La nascita del Paradigma del Soggetto1 La Filosofia moderna, è

La nascita del Paradigma del Soggetto 1
La Filosofia moderna, è chiamata normalmente Filosofia del Soggetto.
La motivazione, una delle motivazioni principali che vanno a costituirne la formazione
può essere rintracciata nella riforma protestante. E' la riforma protestante una delle
motivazioni d'avvio della nascita del soggetto. Essa radicalizza infatti una istanza già
presente nel cristianesimo: l'istanza dell'interiorità.
1
Prof. Lucio Cortella, 1991, Venezia, Corso di Filosofia moderna: parte generale.
Tale aspetto è sottolineato da Hegel: tra modernità e cristianesimo2 c'è continuità e
coerentizzazione. interiorità egli gioca la propria salvezza. Ricordiamo a questo proposito
Agostino, per cui la verità "habitat in interiore homine". Ora, sebbene sia vero che il
principio dell'interiorità sia rintracciabile anche nel mondo greco, nel Cristianesimo è
infinitamente innovativo 3.
In effetti è vero che nei Greci troviamo il richiamo all'interiorità espresso da Socrate, ma
l'appello all'interiorità greco non è quello di Agostino: Socrate parlava di interiorità in
2
Il cristianesimo, la cui denominazione rivela il legame fondamentale con la figura di Gesù Cristo, è un
fenomeno religioso complesso. Nacque nel solco della tradizione culturale e religiosa del giudaismo, a sua volta già
influenzata dalla cultura greca nell'epoca dei regni ellenistici. Una volta diffusosi nel bacino del Mediterraneo, anche il
cristianesimo assorbì elementi importanti della cultura greca, a partire dalla lingua, per poter avviare un dialogo con
interlocutori non giudei; nel tempo ha dimostrato capacità di adattamento a diverse situazioni e contesti storici nel
proporre il proprio messaggio di salvezza.Il termine cristianesimo compare nelle fonti per la prima volta con Ignazio di
Antiochia, all'inizio del 2° secolo. Invece il termine 'cristiani' era entrato in uso già intorno agli anni Quaranta del 1°
secolo, come si legge negli Atti degli Apostoli, per identificare persone che proponevano un messaggio di carattere
religioso riconducibile a Gesù di Nazareth detto il Cristo. Di conseguenza, il cristianesimo si presenta come una
religione fondata da un personaggio storico, nel senso che il riferimento di fede, diretto o indiretto, a quel personaggio è
l'elemento che accomuna le prime notizie sui cristiani.
Da due millenni Gesù il Cristo è oggetto di fede.
Relativamente presto si è pensato che nella sua figura ci fosse una componente divina. Il Credo, nella sua formulazione
niceno-costantinopolitana (cioè sottoscritta dai partecipanti al Concilio di Nicea del 325 e ripresa e adattata nel
Concilio di Costantinopoli del 381) che è tuttora la base dottrinale comune per tutte le confessioni cristiane, così
afferma: "generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, della stessa
sostanza del Padre". In queste parole è contenuto il distillato delle molteplici domande e della riflessione su Cristo e su
Dio che hanno animato i primi secoli del cristianesimo.
Accanto a questi aspetti dottrinali, il Credo ricorda anche alcuni particolari della vicenda storica di Gesù: "è
stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato e ha patito ed è stato seppellito ed è risorto il terzo giorno secondo le
Scritture". Quindi i dati fondamentali di una vita ‒ le coordinate cronologiche e la morte di Gesù ‒ sono inglobati nel
Credo, anche se fino all'età dell'Illuminismo non fu mai avviata una riflessione sulla sua personalità storica, dal
momento che l'unico canone di verità (all'interno naturalmente del mondo cristiano) era fornito dalla Chiesa per la quale
la fede in Cristo come Dio e salvatore è un dogma. Con l'Illuminismo, che mise in primo piano le esigenze della
ragione, cominciò a porsi il problema del Gesù storico.
Il problema circa le origini cristiane si identifica dunque con il problema del momento in cui si può parlare del
cristianesimo come di una religione differente dal giudaismo. Più in generale, dietro questo problema se ne nasconde un
altro: la definizione di cristianesimo. È un dato di fatto che il cristianesimo rappresenti all'inizio solo una delle tante
correnti interne al giudaismo. Lo stesso titolo di Cristo, che venne subito attribuito a Gesù e che divenne parte del suo
nome, proviene dalla tradizione giudaica (Bibbia). I discepoli credettero nella resurrezione di Gesù dalla morte, ma
interpretarono in modi diversi la sua persona e la sua funzione sia riguardo al suo rapporto con la Torah (la dottrina
contenuta nel Pentateuco che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme compiuta dai Romani nel 70 d.C.,
divenne l'unico punto di riferimento religioso per gli Ebrei) sia riguardo al suo rapporto con la missione di Israele,
popolo eletto.
Paolo di Tarso
Molte quindi, all'inizio, furono le forme del cristianesimo. Fra le varie forme, quella di Paolo ebbe il maggior
successo fra i pagani, perché non li obbligava ad assumere le osservanze dei Giudei (come le prescrizioni alimentari, o
la circoncisione). Anche Paolo intendeva rifondare la religione di Israele piuttosto che stabilirne una nuova, ma di fatto
la sua impostazione affrettò il distacco del cristianesimo dal giudaismo. Ma accanto al cristianesimo di Paolo
sussistevano altre versioni, e a lungo continuarono a esserci cristiani (detti giudeo-cristiani) che osservavano le
prescrizioni giudaiche e si consideravano parte del popolo eletto. L'autocoscienza dei cristiani, come pure il loro
distacco dai Giudei, furono quindi diversi nei vari gruppi. Il requisito minimo per definire il cristianesimo (facendo
riferimento sia al periodo delle origini sia ai secoli successivi) è la fede in Gesù Cristo inviato da Dio come
quanto si rivolgeva ai sofisti che pretendevano di sganciare il linguaggio dalla verità.
Socrate quindi vede nell'atto del guardare alla propria interiorità, la possibilità di vedere,
attraverso il linguaggio, la verità. Il richiamo di Socrate è insomma un richiamo ala
razionalità attraverso il linguaggio. Ora, dopo l'avvento del Cristianesimo, nell'uomo
Agostino trova Dio. Il Dio cristiano si manifesta proprio nell'interiorità dell'uomo .
Questa sottolineatura del cristianesimo viene radicalizzata dalla Riforma protestante: essa,
di contro alla religione cattolica, pone l'accento sulla radicalità della fede. E' insomma la
fede interiore che fa dell'uomo un essere degno di considerazione. Non tanto o solo le
opere di culto. Questo richiamo alla interiorità rappresenta un ulteriore passaggio verso la
personaggio salvifico, inteso in senso esclusivo da Paolo o come personaggio principale, accanto alla dottrina
della Torah, dai giudeo-cristiani.
Rapporti fra cristianesimo e autorità politica
Personalmente Gesù afferma nei Vangeli la distinzione fra la sfera di Dio e quella di competenza delle
autorità politiche (con la celebre affermazione: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio"). Ma il
cristianesimo, nella sua concreta vicenda storica, è stato soggetto a una dinamica di integrazione e di confronto con la
società e le istituzioni politiche all'interno delle quali si è inserito. Tale problematica di confronto è iscritta nelle stesse
origini cristiane, a causa della condanna a morte subita da Gesù per opera dei Romani.
Nel 2° secolo il cristianesimo appariva alle autorità dell'Impero Romano come una religione nuova, ormai
diversa dal giudaismo. Diffusasi innanzitutto nelle città del bacino del Mediterraneo ‒ mentre fino al 3° secolo inoltrato
restò quasi sconosciuta nelle campagne ‒ lungo le vie del commercio, non godeva dei privilegi della religione giudaica,
tollerata invece e protetta in quanto religione di un popolo solo (religione etnica). I cristiani furono invece considerati
seguaci di una 'religione non lecita', e a volte subirono persecuzioni. Fino a metà del 3° secolo i cristiani, tranne qualche
caso di ostilità popolare con eccidi, erano perlopiù processati solo in caso di denuncia non anonima e nominativa; ma
dalla metà del 3° secolo, essendo ormai una minoranza numerosa in Oriente, furono soggetti a persecuzioni per editto o
generali, la più sanguinosa delle quali fu l'ultima, quella di Diocleziano. Il cristianesimo era visto come una minaccia
all'unità e universalità dell'Impero Romano, in quanto non ne accettava quei culti ufficiali che erano invece considerati
un fattore di coesione sociale e politica, e proponeva a sua volta un messaggio altrettanto universale dell'ideologia
imperiale.
La svolta dell'imperatore Costantino: un nuovo rapporto tra religione e politica
Questa situazione si rovesciò bruscamente e completamente con l'imperatore Costantino: egli intraprese la
strada, proseguita dai successori (con l'eccezione di Giuliano detto l'Apostata), che portò il cristianesimo a diventare il
fondamento religioso dell'Impero Romano e l'imperatore a essere di fatto e di diritto il capo della Chiesa. In Oriente,
durante tutto l'Impero bizantino ‒ che conservò una sostanziale continuità istituzionale fino alla caduta di
Costantinopoli del 1453 ‒ si mantennero le condizioni perc
hé l'imperatore continuasse ad avere la funzione di guida delle chiese (Giustiniano, nel 6° secolo, fu insieme teologo e
imperatore), mentre in Occidente la progressiva perdita di contatto con l'impero a seguito della formazione dei regni
romano-barbarici nel 5° e 6° secolo pose le premesse perché il vescovo di Roma diventasse il capo effettivo della
cristianità. L'unione e il mutuo sostegno fra autorità statale e Chiesa cristiana è tuttora un valore per la Chiesa ortodossa.
In Occidente, il rapporto fra politica e religione fu più dialettico e tormentato per il ruolo papale di cui si è
detto, e ancor più lo è diventato a seguito della Riforma e dell'affermazione dell'autonomia di valori e istituzioni
secolari con l'Illuminismo (secolarizzazione). Nelle chiese orientali la situazione è differenziata: a volte i cristiani sono
minoranza riconosciuta, a volte tollerata. In generale, uno dei grandi problemi della coscienza cristiana di tutti i secoli è
il rapporto con il mondo, di cui l'autorità statale è l'espressione più forte: i cristiani oscillano fra un atteggiamento di
libertà interiore rispetto al mondo esterno e la volontà di influenzare le scelte politiche in nome di valori considerati
irrinunciabili.
scoperta della soggettività. Possiamo affermare quindi che quanto era presente nella
storia del cristianesimo, non era stato tematizzato ancora adeguatamente. Pensiamo alla
filosofia medioevale: essa si riferisce ancora ad aspetti mitologici\filosofici della filosofia
greca senza andare sino in fondo all'interiorità. La filosofia cartesiana manifesta proprio
questo passaggio: certo Cartesio risente della filosofia di Ockam , del suo scetticismo, che
Cartesio spinge sino al dubbio più radicale su ogni cosa. 4
In effetti, Ockam, il suo richiamo, è al criterio dell'evidenza. Una evidenza che sia
indiscutibile. Contro le pseudoevidenze della filosofia scolastica. Per altro verso, Cartesio
La formazione dell'identità cristiana
Il 2° secolo fu cruciale nella storia del cristianesimo. Innanzitutto si decise la partita dei rapporti con l'eredità
giudaica, che vennero mantenuti stretti attraverso la Bibbia dei Settanta, in opposizione a quei movimenti
(marcionismo, gnosticismo) che volevano separarsi da questa eredità. Alla Bibbia ebraica però venne affiancato sia il
corpo del Nuovo Testamento, costituito alla fine del 2° secolo in canone, sia un metodo esegetico in base al quale i
fatti della storia ebraica venivano reinterpretati come prefigurazioni dei fatti di Cristo e della Chiesa: in sostanza era la
fede in Cristo che forniva la chiave per assimilare la Bibbia giudaica.
La persistenza dell'eredità giudaica comportò il dogma dell'unicità di Dio, creatore della realtà umana.
Risultava quindi inaccettabile per il cristianesimo ogni svalutazione troppo forte del mondo (ascetismo) e il dualismo,
cioè l'idea che il mondo fosse stato creato da un altro dio, inferiore o cattivo, come affermavano gnostici e manichei e,
nel Medioevo, i movimenti dualisti come i catari. Ma il dogma dell'unicità di Dio comportò anche che dal 2° secolo
divenne centrale il dibattito su Cristo, o meglio sulla compatibilità della sua componente divina, riconosciuta ormai
dalla maggioranza dei cristiani, con l'unico Dio. I dibattiti e i conflitti che si svilupparono intorno a questo problema
avevano un carattere differenziato, perché il cristianesimo dei primi secoli era formato da tante comunità autonome,
unite solo da un sentimento di unità spirituale, ognuna governata in un primo tempo da un collegio di presbiteri
(anziani) e successivamente da un vescovo.
Concili ed eresie
Dopo la svolta impressa da Costantino, le dispute e i dibattiti divennero generali e si cercò la soluzione con
concili ecumenici. Una delle peculiarità del cristianesimo fu lo straordinario sviluppo dell'insieme di dottrine
riguardanti Dio (teologia) che dovevano rafforzare il fondamento della retta fede, o ortodossia, contro le deviazioni o gli
errori. Questa peculiarità nacque proprio dalla riflessione sulla persona di Cristo (cristologia) e proseguì in una serie di
tappe e di definizioni, di cui si devono ricordare almeno il già menzionato Credo niceno-costantinopolitano del 381, in
base al quale il Dio cristiano è uno in tre persone (Padre, Figlio e Spirito santo) e quello di Calcedonia del 451, molto
contestato e fonte di divisioni secolari, per cui Gesù Cristo è una sola persona in due nature complete, umana e divina.
L'idea che la retta fede sia iscritta nella rivelazione originaria portata da Cristo e che le eresie siano
deviazioni dalla verità stabilita fu dunque convinzione precoce dei cristiani, ma non corrisponde a quello che sappiamo
dello sviluppo storico, nel quale la riflessione ‒ a partire dall'intuizione di fede ‒ si sviluppò lentamente attraverso il
confronto di diverse posizioni, alcune delle quali risultavano minoritarie e venivano emarginate. Perciò quella fra eresia
e ortodossia è una delle dinamiche che percorre la storia del cristianesimo e ne costituisce uno dei tratti caratteristici. Ne
possiamo individuare altre.
Nel 2° secolo, in conseguenza della progressiva stabilizzazione dell'organizzazione gerarchica con a capo la
figura del vescovo (epìscopos "sorvegliante"), si instaurò una più o meno aperta conflittualità con movimenti
carismatici e profetici (come il montanismo) che pure erano stati fortemente presenti agli inizi del cristianesimo. La
tensione fra movimento e istituzione ha poi continuato a manifestarsi ogni qual volta il rafforzarsi dell'istituzione è
apparso ad alcuni gruppi di cristiani come un tradimento o un allontanamento dagli ideali del Vangelo.
si riferisce a quanto dicevamo prima: all'interiorità tematizzata dal Cristianesimo e
radicalizzata dalla riforma protestante5.
Vediamo: Ockam si scaglia contro tutta la tradizione precedente sul fondamento del
principio dell'evidenza: è evidente solo ciò che è presente qui, dinnanzi a me. In effetti,
Ockam parte dalla constatazione che ogni atto conoscitivo raggiunge la sua piena validità
solo quando perviene al massimo grado di evidenza. Inoltre una conoscenza è evidente
quando raggiunge pienamente il suo oggetto. Solo una siffatta conoscenza, la cui
evidenza dipende dalla presenza della realtà corrispondente, può dirsi garantita nella sua
Dal Medioevo all'età della Riforma:Queste tensioni si ripresentarono nel 12° secolo in Occidente, quando il
monachesimo tradizionale non sembrò più in grado di soddisfare le esigenze di vita evangelica: di conseguenza
comparvero una serie di movimenti che predicavano vita evangelica e povertà, i quali, accusati di eresia (come fu il
caso dei catari e dei valdesi), furono successivamente fatti oggetto di una politica di recupero (specificamente per una
parte dei valdesi) o, se questa falliva, di sterminio (nel caso dei catari).
Dalla stessa esigenza di vita evangelica nacquero anche il movimento promosso da Francesco d'Assisi agli inizi
del 13° secolo e gli altri nuovi ordini mendicanti. Anche la riforma iniziata da Martin Lutero recava in sé, fra le sue
componenti, quella della riscoperta del Vangelo, contro la politica religiosa papale del tempo.
Innovazione e tradizione nel cristianesimo:La tensione fra innovazione e tradizione è in parte connessa con
quanto abbiamo già detto. Il cristianesimo nacque come nova religio ("nuova religione"), sul tronco di una religione
antichissima (il giudaismo) e come tale rispettata dai Romani. Una parte dei primi difensori della fede cristiana cercò di
presentare il cristianesimo come una religione solo in apparenza nuova, perché in realtà si riallacciava alla prima
rivelazione data da Dio e che sarebbe stata tradita dai Giudei. Un'altra parte dei difensori avrebbe puntato proprio sulla
novità del cristianesimo per accreditare l'idea che mai come in esso Dio si era rivelato pienamente. In generale, nel
corso dei secoli nei vari ambiti (ecclesiastico, teologico, sociale) prevalse l'idea che il nuovo è deviazione dalla
perfezione originaria e che quindi il 'vero' nuovo deve essere proposto come un ritorno all'antico: per esempio, le nuove
proposte di vita comunitaria nel 12° e 13° secolo si rifacevano alla Ecclesiae primitivae forma, "forma della Chiesa
primitiva".
Ma, al di là del credito dato a ciò che è antico, il costante fermento di nuove proposte ed esperienze, sorretto
dalla convinzione che lo spirito di Dio continua a operare nella storia degli uomini, di fatto ha reso il cristianesimo
una religione dinamica e aperta all'innovazione. Lo stesso termine 'tradizione' sembrerebbe avere solo una funzione di
freno e di stabilizzazione: in pratica però la tradizione si affianca come un altro elemento di autorità accanto al testo
scritto della Bibbia e può, a volte, determinare una dinamica di progresso, perché di fatto la tradizione si modifica
storicamente. Treccani on line
portata reale. Per O. una conoscenza evidente è una conoscenza intuitiva. E tale
conoscenza prevede sempre l'assenso di una cosa concreta constatata. L'esistenza allora
non può essere dedotta da un generico concetto ma solo intuita in modo diretto. Ora,
questa istanza dell'evidenza si presenta anche in Cartesio: tramite l'evidenza, visto che è
difficile stabilire cosa sia veramente evidente, Cartesio mette in discussione tutto. Più
determinatamente, Cartesio mette in discussione che i sensi riescano a riprodurre
fedelmente la realtà. Quale prova ho che i sensi riproducano fedelmente la realtà?
L'adozione di un criterio rigoroso di verità, intesa come evidenza, comporta allora un
inevitabile esito scettico6.
3
Ibidem.
4
Ibidem.
5
Ibidem.
Per altri versi, la definizione di Ockham di rappresentazione – repraesentatio –
représentation – Vorstellung - è utile a comprendere l’utilizzo che di questo termine 7 farà
la filosofia moderna:
1) “Ciò con cui si conosce qualcosa ed in questo senso la conoscenza è
rappresentativa e rappresentare significa esser ciò con cui si conosce qualcosa”
ossia l’Idea di qualcosa;
2) “Il conscere qualcosa, conosciuta la quale si conosce un’altra cosa” ossia
l’immagine di qualcosa;
6
Ibidem.
7
Il Testo filosofico, Cioffi, Rusconi, 2003.
3) “Il causare la conoscenza al modo con cui l’oggetto causa la conoscenza” ossia
l’oggetto stesso in quanto si fa conoscere8.
Il termine quindi, in senso psicologico più ristretto, si riferisce all’immagine memorativa
e fantastica distinta dalla percezione e dal concetto astratto. In un senso gnoseologico,
viceversa tutto ciò di cui un soggetto è cosciente, ossia ogni contenuto di coscienza od
oggetto9 di coscienza. Per Cartesio l’Idea è rappresentazione: un contenuto interno alla
coscienza che deve corrispondere all’oggetto rappresentato. Per Kant, superando
l’aspetto psicologico del termine, il termine “Vorstelleug” è sinonimo di ogni atto o
contenuto della coscienza, il genere di tutti gli atti conoscitivi, distinta in :



percezione : rappresentazione con coscienza;
sensazione;
cognizione: intuizione, concetto, idea.
In effetti Kant, nella Critica della Ragion Pura, non potendo più fondarsi per la propria
teoria sulla contemplazione dell’Essere puro garantito da Dio, come nelle metafisiche
classiche, ritiene che l’essere che si rivela alla coscienza è fenomeno ossia ha senso
8
Ibidem.
9
Ibidem.
solo in relazione alle forme della coscienza che lo rendono pensabile. La coscienza
diventa quindi oggetto di indagine privilegiato nella misura in cui essa rivela il senso dei
fenomeni: una immagine che si presenta alla coscienza o meglio una rappresentazione .
Shopenhauer afferma poi : “esser oggetto per il soggetto ed essere una nostra
rappresentazione è la stessa cosa. Tutte le nostre rappresentazioni sono oggetti del
soggetto e tutti gli oggetti del soggetto sono nostre rappresentazioni” 10
Cartesio
Renè Decartes, nasce il 31 Marzo del 1596 (e muore l’11 Febbraio del 1650) in un villaggio della Francia. Si
dedica allo studio della matematica e della fisica: nel 1619 ha la prima intuizione del suo metodoche
esprime nel trattato “Regole per dirigere l’ingegno”. Nel 1628 si trasferisce in Olanda : qui compone il
Mondo, nel quale sostiene l’ipotesi copernicana. Opera che decide di non pubblicare avendo saputo della
condanna di Galilei nel 1633 (culmine dello scontro la vecchia e la nuova visione del mondo). Nel 1637
pubblica allora i tre saggi Diottrica, Meteore, Geometria. Scrive anche una prefazione : Il Discorso sul
Metodo. Discorso che si prefigura come un manifesto della ragione: un razionalismo classico secondo cui il
sapere deve affidarsi alle evidenze della ragione e non ai sensi. Per Cartesio, la mente coglie intuitivamente
alcune idee: l’idea di estensione e materia.
Negli anni successivi pubblica Le meditazioni metafisiche (1641). L’opera contiene le obiezioni rivoltegli dai
maggiori filosofi del tempo e le relative risposte.
Al lato opposto di questa teoria della conoscenza cartesiana, troviamo l’Empirismo che
fonda il sapere della conoscenza sull’esperienza sensibile
Cartesio è ritenuto a buon diritto il fondatore della Filosofia Moderna: si passa così, con
questo autore, ad un nuovo modo di organizzare la Filosofia. Del resto, l’epoca in cui
nasce Cartesio si presta a tale operazione: nasce infatti nell’epoca delle grandi rivoluzioni
scientifiche (Keplero,Torricelli, Galilei). In effetti la scienza è il suo fondamentale
riferimento: all’epoca di Cartesio la filosofia era ancora legata alla tradizione della
Scolastica. Nel Cinquecento, in particolare, la Scolastica era complessivamente un corpus
10
Ibidem.
di saperi molto sofisticato in linea con la tradizione aristotelica e con la Religione. Tale
sapere urta però con la nuova dimensione scientifica: Keplero fa delle previsioni attendibili
sull’orbita dei pianeti, aspetto non previsto e trattato da Aristotele. Galilei, per altro verso,
presenta delle analisi che mostrano come Aristotele fosse in errore. In buona sostanza, il
sapere aristotelico della tradizione, unitamente alla Rivelazione, erano fortemente messi in
discussione da Cartesio che tendeva a dubitare, metodicamente, di tutto quanto non fosse
dimostrabile.
Vediamo: Cartesio aveva una idea della natura del cosmo abbastanza inconsistente (tematica dei vortici);
piuttosto è interessante la tematica della causa efficiente e finale. La causa efficiente riguarda, ad esempio
nel movimento: A che tocca B e lo fa muovere.
La causa finale riguarda, ad esempio, lo scopo di una mia azione che mi guida durante l’intero svolgersi
dell’azione.
Ecco Cartesio, in riferimento al suo interesse per la scienza, afferma la necessità di interessarsi solo alla
causa efficiente, non alla causa finale (contrariamente a Leibniz).
Il criterio dell’evidenza
Così Cartesio annuncia la regola dell'evidenza: “....non accogliere mai nulla per vero che
non conoscessi esser tale con evidenza, di evitare cioè accuratamente la precipitazione e
la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si
presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni
possibilità di dubbio.” Parlare di idee chiare e distinte e parlare di evidenza è allora la
stessa cosa. Ora, in questo incipit cartesiano, si costruisce anche l'impostazione
soggettiva della filosofia di Cartesio in quanto io posso dubitare di tutto ma non del mio
pensiero. Ed in effetti se io dubitassi anche del mio pensiero dubiterei anche della
condizione che mi consente di dubitare, metterei in discussione la condizione del mio
poter dubitare. Ma è il pensiero a non poter esso messo in discussione. E tale aspetto
della conclusione cartesiana esprime proprio la modernità: la scoperta del soggetto11. E
11
Prof. L. Cortella, Cit..
tale modernità, ossia la scoperta del soggetto, si contrappone anche al pensiero
medioevale: Agostino, ad esempio, concede, diversamente da Cartesio, che esistano delle
verità oggettive al di fuori del pensiero soggettivo. Diversamente, Cartesio ritiene di non
avere nessuno strumento per procedere al di là del pensiero.
