sarcoidosi rimane ancora legata alla definizione istologica. Va inoltre ricordato che al momento della diagnosi il 30% dei pazienti ha un rapporto CD4/CD8 normale e il 10% può avere un rapporto diminuito. Nella sarcoidosi avanzata (quadro fibrotico) si può riscontrare un aumento della conta dei neutrofili. Un aumento del numero di mastociti oltre lo 0,5% sembra indicare una tendeza evolutiva negativa. Fibrosi polmonare Nella fibrosi polmonare idiomatica non esistono quadri cellulari di conferma diagnostica, piuttosto il BAL può servi re ad escludere altre patologie infatti normalmente non si rileva un aumento dei linfociti che se presente dovrebbe orientare verso altre patologie come la sarcoidosi o l’alveolite allergica estrinseca. Il quadro cellulare più suggestivo è rappresentato da un aumento dei neutrofili e degli eosinofili ma la diagnosi definitiva dovrebbe prevedere l’esame istologico con metodica chirurgica in quanto le biopsie transbronchiali non assicurano materiale sufficiente per l’evidenziazione dei pattern istologici diagnostici come i fibroblastic foci. Alveolite allergica estrinseca Il lavaggio broncoalveolare è la metodica più sensibilenella diagnosi di AAE. Si rileva in questi casi una aumento dei linfociti (anche a livelli superiori al 60%) con inversione del rapporto CD4/CD8, la presenza di plasmacellule, di macrofagi schiumosi e un aumento dei mastociti. È possibile anche un aumento dei neutrofili in particolare se l’espozione all’antigene è recente, inoltre la percentuale di mastociti tende a diminuire con l’allontanamento dall’esposizione e quindi lavaggi seriati possono essere utili per monitorare e verificare l’allontanamento dall’esposizione all’antigene. I linfociti invece tendono a rimanere elevati anche in pz asintomatici non più esposti all’antigene e quindi non rappresentano un marker di malattia attiva. La biopsia transbronchiale ,in genere eseguita con pinze bioptiche di piccole dimensioni, giunge a prelevare campioni di tessuto polmonare posto tra due bronchioli ramificati oppure frammenti di parete bronchiolare e, per tale motivo, questa metodica è particolarmente indicata in caso di malattie interstiziali, alveolari, miliari o nodulari. Individuata la zona della lesione con l’ausilio delle immagini TC, si introduce il broncoscopio flessibile nel bronco segmentario e lo si incannula; si procede quindi all’introduzione delle pinze nel canale dilavoro. È possibi- 58 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 le anche utilizzare una guida radioscopica, con la quale si può raggiungere con maggiore sicurezza la zona da sottoporre a prelievi bioptici. Processi della più svariata natura possono colpire i linfonodi mediastinici: infettivi, granulomatosi, linfoproliferativi, neoplastici. Una delle sedi che per la sua particolare posizione risulta essere facilmente aggredibile a fini diagnostici dall’endoscopista è quella sottocarenale. Tale sede può essere raggiunta mediante puntura transbrochiale con ago flessibile attraverso il canale operativo del broncoscopio flessibile che consente di prelevare materiale citologico o anche istologico (a seconda del tipo di ago 21 o 19 Gouge). La metodica endoscopica più efficace rimane comunque quella con broncoscopio rigido. In tal modo sarà possibile introdurre nel lume dello strumento aghi rigidi taglienti, con o senza parte terminale a ghigliottina, di grosso calibro (inferiore ai 20 Gouge), che consentono il prelievo di carote di tessuto adeguate alla lavorazione istologica. L’importanza di poter effettuare un prelievo sufficientemente grande sono intuitive secondo il giusto principio che maggiore è la quantità di tessuto patologico asportata migliori sono le probabilità per il patologo di fare una corretta diagnosi istologica. IL DECISIVO RUOLO DEL PATOLOGO NELLE MALATTIE POLMONARI RARE PAOLO GRAZIANO Servizio Anatomia e Istologia Patologica, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma Le interstiziopatie polmonari (IP) rappresentano un ampio gruppo di pneumopatie che possono condividere caratteristiche morfologiche, cliniche e radiologiche. In quest’ambito, il patologo riveste un ruolo decisivo nell’individuazione delle lesioni elementari utili alla definizione di ciascuna singola entità nosologica. Solo occasionalmente, le biopsie bronchiali, trans bronchiali o polmonari, forniscono al patologo informazioni di per sé diagnostiche e specifiche per una determinata eziologia. Infatti, a causa del limitato numero di possibili modificazioni citoarchitetturali osservabili nel distretto polmonare, i patterns patologici nelle differenti IP, tendono a sovrapporsi. Pertanto, il raggiungimento di una corretta diagnosi ed il conseguente adeguato trattamento terapeutico, devono essere il frutto dell’integrazione multidisciplinare clinico-radiologica-patologica. Ciò nonostante, l’analisi microscopica del materiale bioptico da parte di un patologo dedicato, consente di ottenere informazioni rilevanti circa l’eziologia, l’attività, la reversibilità e la prognosi di ciascuna IP. L’approccio per pattern alla diagnosi di IP tiene conto della cronologia della patologia in esame (danno polmonare acuto, subacuto o cronico) e la integra con le caratteristiche delle lesioni elementari microscopiche osservate e la loro relativa distribuzione nel contesto dell’architettura polmonare. La presenza di edema, necrosi epiteliale, essudato fibrinoso negli spazi alveolari, con o senza membrane jaline, è il pattern caratteristico del danno alveolare diffuso (DAD), che in via di organizzazione, esita in proliferazione di pneumociti di tipo II, riassorbimento delle membrane jaline e degli essudati alveolari e conseguente proliferazione fibroblastica, sia negli spazi alveolari che nell’interstizio. Questo determinato pattern sottende una serie di differenti eziologie (es: infezioni, tossicità farmacologica o da raggi, malattie del collagene associate, sindromi emorragiche od idiopatica), alla cui corretta individuazione il clinico è chiamato attraverso l’integrazione tra esame obiettivo, anamnesi ed i dati di laboratorio (Fig.1A). Al contrario, la presenza di fibrosi interstiziale avanzata comporta un’irreversibile alterazione della microstruttura polmonare ed individua, se associata alla presenza di focolai di fibrosi attiva (fibroblastic foci) e di honeycombing microscopico, l’archetipo delle IP fibrosanti rappresentato dalla polmonite interstiziale idiopatica (UIP). Ricordando che il patologo individua pattern e non entità cliniche, è necessario rammentare che IP con pattern UIP comprendono pneumopatie interstiziali ad eziologia nota (es: pneumoconiosi, polmonite da ipersensibilità in fase cronica, malattie sistemiche del collagene, polmonite eosinofila cronica organizzata, sarcoidosi, istiocitosi a cellule di Langerhans, reazioni croniche a farmaci od a radiazioni), il cui corretto riconoscimento comporta prognosi significativamente migliori rispetto alla forma idiopatica (Fig.1B). 59 G. Schmid: Malattie polmonari rare Quando poi, la lesione elementare è rappresentata dalla presenza d’infiltrazione diffusa del parenchima polmonare da parte di linfociti e plasmacellule, il pattern morfologico osservato ha come prototipo la polmonite interstiziale non specifica (NSIP). È all’interno di questo pattern che lo pneumologo può frequentemente svelare sottostanti patologie sistemiche del collagene (Fig.1C) od autoimmuni (artrite reumatoide, lupus, scleroderma, polimiosite o dermatomiosite, sindrome di Sjogren, cirrosi biliare primitiva, tiroidite di Hashimoto o glomerulonefriti), polmoniti da ipersensibilitào malattie linfoproliferative. Il pattern, invece, sottolineato dal consolidamento del parenchima polmonare, in forma diffusa o parziale, abbraccia IP differenti sia in termini cronologici che qualitativi, tra cui la polmonite interstiziale diffusa (DIP), la bronchiolite respiratoria (RB) associata o me- no a fibrosi interstiziale (RBILD), il polmone emorragico, la polmonite eosinofila e le forme infettive polmonari acute od in via d’organizzazione. È proprio il riconoscimento microscopico degli elementi caratteristici, cellulari o non, che coinvolgono le cavità alveolari, che consentono al patologo di discriminare all’interno di una varietà di IP a differente prognosi e terapia. Purtroppo, differenti IP si possono manifestare con uguale pattern di consolidamento polmonare che non è quasi mai specifico, se non con l’eccezione della proteinosi alveolare (materiale granulare proteinaceo endoalveolare) e della polmonite cronica eosinofila (macrofagi, fibrina ed eosinofili nelle cavità alveolari). Infatti, l’individuazione di un pattern