Quanto affermato da Cartesio conduce però anche ad un altro risultato: se il pensiero è
un principio primo, ossia un fondamento che nega qualsiasi tentativo che lo neghi, che
rende evidente che ogni tentativo di negare il pensiero lo presuppone, allora non è
possibile uscire12 dal pensiero, proprio perché il pensiero è presupposto di ogni cosa. In
effetti, la proposizione Cogito ergo sum come la dobbiamo intendere? In un primo senso,
dobbiamo intenderla come il raggiungimento di un principio primo, e questo l'abbiamo già
detto. Ma in un altro senso, la verità intesa come come una realtà concreta, oggettiva,
esistente per sé, che il pensiero degli antichi raggiungeva pienamente, beh questo mondo
concreto, il mondo della sostanza per intendersi, che sta lì, non è più inteso in questo
modo. Cartesio pone allora un pensiero inaudito, che forse nemmeno lui coglie in tutta la
sua portata. Cartesio, di contro ad una verità sostanziale, pone una verità trascendentale:
quella del pensiero. In effetti il pensiero non ha nulla di sostanziale, è una condizione di
possibilità, anzi questa condizione di possibilità non è una cosa. Cartesio stesso non
sembra rendersene conto, tanto è vero che per Lui il pensiero è sostanza pensante: res
cogitans.
Cogito ergo sum
12
Ibidem.
Vediamo: per gli antichi il mondo della soggettività era appunto il mondo della
variabilità, della non fissazione, della messa in discussione, dell'eterno fluire delle
rappresentazioni, un mondo non veritativo, mentre la verità era raggiunta solo quando si
trovava qualcosa di veramente oggettivo. In effetti, per gli antichi, l'essere è qualcosa di
oggettivo. Ancora pensiamo a quando qualcosa è vero per gli antichi: esso è tale se sta lì.
Diversamente, con Cartesio, la forma è sostanzialmente nuova ed inaudita: una verità
assolutamente non sostanziale anche se Cartesio, come abbiamo detto, parla del Cogito
come una sostanza, una res cogitans appunto.
Eppure questo è il problema di tutta la filosofia moderna13: da un lato una istanza non
sostanziale, non oggettiva, che mette in discussione tutta la tradizione precedente,
appunto quella della sostanza. Dall'altro lato il pensare questa istanza del Soggetto ancora
all'interno della sostanza: res cogitans.
Sino a Cartesio, il massimamente vero, il massimamente oggettivo è Dio: è l'essere per
eccellenza, il massimamente evidente. Con Cartesio siamo all'opposto: il
massimamente vero è il soggettivo. Nello specifico, questo è il senso del Cogito, non
dubito affatto delle mie rappresentazioni, non dubito di vedere il tavolo, l'anfora, una
parete, dubito piuttosto che queste rappresentazioni corrispondano a qualcosa di
oggettivo, ad una realtà identica ad essa. E questa difficoltà a stabilire una corrispondenza
delle mie rappresentazioni con la realtà oggettiva è una conseguenza dell'impossibilità ad
uscire dal pensiero. Insomma le mie rappresentazioni, le mie Idee dice Cartesio, sono
contenuti del pensiero, sono tutte le rappresentazioni che io ho, ivi comprese le
rappresentazioni del mio mondo interno. Ora, l'unica possibilità che io avrei di uscire dal
soggetto è riferirsi ad un terzo punto di vista esterno che però ripropone il problema: come
uscire questa volta dalle sue rappresentazioni?
Ora, lo strumento che Cartesio utilizza per dimostrare l'esistenza del mondo esterno
è la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Ebbene, questa dimostrazione è coerente con
l'impianto teoretico di Cartesio: la dimostrazione dell'esistenza di Dio non avviene infatti
attraverso una trascendenza del soggetto, ma avviene attraverso una analisi delle
medesime rappresentazioni
del soggetto. Vediamo: Cartesio analizza le diverse idee
13
Ibidem.
del soggetto ed analizza l'idea di Dio, tale idea è per Cartesio idea della perfezione. Per
Cartesio allora diventa necessario dimostrare l'idea di questa perfezione. 14
Per prima cosa Cartesio, non potendo attingere al mondo reale come i suoi predecessori
visto che il mondo è ancora da dimostrare, ma solo al mondo soggettivo delle
rappresentazioni, afferma che l'idea di un essere perfetto non può essere causata da
un'altra idea imperfetta. Non può essere qualcosa all'interno del cogito che è causa di
un'idea di un essere perfetto, perchè tale idea sarebbe imperfetta se interna al cogito.
Come secondo argomento Cartesio si chiede quale sia la causa del cogito: qual è
la causa del pensare stesso. E conclude anche qui che una causa del cogito, in quanto
finito, non può essere il cogito.
Qual è dunque il risultato, il guadagno di Cartesio? Per prima cosa Cartesio
guadagna la verità di un principio che è un principio primo: un principio, il pensiero, che
mostra e non di-mostra la verità della sua ineludibilità, ossia nega chiunque intende
negarlo in quanto colui che nega il Cogito Lo deve necessariamente presupporre.
Abbiamo già detto che tale guadagno non consente di uscire dal pensiero. Non è quindi
possibile guadagnare un punto di vista esterno al pensiero. Il pensiero non ha niente di
esterno: il pensiero è. Il pensiero quindi non è una struttura che ora è, ora non è.
Ancora, secondo Cartesio, tale aspetto del pensiero Lo porta a pensare che il Cogito sia
una res, una cosa che sta: res cogitans. Una cosa o una sostanza pensata. Il Cogito, o
meglio la struttura del Cogito, si articola in Idee ossia in rappresentazioni : il mio corpo è
un'idea, l'albero è un'idea. Notiamo la trasformazione del concetto di Idea rispetto a
Platone: per Platone l'Idea è il massimamemte oggettivo, ciò che esiste in maniera
evidente ed oggettivamente ossia la struttura profonda della realtà è l'Idea. Solo in
secondo luogo l'Idea è anche rappresentazione: o meglio io posseggo questa
rappresentazione proprio in quanto esiste una Idea oggettiva, se non esistesse l'Idea
oggettiva non avrei nessuna rappresentazione. Per Cartesio quindi l'idea è qualcosa di
molto simile al senso comune,15 mentre il pensiero è un contenitore di rappresentazioni.
14
Ibidem.
15
Ibidem.
Ed in questo “contenitore”, esistono vari tipi di idee: non ultima quella di perfezione. Ora, il
problema di Cartesio è quello di mostrare come posso passare dall'Idea della perfezione
alla esistenza della perfezione. Ebbene, tutti e tre gli argomenti cartesiani devono
necessariamente partire dal mondo soggettivo: il primo, facendo ricorso al concetto di
causa, ritiene che la causa di una idea della perfezione non possa essere un'idea, perchè
ogni idea non ha le caratteristiche della perfezione. Per cui è Dio, come essere perfetto, a
essere causa dell'idea della perfezione. Insomma io, in quanto finito, imperfetto, non
posso essere causa di un'idea perfetta. Né il cogito in quanto pensare, può essere causa
del pensare: ossia la causa del pensare non può essere interna al pensare, un pensare
che ha l'idea della perfezione non può essere causato da un cogito imperfetto, finito. Ora,
la debolezza di tutti questi ragionamenti sta nel fatto che viene introdotta surrettiziamente
l'idea di causa. In effetti Cartesio non fa un uso rappresentativo del concetto di causa: non
dimostra l'idea di causa, la applica alle rappresentazioni come causate da un altro
elemento causante. Risulta necessario allora prendere in esame il terzo argomento:
Cartesio parte dall'idea della perfezione, diversamente da Anselmo però. In effetti
Anselmo parte dal concetto di un ente di cui non si possa pensare nulla di maggiore:
quindi un concetto, quello di Anselmo, che non si fonda sulla perfezione di un ente somme
bensì sul concetto di un ente di cui non posso pensare nulla di maggiore. E ' un concetto
relativo quindi alla grandezza, non alla perfezione come in Cartesio. In effetti, afferma
Anselmo: “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere nel solo
intelletto, giacchè se fosse nel solo intelletto si potrebbe pensare che fosse anche in realtà
e cioè che sarebbe qualcosa di maggiore”. Tutto l'impianto del ragionamento anselmiano
si fonda quindi sulla comparazione di due concetti che hanno rispettivamente due oggetti:
il secondo oggetto esiste suo malgrado. L'argomento di Anselmo, ha una struttura
particolare: il primo concetto è infatti contraddittorio in quanto dice\afferma che sarebbe
possibile pensare qualcosa di maggiore, nella realtà appunto , anche se non è possibile
pensare qualcosa di maggiore. Insomma, non posso pensare nulla di maggiore epperò
esisterebbe un ente nella realtà che è appunto maggiore. In questo senso allora, come è
stato dimostrato da molti studi, nel ragionamento di Anselmo troviamo forti assonanze con
l'argomento di Cartesio in quanto non è una dimostrazione bensì una confutazione della
negazione dell'esistenza di Dio.
Vediamo meglio: in buona sostanza Anselmo basa tutta la sua dimostrazione sul
fatto che sia più grande l'oggetto che esiste anche nella realtà e non solo nell'intelletto
rispetto al solo ente presente nell'intelletto. Si tratta di una comparazione tra due entità di
grandezza diversa. Una quantità in cui Dio è noto ed è una quantità. Detto in altri termini la
realtà e quantitativamente maggiore.
Ancora, in Anselmo non si trova il concetto che Dio è tutte le cose: Dio è presente
come superiore: come trascendente. Anche perchè Anselmo si muove ancora nell'ottica
platonica per cui non avrebbe mai potuto concludere in chiave non trascendente. In
Cartesio invece si abbandona questo concetto di grandezza, di ampiezza dell'uno rispetto
all'altro e si passa al concetto di perfezione, secondo cui l'idea di perfezione non può
condurmi a qualcosa di inesistente e quindi di imperfetto. Dunque alla fine, esiste
necessariamente. Esiste allora una sostanza che esiste di per sé. E questa sostanza
dimostrata, metodologicamente, a partire dal Cogito, è ciò che alla fine fonda il Cogito. In
effetti, il cogito, per Cartesio, è qualcosa di finito, di imperfetto mentre Dio è perfezione, è
sostanzialmente perfezione. Dio è allora il vero fondamento del cogito 16: in definitiva il vero
argomento a sostegno della indubitabilità del cogito è l'esistenza di Dio. Dio è il vero
fondamento del Cogito.
Vediamo meglio: per certi versi, sino a che C. non dimostra l'esistenza di Dio, anche il
criterio dell'evidenza è assunto come ipotesi. Noi potremmo sempre dubitare che ciò che
appare evidente non sia tale. La stessa esistenza del cogito potrebbe, in ultima istanza,
essere dubitata. Come dire che Cartesio ritiene il principio del soggetto non abbastanza
forte da non poter essere negato; come dire che Cartesio non ritiene che il Cogito possa
fondarsi da sé ma abbia bisogno di qualcosa al di là di sé per essere fondato: questo
qualcosa è Dio. Siamo di fronte ad una circolarità del percorso cartesiano perchè è chiaro
che non posso dimostrare l'esistenza di Dio se non presuppongo l'evidenza degli
avvenimenti: l'evidenza dell'Io penso, del Cogito insomma, dell'idea di perfezione che è in
me, etc. Se io mettessi in discussione questa evidenza non arriverei a Dio. Se io mettessi
in discussione tutto il tragitto che conduce alla dimostrazione dell'esistenza di Dio non
arriverei a Dio. E tuttavia Cartesio ritiene che solo nel momento in cui io pervengo alla
dimostrazione di Dio tutto il percorso si conferma. Questa è la struttura circolare di
Cartesio. Questa è insomma l'insufficiente valorizzazione del principio del Soggetto: una
insufficienza di fondarsi da sé, una insufficiente assolutezza. In buona sostanza Cartesio
ritiene che, sulla base della scoperta dell'esistenza dimostrata di Dio, posso traghettare
dalle rappresentazioni alla realtà oggettiva del mondo reale. Sicchè, poiché Dio esiste ,
esiste anche la realtà fuori di me. E questa realtà per Cartesio è fondamentalmente
estensione: noi ci rappresentiamo un mondo di cose, e di queste cose possiamo mettere
in discussione molti aspetti, il fatto che un corpo sia colorato, che sia penetrabile o meno,
che sia più o meno pesante, la sua resistenza agli urti. Eppure non possiamo mettere in
discussione che un corpo sia esteso: una qualità essenziale del corpo. Questa qualità è
16
Ibidem.
pienamente intelligibile al pensiero, mentre i sensi creano un mondo colorato, pieno di
suoni, di sapori. L'unica qualità pienamente intelligibile al pensiero è invece l'estensione in
quanto non testimoniata dai sensi. Detto in altri termini il mondo esterno come pensato dal
pensiero è estensione ossia un mondo misurabile, geometrico: res extensa. E questo
mondo esterno sostanziale è un mondo indipendente ossia la res extensa può esistere
anche senza la res cogitans.
Ancora, solo l'estensione esiste indipendentemente dalla sua rappresentatività 17.
Per converso, se non esistesse il cogito, il mondo non sarebbe colorato, pesante,
resistente, non esisterebbe un mondo così percepito. Afferma Cartesio nei Principia
Philosophie: c'e una stessa materia in tutto l'universo e noi la conosciamo per questo
solo, che essa è estesa; poiché tutte le proprietà che percepiamo distintamente in essa si
riportano a questa: che essa può essere mossa e divisa secondo le sue parti e può
ricevere tutte le diverse disposizioni che noi osserviamo potersi verficare per mezzo del
movimento delle sue parti”. Quanto affermato è di portata rivoluzionaria: già messo in luce
da Galileo. Cartesio riprende questo argomento perché sa che da esso dipende la
possibilità di avviare un discorso scientifico rigoroso e nuovo. Possiamo dire che per
Cartesio il confronto dei sensi, tramite i sensi, può esser fonte di stimoli ma non il luogo
della scienza. Questo appartiene al mondo delle Idee: chiare e distinte. A questo punto,
Cartesio si trova davanti ad una realtà divisa in due regni ed irriducibili: la res cogitans e
la res extensa. Nessuna realtà intermedia.
La forza di questa teorizzazione è devastante: nei confronti delle teorie animiste secondo
cui tutto è pervaso di spirito e di vita, e con cui vengono spiegate le connessioni tra
fenomeni nonché la loro natura più riposta. Solo la meccanica può dunque spiegate il
mondo esterno contro qualsiasi occultismo. Ed il mondo esterno è esteso, profondo, e
misurabile in lunghezza e larghezza. Insomma, l'universo cartesiano è costituito da pochi
elementi: materia e movimento18 o meglio movimento ed estensione. Se vogliamo, in
forma più completa: spazio geometrico e movimento.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
Ora, tale aspetto della res extensa presenta delle indubbie difficoltà: dicevamo che il
mondo sensibile fuori di noi non può avere compattezza, resilienza, colore. Ma se il
mondo sensibile non può avere queste caratteristiche è anche assolutamente invalicabile:
il mondo che pensa Cartesio è dunque un mondo senza identità, senza colore, senza
resistenza. Insomma il mondo esterno di Cartesio è irrapresentabile: posso disegnare un
cubo su questa parete, posso distinguere lo sfondo di questo cubo dal cubo stesso eppure
il mondo esterno di Cartesio non ha colore. Per altri versi il mondo esterno che tocco è ,
per me, compatto. Eppure ciò non significa che il mondo esterno sia compatto, è solo
esteso. Alla fine è irrapresentabile per noi, ed anche invalicabile.
Per altri versi, le due sostanze cartesiane sono molto distanti: l'una presenta
caratteristiche assolutamente diverse dall'altra. Ora, come comunicano queste due realtà?
Eppure io faccio sempre esperienza di una interazione tra queste due realtà. Desidero,
agisco, sento, etc. come posso risolvere il problema della comunicabilità tra le due
sostanze? Come posso uscire dal problema di Cartesio che pone la realtà estesa come
non materiale? Come qualcosa che non presenta quello che noi intendiamo con materia
ossia rappresentabile, compatta, dura, colorata? Perché ciò che noi intendiamo con
materia per Cartesio non esprime la verità. Cartesio pensa alla realtà estesa come
pensabile, non come rappresentabile: il pensiero ci consente di pensare appunto
l'estensione, non altro. In buona sostanza allora Cartesio non esce dal Cogito: non esce
dal pensiero. Cartesio esce dal pensiero tramite la fede o meglio la convinzione che
solamente qualcosa di sostanziale possa dare consistenza alla realtà: il pensiero è
sostanza. Cartesio resta dunque vincolato al paradigma ontologico. Ed il problema di
Cartesio, l'irrisolta composizione tra soggetto ed estensione.
Spinoza risolverà il problema radicalizzando il concetto di sostanza; Locke
viceversa annulla le istanza metafisiche ponendo il problema dell'esistenza delle idee
innate .
Joye intellectuelle
Je suis maitre de moi,
comme de l’univers.
Je le suis, je veux l’étre.
Corneille
Menis (μῆνις [-ιος,ἡ] sostantivo femminile, ira, ira tenace, rancore ), “è la prima
parola della lingua indoeuropea”. 19 Essa designa l’Ira di Achille. Il sacro furore che
deriva dall’aver subito
un’ingiustizia. Questo furore, quest’Ira porta all’esercizio,
immediato o meno, di comportamenti atti a levare l’ingiustizia e a ristabilire un altro
equilibrio sulla base di azioni più o meno violente. Si pone allora il problema del controllo
eventuale dell’Ira, di come essa sia legata al senso di rivalsa, di come Achille, nonostante
rivolga a se stesso pensieri ragionevoli, non riesca a tenere a freno l’impulso leonino di
vendetta20 contro i Troiani ed Ettore in ultima istanza, di cui strazia il cadavere.
Il problema è allora quello del tenere a freno la menis - l’Ira, il thymos (θυμός [-οῦ, ὁ]
sostantivomaschile: 1forzavitale, vita, 2: animo,cuore, 3: istinto, inclinazione, desiderio,
appetito, voglia coraggio, animo,arditezza; 4: collera,sdegno,passione,impetuosità, 5:
sentimento, maniera di sentire o di pensare, 6: pensiero, riflessione, deliberazionein
senso lato), ossia l’empito traboccante della psyche21. Si genera così un nuovo senso
19A’ propos de menis, in Bulletin de la Societè de Linguistique de Paris, 1977,pp. 187.
20Remo Bodei, Geometria delle passioni, Paura, speranza, felicità, Feltrinelli. Pagg. 270 e sgg
21Remo Bodei, Geometria delle passioni, Paura, speranza, felicità, Feltrinelli. Pagg. 271 e sgg
dell’eroe, quello di Odisseo, che sente latrare dentro di sè il kradie (καρδία [-ας, ἡ]
sostantivo femminile 1anatomiacuore 2anatomia bocca dello stomaco 3 [figurato] animo,
spirito, intelligenza), il cuore, e ciònondimeno si impone l’autocontrollo: “Pazienza cuore
mio”. La vendeta arriverà ma solo calcolata e fredda. Si tratta quindi di riflettere su - l’Ira,
di dilatarne i tempi dell’agire. O meglio di pensare ad un agire efficace.
In misura ancora maggiore, con l’avvicendarsi della Polis, si diluiscono i valori
tradizionali legati legati all’etica aristrocatica ed eroica. Si affaccia piuttosto un nuovo
senso della giustizia, legato ad una legge comune.
Ora, la prima collocazione storica del Thymos si trova in Platone: la Psyche vine divisa in
due parti – razionale ed arazionale a sua volta articolata in concupiscibile ed irascibile.
In breve, si tratta di incanalare i desideri verso il fine indicato dalla razionalità, rafforzando
così il dominio dell’anima da parte della ragione. Più nello specifico, Per Platone, le parti
arazionali dell’animo diventano irrazionali quando i desideri si sclerotizzanoe si strutturano
nel tempo in conglomerati difficili da disaggregare 22, assumendo i tratti stabili del carattere
coalizzati contro la ragione. L’arma più efficace contro tale rischio è l’autocontrollo,
enkràteia, (ἐγκράτεια [-ας, ἡ] sostantivo femminile 1 temperanza, astinenza in o da
2 pazienza, tolleranza, fortezza d'animo)che implica un rafforzamento della volontà –
boulè .
Egli non si affida semplicemnte alla soddisfazione indiretta del sogno, in cui ogni
mortale appaga allucinatoriamente desideri a volte terribili, piuttosto si adopera per agire
azioni indegne prive di senso razionale ed etico 23.
22Ibidem.
23Ibidem.
Al comando del Logos
le passioni generose si
ammanisiscono come un cane
alla voce del padrone.
Platone. Resp. IV, 440
D
Nel proseguio del cammino del senso etico nella Polis greca, Aristotele fa
sostanzialmente propria, sebbene con importanti differenze, la lezione platonica del
Logos.
E vivere secondo ragione, per i greci significa più determinatamente vivere secondo
costanza ed integrità. Virtuoso è colui, per Aristotele, che vive con costanza ed integrità
d’animo. Ed il suo animo è in amicizia con se stesso. 24 Si tratta della fedeltà a se stessi,
della constantia o firmitas, vero cardine dell’anticihità classica25, diversamente dal
malvagio che è incostante e non fedele a se stesso. Ancora di più egli non ha, non
presenta philautìa o amor proprio.
24Ibidem.
25Ibidem.
Con lo stoicismo26 antico , il baricentro dell’etica si sposta: il duro conflitto tra passione e
ragione risolto da Aristotele nella virtù del giusto mezzo, nel valore assoluto del metro
della ragione.
Si tratta della Temperantia, della temperanza delle passioni, della loro misura,
nell’ottica platonico-aristotelica.
Diversamente, nello stoicismo, si tratta di dominare e vigilare continuamente le
passioni ed i desideri. Ciò implica un rigoroso controllo della volontà e dell’intelligenza
sull’agire. Se dovessimo utilizzare una metafora: la psyche platonica è analoga alla polis,
quella stoica è analoga all’akro-polis.
Ancora, bisogna estirpare a fondo gli errori che sono alla radice delle passioni.,
non potarli semplicemente.(Cicerone, Tusc, IV, 41)
Il saggio stoico è dunque emblema di un monumento vivente, di impertubabile
autocontrollo, bilanciando la debolezza del corpo con la forza della ragione. Ed in effetti,
alla domanda di Seneca: “quid praecipuum in rebus humanis est?”. La risposta non puo
che essere: “Dominare se stessi invece di essere schiavi delle proprie passioni.” Ciò
significa acquisre una bona mens, una disposizione virtuosa dell’animo che mira alla
tranquillità ed alla coerenza, impedendo al metus ed al terror di impradonirsi dell’animo
umano. Una cura di sè quindi, che anche attraverso la meditatio mortis, prepara l’uomo in
vita, alla morte. (senza per questo cadere nella libido moriendi). Ancora, si tratta di
eseguire veri e propri esercizi che ci allontanino dai turbamenti e dalle passioni .
Le passioni in Cartesio
Tradizionalmente, la morale cartesiana è stata associata alla morale stoica: in realtà
essa ne diverge sia per il quadro generale di rifiuto di ogni rigorismo (stoicismo) che per
l’indicazione alla tematica della gioia (Cartesio). In effetti il progetto cartesiano è
certamente un progetto di diventare signori della natura e di sè ma che differisce
dall’austero progetto dellla cura di sè degli stoici. Di più, Cartesio parla anche di attività e
fare cose buone che dipendono da noi: tali attività sono fonte di piacere e gioia che a volte
sorgono proprio dalle stesse passioni. In prima battuta, possiamo affermare quindi che
Cartesio persegue, come del resto anche Spinoza, la libertà della volontà: “non c’è anima
26La dottrina etica pone al suo centro un concetto di virtù intesa come esercizio di ragione, e di vizio come passione, cioè come
incapacità di pensare e ragionare. L’uomo virtuoso è colui che vive in modo razionale, comprendendo la ragione del tutto, e quindi
anche secondo natura, essendo la natura espressione della ragione universale che pervade e governa il mondo. L’impegno del saggio
sta quindi nell’adeguarsi al corso fatale e necessario delle cose, persuaso dell’intrinseca razionalità degli eventi, realizzando una sorta
di indifferenza (adiaforia) verso i singoli aspetti della realtà. Quando gli sia impedito di seguire questi principi di comportamento,
egli saprà scegliere di uscire dalla vita (suicidio) piuttosto che vivere in modo irrazionale. La libertà si realizza così nel saper pensare,
adeguandosi a ciò che accade e instaurando un rapporto di simpatia con gli altri uomini e col tutto. Treccani.
tanto debole che non possa, quando ben diretta, acquistare un potere assoluto sulle
passioni.”27In particolare, Cartesio, ritiene auspicabile giungere al governo delle passioni
mediante tre regole:
-
servirsi del proprio spirito per sapere come agire nella vita;
fermo e costante proposito di far tutto ciò che la ragione consiglierà senza
lasciarsi distogliere dalle proprie passioni;
assicurarsi che i beni che non si possiedono siano fuori dalla propria
portata.28
In ordine all’ultimo punto, contro ogni morale della rinuncia, Cartesio ritiene che
spesso si desideri troppo poco e non troppo. Non una macerazione interiore (Stoici),
nè una morale della rinuncia (morale religiosa e tecniche devozionali) quindi,
piuttosto la conoscenza del’impiego della propria volontà e dei propri mezzi per
assicurarsi un bene maggiore (in questo Cartesio si avvicnia a Spinoza)
In misura coerente, Cartesio si pronuncia anche sul senso e sul peso delle passioni
nell’animo umano: ed il governo delle passioni avviene non con l’opposizione della
ragione alle passioni, ma con il potenziamento di queste in ordine ai fini dettati dalla
ragione, anche perchè le azioni riescono meglio se compiute con animo lieto.29
27Ibidem.
28Ibidem.
29Ibidem.
Vediamo: secondo Cartesio esisitono due tipi di eccessi:
-
il primo che cambia la natura della cosa ossia della passione;
il secondo che ne aumenta solo l’entità e non ne cambi la natura per cui una
determnata passione ne risulta migliorata.
Ad esempio l’ardimento, se non governato dalla ragione può giungere alla
temerarietà; ma se non cade in questo eccesso, l’ardimento riuscirà ad essere senza
paura.
Ciò che si vuol dire è che in Decartes, la forza delle passioni si deve accompagnare ad un
rafforzamento dell’Io o della ragione. Un rafforzamento che non fa capo ad un Io tirannico
e monolitico, bensì al rafforzamento della volontà: in effetti, per chi sa dosarle, le passioni
sono il sale della vita 30. “Esaminandolole, le ho trovate quasi tutte buone, e tanto
utili alla vita che la nostra anima non avrebbe motivo di restare unita al corpo se
non potesse provarle.”31
30Ibidem.
31Ibidem
Di più, il governo delle passioni non si raggiunge se non con l’esercizio e
l’addestramento: l’allontanamento dalle passioni eccessive e dalla eccessiva
intimità col proprio corpo. Il risultato quindi, la maìtrise delle passioni, non sarà
conseguito per sola buona sorte: i saggi l’acquistano infatti senza fortuna ma con
esercizio.
Egli quindi concede un ruolo importante alla volontà ed alla libertà della ragione
di intervenire sulle passioni per ben indirizzarle nella vita. Si tratta allora per Cartesio,
affidando all’uomo la responsabilità dell’agire, di regolare ed intervenire sulle passioni per
abituarsi, con dovere e destrezza, all’esercizio della ragione nella regolamentazione delle
passioni per elevarsi a Dio. Epperò questa tensione verso l’Assoluto non è solo pietà –
pietas - degli antichi verso la divinità, ossia di giustizia verso gli Dei, si tratta in Cartesio di
uniformarsi, di accettare la potenza divina e di riconoscerLa nella sua grandezza con la
propria volontà.
Ora, in questa serena accettazione del potere divino, la maìtrise de soi, aumenta
e non diminuisce. Ed aumenta perchè l’amore di Dio, grazie alla conoscenza di Dio, via
via maggiore, che l’uomo tenta di aumentare indefinitamente, è gioia intellettuale.
Ed in effetti l’amore di Dio, nella nostra umile vita, è la cosa più utile. Utile che non è
visto come in Platone, come cosa mercificata e condannabile se riferita al rapporto tra Dio
e l’uomo, semplicemetne perchè in Cartesio utilità e gratitudine coincidono: potenziare se
stessi nella gioia è adeguarsi alla volontà di Dio 32. Ciò che Cartesio vuole dirci allora è che
risulta necessario abbandonare quella inveterata abitudine contratta sin da piccoli di
amare se stessi come un Tutto: piuttosto amarsi come nel Tutto.
Con le affermazioni di Cartesio appena citate, non si vuole però intendere che Egli
rinunci all’esercizio della volontà menzionato sopra, al contrario la presuppongono; nè
Cartesio si riferisce ad una ipotetica fuga dal mondo.
32Ibidem.
Le sei passioni
Cartesio enumera sei passioni:
1. meraviglia: auroralmente legata alla conoscenza (Aristotele), contro la condanna
agostiniana e hedeggeriana dell’epoca contemporanea; Cartesio ne individua la
spinta propulsiva per l’intera economia dell’anima; Hobbes è vicino a Cartesio in
questa analisi, nella m isura in cui la meraviglia si colora del piacere della novità e
dell’attesa: la curiosità è diletto. In questo senso, anche per Cartesio la curiosità
perde il senso negativo della tristezza legata all’incertezza del futuro: la scoperta
dettata dalla meraviglia per il non conosciuto è esente da paura. Si badi inoltre
che, in Cartesio, il sapere è alla fine stutturato in certezze evidenti, esenti da dubbi.
2. odio;
3. desiderio;
4. tristezza;
5. Gioia: passione fondamentale per Cartesio così come per Spinoza. Si tratta per
Cartesio, di insistere sulle proprie forze per riuscire, ove possibile, a rendere le
cose della vita più gradevoli e quindi di superare il metus, la paura, non tanto
perchè legata come in Seneca e Tacito all’ambito politico, bensì all’ordine della
salute coporea33.
33Per quanto afferisce l’amore: la filosfia moderna, a partire da Cartesio, introduce na nuova accezione del termine. L’amore è
infatti considerato una passione, una affezione dell’anima individuale o meglio della coscienza. Sia esso una sensazione determinata
da fenomeni empirici, (Illuminismo) o da un movente metafisico ( la volontà di Schopenhauer), l’amore rappresenta un fenomeno
esclusivamente umano, legato alla struttura fisiologica o psicologica del soggetto.
L’amore si allontana quindi dalla concezione cosmologica tipica del mondo antico, nonchè dal legame con Dio
caratteristico della concezione cristiana - caritas cristiana. Cfr. Cioffi, cit. pag. 490.
La gioia rappresenta
più il risultato di un
addestramento
costante delle passioni
che non una loro
intrinseca elaborazione
secondo il modello
spinoziano
del
comprendere.
Passioni dell’anima,
art. 50.
Infine in Cartesio, sono l’amore per la vita, la carità e l’armonia, ad
indicare la via della vita morale: la sfida della morte si traduce allora nell’amore
della vita34. Va però sottolineato come in Cartesio la gioia - joye – non coinvolga
34Ibidem.
anima e corpo allo stesso livello: la gioia è tanto più pura quanto meno coinvolge il
corpo ed i suoi condizionamenti (in Spinoza la laetitia è più intimamente legata al
corpo), tanto che lo stesso Cartesio indica una serie di esercizi spirituali per
allentare la comunione col corpo. Si tratta di operare con prémeditation e
industrie al fine di allentare la morsa dell’abitudine e quindi separare l’anima dal
corpo. In tal guisa, non susssitono per la maggior parte degli uomini molte
fluttuazioni d’animo provocate dalle passioni: piuttosto i più posseggono
precisi giudizi in base ai quali si orientano 35. E se anche alcuni giudizi sono
falsi, o fondati su passioni da cui la volontà si è lasciata sedurre, è sufficiente
rettificare tali giudizi con l’usilio della ragione al fine di dirigere le passioni verso il
vero perchè “la funzione di tutte le passioni consiste solo nel disporre l’anima
a voler ciò che la natura ci indica come utile 36 ed a perseverare in questa
volontà”.37 Cartesio ha anche fiducia che qualsiasi persona potrebbe acquistare
un assoluto dominio sulle sue passioni solo se si dedicasse, con pazienza e
metodo, ad educarle.
35Ibidem pag. 270.
36Utilitàs.f.[dallat.utilĭta-atis].
a. Qualità, condizione, proprietà di ciò che è utile, che può essere cioè usato con vantaggio o che reca vantaggio, beneficio, aiuto
(materiale o morale): l’u. del denaro, di un bene; u. di uno strumento, di un apparecchio, di un accessorio; la grande u.
dell’esperienza, del sapere, degli studî; e specificando la persona, la cosa, il fine per cui qualche cosa è utile: il tuo consiglio è per
me di grande u.; è evidente l’u. che avrebbe per l’azienda un centro elettronico di calcolo; in diritto, espropriazione per pubblica u.,
v. espropriazione. Anche, effetto utile, e più genericam. vantaggio, profitto: quale u. viene a noi dalle nuove disposizioni?; hai avuto
qualche u. dalla sua presenza? Spec. usata la locuz. agg. di ... utilità (sempre specificata da un agg.): una scoperta di grande, di poca
u., assai o poco utile; e col verbo essere come predicato: puoi andartene, qui non mi sei di nessuna utilità.
b. In economia, la soddisfazione che un soggetto ricava dal consumo di una data quantità di un bene o servizio da lui ritenuto idoneo
ad appagare un determinato bisogno, presente o futuro; in partic., u. totale, la soddisfazione globale che un individuo ricava dal
consumo di una certa quantità di un bene o servizio; u. marginale, l’incremento dell’utilità totale ricavato dal consumo di un’unità (o
dose) aggiuntiva di un bene o servizio; legge dell’u. marginale, la legge, formulata nella seconda metà dell’Ottocento, per la quale
l’utilità marginale ricavata dal consumo di un bene o servizio va decrescendo al crescere delle dosi consumate.
2. ant. Utile, guadagno; interesse del denaro prestato; emolumento in genere. Monte delle u. era detto in Venezia il fondo comune in
cui varî pubblici ufficiali erano tenuti a versare i loro proventi straordinarî e che serviva poi per retribuire equamente i funzionarî
stessi.
Spinoza e Cartesio
Un contributo fondamentale all’indagine filosofica sul tema della passioni è quindi
dato nell’età moderna da Cartesio e da Spinoza.
Nel trattato Le passioni dell’anima (1649) Cartesio afferma l’insopprimibilità delle
passioni, distinguendo tra quelle che per loro natura sono intrinsecamente buone, e il
loro cattivo uso ed eccesso, che soli costituiscono l’inconveniente morale contro il quale
mettere in atto i ‘rimedi’ della virtù.
Le passioni, al pari delle azioni (atti di volontà) appartengono all’anima come res
cogitans, rientrando quindi nell’esercizio delle libertà e della razionalità. Cartesio classifica
le passioni tra le percezioni, in quanto, a differenza degli atti volitivi, sono subite; al
contrario delle idee, inoltre, non rappresentano oggetti esterni, e diversamente da altri
modi di sentire, come la fame o la sete, non ineriscono al corpo ma all’anima; esse sono
affezioni dell’Io, ma non sono causate dall’Io, bensì dagli spiriti animali del corpo.
L’anima non è quindi padrona delle proprie passioni, che non possono essere
eccitate o soppresse da un semplice atto di volontà, ma può assicurarsi un dominio
indiretto su di esse mediante la costruzione di un habitus comportamentale ispirato alla
razionalità. La forza e la debolezza d’animo consistono rispettivamente nella capacità di
opporre alle passioni, come già descritto sopra,. «giudizi saldi e precisi circa la
conoscenza del bene e del male», o viceversa nel lasciarsi trascinare da opposte
passioni, sino a rendere l’anima «schiava e infelice». Ogni anima, se ben indirizzata, può
acquistare così un dominio assoluto sulle passioni.
37
Ibidem.
In misura ancora maggiore e per questo diversa, il saggio spinoziano non
arriva ad anestetizzare le passioni o alla completa atarassia: attraverso la
constantia38, la conoscenza non autopunitiva, arriva alla beatitudine : “Egli (il
saggio) è difficilmente perturbabile nel suo animo, ma essendo consapevole
di sè, di Dio e delle cose (...) possiede sempre la tranquillità d’animo”. 39
Per altri versi, ma sempre nella medesima direzione, Spinoza si dipinge come
avverso alla malinconia: il saggio si concede la laetitia40. In effetti, Spinoza non chiede di
mortificare le proprie passioni, nè in nome dello Stato nè in nome di Dio. Egli piuttosto
38
Ibidem.
39
Ibidem.
40
Letìzia s. f. [dal lat. laetitia, der. di laetus «lieto»]. – Sentimento di gioia intima e serena: provare viva l., una soave, un’indicibile l.;
avere l’animo pieno di l.; dare, arrecare l.; essere, vivere in l.; servire il Signore in l., alternando il lavoro a una sana allegria (ricordo
dell’espressione biblica «Servite Domino in laetitia», salmo 99, 2, a cui s’ispirò s. Filippo Neri nel dettare la regola agli oratoriani).
In partic., la beatitudine celeste: non fora giustizia Per ben letizia, e per male aver lutto (Dante).
Tristìzia
(ant.
trestìzia)
s.
f.
[dal
lat.
tristitia,
der.
di
tristis
«triste,
tristo»].
–
Forma ant. per tristezza, come stato psichico: Non credo ch’a veder maggior tristizia Fosse in Egina il popol tutto infermo (Dante);
lungo sarebbe a mostrare qual fosse e quanto il dolore e la tristizia e ’l pianto della sua donna (Boccaccio).
L’obiettivo filosofico più importante , dal punto di vista politico in Spinoza, è la critica al senso della paura in Hobbes
2. letter. L’essere tristo; malvagità, cattiveria: il che nasceva dalla tristizia di quegli principi, non dalla natura trista degli uomini
(Machiavelli); l’impazienza, l’orgoglio umano, han perduto o sviato dal retto sentiero molte più anime che non la deliberata tristizia
(Mazzini). Con sign. concreto, ant., atto malvagio: egli parla né più meno come se ... per la lunghezza del tempo avesse le sue
tristizie e disonestà dimenticate (Boccaccio).
chiede di perseguire la propria utilitas (vedi nota 34), una tendenza lungimirante e non
miope di sè, che si potenzia nella gioia e non nella tristezza . una felicità possibile
all’interno dei confini della necessità che caratterizza il suo sistema filosofico. Si tratta
quindi non di negare le passioni e la loro potenza. Tale atteggiamento umile consente alla
ragione di esaltarne la forza - nei confronti delle passioni - di comprenderne il senso ed il
fine, l’orgine e la portata, così da mutarne la potenziale distruttività in una maggiore letizia
e gioia.
Spes et metus affectus
non possent esse per se boni
Spinoza
Spinoza ha infatti compreso che l’opporsi della ragione alle passioni genera
conflitti irrisolti. Solo due sono quindi le vie per risolvere il problema del rapporto
passione\ragione:
-
L’affidarsi ad una potenza esterna ed interna che funga da mediatrice tra
l’interiorità del soggetto e Dio ossia l’universalità di Dio: “più intimo di
quanto sia io stesso” Agostino ;
Incrementare la potenza delle passioni in vista di un aumento della gioia:
Spinoza.
L’esagerazione delle passioni
All’interno di ogni passione è possbile esperire, provare, sentire, una ulteriorità
che ha indotto molti filosofi, (Cartesio, Stoici) a considerare questo aspetto di
esagerazione come un aspetto principale delle passioni. Se dovessimo fare un esempio:
 la paura di un determinato evento, il buio ad esempio41, condensa ed
esprime la nostra angoscia per problemi irrisolti;
 l’Ira esprime spesso frustrazioni irrisolte;
 la Tristezza esprime spesso, in occasione di un evento triste, il colore di un
mondo triste giudicato tutto triste;
 Per altro verso nell’amore il mondo, l’intero mondo, si colora di promesse e
felicità.
In questo senso la passione tende a diventare ab-soluta, ossia sciolta da qualsiasi
elemento iniziale, per trasferire il proprio impeto ad altri contesti e situazioni a volte distanti
dalla situazione iniziale in cui una determinata emozione\passione si origina. 42 La passione
sembra allora funzionare come una sineddoche, come una pars pro toto,a differenza
della ragione che analizza, distingue, descrive la causa prossima di quella data emozione,
evitando così di fare di ogni erba un fascio, come tenderebbe a fare la passsione. Ora,
se questa è una analisi corretta, dovremmo essere in grado di capire come conciliare
questi due elementi antitetici.
Una possibilità di sintesi, qualsiasi cosa significhi tale termine, è offerto dall’Etica di
Spinoza.
Ancora, là dove la ragione era assunta come specificazione essenziale,
il proprium dell'uomo (animal rationale), le passioni (in stretta connessione con gli impulsi
tipicamente ferini, di qui la loro frequente rappresentazione con simbologie animali)
finivano per essere il ‘perturbante’, ciò che obnubila e svia la cristallina chiarezza del
41
Ibidem.
42
Ibidem.
razionale e il suo orientamento al bene; perciò erano da evitare, sottomettere, estirpare.
Ma di qui anche l'impossibilità di quelle ‘ricette di felicità’ proposte da queste filosofie che
finivano per “scrivere quasi sempre impraticabili satire in luogo di un'etica” (ivi).
Spinoza rompe decisamente con questo schema antagonistico e ‘immunitario’.
Le passioni43 in Spinoza
43
Passione: Termine filosofico, corrispondente al gr. πάϑος, che in generale designa lo stato di «sofferenza» o «passività» (da
πάσχειν, «subire, soffrire»), e in partic. si riferisce all’esperienza spirituale nella quale l’animo si sente dominato e soggiogato dalla
tendenza affettiva, pratica. Fonte Treccani.
Nel pensiero moderno, i due maggiori teorici delle passioni sono Cartesio e B. Spinoza: il primo avvia lo studio delle passioni
nell’ambito di una nuova concezione del mondo fisico, e nella cura delle p. (compito della medicina e della morale) vede il fine e il
frutto ultimo della filosofia; il secondo sente più decisamente il valore universale dell’ affectus, distinguendolo in actio e passio, a
seconda che l’esperienza affettiva presenti carattere di attività o di passività: actio per eccellenza è quella che risponde all’idea
dell’unica natura delle cose, l’amor Dei intellectualis. Nel pensiero posteriore, il problema del rapporto di p. e virtù diventa quello del
carattere rigoristico o antirigoristico della morale .In Spinoza è criticato :
- Platone: divisione tra anima razionale da un lato ed anima concupiscibile dall’altro ( con conseguente condanna della classe
sociale corrispondente);
- Aristotele: educazione e persuasione degli affetti come premessa di una vita buona;
- Neostoicismo : severa condotta di fermezza d’animo in epoche difficili;
In Spinoza, il conatus44, è lo sforzo45 o tensione di ogni cosa a perseverare
nella sua esistenza:
Proposizione 6: ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza di perseverare nel suo essere;
Proposizione 7: lo sforzo per cui ogni cosa si sforza di perseverare nel suo essere non è
altro che l’essenza attuale della cosa;
Proposizione 9: questo sforzo, se lo si riferisce alla sola mente si chiama volontà, se
invece lo si riferisce alla mente ed al corpo si chiama appettito, che dunque non è che la
stessa essenza dell’uomo; dalla natura della quale seguono necessariamente le cose che
servono alla sua conservazione; e quindi l’uomo è determinato a fare.
-
Pascal: affidamento a Dio per combattere la torbidità delle passioni;
Cristianesimo: drammatizzazione nel teatro interiore della coscienza dei conflitti dovuti alle passioni (aspetto gesuitico)
Difficilmente tale modalità interiore produrrà una liberazione dal morso delle passioni.
44
Il conatus, se riferito alla mente, è volontà. Se riferito insieme a mente e corpo è appetito. Esso, il conatus, esprime l’essenza
dell’uomo .
45
Il desiderio, nel suo continuo variare di intensità ed orientamento, è costitutivo dell’uomo e lo spinge verso il futuro. Tristezza e
gioia sono passioni atraverso le quali l’esistente passa da una minore ad una maggiore potenza di esistere.
Inoltre fra l’appetito e la cupidità 46, non c’è nessuna differenza, se non che la
cupidità viene riferita per lo più agli uomini, in quanto consapevoli del loro appetito. E si
può pertanto così definire: la cupidità è l’appetito con la consapevolezza di esso. Noi
quindi non vogliamo, appetiamo, desideriamo una cosa, perchè la riteniamo buona,
ma, al contrario, giudichiamo una cosa buona perchè la vogliamo, tendiamo ad
essa, l’appetiamo e la desideriamo.
In buona sostanza i Valori sono determinati dal conatus: i valori, anche se tendono
a presentarsi come principi sono il risultato delle azioni riuscite, tenuti validi perchè
favorevoli all’esistenza. Se è così, la razionalità, in Spinoza, deve cercare di rendere le
idee della nostra mente adeguate (tramite una riflessione razionale) in virtù del fatto che
spesso esse sono inadeguate a causa delle passioni. In questo senso , il conflitto
generato dalle passioni può essere risolto tramite la metaformosi delle idee inadeguate in
idee adeguate.
Ora, in Spinoza, la conoscenza è mentis potentia, metamorfosi delle idee
inadeguate in idee adeguate, produzione di gioia, in quanto solleva ognuno
dall’oppressione di un potere incomprensibile. Ma che vuol dire conoscere in Spinoza?
46
Pleonexia - πλεονεξία [-ας, ἡ]sostantivo femminile:
1 abbondanza, superfluo
2 guadagno, vantaggio, interesse
3 miglior condizione, superiorità, ingrandimento, prevalenza, preminenza
4 desiderio d'arricchirsi, avidità, cupidigia
5 arroganza, soverchieria
6 frode
Scientia intuitiva: si sa
perchè si ama, si ama
perchè si sa.
Conoscere in Spinoza non è tanto capire quanto comprendere: non è avere
semplicemte coscienza della necessità (aspetto del sistema spinoziano) bensì
incrementare la propria forza, dilatare il proprio Io nel nos della comunità o nella
compagine dell’universo47. Nemmeno vuol dire conoscere astrattamente senza modificare
gli affetti: essi non sono intellettualizzati, sublimati, ma semplicemente privati della loro
opacità. Attraverso una serie di operazioni che li ordina e li concatena seconda una
logica diversa da quella dell’immaginazione.
In primis, essi sono separati dal pensiero della loro causa esterna; poi stabilizzati
– rispetto alla maggior parte degli affetti che fluttuano nell’animo – per poi riferirli alle cose
che conosciamo chiaramente. Si tratta di passare dall’ordo imaginationis all’ordo
rationis per poi passare all’ordo amor intellectualis ( secondo cio ogni cosa è
compresa nella sua specificità all’interno dell’ordine della natura). Ciò a cui mira
Spinoza quindi, va inteso probabilmente nella direzione di una trasformazione della
cupiditas verso un affetto: la forza cieca diventa allora consapevole di sè, energia da
sviluppare e non da reprimere. L'Etica vuole offrire insomma un'adeguata comprensione
dell'essere uomo all'interno di un mondo rigorosamente necessitato nel quale Egli non
occupa una posizione privilegiata o ne è un riassuntore (critica alla concezione dell'uomo
microcosmo).
Solo così è possibile offrire una praticabile farmacologia filosofica, volta a indicare
un’ardua ma raggiungibile felicità. Essa si propone come infine come vitae meditatio e la
meditazione si trasforma costantemente in prassi.
Ma in quale modo Spinoza ritiene di poter “conoscere” la natura delle passioni?
E possibile affermare che il filosofo olandese, similmente a Freud – apparato
psichico tripartito in ES, IO, Super IO in cui l’Es è sede di impulsi primordiali quali la libido
47
Ibidem
- ritiene che tanto più comprendiamo gli affetti tanto più essi sono modificati da tale
attività di ri-flessione su gli affetti.
Vediamo: la ratio di cui parla Spinoza, non è il calcolo utilitaristico di cui parlerà
Locke, non è l’utilitas come mero aspetto egoistico e soggettivo del singolo. Nè va inteso
come diritto all’autoconservazione del singolo. Piuttosto: le passioni tristi rendono
schiavi.
Schiavitù è, infatti, “l’impotenza dell’uomo a moderare o a reprimere gli affetti” e
l'impotenza è maggiore quanto più la conoscenza è oscura e confusa. Compito della
filosofia, che diventa prassi, è quello di liberare l'uomo da tale servitù e ciò è possibile
aumentando la potenza della mente. Più le passioni sono adeguatamente comprese
(nella loro genesi e nella loro struttura) meno le si patisce. Più la mente attinge al
secondo e terzo genere di conoscenza più scopre che “a tutte quelle azioni a cui
siamo determinati da una passione, possiamo essere determinati, senza la
passione, dalla ragione” (E, IV, 59). Ora, vivere secondo ragione esprime la massima
potenza di essere e di agire dell'uomo e, dunque, è causa di gioia autentica. Questo
processo di affrancamento dalla servitù della tristezza è processo in corso di gioiosa e
consapevole liberazione.48
Il saggio
Secondo Ovidio: “Video meliora, proboque, deteriore sequor” (Vedo il meglio e
l’approvo ma seguo il peggio).
Secondo Spinoza, nella vita dimidiata49 dei più, non si tratta di rivolgersi ad astratte
Leggi giuridiche , ma di accrescere la potenza di esistere: ed è la passione stessa, il
patire, che offre la possibilità di accrescere la potenza dell’esistere e la conoscenza del
48
Fonte Treccani.
tutto. Di più ancora, attraverso la Tristitia è possibile ascendere alla Laetitia.