a tipo polmonite in via di organizzazione (OP), rappresentato dal riconoscimento di gettoni polipoidi di proliferazione miofibroblastica all’interno A: Danno alveolare diffuso (infezione da B: Pattern fibrosante UIP in Lupus Sistemico Eritematoso Pneumocistis Carinii) C: Pattern fibrosante NSIP in scleroderma D: Pattern organizing pneumonia in tossicita da amiodarone Fig. 1. E: Granulomi bronchiolocentrici in polmonite F: Linfangioleiomiomatosi polmonare da aspirazione 60 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 dei bronchioli terminali, dei dotti alveolari ed alveoli, è molto comune e sottintende una varietà di cause. Tra le principali, si rammentano la forma infettiva, da aspirazione (Fig. 1D), da tossicità farmacologica, da ostruzione delle vie aeree, associata a malattie del collagene ed infine, solo dopo aver escluso clinicamente tutte le precedenti, la forma idiopatica. È utile ancora una volta ricordare come non bisogna riferirsi al quadro istopatologico come ad una sentenza diagnostica, ma come ad un elemento di un puzzle in cui solo l’incastro con i tasselli della clinica e della radiologia consente il corretto inquadramento diagnostico. Il distintivo pattern nodulare, riconoscibile anche radiologicamente, restringe la diagnostica differenziale delle IP a lesioni polmonari frequentemente ad eziologia infettiva, ma che possono comprendere anche la sarcoidosi e la berilliosi, la silicosi, l’istiocitosi a cellule di Langerhans e la granulomatosi di Wegener. La puntuale descrizione morfologica della distribuzione e della qualità delle lesioni no- dulari, ancor più se rappresentate da granulomi, consentono di suggerire ipotesi infettive rispetto alla sarcoidosi, alla pneumoconiosi o malattie da aspirazione (Fig.1E) o da iniezione endovenosa. In ultimo, è proprio l’abilità del patologo dedicato che consente di supportare una diagnosi di IP anche in occasione di una biopsia polmonare apparentemente “normale”. Infatti, in corso di patologia veno-occlusiva polmonare, malattia delle piccole vie aeree (small airway diseases), linfangioleimiomatosi (Fig.1F), le lesioni possono essere impalpabili anche microscopicamente, ma se inserite in un adeguato contesto clinico-radiologico, consentono il raggiungimento di una diagnosi specifica. In conclusione, la capacità di riconoscere e correttamente inquadrare le IP, passa attraverso il superamento della logica monodisciplinare e si deve avvalere del contributo delle singole professionalità coinvolte, attraverso l’analisi, la condivisione e l’integrazione delle informazioni cliniche, radiologiche e patologiche. IL RUOLO DELLE IMMAGINI NELLE INTERSTIZIOPATIE GIOACCHINO PEDICELLI Direttore UOC Radiologia Forlanini, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma Quello delle interstiziopatie è stato da sempre uno dei capitoli più confusi della diagnostica medica. Altrettanto confuso è stato il linguaggio e le numerose classificazioni prodotte dalla letteratura. Un formidabile aiuto nel creare ordine in materia è derivato dall’impiego clinico corrente della TC ad alta risoluzione (HRCT) che ha contribuito a costruire dei pattern anatomo-radiologici, con l’obiettivo di tipizzare in vivo, in modo non invasivo, alcune fra le più comuni forme di patologia polmonare interstiziale. Di particolare interesse risulta l’attuale classificazione delle polmoniti interstiziali idiopatiche basata sulla diagnostica HRCT. Volendo fare una ricostruzione storica della evoluzione del concetto di interstiziopatie, possiamo risalire ai primordi della radiologia con l’espressione “accentuazione della trama”, che aveva un significato vago e che tuttavia continua ad essere usato ancora oggi quale elemento di semeiotica radiologica senza alcun corrispettivo concreto. I primi tentativi di descrivere in modo concreto l’impegno interstiziale del polmone risalgono al 1930 con la elaborazione della prima classificazione radiografica delle pneumoconiosi. Negli anni ’70 la semeiotica radiologica sente l’esigenza di stabilire caratteri distintivi fra alterazioni di tipo interstiziale rispetto a quelle di tipo alveolare, facilitando con ciò il riconoscimento delle patologie interstiziali. In realtà una tale distinzione non trova un corrispettivo adeguato rispetto ai dati dell’anatomia patologica poiché ci si rende conto abbastanza rapidamente del fatto che le alterazioni di tipo alveolare frequentemente fanno parte di uno stadio evolutivo delle interstiziopatie. In sostanza, a tutte le interstiziopatie viene riconosciuta una patogenesi comune che va dalla alveolite fino all’ “end-stage lung”. Pertanto il tentativo, sicuramente utile di distinguere le lesioni di tipo prevalentemente interstiziali da quelle di tipo prevalentemente alveolare, inevitabilmente va incontro ad un parziale insuccesso, ma determina una forte spinta verso una migliore conoscenza delle interstiziopatie che, tuttavia, continuano a configurarsi nel loro insieme come il gruppo più confuso della patologia polmonare (Fig. 1). Uno degli sforzi maggiori di quei tempi, nell’ambito delle interstiziopatie, era quello di distinguere le lesioni del piccolo interstizio rispetto a quelle del grosso interstizio. Peraltro lo sviluppo della ricerca, particolarmente negli anni ’80 - condotta in sintonia fra radiologi, clinici e patologi - porta ad una pro- G. Schmid: Malattie polmonari rare 61 gressiva chiarificazione nell’ambito di alcuni gruppi di malattie (ad esempio le “polmoniti interstiziali croniche”). La sensazione di sconforto, dominante fra gli specialisti, comincia a migliorare decisamente con la disponibilità della TC ad alta risoluzione (HRTC). Con questa nuova metodologia di studio nasce un riferimento anatomico preciso costituito dal lobulo secondario: con esso si distingue nettamente l’interstizio intralobulare rispetto al grosso interstizio o extra-lobulare. Nasce una nuova semeiotica, condivisa dai clinici e dai patologi, basata su pattern di riferimento con i quali vengono confrontate tutte le possibili interstiziopatie. Il pattern (Fig. 2) non è una diagnosi ma un modello caratterizzante gruppi di malattie e rappresentativo di eventi patologici colti in una determinata fase evolutiva, dei loro aspetti Fig. 1 - L’immagine riportatarappresenta una domorfologici e dei relativi rapporti anatomici. cumentazione caricaturale della incertezza diagnoL’avanzamento maggiore, dal punto di vista clinico, è stato ottenuto a favore di uno dei stica legata al tema delle interstiziopatie alla fine capitoli più difficili della diagnostica polmodegli anni ’70 nare, costituito dalle polmoniti interstiziali idiopatiche, malattie gravate da elevata mortalità. Fra queste si distingue, per frequenza e gravità, la fibrosi polmonare idiopatica la cui storia naturale resta in gran parte sconosciuta (Fig. 3). Gli aspetti radiologici, che si avvalgono prevalentemente dell’impiego della HRCT, stanno diventando familiari sia ai radiologi che ai clinici. Tali aspetti consentono spesso di tipizzare la malattia senza dover ricorrere all’esame bioptico. Tuttavia abitualmente è richiesta una diagnostica differenziale rispetto ad altre polmoniti dello stesso gruppo, prima fra tutte la NSIP (Non Specific Intertitial Pneumonia) (Fig. 4). L’atteggiamento attuale degli specialisti (clinici, radiologi e patologi), nella procedura di tipizzazione delle varie malattie che possono configurarsi come interstiziopatia, è quello di stabilire una convergenza di “compatibilità diagnostica”. Seguendo questo modello, ormai diffuso in tutto il mondo, la diagnostica delle interstiziopatie va progressivamente migliorando ed assumendo, più opportunamente, la dizione di malattie infiltrative diffuse. Fig. 2 - I quattro principali pattern radiologici delle interstiziopatie: A = reticolare, B = alveolare, C = cistico, D = nodulare 62 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 Fig. 3 – La sequenza delle immagini riassume una storia clinica che può configurarsi come la storia naturale della FPI (Fibrosi Polmonare Idiopatica) , in un soggetto femminile di anni 72, trattato fin dall’inizio per una diagnosi di “bronchite cronica”. Le immagini HRCT, che seguono, evocano il quadro di una polmonite interstiziale idiopatica, con la proposta di diagnosi differenziale fra UIP e NSIP. Il reperto di ispessimenti fibrotici di aspetto reticolare e, soprattutto, la ricca presenza di honey-combing con scarso groundglass, depongono per una diagnosi di UIP, a prognosi infausta. Bibliografia Fig. 4 – Nella NSIP domina il reperto di tenue consolidazione (opacità ground- glass), unitamente ad ispessimenti lineari e reticolari. Il reperto honey-combing è raro. La tipizzazione a favore di questa malattia configura una prognosi più favorevole. 