Ricordiamo infatti che in Spinoza una passione può essere vinta solo da un’altra passione
più forte. In questo senso in Spinoza anche la Ratio può essere considerata una
passione: la passione più forte. Una passione che culmina in una vis existendi,
espressione massima del conatus.
In una battuta: tristezza e gioia sono passioni attraverso le quali la mente
passa da un minor ad un maggior grado di autoconservazione. Tale grado di
conservazione e persistenza nel proprio essere, per un tempo indefinito è espresso
in Spinoza dal Conatus.
Ora, se il Conatus è riferito alla mente esso è Volonta; se invece è riferito alla
mente ed al corpo è Appetito: la vera essenza dell’uomo.
Non c’è poi differenza tra appetito e desiderio: il desiderio è appetito con
coscienza di se stesso.
,
Quindi, in conclusione, sebbene parziale, Spinoza a diferenza di Descartes,
considera le passioni come forma di conoscenza. Egli cancella anche la divisione tra
anima e corpo di Cartesio: in questa divisione Spinoza vede semplimente un aspetto
parallelo. L’aspetto per cui un incremento “mentale” corrisponde anche ad un
incremento corporeo: espressione della medesima sostanza in Modi differenti.
Ancora, Spinoza non considera il primato della volontà come in Cartesio:
semplicemte non esiste una Volontà ma singole volizioni particolari. E comunque, anche
volendo considerare una Volontà generale, essa non ha certo maggiore estensione
dell’intelletto come in Cartesio. Piuttosto la Volontà è per Spinoza il Conatus, riferito solo
alla mente.
49
Lett. dimezzato; mancante di una metà, di una parte consistente. Etimologia: dal lat. dimidiātu(m), deriv. di dimidĭus ‘mezzo’.
Amore ed affetto50
In Spinoza la passione51 trasformata in affetto, rade al suolo52l’hegemonikon degli Stoici.
Si tratta per Spinoza di non rendere in schiavitù una parte di sè (le passioni) .
Spinoza
50
affètto1 agg. [dal lat. affectus, part. pass. di afficĕre «impressionare»]. – Fonte Treccani
51
Platone postula un contrasto radicale tra ragione e passione. Egli colloca infatti le passioni nell’anima
concupiscibile (posta nel ventre) e in quella irascibile (situata nel fegato), affidando all’anima razionale,
che ha sede nella testa, il compito di disciplinare
e guidare le azioni umane.
In Aristotele, la passione è una «perturbazione delle parti inferiori dell’anima connessa agli
organi corporei» (De anima, I, 403 a e segg.) e come tale capace di estendersi anche al corpo. Come giusta
medietà tra le opposte tendenze estreme (la quale quindi non esclude il loro contenuto passionale, ma lo
misura e regola), Aristotele definisce la virtù etica. La teoria filosofica delle passioni si definisce con
maggiore precisione con lo stoicismo, che, sviluppando gli analoghi motivi del cinismo, considera tutto il
mondo affettivo come una sorta di legame, per cui l’animo subisce la schiavitù delle cose: il problema
morale si presenta quindi come problema della vittoria sulle p., e della conseguente restaurazione
dell’impassibilità autarchica o «apatia». Treccani on line.
La radicalizzazione del concetto di sostanza è perseguito da Spinoza partendo,
per così dire, dal mondo delle rappresentazioni della sostanza e degli altri oggetti
metafisici. Definendo la sostanza, non si tratta per Spinoza di esporre un semplice
concetto, ma di affermarne contemporaneamente l’esistenza.
Spinoza si rifà qui all’argomento ontologico secondo cui Dio è: id quo maius
cogitari nequit - Anselmo – oppure è l’ ens summe perfectum – Cartesio. L’idea di Dio
ossia dell’Ente sommamente perfetto, secondo Cartesio, è infatti l’idea di una essenza
che implica necessariamente l’esistenza, visto che , se così non fosse, l’Ente non sarebbe
perfetto, cosa impensabile per definizione.
Dai moralisti a Freud. L’idea che la passione sia la forza che una intensa emozione esercita
sull’animo, indirizzando completamente il comportamento dell’uomo, senza possibilità di sottrarsi al suo
potere trascinante, si afferma in partic. con i moralisti dei secc. 17° e 18°. Presente in Pascal, essa si mostra
nel graffiante cinismo sotteso alle Massime (1665) di La Rochefoucauld, in cui la resistenza alle passioni.
viene presentata come obiettivo irraggiungibile (a meno di non aver a che fare con una passione veramente
debole), e la durata delle passioni, come quella della nostra vita, viene sottratta al dominio dell’uomo.
A Kant si deve uno dei primi, chiari tentativi di operare una distinzione tra emozione e passione.
Nello scritto Antropologia pragmatica (1798) l’emozione è infatti riportata a esperienze di piacere e
dispiacere che impediscono al soggetto di riflettere e, in tal senso, rientra nella sfera del sentimento; la
passione, viceversa, è da ascrivere alla facoltà di desiderare, in quanto rinvia alle inclinazioni o ai
desideri sensibili naturali, nella misura in cui una singola inclinazione acquista forza sufficiente a
esercitare un dominio totale e profondo su tutta la personalità dell’individuo. Kant rigetta ogni esaltazione
della passione per il pericolo che essa rappresenta per la scelta razionale e per la libertà morale dell’uomo.
L’idea che la passione non sia un’emozione, ma il dominio assoluto di uno stato affettivo sulla personalità
nella sua totalità viene ripreso dalla filosofia romantica, che però capovolge il giudizio negativo espresso da
Kant.
Così per Hegel nella p. «l’intera soggettività dell’individuo» viene limitata a un’unica determinazione del
volere, «quale che sia il contenuto di questa determinazione», per cui la passione . deve essere considerata
come «la totalità dello spirito pratico in quanto si pone in una delle molte determinazioni limitate che
sono fra loro in contrasto». La passione però non è né buona né cattiva: «la sua forma esprime solo che un
soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l’interesse vivente del suo spirito, dell’ingegno, del carattere,
del godimento». Contrapponendosi esplicitamente alla condanna kantiana, Hegel giunge ad affermare:
«Niente di grande è stato compiuto né può essere compiuto, senza passione. È soltanto una moralità
morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della p. in quanto tale» (Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, 1817, parr. 473-74).
Negli sviluppi successivi del pensiero la riflessione sul tema delle passioni diventerà in misura crescente
dominio della psicologia, sviluppatasi come disciplina autonoma. Un’originale riformulazione e
rielaborazione della problematica filosofica relativa al conflitto tra ragione e passione e al carattere
radicalmente diviso della natura umana si trova tuttavia nella teoria psicoanalitica di Freud , che propone una
concezione dualistica e antagonistica delle p. fondamentali da cui è mosso l’uomo, reinterpretate in termini
di «pulsioni».
52
Ma Spinoza radicalizza l’istanza di Cartesio che fonda il suo ragionamento sul
cogito come principium certum et inconcussum. Il cogito è infatti dipendente e limitato,
mentre Spinoza cerca qualcosa che valga come fondamento e principio di tutto il reale e
di tutto il nostro sapere: la sostanza. Ed il contenuto immediato del pensiero è
esattamente Dio 53. Il superamento del dubbio cartesiano è allora costituito
dall’indubitabilità di un pensiero che sin dall’inizio è riempito da Dio 54 e cioè vede la
necessità di Dio. Spinoza quindi, come Leibniz, tiene fermo il principio cartesiano che la
realtà esterna non è il contenuto immediato di quest’ultimo, ritenendo che il rapporto tra il
pensiero e la realtà esterna è un caso particolare di una legge universale: pensiero ed
estensione sono infatti due degli infiniti attributi della Sostanza che appunto la
esprimono.55
Ibidem.
53
Marzorati, vol. IV, pag.129.
54
E. Severino, Storia della filosofia mode rna,pag. 97.
55
In effetti la sostanza è intesa da Aristotele come ciò che esprime l’indipendenza
ontologica dell’ente. Ancora, la sostanza è concepita in virtù di se stessa e non in virtù di
una verità precedente. Essa è infinita ed è causa sui in quanto la sua essenza implica la
sua esistenza.
Vediamo: Spinoza afferma che l’idea vera deve convenire con il suo ideato:
(assioma 6) la conoscenza dell’oggetto è di per sè garanzia di verità. E tra tutte le idee
che possono fungere da punto di partenza metolodologio, logico ed ontologico al
ragionamento, l’idea di sostanza come quella dell’Essere perfettissimo è l’unica a dare
questa garanzia. Come dire che l’idea di sostanza implica necessariamente la sua
esistenza come infinita ed eterna.
Spinoza intende la sostanza quindi come una,con una sola essenza, che obbedisce
ad una sola legge: quella della necessità razionale. Se la sostanza è una essa allora
fonde in sè :



il concetto di sostanza estesa; (Cartesio aveva ridotto ad un rigido
meccanicismo il mondo della natura, ma ne aveva escluso l’uomo in
quanto sostanza pensante e libera)
quello di sostanza spirituale;
quello di sostanza divina. (Cartesio riconosce che la sostanza spirituale
riferita a Dio presuppone che tale sostanza non abbia bisogno di
null’altro per esistere)
Ora, la sostanza, se si riferisce anche a Dio, alla sostanza spirituale, è infinita. In effetti
l’inifinità, la primalità ontologica e metafisica, la sua unità assoluta in tanto si dicono della
sostanza in quanto si dicono di Dio.56
In sintesi, nel concetto dell’unica sostanza si fondono quelli della cartesiana res extensa e
res cogitans, e quello della sostanza divina. Ancora, in Spinoza il termine “sostanza” ha
Ibidem.
56
Ibidem.
il suo più autentico significato solo in relazione a Dio. Essa è l’unità assoluta, in senso
neoplatonico, dalla quale soltanto può scaturire il molteplice delle cose corporee e
pensanti. 57
Spinoza quindi, annulla il rincipio della soggettività e pone nella sostanza assoluta,
nella sostanza in senso evidente, il fondamento del tutto ed anche il fondamento del
sapere in quanto il sapere filosofico è coinvolto e dedotto dal principio della sostanza. Ora,
sulla radicalizzazione in senso monistico della sostanza da parte di Spinoza, ha una forte
incidenza la tradizione cristiana: il pensiero del cristianesimo di Tommaso, in base al
quale Dio è il principio dell’Essere di tutte le cose. Se il fondamento dell’essere di tutte le
cose è in Dio, ciò significa che allora che le cose non possono esisitere al di fuori di Lui,
che l’essere delle cose “finite” (modi) non sta nelle sostanze finite, ma sta in Dio. Ciò però
non porta il ragionamento a pensare che le cose finite siano fuori da Dio bensì che le
sostanze finite non sono altro che manifestazioni finite di Dio. “Modo” per Spinoza sta
dunque ad indicare ciò che dipende da altro, il cui concetto non può essere compreso
senza riferimento ad altro. Questo “altro” è appunto la sostanza.
In questo senso Spinoza afferma la totale identità di mondo e Dio: il mondo non può
essere pensato come al di fuori di Dio, coincide con Dio, sebbene ciò significhi che Dio
non può essere indipendente dal mondo: la totale identità dei due momenti è espressa da
Spinoza con due concetti che indicano, in realtàlo stesso concetto: natura naturans e
natura naturae. Due aspetti attraverso i quali Spinoza cerca di far vedere il lato mondano
di Dio ed il lato divino del mondo. Possiamo comunque osservare che in entrambi ritorna il
concetto di “natura”: da un lato “naturans”, dall’altro “naturae”, ma sono entrambe natura.
Ora, in entrambi i concetti Spinoza vuol salvare un elemento di Dio: il fatto che Dio sia
causa del mondo. Spinoza non intende mettere in discusione questo aspetto che gli
proviene dalla tradizione e che egli sfrutta sino in fondo: propriamente il fatto che Dio sia
causa del mondo non è inteso come una causa che si differenza dal suo oggetto, in
quanto verrebbe riproposto il dualismo Dio\mondo. Anzi, afferma Spinoza, se noi
intendiamo il concetto di causa in modo radicale, affermiamo che l’effetto non può stare al
57
Cartesio chiama le realtà per lui ultime substantia cogitans e substantia extensa, e il monismo spinoziano unifica
quelle due realtà proprio approfondendo il principio medievale dell'assoluta autonomia logica ed ontologica della sostanza (da lui
definita come quod per se est et per se concipitur), che non potendo riferirsi ad altro dev'essere infinita e unica. Ma contro questo
assoluto valore ontologico del concetto di sostanza si leva l'empirismo: il Locke, con la sua critica associazionistica, mostra come
ciò che si dice sostanza non sia altro che un complesso convenzionale di percezioni distinte, e chiarendo la soggettività delle
qualità secondarie ne riduce il contenuto oggettivo alla semplicità matematica delle primarie; e la gnoseologia del Berkeley
giunge a risolvere pienamente la substantia extensa nelle percezioni delle substantiae cogitantes, costituenti per ciò esse sole
l'universo. D'altronde, dissolta da Hume anche la sostanza spirituale, la critica kantiana, intenta a restaurare la possibilità della
conoscenza del reale contro lo scetticismo humiano, restituisce alla sostanza il valore di categoria instaurante l'unità dei
fenomeni. Ma naturalmente, così intesa, la sostanza non è più aspetto oggettivo della realtà, ma funzione soggettiva del
conoscere: e tale resta nei sistemi dialettici degl'idealisti postkantiani, che variamente la inseriscono nelle loro deduzioni delle
categorie. Cfr. Treccani on line.
di là della causa: se l’effetto fosse realmente al di là della causa non sarebbe più l’effetto.
Avrebbe causa in altro. In una battuta: la causa deve’essere immanente l’effetto.
Spinoza, quando distingue i concetti di natura naturans e natura naturae, delinea
una distinzione solo dal punto di vista del finito, perchè in realtà e due cose sono
esattamente lo stesso. Ecco che allora non è possibile intendere la causazione del mondo
come una creazione: con un creato libero dalla sua causa. Piuttosto, il legame immanente
tra causa ed effetto, è alla base della negazione della libertà: data una causa ne consegue
necessariamente tutta la serie dei suoi effetti.
La “causa”che pensa Spinoza resta ancora Dio: una volta data la sostanza divina
ne consegue necessariamente tutta la serie dei suoi effetti: la totalità dei modi, ossia le
manifestazioni della sostanza, non sono liberi di manifestarsi ma sono necessariamente
conseguenza di ciò che implicitamente è annesso al concetto di causa, per cui il mondo è
un ordine necessario.
Tuttavia, proprio in questo ordine necessario, Spinoza pensa anche all’assoluta
libertà: la sostanza è questa necessità, questa causa che non esclude nulla al di fuori di
sè, che non dipende da altro che da stessa, e quindi non condizionata da altro, per cui
non ha nessun limite alla sua libertà.
Spinoza ribalta quindi contro la metafisica tradizionale l’obiezione che quest’ultima
gli muove: il dualismo, l’esistenza di qualcosa al di fuori di Dio che limita Dio può essere
pensata soltanto laddove il dualismo è superato. Spinoza allora, pensa che in Dio (un
tema ripreso da Hegel dove Dio, necessità e libertà coincidono) libertà e necessità
coincidono: libertà derivata dal fatto che Dio non dipende da nient’altro che dalla propria
natura, un natura necessaria. Al tempo stesso però, è una natura che non fa nulla al di
fuor di sè.
La concezione di natura di Spinoza, le sue deteminazioni di libertà e necessità,
all’interno del paradigma moderno, rappresentano una forma radicale di ritorno
all’ontologia antica, sebbene questo punto di vista non soggettivistico sia molto lontano
dalla “natura” della tradizione antica: la “Phisis” aristotelica, il finalismo che la pervade, la
teologia arsitotelica, la gerarchia dei fini e dei beni che sussitono in Aristotele, sono
concetti assai distanti dalla filosofia di Spinoza.
Piuttosto la concezione di natura spinoziana, la sua comprensione del natura della
totalità del mondo, è erede del meccanicismo moderno, del meccanicismo cartesiano e
del mondo ridotto a estensione .
Locke
“Nisi est in intellectu quod prius fuerit in sensu”. Questo detto di Aristotele, poi
ripreso da San Tommaso, può essere considerato il manifesto dell’empirismo di cui J.
Locke è considerato il fondatore. Ogni conoscenza deriva dal mondo interno ed esterno.
Locke combatte quindi ogni forma di innatismo e ritiene che ogni nostra idea debba
essere commisurata con l’esperienza.
Locke combatte quindi il platonismo, le idee assolute insomma: tutte le idee
derivano quindi dall’esperienza o dalla combinazione di idee semplici sottoposte a
controllo razionale.
Locke radicalizza quindi l’istanza soggettivistica di Cartesio: una radicalizzazione in
senso non metafisico o meglio a-metafisico.
In particolare, Locke assume come inaggirabile il punto di vista cartesiano ossia il
fatto che non possiamo dubitare di pensare sebbene egli non intenda più il pensiero come
sostanza, piuttosto come una totalità di Idee. Certo non possiamo dubitare di pensare, di
essere dei soggetti, semmai possiamo dubitare di avere delle rappresentazioni: la stessa
identità dell’Io, ossia il fatto che noi siamo un Io identico, non è una conoscenza
immediata per Locke ma una conoscenza che noi possiamo ottenere solo partendo dalle
nostre rappresentazioni.
A partire dalle rappresentazioni secondo Locke, possiamo risalire ad un elemento
comune a tutte le rappresentazioni, a qualcosa di identico: l’Io. Per altro verso Locke,
rispetto a Cartesio, fa presente come ogni idea derivi necessariamente dalle sensazioni:
Locke rifiuta qualsiasi idea innata, rifacendoci in questo ad Okkam ed al suo criterio della
“evidenza”. Per Okkam infatti l’intuizione ha come oggetto qualcosa di immediatamente
evidente, immediatamente presente ai miei sensi, individuale e come tale derivato
solo dai miei sensi. Anche le idee che non sono individuali sono comunque riconducibili
ad idee individuali, a partire dalle quali esse si sono prodotte: idee semplici ed idee
complesse (là dove il valore di verità dell’idea complessa non è lo stesso dell’idea
semplice).
Dunque per Locke solo l’idea che rimanda immediatamente ad un oggetto ossia
che presenta un oggetto quale esso si manifesta immediatamente alla sensazione è una
idea semplice: il fondamento dell’oggettività delle idee sta nel fatto che essi sono dati
immediatamente nelle sensazioni.
Le idee complesse sono ciò che noi costruiamo a partire dalle idee semplici: tutte
le complesse costruzioni del soggetto, sono costruzioni più o meno arbitrarie, al contrario
delle idee semplici.
L’esperienza
Nella modernità, diventa essenziale determinare quanto, nell’atto conoscitivo derivi
da una componente ricettivo-sensibile e quanto derivi da un pura attività di
pensiero. Nel primo caso si tratta dell’orientamento empiristico, nel secondo
dell’orientamento razionalista.
In riferimento all’Empirismo, Locke ritiene che ogni idea si origini o abbia origine
dall’esperienza, esperienza che si articola in due componenti:
1) sensazione; (mente totalmente passiva)
2) riflessione (riferita agli atti mentali).
In particolare Locke ritiene che le Idee innate non esistono e che la coscienza va
intesa, alla sua origine, come una tabula rasa. Ora, se le Idee innate non esistono, quali
sono allora i fondamenti ed i contenuti della conoscenza?
Locke risponde che i contenuti, ogni specie di contenuto mentale è un ‘Idea
(qualunque cosa sia oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa). Nelle Idee ricadono
quindi i dati della sensazione, i concetti astratti, i generi sensibili ed intelligibili.
L’autocoscienza del possesso di tali contenuti è l’unica prova dell’effettiva esistenza di
queste Idee. Ora, le vie (modi di formazione) attraverso le quali si producono tali idee,
anche le più complesse sono in ultima analisi:
1) la sensazione: gli oggetti esterni, nel contatto coi sensi, procurano all’intelletto
idee che prima non possedeva
2) la riflessione: l’intelletto rivolge l’attenzione alle anche alle proprie operazioni,
da cui ricava le idee delle proprie azioni: per questa via si formano le idee di
volere , ragionare, decidere, pensare, dubitare, credere, etc.
3)
Idee semplici e complesse
L’esperienza, si diceva, consente la formazione di due tipi di idee:
Semplici: mente totalmente passiva per cui essa è in contatto con qualcosa
che non ha prodotto, consentendo così il riconoscimento dell’esistenza di un
mondo esterno (realismo di Locke)
1) prodotte dalla sensazione (uno\più sensi);
4) dalla riflessione come il volere;
5) dal concorso di sensazione e riflessione (piacere e dolore).
Complesse: ricavate da quelle semplici mediante una attività di elaborazione
della mente.
Ora Locke, per determinare quali idee siano copie di qualcosa di reale e quali
invece non lo siano, ricorre alla distinzione tra qualità primarie e secondarie:
1) solidità, estensione, moto, quiete, numero e figura sono qualità primarie dei
corpi: le idee di tali qualità, derivano direttamente dalle cose e sono copie fedeli dei
modelli.
3) Odori, colori, suoni, e così via sono invece caratteri dipendenti da quelli primari:
sono qualità secondarie e sono l’effetto delle sensazioni prodotte in noi dalle
qualità primarie. Esse scaturiscono quindi dall’incontro tra il soggetto e l’oggetto
e non corrispondono a proprietà reali degli oggetti.
Le idee complesse, diversamente, sono
effetto di operazioni intellettuali.
(combinazione, comparazione, separazione, connessione di idee semplici). Esse ricevono
il loro materiale dalle idee semplici, effetto di sensazione e riflessione. Sono quindi
anch’esse un prodotto della sensazione e riflessione:
1) Combinazione: l’idea dello spazio è una costruzione di idee che ci provengono
dai sensi (vista, tatto); (lontananaza da Cartesio che riteneva lo spazio l’unica
realtà al di fuori di lui; l’estensione è il realmente esistente); l’idea del tempo è
anch’essa una combinazione proveniente da sensi diversi: la manifestazione di
una successione di idee che riguardano un oggetto è il fondamento per cui noi
riteniamo che un oggetto esista nel tempo. Anche l’idea di sostanza è
complessa: arriviamo all’idea di sostanza attraverso la composizione degli
attributi della sostanza (di un oggetto presente di fronte a me dico che è ruvido,
presente, colorato,etc.). In realtà, secondo L., io non ho mai l’idea di sostanza.
Non ho mai l’idea semplice di sostanza, ho solo idee semplici degli attributi della
sostanza. Alla fine per L. l’idea di sostanza si risolve nelle rappresentazioni di
cui il soggetto è in possesso per costruirne l’idea complessa;
2) Comparazione: il confronto di idee semplici. L’idea di Causa è riferita alle idee
semplici di causa e di effetto: solo comparando ciò che è prima e provoca
qualcosa dopo ottengono l’idea di Causa; anche l’idea di identità è frutto di una
comparazione tra diverse idee semplici per cui possiamo parlare alla fine di una
identità. Abbiamo diverse rappresentazioni che compariamo tra loro per
pervenire a qualcosa di unico che chiamiamo identità. L’identità dell’Io non è
quindi nulla di semplice bensì complesso;
3) Astrazione: l’astrazione dalle idee semplici ci dà l’idea complessa di universale
ad esempio.
L’idea di Uomo ad esempio, è ottenuta attraverso l’astrazione dalle
rappresentazioni presenti nell’individuo, attraverso la loro somiglianza.
Locke alla fine dissolve la metafisica, qualsiasi sostanzialità metafisica, sia la
sostanzialità degli Universali che la sostanzialità dell’Io e della Sostanza.
Tuttavia Locke ammette che, per autointuizione, noi possiamo arrivare ad intuire l’Io, così
come possiamo arrivare a dimostrare Dio, sebbene non per la presenza di una idea
innata ma attraverso l’idea di causa. In qualche modo quindi, sebbene per strade diverse,
la metafisica cartesiana è confermata. Per altro verso, anche l’idea del mondo esterno è
dimostrata da Locke, sebbene in modo diverso da Cartesio: l’idea di spazio è complessa,
ed arbitraria, e costruita sulla base di idee semplici provenienti dai sensi. Locke dimostra
quindi l’esistenza del mondo esterno per strade diverse rispetto a Cartesio ma non arriva
veramente a dissolverne l’impianto metafisico.
Le vie della conoscenza
In seguito all’origine empirica delle idee, Locke afferma che la conoscenza in
senso proprio, quella chiara ed evidente, consiste nel percepire l’accordo o il disaccordo,
con la mente, la connessione o il contrasto tra alcune delle nostre idee.
Ora, la percezione è la principale facoltà dell’intelletto secondo cui si colgono i rapporti
tra le Idee: essa unifica una molteplicità di sensazioni, riferendole ad un oggetto
differente dal soggetto percipiente.