1. American Thoracic Society / European Respiratory Society International Multidisciplinary Consensus Classification of the Idiopathic Interstitial Pneumonias, Am J Respir Crit Care Med 2002; 165, 2: 277-304 2. Hiromitsu Sumikawa, et al. Usual Interstitial Pneumonia and Chronic idiopathic Interstitial Pneumonia: Analysis of CT Appearance in 92 Patients. Radiology 2006; 241, 1: 258-266 3. Baskaran Sundaram, et al. Accuracy of High- Resolution CT in the Diagnosis of Diffuse Lung Disease: Effect of Predominance and Distribution of Findings. AJR 191: 1032-1039 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009 Recensione “postuma” di una Prefazione inedita La recente scomparsa del Prof. Mario Calvani, insigne Primario Pediatra Emerito dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini di Roma, Accademico della prestigiosa Accademia Lancisiana di Roma e figura di spicco nazionale della Specialità, Fondatore e Presidente di quella che è attualmente divenuta la Società di Pediatria Ospedaliera, nonchè per 15 anni Primario della Divisione Pediatrica dell’Ospedale San Camillo, fornisce a chi, come noi, lo ha avuto non soltanto Maestro di vita professionale, ma anche esempio di Direzione scientifico-giornalistica, l’occasione di ricordarne il Suo grande talento nell’insegnamento clinico, talento che ha saputo trasferire anche nella quasi decennale Direzione della Rivista “Ospedale San Camillo”, che ha costituito una delle due “costole”, da cui sono nati gli “Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini”. A testimonianza della Sua profonda e rigorosa dedizione a trasfondere esperienza e cultura medica e doti di umanità, soprattutto in tutti noi Colleghi dei due grandi Ospedali romani unificati nell’Azienda Ospedaliera di rilievo nazionale e di alta specializzazione, si riporta qui di seguito la Sua “Prefazione” a un Volume che aveva iniziato a scrivere, tuttora non pubblicato, Prefazione di cui il Suo figlio Pediatra, Mauro ha concesso la pubblicazione sulla nostra Rivista. Giovanni Minardi e Franco Salvati “GUARDARE PER VEDERE, VEDERE PER CAPIRE” MARIO CALVANI Primario Pediatra Emerito dell'Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma Viviamo ormai nell’era della biologia molecolare, di una tecnologia diagnostica e terapeutica sempre più avanzata. La medicina dell’ultimo secolo e dell’ultimo cinquantennio in specie ha fatto passi da gigante. Non passa giorno che non siano individuate nuove entità morbose e che le concezioni patogenetiche di affezioni note non siano modificate, sovvertite,soppiantate dal progredire delle conoscenze. Bagaglio di conoscenze che si raddoppia ogni 22 mesi e che rende difficile non dico poter seguire ma nemmeno sfiorare ciò che la ricerca ci viene prospettando, giorno dopo giorno. Tutto ciò ha giustificato la necessità di super subspecializzazioni nell’ambito delle singole branche mediche, che hanno condotto ad una parcellizzazione dello scibile medico; ha permesso di raggiungere traguardi meravigliosi, addirittura insperati; ma ha anche avuto purtroppo, specie per i più giovani, quattro aspetti negativi pesanti nella loro pratica medica quotidiana: 1) La mancanza di una visione di insieme del malato, nel rispetto della im- prescindibile unità biologica dell’essere vivente; 2) la perdita progressiva nell’approccio diagnostico a letto del malato della ricerca di segni e sintomi orientativi per affezioni specifiche o gruppi di affezioni, ricavabili sia da una anamnesi attenta e mirata che da un ancora più attento esame obbiettivo. 3) il mancato insegnamento delle nozioni teoriche e della metodologia pratica della semeiotica clinica che è stato alla base della formazione medica fino a un ventennio fa e che da sempre, anche oggi, è alla base dell’approccio ad una diagnosi clinica; 4) la tendenza erronea attuale, specie da parte dei più giovani, di cercare di giungere alla diagnosi, non attraverso la clinica, ma con una serie di esami, molto spesso non mirati, spesso richiesti addirittura dai malati o dai genitori dei più piccoli. Fino al paradosso di reputare più bravo chi più ne prescrive, e non chi invece, come dovrebbe essere, cerca conferma 64 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009 alla diagnosi clinica già posta, quando il caso lo richieda, in quell’unico o pochissimi esami dirimenti. C’è da riconoscere obiettivamente che molti dei segni di cui era ricchissima la semeiotica clinica della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del novecento, sono stati giustiziati dalle tecnologie moderne che ne hanno dimostrata l’inconsistenza o la mancata correlazione con la patologia presunta. Può sembrare perciò almeno strano se non addirittura privo di ogni utilità clinica ripresentarsi, alle soglie del 2000, con un libro su segni, sintomi e sindromi nella diagnostica pediatrica. La sindromologia occupa quasi tutti i campi della medicina. L’1% circa dei neonati ha anomalie multiple o sindromiche. Di questi, solo il 40% può esser diagnosticato come avente un sindrome riconosciuta. L’altro 60% è costituito da entità sconosciute che necessitano di essere ulteriormente delineate. Nonostante alcune sindromi siano individualmente rare, nel loro complesso costituiscono una parte significativa della medicina clinica. Nonostante tutto e con molta umiltà, ho voluto riproporre le basi di un approccio diagnostico secondo le regole della vecchia medicina classica che molti ritengono definitivamente superata, sulla base di alcuni dati di fatto e per rispondere a tre esigenze :1) È stato il mio modo di fare il medico ed il pediatra in tanti anni di attività clinica e di ricerca applicata alla clinica, intra ed extra-ospedaliera. Il malato è un libro aperto in cui è essenziale voler e saper guardare per poter vedere, ciò per capire. Egli ci offre con l’anamnesi e l’esame obiettivo, solo sintomi e segni. Possono essere eclatanti o appena sfumati. Ma soprattutto bisogna conoscerli, conoscerne il significato, cercarli e saperli cercare. Non si può diagnosticare ciò che non si conosce. 2) Il primo impatto diagnostico lo ha il pediatra pratico del territorio e dell’ospedale che deve poter e saper porre, nel suo interesse, ma soprattutto del piccolo malato che in quel momento sta visitando, un primo orientamento diagnostico corretto soprattutto sulla base della clinica e con qualche indispensabile esame di laboratorio. 3) La patologia clinica, e quindi il sintomo o il segno, è solo l’espressione di una al- terata anatomo-fisiologia, molto spesso già a partenza dalla vita intrauterina. Ha quindi una sua validità scientifica e pratica solo se sostenuta, in ogni età, ma soprattutto in quella pediatrica, dalla conoscenza e dal ricordo dei substrati embriologico ed anatomo-fisiologico che sottintendono la normalità. Dove è alterata l’anatomia e la fisiologia umana normale, è patologia. Il segno, il sintomo, la sindrome ne sono l’espressione. Conoscendone il significato, è naturale prospettarsene le possibilità patogenetiche ed etiologiche che ne sono alla base. Per tale motivo mi è sembrato indispensabile la premessa di brevissimi ricordi anatomici, fisiologici ed embriologici, che molto spesso, se non si rinfrescano di continuo, svaniscono con il passare degli anni. Per lo stesso motivo ogni sintomo o segno è immediatamente ricordato nelle possibili associazioni sindromiche per un più immediato orientamento diagnostico-differenziale. Nei limiti concessi dal tempo e dallo spazio,e soprattutto della mia umana conoscenza, ho cercato di aggiornarli alla luce dell’attuale progresso scientifico. 4) Negli aspetti sindromici la conoscenza della comunione embriologica e fisiopatologica di sintomi e segni può e deve indurre a ricercarne altri, al momento assenti o asintomatici, permettendo di porre in atto tempestivamente norme diagnostiche, profilattiche o terapeutiche, successivamente possibilmente tardive ed inefficaci. 5) Libri di semeiotica infantile cosi concepiti e redatti, non sono numerosi o addirittura non mi risultano esistere. 6) Ultimo, ma non ultimo, se l’ho fatto, è stato solo per rispondere alla richiesta di quelle migliaia di giovani medici che mi hanno seguito nei miei 40 anni di attività ospedaliera nelle corsie a letto del malato e nei miei corsi di diagnostica e terapia pediatrica e che per tanti anni mi hanno pregato di mettere per iscritto ciò che andavo loro dicendo. Non ho mai avuto il coraggio di mettere mano a un lavoro cosi’ improbo e globale e contenuto in una mole relativamente ridotta. Ora l’ho fatto. Spero solo di non averli delusi.