Forme di discordanza o accordo tra le idee sono:
1) identità\diversità: A è diverso da B ;oppure A è ugule a B
2) relazione; A causa B oppure A non causa B
3) consistenza;
4) connessione necessaria; Ogni qualvolta si presenta A si
presenta B ed ogniqualvolta si presenta A si presenta A
5) esistenza reale.
Ma qual è la modalità attraverso cui si percepisce l'accordo tra le Idee?
Possiamo dire che Diversa è la percezione dell’accordo tra Idee: secondo diversi
gradi di evidenza.
Prima via: La percezione di tipo immediato è l’intuizione: la
concordanza tra idee accade senza nessuna mediazione di altre idee. Tale
conoscenza non ha bisogno di prova alcuna: tale è il caso della nostra
esistenza .58 (similmente e Cartesio)
Seconda via: conoscenza accade in forma indiretta, mediante dimostrazione: una
percezione mediata dell’accordo tra le idee. É il caso della dimostrazione dell’esistenza
di Dio, a partire dall’esistenza delle creature.
58
Cfr. Geymonat, cit. pagg. 369 e sgg.
Terza via: la sensazione rappresenta la terza via della conoscenza, capace di garantire
l’esistenza della realtà esterna. Anche se priva dell’immediatezza delle vie precedenti, la
terza via di conoscenza accade mediante una serie di caratteristiche quali:
1)
2)
3)
4)
Passività dell’intelletto;
Involontarietà della sensazione;
Concordanza dei vari sensi;
Distinzione tra sensazione e ricordo.
Tali aspetti, come ricordato “supra”, testimoniano che le Idee devono derivare da
qualcosa di esterno.
I limiti della conoscenza, hanno a che fare con la tipologia dei contenuti del conoscere:
ognuno può condividere o meno opinioni o credenze di tipo religioso o politico, mentre è
corretto che presti fede a ciò che gli deriva dalla conoscenza certa ed evidente. Vi sono
quindi dei limiti al conoscere che derivano dal mancato accordo tra le Idee:
 mancata intuizione;
 mancanza di idee mediatrici tra le idee;
 sensi che non possono spingersi oltre il sentito.
Nello specifico, se le idee semplici danno sempre conto delle cose nella loro realtà, le
idee semplici delle qualità secondarie invece,
non danno garanzia di fedeltà
rappresentativa. Diversamente, le idee complesse, in quanto archetipi che l’intelletto
costruisce in proprio, , e non copia della realtà esterna, non pretendono essere conformi a
qualcosa di reale: il matematico costruisce figure geometriche che potrebbero non
riscontrarsi nella realtà. Anche le idee complesse di sostanza, poiché pretendono riferirsi a
qualcosa di esterno, possono non rivelarsi conformi alla cosa esterna. Tale posizione non
implica tanto la negazione dell’esistenza delle sostanze materiali, spirituali, ma
semplicemente l’inconoscibilità di ciò che travalica le idee sensibili e pare essere il loro
sostegno.
Morale e pedagogia in Locke
Secondo Locke l’uomo è libero e dunque non può agire in modo predeterminato ma
mosso dall’esigenza di autoconservarsi e dalla ricerca della felicità. I suoi comportamenti
sono però frutto dell’educazione ricevuta per cui il singolo è in grado di fondarsi su un
‘etica razionale prevalendo sulle mere esigenze eudaimonistiche e conservative.
Ora, in relazione all’aspetto etico ascritto, l’uomo, per Locke, non essendo previsto
alcunché di innato, deve potenziare le proprie capacità grazie all’esercizio ed all’azione
educativa. Una rigida disciplina fisica e spirituale, che si opponga ai desideri immediati, lo
studio del bambino e delle sue esigenze, attraverso la persuasione razionale, il rispetto
per il bambino, cui deve essere attribuita massima libertà, gioco, e divertimento, possono
consentire di formare il futuro uomo. Uomo quindi tollerante e libero all’interno di uno stato
governato dalla legge . in contrapposizione a tale considerazione dell’uomo, Hobbes,
ritiene invece evidente, immediato, lo stato di natura dell’uomo come governato dalle
passioni: condizione questa precedente alla convivenza all’interno dello Stato. La
tendenza naturale, secondo Hobbes, è governata dall’istinto di autoconservazione a
spese degli altri. Nel Leviatano in particolare, Hobbes si riferisce alle cosiddette società
primitive, in condizione di pre-stato.
Tali considerazioni hanno la funzione di persuadere il lettore che le considerazioni
sullo stato di natura non sono una mera invenzione. Stato di natura si badi,
sostanzialmente immutabile, in linea con le analisi di Macchiavelli, che tende a perdurare
secondo il concetto di “bellum omnium contra omnes”, innescato dal diritto di ognuno a
tutto quanto sia ritenuto utili alla propria sopravvivenza.
Ancora, secondo Hobbes, è possibile ricavare lo stato di natura dall’ipotesi di
dissoluzione politica dello Stato, una sorta di annihilatio civitatis per cui è possibile fare
astrazione dall’insieme dei rapporti giuridici che sono propri della società civile. Il risultato
di tale operazione mentale non è una determinata situazione storica, piuttosto, la
determinazione di uno stato potenzialmente distruttivo dell’umanità. Lo stato di natura è
infatti prospettato come una situazione di piena libertà, al di fuori di ogni protezione e
condizionamento istituzionali, in cui si esplica senza freni la ricerca dell’utile. E’ il regno del
“bonus sibi”, del diritto di natura, lo ius naturale, a cui fa rimando la potenziale
aggressività\guerra di tutti contro tutti. Si impone quindi la necessità di una legge naturale
(dettame delle retta ragione- frutto di un calcolo delle possibilità di autoconservazione) che
consenta ad ognuno di poter vivere nella pace. La ricerca delle migliori condizioni per tutti
affinché possano vivere nella pace. Ricerca che però non è coercitiva: la legge naturale
vincola l’individuo nella coscienza, ossia in foro interno, non costituendo un obbligo
vincolante in assoluto. Nel diritto di natura non è quindi possibile mantenere la pace ed
assicurare la conservazione della vita. Solo traducendo l’esigenza di pace nella
costituzione di un corpo politico è possibile tale traguardo: il contratto è lo strumento, per
Hobbes, con cui ogni individuo si obbliga (mediante un accordo), nei confronti di tutti, a
sottomettere la propria volontà a quella di un unico ed identico individuo o consiglio, così
che la volontà di costui esprima la volontà di tutti. Lo Stato risulta essere quindi una
necessità, sebbene nato per decisione, come atto di volontà. Stato che si identifica in un
Sovrano, detentore del potere che esprime la volontà di tutti. Ora, il Sovrano, detentore del
potere comune, esercita un diritto naturale (cui egli non ha rinunciato poiché non è un
contraente del patto), reso efficace dalla rinuncia di gli altri al proprio. In particolare il
Sovrano esercita un potere coercitivo nei confronti dei singoli, esercizio esclusivo ed
irresistibile. Potremmo dire che il potere della spada e quello legislativo sono quindi
inscindibili.
L’anima
Nel 1964 Locke pubblica una seconda edizione del saggio sull’intelletto umano in
cui l’autore distrugge la concezione dell’anima: l’anima non può quindi essere considerata
un nocciolo d’oliva (Rilke) – sostanza di un essere razionale Boezio). In effetti, la sostanza
per L. non è nient’altro che una collezione di idee semplici. Dire che l’anima è una
sostanza a cui non fa capo nulla equivale a dire che nulla sorregge qualcosa come
l’anima o l’essere un qualcosa.
Piuttosto l’identità personale è affidata al tempo: un flusso temporale senza
consistenza il cui filo si può interrompere. In particolare, la mia identità non dipende dal
corpo bensì dalla coscienza che non si trova in un sostrato inafferrabile ma attraverso il
presente si collega al passato ed al futuro. L’identità esprime questa nostra capacità di
sentirsi presenti a noi stessi, un qualcosa di intuitivo . La nostra coscienza è allora
qualcosa di intermittente e sfuggente, le nostre idee sfuggono, sono caduche, e quindi
la nostra coscienza è frutto di lavoro di rinnovamento delle loro idee, sebbene non tutti
riescano a rinnovare l’impianto ideativo della coscienza.
Educazione e tolleranza
Il senso del valore dell’educazione lockiana non è un richiamo al valore
dell’educazione nobiliare, alla ristrettezza del cerchio formativo, bensì al continuo
processo di autoformazione a cui l’uomo libero può e deve dar corso. Ed è questo corso
della vita, questo progresso che dà il senso della propria umanità, mai fissata in uno stato.
Cresce attraverso il lavoro su di sè, il sapere ed il controllo. Una costruzione dell’animo
umano slegato dalla dimensione sostanzialistica ed ipostatica, soggetto ad interruzioni e
dimenticanze, che abbisogna di lavoro e sapere pe elevarsi alla propria autonomia. Locke
è anche il precursore del pensiero liberale: l’individuo è a centro della vita politica. Un
centro su cui lo stato, diversamente da Hobbes, non esercita alcun particolare controllo.
Un soggetto quindi non assogettato al controllo dello stato, non un suddito. Un singolo
potremmo dire che secondo i valori della tolleranza può permanere all’interno di una
società che riconosce il valore dell’individualità.
Hume
La logica humiana inizia con una accuratissima59analisi dell’origine delle nostre
idee, che egli riconduce, insieme alle impressioni, sotto il nome comune di percezioni: “Io
chiamo percezione tutto ciò che può essere presente al nostro spirito, sia che
 usiamo i sensi,
 siamo animati da passioni ;
 esercitiamo il nostro pensiero e la riflessione.”
Percezioni quindi come:


sensazioni(sensazione dolorosa di un corpo caldo a contatto con la
mia pelle) e passioni in quanto impressioni immediatamente
presenti ai nostri sensi;
idee in quanto mediatamente (ricordo di quel dolore) presenti quali
ricordi di quelle sensazioni e passioni.
Impressioni ed idee sono della stessa natura, solo differiscono per
“forza”(debole\forte).
In questo senso Hume delinea già il suo radicale empirismo: nessuna impressione
cade al di fuori dell’ambito 60 dell’esperienza.61 Peraltro nessuna idea ha altra
origine se non da quelle esperienze. Le impressioni sono classificate da Hume
sia rispetto alla loro articolazione interna, che alla loro origine. Nello specifico:
59
L. Geymonat, Garzanti, Vol. III, pag. 129 e sgg.
60
Ibidem.
1) articolazione interna: complesse (Idea di ippogrifo) \semplici ossia più o meno
scomponibili in impressioni elementari (cavallo e uomo);
2) origine: sensazione\ riflessione; le prime corrispondono alla prima esperienza di
qualcosa, ossia derivano dai sensi, mentre le seconde sono derivate dalle idee
che le impressioni di sensazione hanno generato .
In ordine poi al significato di “Idea” esso in Hume è mutuato da Cartesio come
sinonimo di rappresentazione; idee ed impressioni vanno poi a formare le
percezioni dell’esperienza. Si badi poi che Hume non classifica tutti i contenuti
mentali con il termine “Idea”, ma solo quelli derivati da impressioni, in forma
diretta o meno.
Vediamo: “le idee semplici sono considerate da Hume copie delle impressioni e
da ciò deriverebbe la loro incapacità die eguagliare quest’ultime in vivacità 62”. Le
idee semplici derivano sempre da impressioni semplici: le idee derivano quindi
logicamente e temporalmene dalle impressioni. Diversamente, per le idee
complesse, alcune non hanno un corripondente nelle impressioni : alcune idee
complesse, quella ad esempio di una città ideale, non ha una corrispettiva
impressione. In questo senso Hume indaga quale sia il processo che porta una
impressione a trasformarsi in Idea:
61
Ibidem, pag. 396 e sgg.
62
Ibidem.
1) la memoria conserva la primitiva vivacità dell’impressione;
2) l’immaginazione, diversamente, opera una libera trasposizione della sequenza
delle impressioni o delle idee.
Idee semplici ed Idee complesse
Ora, secondo Hume, le Idee complesse che si vengono a creare seguendo i criteri
esposti da Hume, sono suddivise in Idee di :
1) modo: connessioni deboli di causalità e contiguità tra idee semplici non
riferite ad oggetti per sè sussistenti ma dipendente da una sostanza di cui
è determinazione;
2) relazione : l’idea si forma grazie al confronto o al richiamo di un’altra
idea; in particolare l’idea di relazione si forma grazie alla:
somiglianza, contrarietà, grado di qualità, proporzione di quantità o di
numero,
identità, posizione spazio\temporale, causalità tra idee
semplici;
3) sostanza: strette connessioni di causalità e contiguità tra idee semplici
in riferimento ad una presunta sussistenza degli oggetti corrispondenti.
Tali Idee complesse63 si originano grazie a fattori di :
 somiglianza : di natura estetica, un quadro che raffigura una persona;
 contiguità spazio temporale: un quartire di una città ci porta a pensare alla
città;
 causalità: il figlio che ricorda il padre, un oggetto che ne muove un
altro, etc..
63
Le idee, per quanto siano «composte ed elevate» si risolvono in idee «così semplici da essere copia di una
precedente sensazione o sentimento», anche l’idea di Dio in quanto «Essere infinitamente intelligente, sapiente e
buono» (sez. 2). Hume individua tre principi di connessione fra le idee («principles of connection»), le cosiddette
leggi di associazione: somiglianza («resemblance»); contiguità nel tempo o nello spazio («contiguity in time or
place»); causa o effetto («cause or effect» sez. 3
Idee universali
Hume tratta anche il tema della formazione delle cosiddette Idee generali:
in relazione alla formazione delle di ordine generale, Hume afferma che “tutte le
idee generali, non son altro che idee particolari congiunte ad una certa parola, che
dà loro un significato più esteso e occorrendo, fa sì che ne richiamino altre
individuali simili a loro”.
Le idee generali, per Hume, sono solo delle copie delle impressioni sensibili
da cui traggono origine empirica. In effetti le impressioni sono sempre particolari per
cui anche le idee devono essere sempre particolari. Se è così, i meccanismi o le
modalità che consentono la formazione delle Idee generali sono senz’altro, per
Hume l’immaginazione e l’abitudine. Grazie a questi aspetti di origine psicologica e
non logica, è possibile astrarre e generalizzare, dando così un unico nome ad
oggetti simili, grazie alla loro somiglianza. Si genera così, in seguito, l’abitudine a
considerare quegli oggetti come una classe\insieme di cui è sempre possibile fare
un esempio tipo: un’unica casa per tutte quelle possibili, un unico uomo per tutti gli
uomini possibili. Tale operazione è però indebita per Hume, visto che l’Intelletto non
è sicuramente in grado di considerare e comprendere tutti i diversi oggetti di un
sigolo insieme.
Si pensi, ad esempio, all’idea di sostanza, derivata dalla osservazione di una serie
di proprietà costantemente congiunte riferite idealmente, mediante associazione,
ad un unico sostrato: la sostanza. La mente dunque, ritiene di poter attribuire
questa serie di proprietà osservate con contiguità ad un unico sostrato, a cui quelle
proprietà idealmente appartengono. Eppure per Hume non è possibile trascendere
l’esperienza, poichè quest’ultima fornisce solo idee del particolare, mentre le
operazioni di astrazione, che consentono il formarsi l’idea di sostanza sono
inverificabili64.
64
Analoghe considerazioni vanno fatte per la sostanza spirituale - l’Io – che
non è altro che un fascio o una differente collezione di percezioni differenti,
sussegentesi con rapidità. Mediante l’associazione, la mente confonde la semplice
successione delle singole percezioni, contigue e relazionate causalmente, con la
loro inerenza ad un medesimo oggetto: una sostanza che permane identica al
mutare di esse ossial l’Io.65 Responsabile di questa confusione tra relazione ed
identità è soprattutto la memoria, che conferisce al ricordo una presenza a
percezioni simili del passato, creando una illusione di contiguità.
L'idea di causa
Nelle sezioni 4-7 del trattato humiano sull'Intelletto, l’analisi gnoseologica si
incentra sulla relazione causa ed effetto.
Come già espresso precedentemente, l'idea di causa
ha le sue basi
nell’esperienza e non:


nell’identificazione dell’essenza delle cose ;
nell'identificazione della mente.
Essa può essere spiegata, relativamente all’esperienza umana, descrivendo le
leggi che ne regolano il funzionamento. Diversamente da quanto avviene nella
logica o nella matematica, ove le conclusioni sono tratte a prescindere
dall’esperienza, l’applicazione della relazione fra causa ed effetto viene impiegata
in merito all’esperienza come capacità di previsione (di determinati effetti a partire
da determinate cause) in modo «istintivo», ossia mediante un’«abitudine» che
porta ad aderire a una tesi senza avere soppesato razionalmente i pro e i contro, in
base a processi mentali associativi.
L. Geymonat, Cit. pagg 399 e sgg.
65
Ibidem.
In tale prospettiva la radice del nesso causale, su cui si incardinano le
spiegazioni razionali della scienza, è identificata nell’abitudine (habit) e nell’istinto, e
assume la forma della «consuetudine» 66 (custom; «la consuetudine è la grande
guida della vita umana»).
In effetti Hume si interroga sul senso delle conseguenze esperite nel
rapporto con le cose: il cibo sfama, il fuoco brucia. Ora, che un evento B segua ad
un determinato evento A è necessario? Non vi è infatti alcuna contraddizione a
supporre che il corso della natura abbia a cambiare e che un evento simile a quello
sperimentato possa essere seguito da un evento differente 67.
Il pricipio di causalità è dunque una congettura: la sue è una evidenza
psicologica e non logica: l’abitudine alla percezione delle serie di eventi
sperimentati è il fondamento psicologico del principio di causalità.
La consuetudine regola l’esperienza anche in ambito morale – sullo sfondo
dell’alternativa fra libertà e necessità – rispetto alle aspettative circa il
comportamento dei propri simili, e costituisce il fondamento dell’indagine sull’etica e
sulla politica (sez. 8). Hume estende l’analisi alla possibilità di proiettare l’evidenza
nel passato e nel futuro, e alla necessità di ovviare ai pericoli che sorgono, sul
piano della conoscenza, dalla superstizione, dal fanatismo e dall’entusiasmo,
mediante la spiegazione empirica della relazione fra causa ed effetto (sez. 9).
66
Treccani on line.
67
Severino, cit. pag. 233 e sgg.
Kant
L’empirismo si può ritenere come una forma di coerentizzazione dell’assunto di
fondo della modernità: l’intrapassabilità del soggetto intesa come intrapassabilità
della rappresentazione. Hume, in particolare, coerentizza tale assunto colpendo non solo
la presunta oggettività del mondo reale ridotto a rappresentazione, ma colpendo anche la
stessa nozione di soggetto ridotto anch’esso a mera rappresentazione. Ma cos’è in buona
sostanza la rappresentazione? O meglio qual è la sua origine? Non è possibile trovare
nella rappresentazione stessa la risposta. E comunque anche questa risposta sarebbe
sempre una nuova rappresentazione. Si tratta insomma di dare una risposta alla domanda
su come la rappresentazione possa incontrare veramente le cose: Cartesio risponde
elaborando la tematica razionalistica di Dio, (ma anche Spinoza); Locke ed Hume
diversamente (Empirismo) si affidano alla costitutiva incertezza della conoscenza
empirica sino a pervenire a posizioni scettiche. Ora, come mai gli esiti del Razionalismo
non sono univoci? Come mai gli esiti di un modello quale quello matematico\razionalista
non sono univoci? Dovremmo avere un metodo, secondo i razionalisti, (si pensi al
problema del metodo in Cartesio ed alla tematica spinoziana more geometrico) per cui da
verità semplici dovremmo pervenire ad un unica risposta:
•
Cartesio parla di due sostanze: l’estensione governata dal meccanicismo, mentre il
pensiero è goveranto dal libero arbitrio. Poi Cartesio parla anche di una realtà
spirituale, ma come comunicano queste sostanze?
•
Spinoza parla di una unica sostanza, che funziona in termini meccanicistici;
•
Lebniz parla di infinite sostanze quali le Monadi, con una concezione finalistica
dell’uninverso: questo è il migliore dei mondi possibili.
Per altro verso, gli stessi empiristi si resero conto che, ad esempio, la nozione di
sostanza e di causa erano problematiche, e non fondate sull’esperienza. Ora, la domanda
che Kant si pone a questo punto del suo cammino filosofico, sulla base dei risultati
raggiunti dal Razionalismo e dall’Empirismo è la seguente: Cosa posso conoscere? O
meglio, è possibile una metafisica che proceda allo stesso modo delle scienze empiriche,
nella misura in cui esse approdano a nuove conoscenze?
Per altro verso68, le scienze empiriche fanno uso di nozioni che non derivano
dall’esperienza (sostanza, causa). L’analisi degli empirisi portava infatti a questa
conclusione condivisa da Kant. Quand’anche però, dovessimo farne uso, ammesso sia
lecito, siamo sicuri che esse ci autorizzino a parlare di Dio, dell’Anima? 69 E se dovessimo
scoprire di non poter andare oltre l’ambito dell’esperienza, che senso hanno le nostre
domande?
Ancora: alcuni argomenti filosofici, in riferimento ad aspetti che vanno oltre
l’esperienza, sembrano essere condivisibili e convincenti (prova ontologica; argomento
cosmologico). Qual è il loro reale valore? La risposta di Kant è la formulazione di una
Critica della Ragion Pura: ragione pura ossia indipendente dall’esperienza.
La conoscenza
In prima battuta, possiamo dire che con Kant, la filosofia moderna compie una svolta
radicale: le cose in se stesse, esterne ed indipendenti dalla conoscenza umana non
possono essere conosciute. Nel senso che qualsasi cosa di cui si parli, cade sempre
nell’ambito del conoscere e del soggetto, della rappresentazione, per cui non puo mai
essere conosciuto come veramente è. In effetti, Kant ritiene che sia un dogmatismo
68
Presentazione di Gianni Serino della riflessione kantiana.
69
Ibidem.
pensare che le cose in se stesse possano esser conosciute come realmente sono: come
è possibile insomma uscire dal conoscere mediante il conoscere? In altre parole Kant ci
avvisa dei limiti insiti nella ragione, in questo consiste il suo criticismo.
Contemporaneamente, proprio questa insuperabilità consente a Kant di affermare
la centralità del soggetto nel processo conoscitivo, facendo sfumare la contrapposizione
tra soggetto ed oggetto tipica della gnoseologia moderna: il soggetto è piuttosto
responsabile delle forme assunte dagli oggetti del conoscere. Per altri versi, in quanto
ogni soggetto è razionale, è affetto da razionalità, allora tutti i soggetti condividono la
medesima struttura conoscitiva: il conoscere è quindi universale e necessario.
Si tratta allora di indagare come, in quale modo la conoscenza accada, si strutturi:
tale indagine è trascendentale in quanto individua il fondamento del conoscere. È la fine
della parabola del soggetto: la tendenza della filosofia moderna ad essere una filosofia del
soggetto si compie con Kant che ne afferma l’insuperabilità, sebbene la finitezza.
Critica della ragion pura
1) Dottrina trascendentale degli elementi 70: 1a Estetica trascendentale71
1bLogica trascendentale72:1b1Analitica
trasce.le73
1b2Dialettica trasce.le74
70
Parte più ampia dell’opera: condizioni a priori relative al funzionamento delle varie facoltà conoscitive.
71
Analizza le condizioni a priori dell’operare della sensibilità: intuizioni pure di Spazio e tempo.
72
2 Dottrina trascendentale del metodo75
Analizza le condizioni a priori dell’azione dell’intelletto (categorie).
73
Uso legittimo delle forme a priori dell’intelletto.
74
Presenta le illusioni derivanti dall’uso illegittimo delle categorie e la funzione delle idee della ragion pura. Il
termine dialettica assunse un significato negativo in Aristotele, che, analizzando le varie forme dell’argomentazione
nella sua «analitica», riservò alla «dialettica» la considerazione delle forme argomentative imperfette, perché prive di
rigorosa necessità; e analoga svalutazione tornò a manifestarsi in I. Kant, che dopo aver studiato nell’«analitica
trascendentale» il retto uso delle categorie nell’esperienza, considerò nella «dialettica trascendentale» gli errori e le
antinomie a cui l’intelletto andava incontro quando pretendeva di valicare i limiti dell’esperienza possibile.
Gli
idealisti postkantiani tornarono invece a dare valore massimo alla d., in cui videro la forma fondamentale non solo del
pensiero ma anche della realtà. J.G. Fichte fece corrispondere il processo dialettico, articolato nei tre momenti della tesi,
dell’antitesi e della sintesi, allo sviluppo teleologico dell’Io che, essendo un atto, deve limitarsi distinguendosi dal nonIo, e poi superare via via le contraddizioni che incontra, determinando esso stesso il non-Io, in modo pratico. F.
Schelling affermò l’importanza della d. per il superamento dell’antinomia tra l’assoluto e le forme finite. G. Hegel,
introducendo nell’assoluto il divenire, portò a perfezione la d., quale schema dell’essere, che dispiega, per mezzo della
negatività, le sue determinazioni e poi raccoglie in sé tale sviluppo.
Fenomeno e noumeno
Fenomeno è per Kant il contenuto del conoscere o per meglio dire il fenomeno è
rappresentazione.
In altri termini nella misura in cui fenomeno è tale esso appare, si manifesta. Se è
così allora esso deve necessariamente rimandare a qualcosa che in esso appare. 76 Ma il
qualcosa cui rimanda il fenomeno non è il contenuto del fenomeno, ma ciò che sta al di
75
Cosidera l’applicazione dei vari elementi della conoscenza descritti nella prima parte e propone un piano di
incremento del sapere tenendo conto dei confini che la conoscenza non può oltrepassare.
76
Severino, cit. pag. 157.
fuori del fenomeno. Semmai il contenuto del fenomeno è rappresentazione. 77 Il fenomeno
è dunque apparenza, rappresentazione, e rimanda inevitabilmente all’esistenza della
cosa in sè: anche se la cosa in sè non può essere conosciuta, semmai pensata in modo
negativo come appunto qualcosa di in-conoscibile.
Eppure le cose in se stesse modificano lo spirito o meglio la facoltà dello spirito che
Kant chiama sensibilità: il risultato di questa modificazione costituisce l’insieme delle
rappresentazioni sensibili ossia delle sensazioni. Ma di nuovo le rappresentazioni non
corrispondono alle cose in sè. 78 In altre parole, le cose in sè possono apparire all’interno di
noi stessi solo come fenomeni.
Le cose in sè esercitano insomma un’azione sul
soggetto che, in quanto sensibilità, riceve dalla cose in sè il cosiddetto molteplice empirico.
In sintesi, la cosa in sè, in anche se indipendente dalla sensibilità, è immediatamente
rappresentata nella sensibilità come fenomeno.
77
Ibidem.
78
Ibidem.
In effetti, la filosofia moderna ha in comune con la tradizione filosofica anche il
principio della “recettività” o passività del soggetto rispetto alla realtà esterna. Realtà
attiva sull’apparato percettivo del singolo. Apparato inteso da Cartesio come sensibilità o
meglio per Cartesio la sensazione è idea,
effetto di una causa esterna, la causa agente di Aristotele, che rimanda\rivela la
causa: l’effetto rivela la causa. 79 Eppure l’effetto non è la causa (ossia nell’effetto non è
presente la natura della causa, la sua pensabilità) per cui la sensazione occulta anche la
natura della causa. Cartesio ritiene che sia possibile gaudagnare questa causa agente
mediante il ragionamento : Razionalismo cartesiano . Come dire che la costruzione del
sapere certo, inconcusso, va ricercata in principi non attinti dall’esperienza. Principi a
priori ed innati – idea innata di Dio; principio ex nihilo nihil– che consenta di guadagnare la
realtà. Un ponte che consenta di ri-guadagnare quella realtà occultata dall’esperienza
sensibile: dalle nostre rappresentazioni alla realtà.
Sensibilità e intuizione
In Kant, secondo il concetto di sensibilità kantiano, l’oggetto è intuito: “senza
sensibilità non ci sarebbe dato nessun oggetto, senza intelletto nessun oggetto sarebbe
79
Ibidem.
pensato”. Il rapporto tra conoscere ed oggetto del conoscere che è dato, offerto al
soggetto, è l’intuizione: tale rapporto è di natura immediata. Dice Kant: nella sensibilità
gli oggetti mi sono dati.
La sensibilità peraltro, il materiale sensibile, riceve un ordine, una forma dallo
spirito secondo Kant: la sensazione è quindi aperta alle cose in sè mentre lo spirito è la
stessa struttura del soggetto conoscente che in-forma il materiale sensibile. La forma, in
altre parole, non è sensibilità bensì un a priori presente strutturalmente nello spirito. Tali
forme, restano, permangono, a prescindere dalla sensibilità e da ogni aspetto empirico
dell’esperienza: proseguendo in questo ordine di ragionamenti, ciò che resta alla fine di
ogni esperienza sensibile e che caratterizza tutte le esperienze, è l’aspetto spaziale e
temporale di ogni esperienza.
Ogni esperienza si struttura secondo il prima e il dopo, il lontano e il vicino, il
distante. Ma tali dimensioni, lungi dal portarci alla conoscenza delle cose e degli oggetti,
lungi dal portarci ad entrare nelle cose che restano in sè (diversamente da Cartesio), al di
là del conoscere, ci portano nello spirito del soggetto: spazio e tempo sono infatti forme a
priori dello spirito. Eppure si dirà, gli oggetti sono rappresentati fuori di noi, dimensione
spaziale: ma di nuovo ciò che è rappresentato come fuori\dentro, durevole\transitorio,
senso interno\esterno è tale nella misura in cui cade internamente alla costituzione
dello spirito. Come dire che ogni volta che distinguo tra dentro e fuori, vicino e lontano è
già all’opera la condizione di possibilità di questa dintinzione: spazio e tenpo alla fine
sono intuizioni pure ossia non sono concetti pensabili ma intuibili. Ora, cosa intende Kant
con “intuizione”? E’ opportuno sottolineare come per Kant l’intuizione abbia una funzione
discriminante. Si tratta di comprendere come per Kant la distinzione tra un fenomeno e
un altro sia possibile per l’intuizione della loro differenza, riferendoli ad un qui ed ora,
appunto spazio\tempo. Senza il qui ed ora la conoscenza non è tale. Ancora, posso
pensare uno spazio vuoto ma non, per Kant, un oggetto che non sia nello spazio così
come posso pensare ad un tempo vuoto ma non ad un oggetto che non sia nel tempo. Di
più, esiste un unico spazio e non più spazi o più tempi. Non pensiamo mai a molti
spazi\tempi, in realtà parliamo di una partizione di un unico spazio: non sono oggetti. In
misura ancora maggiore spazio e tempo sono intuiti come infiniti mentre in generale i
concetti non sono infiniti (certo può raccogliere sotto di sè infiniti oggetti). Spazio e tempo
sono quindi pre-condizioni della sensibilità.
Spazio e tempo
Due rette, secondo Kant, non possono chiudere uno spazio 80. Ciò significa per Kant
che tale affermazione è intuita, anche una sola volta, in modo universale e necessario:
“Come dunque può essere nello spirito una intuizione pura che preceda agli oggetti stessi
e nella quale il concetto di questi possa essere determinato a priori? Evidentemente solo
ad un patto, che essa abbia una sua sede solo nel soggetto, come sua disposizione
formale ad essere modificato dagli oggetti e a conseguire per tal modo una loro una
immediata rappresentazione, cioè l’intuizione, dunque soltanto in quanto forma del senso
esterno in generale”. Critica della ragion pura, estetica trascenedentale, §3. In questo
senso, lo spazio come forma a priori, ed in quanto a priori, consente la fondazione della
geometria nella misura in cui tale intuizione condiziona inevitabilmente qualsiasi
percezione sensibile di oggetti Nello spazio. Il tempo, similmente, consente la
fondazione della meccanica pura: modo rettilieo uniforme, accellerato, etc.. Anche
l’aritmetica si fonda sul tempo (Prolegomeni). Il numero si basa infatti sul tempo: una
qualsiasi quantità, cinque cigni, ancora non li associo ad un numero. Per pensare la
quantità devo contare. Ora, per contare abbisogno del tempo: prima l’uno e così via. Certo
il concetto di numero non si fonda solo sul tempo. (La critica della Ragion Pura non
menziona esattamente il fondamento del numero).
Giudizi sintetici e analitici
Scrive Kant: “ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza, ma sebbene ogni
nostra conoscenza comincia con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta
dall’esperienza. Infatti potrebbe essere benissimo che la nostra stessa conoscenza
empirica fosse un composto di ciò che riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra
facoltà di conoscere vi aggiunge da sè”.
Ma cosa ci deriva
dall’esperienzae quali no?
dall’esperienza?
Come
distinguiamo
quali
derivano
Ora, secondo Kant alcune conoscenze sono a posteriori, empiriche, altre sono a
priori:le seconde, quelle a priori sono universali e necessarie; viceversa quelle empiriche
80
Presentazione di Gianni Serino sulla riflessione kantiana.
particolari e contingenti. In logica per necessario è cio che non può essere altrimenti:
l’esperienza in genere ci dice che una cosa è così ma potrebbe essere anche altrimenti.
Ma se invece affermo che una determinata cosa è necessaria allora la sola esperienza
non mi basta: un aproposizione necessaria è quindi a priori. Una proposizione
matematica, ad esempio, è una proposizione necessaria, non potrebbe essere altrimenti.
Del resto l’esperienza può fondare tale proposizione? Possiamo rispondere che noi
possiamo solo misurare qui ed ora, la somma degli angoli di un triangolo pari a 180°, ma
l’esperienza non è in grado di fondare una proposizione necessaria. Il primo criterio
proposto da Kant, la necessità, si rifà ad una modalità a priori.
Per altro verso, l’esperienza non può mai consentire l’affermarsi di una
proposizione universale: una semplice osservazione, o più osservazioni uguali, non
posson mai portare ad affermare l’universalità di una affermazione. In conclusione,
l’induzione ossia una osservazione ripetuta come uguale, non può mai portarci ad un
giudizio (S è P) universale ma solo probabile. Una proposizione universale non può mai
basarsi sull’esperienza, a priori e necessaria.
Vediamo, Kant distingue tra due tipi di giudizi: analitici e sintetici: “Tutti i corpi sono
estesi”, “Il Triangolo ha tre lati” sono esempi di giudizi analitici. Essi servono a spiegare
meglio un determinato concetto che peraltro non estende le nostre conoscenze. L’altro
gruppo di giudizi è quello di giudizio sintetico in cui il concetto espresso dal predicato non
è intermente contenuto nel soggetto del giudizio per cui aumenta la nostra conoscenza.
“Tutti i corpi sono pesanti” è un esempio di giudizio sintetico in cui la pesantezza aggiunge
qualcosa al concetto di corpo. Sintesi tra due concetti distinti.
Ma i giudizi analitici sono a priori o posteriori? Nei giudizi analitici, il predicato è già
“contenuto” nel soggetto per cui essi sono a priori, mentre i giudizi sintetici, basati
sull’esperienza, sono a posteriori. Questa distinzione è però esaustiva? Leibniz
distingueva tra verità di ragione e di fatto: distinzione analoga a quella kantiana, così come
Hume distingue i giudizi che esprimono relazione tra idee con quelle che prevedono
distinzioni di fatto. Ora la domanda che resta aperta è se sono possibili giudizi sintetici
a priori? Kant risponde affermativamente: Kant propone un esempio: 7+5 uguale a12.
Ora, Egli afferma che, similmente al ragionamento proposto sopra, nel concetto del
numero sette io non trovo già il concetto del numero dodici . Non lo trovo neache nel solo
concetto di somma. Che sette più cinque faccia dodici , al di là dell’esperienza del contare
con le dita, è un giudizio che sebbbene si basa sull’intuizione, esprime un giudizio
sintetico a priori e non a posteriori. La proposizione aritmetica è sempre sintetica per
Kant. (si pensi alla somma di numeri molto alti). Anche le proposizioni geometriche – la
retta è la linea più breve tra due punti - sono giudizi a priori, universali, necessarie,
sintetiche.
Logica formale e trascendentale
Come i concetti puri, non derivati dall’esperienza possono riferirsi all’esperienza
ossia ad oggetti? Nell’analitica trascendentale Kant si occupa di questo problema, per
quanto articolata internamente in modo assai complesso: analitica dei concetti
conduttore per la scoperta dei concettipuri o categorie ) e dei principi.
(filo
Kant definisce in primo luogo l’intelletto dintiguendolo dalla sensibilità intesa come
facoltà discorsiva, attraverso giudizi: S è P. Secondo Kant la facoltà di giudizio, attraverso
concetti empirici, unifica il molteplice intuito nella sensibilità. Il concetto di mela o di frutto
sono derivati dall’esperienza anche se il concetto di causa o di sostanza non è derivato
dall’esperienza. Ora esistono per Kant anche concetti puri, non desunti dall’esperienza.
Tali concetti equivalgono alle categorie, sebbene con importanti distinzioni: esse sono
funzioni unificanti che consentono di unificare la molteplicità delle intuizioni sensibili. Kant
è convinto che Aristotele abbia cercato i concetti fondamentali, le categorie senza un vero
e proprio ordine logico mentre la filosofia trascendentale ha il compito di elencare con
ordine la lista dei concetti puri. Se le categorie sono concetti unificanti del molteplice ossia
consentono di produrre giudizi, allora qualsiasi giudizio empirico è riferibile ad una
categoria. Tutti i possibili giudizi dell’intelletto devono far capo alle categorie: conoscendo
tutti i possibili giudizi dell’intelletto posso risalire alla tavola dei concetti puri che rendono
possibili giudizi.
I giudizi sono distinti per:
 quantità: universali (ogni x è y), particolari (Ex è y(x)), singolari;x è y
 qualità: affermativo, negativo, infinito; x è y; x non è y; x è non y;
 relazione: categorici, ipotetici, disgiuntivi : x è y; se x allora y; X o y;
 modalità: problematici, assertori, apodittici: x può essere y; x è y; x deve
essere y;
Ogni tipologia di giudizio è applicabile, contemporaneamente, alle altre tipologie:
nessun x è y, ad esempio, è universale, negativo e categorico, etc.
Dai giudizi Kant ritene di poter dedurre le categorie: nell’ambito della qualità
possiamo associare la categoria della realtà al giudizio affermativo; al giudizio negativo la
categoria della negazione; al giudizio infinito la categoria della limitazione. Al giudizio
categorico la categoria della sostanza; al giudizio ipotetico la categoria della causa; al
giudizio disgiuntivo la categoria della azione reciproca, al giudizio problematico la
categoria della possibilità; al giudizio assertorio la categoria dell’esistenza; al giudizio
apodittico la categoria della necessità. Nell’ambito della quantità al giudizio universale
Kant81 associa la categoria dell’unità; al giudizio della particolarità la categoria della
81
pluralità; alla singolarità la totalità sebben tale ultima associazione risulti un pò
problematica. Kant afferma che, in ordine alla associazione della categorie ai giudizi, la
terza categoria deriva sempre dall’unione della prima categoria con la seconda e quindi,
dall’associazione giudizi di quantità\categorie, troviamo in effetti che dalla categoria di
unità associatà alla pluralità, deriva la categoria della totalità, anche se tale ordine delle
categorie non riflette l’ordine dei gudizi.
Altro aspetto delle categorie: distinzione delle categorie in due gruppi. Quantità e
Qualità sono considerate da Kant, categorie matematiche ossia indirizzate ad oggetti
dell’intuizione. L’intelletto, per Kant, mediante tali categorie costitutisce gli oggetti:
unificazione in oggetto intuito (reale o meno). Le altre due categorie sono invece
dinamiche: indirizzate all’esistenza degli oggetti dell’intuizione in rapporto tra loro o con
l’intelletto. Ciò significa per Kant che le prime tre categorie (sostanza, causa, azione
reciproca) sono indirizzate all’esistenza degli oggetti in rapporto tra di loro ossia
consentono di individuare\determinare la tipologia di rapporti tra gli oggetti di esperienza tra loro. Le categorie nell’ambito della modalità consentono di comprendere un oggetto, in
rapporto all’intelletto, sia come possibile che come necessario.
I concetti puri dell’Intelletto, non sono solo quelli di sostanza e di causa, come
era forse possibile pensare all’inizio del percorso kantiano, ma ben dodici. Essi sono
elencati nella Analitica Trascendentale e precisamente nell’Analitica dei concetti:
deduzione trascendentale delle categorie. Con “deduzione “ però ci si deve riferire al
linguaggio giuridico, vero tribunale della ragione. In altri termini, per Deduzione si intende
l’argomentazione che, di diritto, e non in base all’esperienza, stabilisce che le categorie
possano riferirsi ad oggetti. In questo senso, la Deduzione Trascendentale, risponde alla
domanda sulla legittimità di utilizzare nozioni quali quelle di sostanza e di causa: nozioni
non derivate dall’esperienza come suggerivano gli stessi empiristi. Per altro verso, stante
la legittimità dell’uso di tali nozioni, quale uso posso farne? Ad entrambe queste domande
risponde la trattazione della Deduzione trascendentale delle categorie.
Ora, ogni conoscenza implica un processo di unificazione: i fenomeni intuiti, fanno
capo ad una unificazione, ad un processo di unificazione e connessione dei vari oggetti
della mia esperienza. Ma la sensibilità è un facoltà passiva mentre una altra facoltà,
l’intelletto, unifica tutte le mie impressioni esperienziali.
Prof. Serino, cit.
L’Io Penso
In ordine quindi alle condizione di possibilità dell’esperienza, Kant cerca di
rispondere ad una domanda fondamentale: come mai il molteplice fenomenico\empirico
mi appare unitario?
Detto altrimenti: come mai la mia esperienza è una esperienza? Kant risponde
facendo appello ad una unità profonda della “coscienza ”: l’io penso. Secondo Kant:
“l’unità di tale rappresentazione - io penso – la chiamo anche l’unità trascendentale
dell’autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori fondata su di
essa”.82 Ecco che allora l’Io penso precede tutto l’ordine dei miei pensieri, conferendogli
unità e stabilità. Una forma di sintesi del materiale sensibile che fa sì che io abbia una
una coscienza, una esperienza. Ciò che però è di particolare rilievo non è tanto o solo
l’elaborazione di una funzione sintetizzatrice ed unificatrice dela materiale empirico,
aspetto peraltro ricco di conseguenze, quanto il riferimento di Kant ad un aspetto
generale e non particolare del singolo individuo concreto. Kant parla dell’Io penso come
coscienza in generale, come funzione in generale nettamente distinto e separato dalla
precedente metafisica che cercava un fondamento del mondo empirico in una sostanza –
Dio – natura – trascendente o immanente la singolarità umana. Si tratta insomma della
ragione o meglio dell’Io come attività sintetizzatrice in via di progressiva attuazione. Una
razionalità concreta che va realizzandosi nel mondo: l’Io come pensante l’esperienza
concreta attraverso le categorie. Categorie presupposte da ogni oggetto intuito. Gli oggetti
intuiti quindi sono costituti dall’Io penso attraveso le categorie, senza arbitrio, bensì dalle
regole delle categorie. Ecco come e perche è è lecito applicare le categorie agli oggetti.
Ancora, noi possiamo solo intuire gli oggetti in forma sensibile, tramite o grazie alla
sensibilità (non siamo in grado di intuire qualcosa attraverso l’intelletto, non siamo in
grado di intuire direttamente le cose come sono): attraverso spazio e tempo. L’intuizione è
l’ambito della nostra esperienza concreta a cui solo si applicano le categorie (concetti
puri). Le categorie non si possono quindi applicare oltre l’ambito dell’esperienza: una
metafisica scientifica è quindi impossibile.
82
Cfr. L. Geymonat, cit. pag. 588.
Metafisica e limiti della conocenza
La limitazione della conoscenza ai fenomeni non esclude però la possibilità di
oggetti oltre essi: la “causa” del materiale percettivo è infatti non riconducibile al soggetto
ed è intesa come noumeno, di cui il soggetto non può conoscere la natura. Tuttavia, il
soggetto conoscente, riferendosi ai concetti dell’Intelletto, i concetti a priori dell’Intelletto
che si applicano solo all’esperienza, mediante la Ragione, cerca di stabilire alcuni principi
o Idee trascendentali (concetti puri della ragione) che mirano a giungere a conoscenze
assolute ossia complete e definitive sull’esperienza. E’ questo di fatto un superamento dei
limiti dell’esperienza sebbene un superamento che si pone su un piano diverso da quello
dell’esperienza e dell’intelletto 83. Potremmo anche dire che le Idee trascendentali della
Ragione, questi concetti puri della Ragione, aspirano a determinare la natura della cosa in
sè senza che però ciò possa mai diventare oggetto di esperienza: tali sono le Idee di Dio,
Anima, Mondo.
In particolare, l’Idea di mondo, presuppone che esso sia costitutito da un lato, da un
insieme di fenomeni correlati deterministicamente secondo leggi di natura e,
contemporaneamente, dall’altro, da cose in sè autodeterminantesi. Ciascuna di queste
tesi è ragionevole se posta su diversi piani, ossia quello dei fenomeni e quello della cosa
83
L. Geymonat, Boncinelli, Cattaneo, Il pensiero filosofico, Garzanti
in sè, nonchè insolubile, vista l’impossibilità del soggetto di approdare nella sua
conoscenza, oltre i fenomeni. Ora, se dal punto di vista del conoscere, le Idee della
ragione sono esecrabili84 se poste a fondamento di una metafisica scientifica, dal punto di
vista dell’agire esse costituiscono uno stimolo all’approfondimento del senso dell’agire
morale.
La ragion pratica
Una volta sancita l’illegittimità delle pretese conoscitive della metafisica,
stabilita dalla Ragion Pura, si tratta di indagare un altro campo del sapere fondativo
dell’agire umano: l’Etica.
Nel campo dell’Etica si tratta però, a differenza dell’ambito della Ragion Pura, ove la
Ragione “non tiene conto” dell’esperienza e ne definisce piuttosto i limiti e gli ambiti, di
dettare le Regole da trasformare in Realtà mediante l’agire 85: Ragion pratica. La
ragion pratica consiste infatti nella capacità di determinare la volontà, senza fondarsi
sulla sensibilità, al fine di garantirne l’universalità. In effetti, l’esperienza è legata
all’interesse individuale e quindi necessariamente priva di quella universalità costitutiva
84
Ibidem.
85
Ibidem.
del giudizio etico (cos’è giusto?, cos’è morale?, cos’è buono?). Ora, tale giudizio morale,
l’indagine sulla universalità e giustezza di tale giudizio, fa capo senz’altro per Kant alla
ratio essendi del giudizio: la libertà. La determinatezza dell’agire umano risulta infatti
contario al porre il problema della libera scelta: solo un essere libero si pone il problema
morale, diversamente perchè porlo? In misura conversa: è grazie al problema morale, al
porsi del problema morale, che è possibile inferire l’esistenza della libertà. In buona
sostanza, Kant propone quindi di pensare all’uomo come ad un essere che vive,
contemporaneamente, nella realtà fenomenica condizionata dagli assunti della ragion
Pura e in quella noumenica in cui invece è libero.
Secondo Kant, in particolare, l’esistenza della legge morale si esprime attraverso
l’esistenza degli imperativi morali: categorici(prescrizione di una azione per il dovere ) ed
ipotetici (prescrizione di una azione per fini spcifici) Tali imperativi costituiscono un
comando, nel caso dell’imperativo categorico, che esclude scopi particolare in chi agisce
secondo tale imperativo: esso non ha un contenuto specifico ma afferma solo cosa si
deve fare (espressione del così dev’essere) e non come di deve agire. In questo
senso l’imperativo categorico esprime qualcosa di universale. In misura maggiore,
l’imperativo categorico non prevede o non fa tanto riferimento all’esito della azione morale,
ma all’intenzione che muove l’agente che segue il comando espresso nell’imperativo
morale.
Secondo Kant la legge morale che ognuno sente nella propria coscienza
attraverso diverse caratteristiche:
si esprime
1) l’imperativo categorico ha un aspetto formale, non facendo riferimento a
nessun contesto particolare;
2) il giudizio sull’azione si fonda sull’intenzione (volontà) che muove l’agente ad
agire;
3) l’azione compiuta o da compiere è buona se e solo se è universalizzabile
ovvero qualora il principio sulla cui base il singolo agisce (massima) possa
essere fatto proprio dall’intera umanità;
Ora, secondo Kant, in una successiva formulazione, la ricaduta dell’azione del singolo
sugli altri esseri umani risulta centrale86. Tale formulazione sottolinea:
86
1) ogni uomo ha pari dignità in quanto dotato di ragione;
2) Ragione ed umanità sono coessenziali;
3) L’azione buona è quella che concorre al fine dell’umanità;
4) Il fine assoluto dell’azione morale è l’uomo.
Successivamente Kant, adotta un’altra formulazione: non compiere alcuna azione
secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge
universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare,
contemporaneamente, se stessa come uivesalmente legislatrice.
Ecco che allora, l’azione morale richiede che la volontà sia guidata
esclusivamente dalla ragione: poichè la razionalità esprime l’essenza dell’uomo,
obbedendo alla ragione l’uomo obbedisce a se stesso. Ancora, è la razionalità che
autonomamente comanda alla volontà di agire secondo la legge morale, legge che
la ragione si da da sè: gli altri uomini portano infatti la stessa legge universale.
Ora, se l’uomo, ogni uomo, riconosce al proprio interno un fatto della ragione, ossia
la legge morale, è necessario postulare l’esisitenza della libertà dell’uomo:
l’indagine condotta da Kant sulla legge morale, ha il suo presupposto nell’esistenza
della libertà87, anche se la libertà non è e non può essere oggetto di esperienza.
Come dire che per non contraddire l’esistenza della legge morale che si esprime
attraverso l’imperativo categorico è necessario postulare l’esistenza della libertà.
Ragion Pratica e Ragion Pura: La Critica del giudizio
I postulati della libertà, dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio, danno
all’uomo certezze che gli erano precluse sul piano conoscitivo. In questo senso la
ragion pratica detiene un primato sulla ragione teoretica: essa riesce a dare
Ibidem.
87
Ibidem.
consistenza a concetti che nella Critica della ragion Pura si preentavano solo come
possibilità teoretiche, sebbene tale consistenza non si traduce in una estensione
della conoscenza. La validità dei postulati non è teoretica ma solo pratica. In
una battuta: l’intelletto guida la conoscenza della natura, la ragione
sovraintende all’operare della libertà. Il primo ha a che fare con i fenomeni, la
seconda con la cosa in sè, territorio dell’incondizionato e quindi della libertà, che
tuttavia non è oggetto di conoscenza in quanto extrafenomenica. Ora, tale
impostazione sembra porta ad una separazione netta tra natura e libertà, tra
intelletto e ragione così da introdurre una scissione insuperabile nella realtà
dell’uomo. La scissione può essere ricomposta nella Critica del Giudizio: il giudizio
come facoltà intermedia tra intelletto e ragione.
Si pensi ad un giudizio
conoscitivo determinato dall’intuizione sensibile
come “Questo è un tavolo”. Tale giudizio determinante che ha per oggetto un
fenomeno può però dar luogo ad un giudizio riflettente che mette a capo ad un
rapporto tra il fenomeno ed il soggetto che ne fa esperienza. Ad esempio: “questo
tavolo è bello”. Tale giudizio, che esprime una relazione tra mondo fenomenico e
mondo noumenico del soggetto (aspetto morale), è un giudizio estetico: un giudizio
che “non può riferirsi ad uno scopo oggettivo, ossia assumere il suo oggetto entro
la relazione ad un fine – sia essa esterna, o utile, sia quella interna, o perfezione 88 così non deve confondersi con l’attrattiva, con l’emozione, con tutto ciò che, pur
potendo anche non essere disgiunto dal bello, non serve a caratterizzarlo. Due
specie di bellezza si possono infatti distinguere, quella libera (pulchritudo vaga) e
quella aderente (pulchritudo adhaerens):
 la prima indipendente dal concetto che si può avere del suo oggetto, o
bellezza per sè stante;
 la seconda condizionata perchè aderente al concetto che si ha del suo
oggetto.
88
Marzorati, Da Bacone a Kant, Vol. IIII.
La bellezza di un fiore, ad esempio, per il giudizio di gusto è tale
indipendentemente dallo scopo che il botanico riconosce al fiore stesso nella vita
della pianta, dunque si stratta di bellezza libera; mentre la bellezza di un edificio, o
della stessa figura umana presuppone un concetto di scopo che inerisce alla
pefezione della cosa considerata: si tratta in tal caso di una bellezza aderente,
condizionata cioè dal concetto della pefezione dell’oggetto”. 89
Ora, il bello che trova nella sua forma il suo limite, ossia la bellezza che ha a che
fare con le forme in quanto limite esteriore che con-forma l’aspetto, include nella
sua forma una finalità: per cui l’oggetto sembra come predisposto per il nostro
giudizio. Si tratta, secondo Kant, di un accordo percepito immediatamente nel
giudizio estetico in quanto giudizio riflettente. Tale finalità percepita nel giudizio
estetico può anche essere pensata nel giudizio riflettente telelogico: si rende
possibile per Kant allora, il pensiero di una natura con una finalità oggettiva.
Una finalità
.
Hegel
Kant ed Hegel
Kant distingue il conoscere dal pensare: il conoscere ha come oggetto l’esperienza,
il pensare ha come oggetto la cosa in sè. Kant pretende quindi di parlare solo in negativo
della cosa in sè, ponendo dei limiti al pensare. L’idealismo,viceversa, nega la tesi
kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sè: al di là del pensiero, per l’idealismo, non c’è
nulla, proprio perchè nulla sfugge al Pensiero. In questo senso, il Pensiero non è una
89
Ibidem.
parte della realtà, non è una cosa tra le cose, proprio perchè le cose sono pensate, non
può essere una cosa, ma sono le cose a poter essere rappresentate nel Pensiero 90.
Pensiero non trascendente, peculiare di Dio. Il Pensiero esprime dunque l’essenza
dell’uomo. “Essenza divina”, si potrebbe dire, perchè per l’idealismo il Pensiero è
l’Assoluto: il Pensiero è allora l’intrascendibile, ciò all’interno del quale tutto accade. In
questo senso l’Assoluto ossia il Pensiero è Sostanza: il Pensiero come Assoluto esprime
quindi l’idea che il Pensiero sia Sostanza ossia ciò che è in sè e per sè e che non
abbisogna di altro cui inerire 91. In questo senso il Pensiero non è il singolo atto umano,
non è un atto della sostanza individuale umana bensì la stessa Sostanza infinita che
differisce dal singolo atto del pensare dell’individuo concreto e sostanziale. Piuttosto il
Pensiero “può” esser espresso dall’Io Trascendentale di Kant, con l’avvertenza che
nell’idealismo il pensiero non è limitato dalla cosa in sé.
Sussiste poi una ulteriore questione: il concetto di cosa in sè, per Kant, non è
ulteriormente indagabile ma necessario per stabilire i limiti della conoscenza. La critica
kantiana, viceversa, andando oltre il dettato kantiano, intende la cosa in sè come una
realtà al di là dei fenomeni e causa di essi. Per cui il concetto di cosa in sè appare
doppiamente contraddittorio:
90
E.Severino, Storia della Filosofia Moderna, cit. pag. 165 e sgg.
91
Ibidem.
1) Esiste una realtà oltre i fenomeni ma la conoscenza è limitata ai fenomeni;
2) Tra la cosa in sè ed i fenomeni esiste un rapporto causale estendendo così oltre
l’esperienza l’uso di una categoria valida solo al suo interno.
Ancora, secondo la critica idealista e romantica, Kant è fonte di dualismi irrisisolti:
1) Limitazione della conoscenza al finito;
2) Contradditorietà del concetto di cosa in sè;
3) Scissione delle facoltà umane;
4) Superiorità della Ragion pratica .
Idealismo e soggetto trascendentale
Le critiche mosse alla concezione kantiana di una cosa in sè, indipendente dalla
conoscenza, la cocncepiscono come il limite o il residuo del dato empirico92. Il risultato di
92
Geymonat, cit. pagg. 750 e sgg
tale operazione, rende la Ragione o coscienza l’unico principio della conoscenza: non solo
nella sua forma, funzione già attribuita da Kant alle struture a priori dell’intelletto, ma
anche della sua materia, ovvero delle cose che si presentano nell’esperienza stessa. In
questo senso, eliminata la cosa in sè, l’unica realtà è quella presente allo spirito. Ora, lo
spirito, la cocsienza, che sperimenta il limite imposto ai suoi atti dalle realtà, come può
essere considerato il “creatore” di questa realtà? In primis, gli idealisti, che attribuiscono
creatività allo spirito, soggetto, coscienza, parlano dell’Io Trascendentale: un principio che
si attua negll’umano ma non si riduce ai singoli uomini. Tale principio, per l’idealismo,
conduce a tre diversi aspetti:
1) Centralità del soggetto: la realtà è considerata in funzione del soggetto o dello
spirito, anche se non inteso come individuo, ma come principio infinito di cui
l’individuo, così come la realtà di cui fa esperienza, non è che una
manifestazione;
2) La realtà naturale è considerata manifestazione di quello spirito immanente che
prima di assurgere alla consapevolezza si sviluppa attraverso la natura;
3) La storia, è considerata come lo svolgimento del principio infinito, prima
attraverso le vidende naturali, quindi in quelle dell’umanità.
Il valore del singolo risiede nella manifestazione ed incarnazione del principio infinito,
mentre la sua libertà consiste nell’adesione a tale principio, guidata dalla consapevolezza
di essere “creatore” della realtà, dominatore della natura e protagonista della storia.
Hegel, in particolare non intende più pensare l’Assoluto come Io trascendentale:
l’Io deve sempre essere contrapposto a un non Io o a un oggetto o a una cosa in sè,
rispetto a cui resta in un rapporto di estraneità. Hegel esce quindi dal soggettivismo per cui
l’Assoluto diventa il Pensiero stesso.
In seconda battuta, tutti gli attributi dell’Assoluto diventano attributi del Pensiero.
Hegel continua quindi Kant: Kant aveva tradotto la sostanza, la causa, la possibilità, da
termini ontologici in termini
logici (le categorie kantiane). Hegel, in misura ancora
maggiore, ritiene che questi attributi non siano delle cose, come determinatezze che
sono, come sostanza, ma siano tutte determinazioni del Pensiero. Con l’avvertenza che il
Pensiero non si contrappone all’oggetto, alla cosa in sè: in Kant le categorie sono formali
solo in quanto la cosa in sè le rende possibili, sono funzioni di. In Hegel, diversamente, le
categorie esistono indipendentemente dall’esistenza di una cosa in sè.
Assoluto e Soggetto: Fichte
Altra determinazione essenziale dell’Assoluto93 è il suo essere soggetto: Hegel
accoglie quindi la fondamentale intuizione fichtiana in base alla quale l’Assoluto deve
essere soggetto. Quella intuizione in basa alla quale nel porsi dell’Io, da parte dell’Io a se
stesso,
in quel momento l’Io è assoluto. Non è assoluto in quanto l’Io è sostanza,
qualcosa di indipendente; pittosto l’Io è indipendente nel momento in cui esso si pone.
Nell’autoporsi dell’Io, l’Io pone quindi la sua assolutezza. In questo aspetto, Fichte va
oltre Kant: l’Io di Fichte, in confronto all’Io di Kant, è autoposizione; il pensarsi dell’Io
esprime quindi l’assolutezza dell’Io.
93
Largamente presente nel platonismo medievale e rinascimentale, in particolare nelle correnti mistiche, tale concezione
dell’a. riceve nuova linfa vitale dall’idealismo tedesco posteriore a Kant – e anzi in aperta polemica con le conclusioni
scettiche della terza parte della Critica della ragion pura ), la Dialettica trascendentale, riguardo alla possibilità di
conoscere l’assoluto La speculazione intorno all’a. è infatti al centro dell’idealismo oggettivo di Schelling e di Hegel,
che inizialmente prendono le mosse da un a. indifferenziato, assimilato da entrambi alla «notte». Ben presto, tuttavia, le
due filosofie prendono strade diverse. Mentre Schelling resterà sostanzialmente fermo a quella che Hegel definirà
ironicamente una «notte in cui tutte le vacche sono nere» (Fenomenologia dello Spirito, 1807), Hegel si attesta sul
concetto di un A. che ha in sé la differenza, definito fin dagli anni giovanili «identità dell’identità e della non
identità». Il concetto era già noto al neoplatonismo, che lo usava per descrivere l’attività dell’Intelletto o υοῦς, ma non
poteva trovare applicazione all’Uno, imprimendo quello che Hegel definirà un tratto di «orientalismo», cioè di
irrazionalismo mistico, a tutto il sistema neoplatonico. Hegel propende invece per una «mistica razionale», una mistica,
cioè, nella quale all’A. non si arrivi attraverso una intuizione improvvisa (il «colpo di pistola» della Fenomenologia –
altra allusione a Schelling), ma attraverso una dimostrazione. La realizzazione di questo complesso programma
filosofico è affidata principalmente a uno strumento: la «mediazione che toglie sé stessa», o «mediazione della
mediazione». Tale concetto, illustrato soprattutto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817), consiste – come
nelle cosiddette prove «a posteriori» della tradizione tomistica – nel partire ancora una volta dal finito per arrivare
all’a., per poi scoprire, invece, che il finito, da cui l’a. pareva dipendere come punto di partenza, è in realtà un prodotto
dell’a. stesso, nel quale si dissolve, come il cibo, che pure dà inizio al processo digestivo, si scioglie nei succhi gastrici e
diventa una sola cosa con questi. Analogamente, nel processo hegeliano di mediazione, l’a. distrugge ciò da cui in un
primo tempo pareva dipendere, e si rivela il vero protagonista dell’intero processo dialettico. Nelle lunghe Aggiunte ai
§§ 80 e 92 dell’Enciclopedia Hegel precisa che l’apparente consistenza e identità delle cose finite è opera della «bontà»
dell’a. (di Dio), ma che superiore alla bontà dell’a. è la sua «potenza», in virtù della quale le cose finite appaiono per
quello che realmente sono, e cioè un suo prodotto privo di autonoma sussistenza. L’a. si conferma così, a pieno titolo,
un vero a., cioè un incondizionato. Resta naturalmente una fondamentale differenza con qualsiasi concezione mistica
dell’a., in particolare quella che Hegel tiene costantemente presente quando parla di Jacobi e del «sapere immediato».
Nella concezione hegeliana l’a. è processualità, anzi l’a. si può e si deve confermare tale solo ed esclusivamente nella
processualità, perché solo nella processualità si può confermare come il signore di tutto. L’a. dei mistici si condanna a
una «inerte solitudine», dalla quale risulta più la sua impotenza che la sua potenza. L’a. di Hegel non ha nessun timore
di entrare nel tempo e nello spazio attraverso l’alienazione , perché spazio e tempo sono dentro di lui, e l’alienazione è
In effetti Fichte, in una fondamentale recensione dell’Enesidemo (Schulze),
accoglie le osservazioni di Schulze almeno per ciò che riguarda il principio di coscienza. A
tale rigurado, Fichte sostiene che quest’ultimo non può essere considerato il Principio
assolutamente primo della filosofia in quanto la rappresentazione identifica il fatto della
coscienza, la sua essenza empirica e materiale e non costituisce quindi un autentico
cominciamento trascendentale del filosofare. Principio dell Filosofia, secondo Fichte,
dev’essere un atto e non un fatto. Considerare la rappresentazione come il principio
primo della filosofia significa quindi rimanere in un’ottica puramente critica ossia limitarsi a
dedurre (in senso kantiano) le condizioni di possibilità di quel tal fatto della struttura della
ragione.94Si tratta piuttosto di chiedersi quale sia l’essere della ragione: a tale domanda
Kant aveva già risposto, in linea di principio ossia la praticità e spontaneità ossia la sua
libertà ed autonomia. La praticità della ragione spinge dunque Fichte ad elaborare il suo
sistema filosofico: la ricerca della genesi di tutte le forme della ragione che mette capo ad
una intuizione, un atto della ragione, che si coglie nella propria interezza 95.
Nello specifico Fichte:
momentanea, apparente, è un «gioco» – termine e concetto già presenti nella filosofia neoplatonica – che egli
intraprende seco stesso.
94
Cioffi, Cit. pagg. 69 e sgg.
95
Ibidem.
i.
L’Io pone se stesso assolutamente; Per Fichte il primo principio è
“Tathandlung”, contrapposto a “Tatsache” (stato di fatto) : atto che si realizza
da sè (“Handlung” è inteso come azione, contrapposto a “Sache” - “cosa di
fatto”)96
ii.
L’IO assoluto oppone a se stesso un NON Io altrettanto assoluto;
iii.
Nell’Io Assoluto, l’Io divisibile si oppone ad un NON Io altrettanto divisibile.
Il primo principio non si riferisce ad un fatto bensì all’atto della ragione che accade al di
fuori dello spazio e del tempo: una condizione trascendentale dell’intera attività della
ragione. Fichte utilizza a questo proposito il termine Tachtandlung: con questo termine
ci si riferisce al:
 fare come operare;
 fare come condizione;
 fare come risultato.
In questo senso l’Io è il risultato della sua stessa azione.
Il secondo principio enuncia la finitezza e la contingenza della ragione umana: così
come Kant affermava la libertà un fatto della ragione, così per Fichte è immotivata ed
ingiustificabile la spontaneità e libertà dell’Io. Ora, seconda condizione trascendentale del
sapere umano è il suo rapporto con una realtà altrettanto assoluta (il dato sensibile) ,
nella sua contingenza e gratuità, della ragione umana. Ma assoluto è anche il rapporto
con la realtà, che vien posto non appena vien posto l’Io.
96
Il primo principio è intuizione pura e non può essere dedotto: nè quanto alla forma, in quanto esso è
presupposto anche da principio di identità A uguale ad A; nè quanto al contenuto poichè il contenuto di questa
intuizione si pone liberamente con questa stessa intuizione. Cfr. Coffi. Cit. pag. 92 e sgg.
Il terzo principio non si riferisce ad un principo trascendentale ma descrive la condizione
della coscienza reale. Da un lato, la coscienza reale è determinata dalla sua spontaneità,
dall’altro dalla sua intrinseca contingenza: essa è allora limitazione o “divisibilità”
(Teilbarkeit) intrinseca alla esigenza di spontaneità. Finitezza costitutiva che tende però,
per sua natura, all’assoluto.
Schematicamente:
1) A-------------------------------------------------------------------------------------- verso infinito
2) A--------------------------------------------------------------------------------------\C
3) A:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::\C
Per altro verso97, Hegel fa notare come non sia più possibile pensare l’Assoluto
come Io: se l’Io è assoluto non ha più senso pensarlo come Io, in quanto l’Io è sempre
contrapposto, per Fichte, ad un NON IO, ad una cosa in sè, rispetto al quale permane un
rapporto di estraneità. Hegel accoglie quindi il contributo fichtiano dell’assolutezza dell’Io
per andare oltre il soggettivismo. L’Assoluto hegeliano
presenta quindi
delle
caratteristiche diverse dalla tradizione precedente: da oggetto del pensiero diventa il
Pensiero stesso.
La Fenomenologia dello Spirito
La Fenomenologia dello Spirito è considerata una delle opere fondamentali per la
comprensione del sistema filosofico hegeliano: nel 1806 hegel annunciava quest’oera
come premessa a un corso di Logica e Metafisica, concepito a sua volta come prima parte
del sistema della scienza”comprendente , nella seconda parte, la filosofia della natura e
dello spirito. Premessa che mette a tema le diverse esperienze che la coscienza deve
97
Prof. Lucio Cortella, 1991, Venezia: Corso monografico
compiere per avere accesso al sapere dell’Assoluto 98. Particolare, nella Prefazione,
il “bisogno di filosofia” vine posto in relazione al fatto che la presente è un’epoca di
trapasso e transizione: verso un rinnovamento. Ed i suoi linementi esseniziali, per
HEGEL, il suo “CONCETTO” , possono essere appresi da chi abbia guadagnato il punto
di vista della filosofia. Nella prefazione Hegel, alla confutazione delle filosofie di Kant,
Fichte, Jacobi, si aggiunge la critica a Shelling. Secondo Hegel, l’Assoluto schellinghiano
- assoluta identità di soggetto ed oggetto, finito ed infinito - è la famosa notte in cui tutte le
vacche sono nere , per rimarcare la confusa indistinzione e vuota uguaglianza in cui
nessuna determinazione finita è mantenuta.
La scienza di cui il tempo presente ha bisogno si può allora sviluppare in riferimento
al fattto che il vero è esprimibile non come sostanza bensì come soggetto. Non l’Essere
opposto al Pensiero, nè il Sapere opposto all’Essere, come momenti distinti e separati. In
questo senso ricadono in una concezione sostanzialistica sia il Dio di Spinoza, nella cui
definizione sembra andar smarrito l’elemento soggettivo dell’autocoscienza; sia l’Io
fichtiano, come pura ed astratta autocoscienza. Sia infine l’identità schelighiana in cui
l’indifferenza tra finito ed infinito, soggettivo ed oggetivo si presenta come inerte
semplicità. Il vero invece per Hegel è Soggetto: l’Assoluto non sta nè nell’Essere
immediato separato dal pensare, né nell’immediatezza dell’autocoscienza, nè nella loro
unità immediata: l’Assoluto è bensì unità mediata.99 Ancora, l’unità dell’Assoluto è
identità che non va perduta nel divenir altro: non ha bisogno dunque di restare
immobile in sé per conservarsi identica a sé. Non allora la rigida identità della
Sostanza bensì la mobile identità di un Soggetto che permane e si sa identico in tutte le
sue mlteplici manifestazioni. Questo è il senso della concezione hegeliana di Assoluto
come Spirito: espressa nella Fenomelogia quando si afferma che l’Assoluto è l’intero ossia
98
Cioffi, Cit. Pagg. 243 e sgg.
99
Ibidem.
l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. L’assoluto è dunque movimento i cui
momenti non hanno senso se presi isolatamente 100.
Si diceva che la Fenomenologia è la storia delle esperienze della coscienza:
esperienze sia pratiche che teoriche. Lungo questo percorso, la coscienza si presenta
innanzitutto come coscienza con una struttura bipolare (aspetto questo, del porsi in altro
dell’Assoluto): io\non io; io\oggetto, in cui essa avverte come altro da sè l’oggetto, sia esso
l’oggetto dei sensi, della percezione, dell’intelletto, un’altra autocoscienza. Alla fine del
percorso però la coscienza, nello stadio del sapere assoluto, giunge a far propria la
prospettiva dell’identità tra soggetto ed oggetto. Le diverse figure della coscienza quindi
sono aspetti necessari dell’Assoluto, che nella sua storicità di figure ed aspetti, si
manifesta in altro: sapere assoluto che non è nient’altro che lo spirito. Fenomenologia
quindi del manifestarsi dello Spirito. Una storia del manifestarsi dello Spirito nelle sua
diverse figure,uno sviluppo necessario.
Si badi dunque che il sapere che la coscienza acquisce nel progredire delle sue
esperienze e che si manifesta alla fine del percorso come sapere l’assoluto non è
differente dall’Assoluto: tra sapere l’assoluto ed Assoluto vi è identità: solo a questa
condizione diventa possibile per il sapere conoscere l’Assoluto.
Lo Spirito
La coscienza e le sue esperienze sono modi di manifestarsi dell’Assoluto, che
Hegel chiama anche Spirito. Le diverse figure fenomenologiche della coscienza sono
allora “tappe” del modo di manifestarsi dello Spirito o meglio dell’automanifestarsi dello
Spirito. Lo Spirito si manifesta dunque nella coscienza singola che fa esperienza di sè ma
anche, come Spirito, nelle Istituzioni, nella comunità, assumendo dunque la forma di
coscienza comune, condivisa da un gruppo sociale, dal popolo. Lo Spirito cioè si
oggettiva in determinati contesti storici, nello spazio e nel tempo. Quindi Hegel denomina
Spirito non solo l’Assoluto ma anche l’agire di una collettività o del popolo: la dimensione
intersoggettiva e preterindividuale. Nello specifico, lo Spirito secondo Hegel:
1) Rappresenta il sostrato o la sostanza comune, cui gli individui partecipano, pur
mantenendosi nella reicproca diversità e indipendenza: Io che è Noi, Noi che Io.
Hegel qui allude a quell’insieme di tradizioni, legami cultutali, idee, valori, che fa
di un insieme di individui un gruppo, di un insieme di aspetti
culturali\valori\tradizioni un mondo;
100
Ibidem.
2) Rappresenta il prodotto dei singoli, dell’agire di una comunità;
3) Rappresenta l’opera, la attività e quindi la soggettività che si manifesta nel
tempo: in un battuta lo spirito è storia. Esso si manifesta in diverse epoche o
mondi spirituali differenti; mondi differenti come effettive realtà (Wirklichkeiten).
In riferimento a queste figure dell fenomenologia, le prime figure, quelle della
coscienza individuale, sono delle Astrazioni ossia sono state “tratte fuori” per
essere analizzate. In effetti, la formazone della coscienza singola, avviene per
sulla base dela cultura di appartenenza, condizionandone il propro punto di vista
sul mondo. Per converso, il singolo, la coscienza individuale, prende mano a
mano coscienza, approfondendo la propria esperienza, della sostanza spirituale
del proprio tempo. Sostanza erede dello spirito delle epoche precedenti e
anticipatore del tempo nuovo che sta sorgendo: tempo i cui tratti spetta alla
filosofia comporre in sistema.
Articolazione dell’opera
Prefazione
Introduzione
A) Coscienza:
- certezza sensibile:
che le rappresentazioni siano
Percezione; certezza
riferite all’oggetto;
B)
C) Autocoscienza:
si vede qui
Forza ed intellletto
la verità della certezza di se stesso: la coscienza
come appetito – Begierde – che vuole essere
appagato. Aspetto
pratico della autocoscienza e non teoretico.
D) Grande sezione suddivisa in :
Ragione;
Spirito;
Religione;
Sapere assoluto: figura che prevede il superamento della distinzione
soggetto\oggetto; propria della cosceinza. Lo Spirito, in particolare, ha non
solo come oggetto se stesso, ma ha se stesso come oggetto nella forma del
concetto e non della Rappresentazione, tipica della cosceinza nelle sue fasi
iniziali. Ciò accade appunto nel Sapere assoluto, che corrisponde
all’autocosciena dello Spirito in foma concettuale o scienza, ossia nella
forma del sistema filosofico.
Il sistema filosofico
La prospettiva delineata nella Fenomenologia dello Spirito, ossia la prospettiva della
formazione della coscienza, lascia spazio, nello Hegel maturo, all’esposizione del sapere
assoluto: la filosofia esposta in modo matematico, enciclopedico. L’esposizione del Sapere
assoluto non pregiudica però quanto era già emerso nella Fenomenologia: la storicità del
manifestarsi dell’Assoluto101. Piuttosto, la complementarietà tra il manifestarsi dei diversi
momenti storici dell’Assoluto e le categorie della logica esprime la cifra del sistema
hegeliano. Cifra perseguita nella Enciclopedia delle Scienze filosofiche, nella Scienza
della Logica , ne I lneamenti di Filosofia del diritto. Nello specifico Hegel ritiene che, in
riferimento alle altre scienze quali la Fisica, il Diritto, sebben esse costitutiscano un
presupposto da cui partire cronologicamente per arrivare all’esposizione del sistema
filosofico, solo la Filosofia può rivendicare il ruolo fondante del sapere , il ruolo logico e
fondativo del sapere. Essa costituisce dunque la verità delle scienze. E ne costituisce la
verità mostrando come lo stesso kantismo sia un errore: la cautela critica dei kantiani
appare tanto assurda “quanto il saggio proposito di quello scolastico che voleva impararre
a nuotare prima di arrischiari in acqua”102, ossia il proposito di esaminare con attenzione lo
101
Ibidem.
102
strumento o gli strumenti della conoscenza quando invece, per H., le regole del pensare
speculativo sono parte dell’oggetto della Scienza della Logica, non le sono presupposte .
In altre parole per Hegel, il Sapere Assoluto in cui consiste la filosofia prevede,
sebbene alla fine dell’esposizione dell’intero processo di conoscenza, l’identità di Soggeto
ed Oggetto per cui non c’è un oggetto esterno al sapere. Il superamento della opposizione
soggetto\oggetto peraltro è già stato acquisito nella Fenomenologia: ma questa
acquisizioe svolta o determinata geneticamente nel processo storico di liberazione dalle
diverse figure filosofiche parziali della filosofia, è primo solo dal punto di vista psicologico e
storico, non logico.
Per quanto afferisce il contenuto, il sistema hegeliano si articola in tre grandi
sezioni:
1) La logica: scienza dell’Idea in sè e per sè. (Con Idea qui Hegel intende
l’identità di finito ed infinito, L’Idea, in buona sostanza esprime per H. il processo
del pensiero nella sua interezza soggettivo\oggettiva e si identifica con il Reale).
La logica studia il pensiero inuqnato tale ed affronta reinterpreati un ampio
spettro di problemi metafisici;
2) La filosofia della natura: scienza dell Idea nel suo alienarsi da sè. Fondazione
delle scienze della natura quali fisica, chimica e biologia;
3) Filosofia dello Spirito: scienza del’Idea cha dalla sua alienazione torna in sè.
Discute i fondamenti dei saperi che riguardano l’uomo. COME INDIVIDUO
(Psicologia), come collettività (Diritto), per poi interessarsi dell’arte, della
religione e della stessa Filosofia.
Ibdem.
La logica dialettica
Il compito della Logica, secondo Hegel, è quello di esporre l’atomovimento del
concetto, ossia del pensiero in quanto tale. Ora, indipendentemente dagli ambiti del reale
in cui il pensiero si esplica, è possibile farsi un’idea della Logica di Hegel fissando
l’attenzione sulla attività del pensare così come essa si dà concretamente in qualsivoglia
contesto di applicazione. In particolare, il Pensare risulta essere una attività complessa, 103
i cui momenti è possibile distinguere solo a fatica . Hegel, con la Logica, mira a dar conto
di tutti gli atti del pensiero preoccupandosi di ricondurli a loro fondamento comune ossia al
pensare stesso: del resto il pensare è appunto una attività, automovimento, sviluppo, e
questo carattere fluido del pensare si mostra nel fatto concreto che l’operazione del
pensare scorre da una determinazione ad un’altra. A riprova di ciò possiamo indicare
brevemente la determinazione Essere, che se fissata nel proprio significato conduce
inevitabilmente o meglio dialetticamente al significato Nulla per concludere al
significato Divenire. Per spiegare meglio tale aspetto, la Dialettica, in Hegel, si articola
come esemplificato in tre momenti: tesi, antitesi, sintesi 104. Tale procedere triadico
contrassegna il prodursi del pensiero, quanto lo sviluppo di ogni suo atto o meomento. La
Logica infatti, presenta una partizione triadica, sia nella partizione generale che in ogni
103
Ibidem.
104
Ibidem.
singolo momento. Poichè - d’altra parte – se la logica studia il pensiero nella sua forma
pura, il pensiero stesso si esplica nella realtà in quanto ragione immanente, ogni ambito
del reale, se compreso speculativamente, presenta una analoga processualità dialetttica
triadica:
I.
Primo lato: determinazione immediata ed astratta quale ad esempio “Essere”,
rigidamente escludente il suo opposto “Nulla”; L’Essere, in questo senso, è privo
di determinazioni, vuota assenza di determinazioni.
II.
Secondo lato: il movimento dialettico evidenzia come quella prima determinazione
sia appunto astratta, ed il concetto di qule primo termine “Essere”, in quanto vuota
assenza di determinazioni, puro indeterminato, si capovolga nel suo opposto, il
“Nulla” altrettanto privo di contenuto. Entrambe le nozioni sono infatti prive di
significato determinato. Ancora, tanto il Nulla quanto l’Essere sono identici a se
stessi – A uguale ad A - recita la tradizione, ed in quanto identici a sè e privi di
contenuto determinato non si distinguono dunque.
III.
Terzo lato: la ragione non si ferma tuttavia alla astratta considerazione dei
precedenti significati l’uno negantesi nell’altro, ma proprio in virtù della negazione,
considera contemporaneamente la reciproca appartenenza di quei significati in una
sintesi superiore: il Divenire. Il divenire è unità di Essere e Nulla: infatti sono se
pensiamo all’Essere ed al Nulla come momenti distinti e non separati di una
superiore unità quale il Divenire possiamo tenere fermi i due momenti come
trapassanti l’uno nell’altro. Dobbiamo insomma ricercare nel Divenire il
fondamento dell ‘Essere e del Nulla che, presi separatamente non riescono a
tenere fermo il proprio significato.
Quanto esposto esprime la Dialettica o meglio il procedere dialettico delle Logica. Nella
Logica, come si accennava, che è scienza in cui il pensiero conosce se stesso in forma
pura, il pensiero muove quindi l’inizio, il cominciamento del suo procedere dalla
determinazione astratta per poi considerarne il passaggio nella sua negazione ed infine
evidenziare il legame delle singole determinazioni astratte nella loro superiore unità. La
Scienza della Logica
allora perviene alla conoscenza delle distinte e diverse
determinazioni astratte proprio perchè tali determinazioni non sono altro che i singoli
momenti dell’esplicarsi di un unica attività di pensiero, attività tanto più ricca quanto la
manifestazione del processo del pensiero si articola al suo interno in direzione del
momento logicamente conclusivo del processo. Si badi che le singole determinazioni via
via negate nel processo dialettico (Essere; Nulla; Finito; Infinito;etc.) non sono
semplicemente abolite , piuttosto le singole determinazioni sono tolte nella loro pretesa
indipendenza dal loro opposto, ma conservate come momento Necessario di una
categoria più comprensiva. Tale superamento e conservazione delle singole
determinazioni è definito da Hegel Aufhebung. Sotto si espone la prima partizione della
Scienza della Logica che riguarda L’Essere:
a) Essere a) Qualità:
a) - Essere indeterminato : - Essere
-
Nulla
-
Divenire
b) - Essere determinato :
- qualcosa
- finito
- infinito
c) - Esser per sé
b) Grandezza a) - Quantità :
- quantità pura
- continuo o discreto
-
limitazione della
quantità
b) - Quanto :
- numero
- quanto intensivo
- infinità quantitativa
c)
c) Misura
Rapporto quantitativo
a) Quantità specifica
b) Misura reale
c) Divenire dell’essenza
L’assoluto
Per Hegel l’Assoluto è Pensiero. Ciò significa che l’Assoluto ha quattro determinazioni:
1) Da oggetto del pensiero diventa Pensiero;
2) Gli attributi dell’Assoluto diventano attributi del Pensare: operazione già
avviata da Kant che traduce “sostanza” e “causa” da termini ontologici in
termini logici – le categorie sono formali solo in quanto c’è qualcosa in
funzione del quale esse sono - Hegel continua Kant affermando che questi
attributi non sono delle “cose”bensì attributi del pensare senza che il pensiero
sia contrapposto ad un oggetto;
3) L’Assoluto è inteso come Totalità e non come trascendente, in linea
conSpinoza;
4) L’Assoluto si presenta come triadico in riferimento alla sua connotazione come
movimento, come posizione e come autoposizione. 105
105
Hegel intende affermare
che l’Assoluto, in quanto è Pensiero, è
autoposizione e quindi differenziazione: sè come soggetto e sè come oggetto.
Ancora, l’Assoluto è sia sè come autoposizione che sè come atto che sè come
oggetto. In questo senso, per l’Assoluto, per il pensiero, è decisivo il momeno del
negativo e della differenza, chè se la differenza non fosse pensata all’interno
dell‘Assoluto, come interna all’Assoluto, minerebbe la sua assolutezza come un
qualcosa di esterno. La Differenza è quindi costitutiva dell’Assoluto.
La differenziazione dell’Assoluto, al proprio interno, presenta tre momenti:
1) Sè come autoposizione: il porre se stesso dell’Assoluto. L’assoluto si
riferisce a se stesso ed è considerato in sè, come una cosa, solo in
quanto è per sè ossia si pone.
2) Sè come atto: attività dell’Assoluto contrapposta all’intendere l’Assoluto
come sostanza, res, semplice fatto;
3) Sè come soggetto: non oggetto del pensiero ma soggetto che si
differenzia al proprio interno come soggetto\oggetto. Hegel intende così
il passaggio dal paradigma dell’Oggetto al paradigma del Soggetto.
Questo modo di intendere l’Assoluto fa la differenza tra l’Assoluto scellinghiano e
l’Assoluto hegeliano: Schelling pone l’Assoluto coma assoluta identità, sviluppando la
concezione spinoziana di sostanza. L’Assoluto, per Shelling è Pensiero assolutamente
identico con se stesso. Dove c’è differenza c’è finitezza secondo Schelling, c’è reciproca
estraneità dei momenti e quindi mancanza di libertà dell’Assoluto. Non c’è quindi
assolutezza per Schelling. Diversamente, per Hegel, in quanto l’Assoluto è pensiero, deve
porre al proprio interno la Differenza, chè se la Differenza è pensata fuori dell’Assoluto, ciò
mina la sua assolutezza, lo limita; l’Assoluto non riesce più ad essere la totalità che deve
essere. In questo senso la Differenza deve essere costitutiva dell’Assoluto. L’Assoluto è
quindi massimamente reale.
Pensare ed essere
Nella dottrina dell’Essenza, della Scienza della Logica, Hegel condensa le sue
considerazioni sul concetto di realtà:
1) Assoluto: ossia manifestazione completa dell’Essere. In questo senso l’Assoluto è
solo ciò che viene alla fine, perchè la manifestazione completa è appunto il proprio
completamento: solo alla fine essa accade. Non ha più senso allora sostenere la
differenza, come fa Spinoza, tra Assoluto e Modo. Il Modo, in quanto
manifestazione dell’Assoluto è propriamente identico all’Assoluto: L’Assoluto è
Ibidem.
tale solo nel Modo: solo nella sua completa manifestazione. Ora, in quanto
l’Assoluto è assoluto manifestarsi esso è realtà. In particolare, il capitolo del
rapporto assoluto è sudiviso in tre sezioni: Sostanza, Causa, Azione reciproca. Le
tre categorie kantiane della Relazione;
2) Realtà: - Wirklikheit – tradotto in genere con Realtà mentre sarebbe più opportuno
tradurlo con Realtà in atto, nella misura in cui essa è differente dalla semplice
fatticicità
- Realitat –tradotta dal Moni con realtà.
Il De
Negri, nella
Fenomenologia dello Sipito, traduce Wirklikeit con effettualità. La scelta del Ne
Negri è giustificata dall’occorrenza di Wirkung in Wirklikeit ossia dell’effetto. Con
effettualità dobbiamo allora intendere la realtà in quanto tale, la Realtà in atto, nella
sua completa manifestazione .
La differenza tra il capitolo sulla Realtà ed il Terzo capitolo, quello realativo al Rapporto
assoluto, sta nel fatto che il concetto di Realtà esprime la Realtà in quanto tale
manifestazione, in quanto in essa non c’è distinzione tra esterno ed interno, tra
sostanza e accidente, tra essenziale e inessenziale.
In misura maggiore, nel capitolo sull’Assoluto, si mostra dell’Assoluto quell’atto per
cui l’ Assoluto pone se stesso: la relazione dell’Assoluto con se stesso ossia la
relazione con cui l’Assoluto pone se stesso. Solo in quanto l’Assoluto pone se stesso
l’Assoluto è tale. In questo concetto Hegel esprime già compiutamente la risoluzione
della sostanza nel soggetto.
Sostanza: Spinoza
La sostanza spinoziana è espressa da un concetto che non abbisogna di altro per
essere definito: una realtà che non ha bisogno di altro per esistere. Essa, per Spinoza, è
potenza (Macht) ossia indipendenza ontologica; essa dipende dalla propria potenza, non
è sottomissibile a nessuna altra potenza: causa sui. Gli effetti della Sostanza non sono
dunque mai al di là di sè: tutti gli effetti di questa causa devono ricadere nella sostanza.
Sin qui Spinoza, che esprime la diversità tra “causa” ed “effetto” con “natura naturans e
natura naturata”: due lati della Natura.
Ora sembrerebbe che sia il primo lato della natura, il suo essere causa, ad esprimere la
sostanzialità della Sostanza: Hegel mostra invece che è in forza del secondo lato che la
Sostanza è tale. Il primo lato, afferma Hegel, è pura e semplice attività ma non è
sostanza: è la sostanza passiva a poterci condurre alla sostanza come cosa che è. E’ solo
perchè c’è un effetto che diciamo che una cosa è causa. Hegel utilizza il termine “substrat”
per richiamare la sostanza passiva: puro e seplice essere posto. Qui assistiamo ad un
passo centrale: se l’effetto è la condizione per cui la causa è causa, allora l’effetto è il
presupposto della causa. Quindi l’effetto si capovolge nel presupposto. Tale risultato, che
l’effetto è presupposto della sostanza, va però di pari passo secondo Hegel, con la verità
che l’effetto è comunque posto dalla causa. Ora nell’Assoluto hegeliano, causa ed effetto
esprimono una unica realtà: sono lo stesso, detto altrimenti la sostanza deve presupporsi
o porsi come sostrato immediato. Sin qui siamo dentro Spinoza. Ma proprio questa identità
dei due momenti, causa ed effetto, che identificano La sostanza ancora come una cosa
che sta, che permane, quello che resiste è solo il movimento: illl puro movimento del porsi
reciproco. Pura e semplice mediazione. Quindi, in conclusione, non c’è una cosa che pone
ed un posto che sta, che permane, piuttosto è solo l’azione del Porre che rimane. Spinoza
tine ferma la sostanza solo in quanto presuppone il movimento del Porre: la vera natura
della sostanza.
Filosofia della Spirito
La natura secondo Hegel, si presenta come una mescolanza di casualità e
necessità, questo perchè le singole distinzioni naturali si presentano come, de facto,
realmente contrapposti dato che un medesimo spazio non può essere occupato da due
entità differenti. In questo senso la natura non è immediatamente riconducibile ad un
sistema di leggi e classificazioni: da un lato le leggi naturali ma dall’altro la grossolanità
dell’accidentalità e molteplicità dei singoli fenomeni naturali.
Ora, più compitamente, lo Spirito si manifesta nella sua completezza e razionalità
nel momento del ritorno a sè dell’Idea, appunto il momento dello Spirito, l’ultima fase di
sviluppo dell’Assoluto in cui Esso prende posse sso della propria natura razionale e della
propria libertà106.
106
In effetti la staticità della natura, intesa come il semplice riprodursi biologico,
necessita di essere superato: l’Idea deve quindi manifestarsi completamente nello Spirito
che si attua concretamente nella storia. Ecco che allora l’esteriortà della natura viene
superata nel ritorno a sè dello Spirito dopo la sua esteririzzazione nella natura e come tale
rappresenta la sintesi di Idea e natura. Lo spirito dunque consiste nella presa di coscienza
di sè come oltrepassamento della realtà naturale e biologica che si compie nell’uomo. Egli
allora si comprende prima come semplice realtà biologica per poi compredersi come
vitalità universale. Ancora l’uomo si compreden come momento dell’Assoluto, momento
della razionalità universale che si manifesta nella vita del singolo individuandosi come
soggetto cosciente di sè. Potremmo anche dire che lo Spirito si esprime nell’umanità in
tutte le sue dimensioni.
Il processo dello spirito si esprime, come sempre nel procedere dialettico, in Spirito
soggettivo, ogggetivo ed Assoluto: coscienza individuale, fenomeni sociali e politici,
cultura (conoscenza di sè mediante le proprie realizzazioni). In particolare, nello Spirito
oggettivo, ossia nel processo storico del mondo umano, la libertà che lo spirito soggettivo
può solo volere, si realizza sebbene in modo finito.
La filosofia dello spirito oggettivo mira quindi a presentare la razionalità dello
sviluppo storico, finalisticamente orienato allo sviluppo dello spirito assoluto. Nello
specifico il mondo umano, al di là dell’accidentalità dei singoli accadimenti, presenta una
razionalità manifestata dal complesso dei fatti e degli stati di cose che accadono secondo
uno sguardo sub specie aeternitatis, proprio della ragione (semplice apparenza della
involuzione dei singoli fatti storici) e non dell’intelletto.
Dirito astratto, moralità ed eticità sono i momenti in cui si articola lo Spirito
oggettivo: conretamente senza società e senza stato, senza un sistema sociale, non
esisterebbero nè moralità nè diritto; d’altro cato uno Stato non sarebbe tale senza moralità
dei cittadini regolati nei loro rapporti dal Diritto. Come dire che la vera libertà non si
realizza astrattamente nella propria moralità che si oppone al mondo, ma solo
concretamente nelle istituzioni. Un esempio è costituito dalla famiglia, dalla società
civile e dallo Stato. Solo nello Stato infatti, o anticipatamente nella famiglia, l’individuo
diventa realmente libero. Ma cos’è dunque la libertà per Hegel? E’ volontà razionale, ed in
quanto tale universale: come dire che la volontà del singolo è capacità di perseguire
fini razionali (influsso kantiano) che si relizza compiutamente nello stato. L’azione
del singolo di attua quindi solo mediante leggi e principi universali che consentono al
singolo di vivere e così identificarsi nelle itituzioni che lo governano. Sebbene nella sfera
individuale sussita una volontà libera, solo nel tessuto collettivo, o meglio nello Stato etico,
essa si realizza. Solo nel tessuto sociale l’individuo si ri- conosce e riconosce il valore
dellle regole, in cui coglie la concreta realizzazione della propria essenza razionale ed
universale.
Per altro verso v’è da dire che Hegel respinge le teorie contrattualistiche in quanto
le considera espressione del diritto privato; nè la volontà popolare è assunta da Hegel in
senso positivo, piuttosto il “popolo senza il suo monarca è espressione informe”.
Cfr. Geymonat, cit. pagg. 807 e sgg.
La filosofia della storia107
107
Per Hegel la storia è mossa dalle passioni umane: amore, ambizione, vanità. Solo che gli uomini agiscono in
vista dei propri interessi gli uni verso gli altri: alla fine ciò che ne risulta, è qualcosa di diverso. La Storia ha un senso e
bisogna scoprirlo: a prima vista sembra un banco di macellaio, invece HEGEL ritiene che sia necesario trasformare
questo qualcosa in qualcosa di visibile. Una delle frasi più fraintese di Hegel recita: ciò che è razionale è reale e cio
In misura concreta, il fine della storia si attua attraverso le voceden degli stati, in
quanto gli spiriti dei singoli popoli sono momenti dell’unico spirito del mondo,
l’umanità, che si relizza nei singoli passaggi della storia. Ceto, secondo hegel, la
stpria si attua in modo conflittuale: il confronto bellico tra i popoli esprime
l’incarnazione dello spirito universale; la guerra designa un vincitore: punta
avanzata della razionalità in quel preciso momento storico. Come dire che la guerra
sancisce la decadenza di un popolo e l’ascesa di un altro attraverso singoli uomini
che, in modo non intenzionale, concorrono allo sviluppo dell’umanità.
Lo sviluppo dell’umanità, all’interno del procedere della storia, accade
attraverso la manifestazione della propria concezione della realtà la cultura. La
cultura in effetti, è l’insieme delle forme in cui un popolo manifesta la propria
concezione della realtà, ossia il pensiero estrinsecato in un contesto, sintesi del
che reale è razionale.
Hegel, con questa affermazione intende riferirsi alla storia, non tanto ad un qualcosa inteso come realtà
empirica, fattuale, bensì alla storia effettiva come depurata dalle nostre proiezioni: la storia va vista insomma come un
procedere razionale anche se attraversato da contraddizioni. Ed è la ragione, diversamente dall’intelletto che è
classificatorio, a contenere in sè delle contraddizioni-. Tali contraddizioni sono previste, incluse nella Dialettica inteso
come sviluppo mediante contraddizioni. Quindi lo sviluppo contraddittorio della Storia va studiato indipendentemente
dai nostri desideri e proiezioni. Quello di Hegel è quindi un richiamo al realismo. Ora, questo termine dialettica, mentre
in Kant significava una apparenza necessaria, in H. è l’introduzione del divenire nella realtà: dissoluzione della rigidità.
Questo perchè in H. Non c’è dissoluzione tra Pensiero e Mondo come in Kant. Anzi la Fenomenologia dello spirito è
quel percorso che porta alla ontologia. Al Logos che conosce l’essere ed all’essere che si può spiegare attraverso il
Pensiero.
Spesso di dice che H. distrugge il principio di non contraddizione. Ora in H. non si tratta di questo: nella
logica ad esempio, non posso pensare al Tempo come semplice unione di essere e nulla. Non si tratta nè dell’essere nè
del nulla, bensì della loro reciproca interazione come conservati e superati. Il pensiero dialettico è quindi il pensiero
della vita: senza usare categorie fisse.
D’altra parte il termine Dialettica è stato abusato. La Dialettica in H. è solo il momento dissolutivo mentre è la
speculazione il punto d’arrivo ossia il sapere Assoluto: gli uomini attraverso il pensiero capiscono la natura ma poi
l’uomo nel rappresentarsi le cose ritorna in se stesso. L’oggettività è ad esempio fare le istituzioni, poi l’oggettività non
mi basta perchè ho bisogno del riconscimento delle istituzioni. Lo spirito oggettivo è infatti la necessità, come il
denaro, la fabbrica, di vedere e toccare qualcosa per l’uomo. Noi ereditiamo allora le azioni degli altri in libri, quadri,
etc. Cio che era il nostro progetto si realizza e si trasmette. La filosofia ha il compito di capire come il nostro modo di
pensare sia venuto ad influire sulla realtà: i Pensieri agisono insomma sulla realtà concreta.
La filosofia, è presentata da H. - nel 1821 - come la civetta che ha grandi occhi per vedere nella notte: H. sa
che un’epoca storica si sta chiudendo e sta per aprirsene per aprisene un altra. La storia è quindi sempre al lavoro, quasi
esisitesse una talpa che lavora nella storia per produrre degli effetti concreti sulla società e sul singolo. Mentre la
filosofia guarda dunque, la Storia lavora: i tedeschi sono la civetta, i francesi la talpa che agisce.
La Storia però non basta, la cerniera tra spirito oggettivo ed assoluto. Ma cos’è lo sprito Assoluto: quella
specie di specchio su cui ognuno di noi si riflette per comprendere la realtà (Remo Bodei – Hegel e la dialettica)
Hegel utilizza il termine Dialettica intesa come attività di dissoluzione di ciò che rappresenta il Divenire
momento soggettivo ed oggettivo dello spirito. Le diverse espressioni della cultura
costituiscono infattti lo spirito assoluto: la consapevolezza della realtà di un
determinato tempo espressa via via nell’arte, nella religione e nella filosofia. Nello
specifico la filosofia, la propria filosofia secondo Hegel, rappresenta il punto di arrivo
dell’intera evoluzione dello spirito anche se la ragione non può negare che vi sia
sempre ancora la possibilità di un superamento, cioè del futuro, ma non è suo
compito conoscerlo.
La dottrina del Metodo: Einleitung – Introduzione alla fenomenologia dello
Spirito -1807
La Einleitung, cotituisce l’introduzione alla Fenomenologia dello Spirito ed
è correlata alla prefazione (Vorrede) della Fenomenologia sebbene scritta alla fine
dell’opera stessa. Una specie di sintesi della filosofia hegeliana. Essa si presenta
come una vera e propria Dottrina del metodo secondo Hegel: una dottrina che
sconfessa il metodo filosofico, ogni metodo, presente sino ad allora.
Secondo Hegel, nella Einleitung, c’è differenza tra scienza filosofica e filosofia ed
una sconfessione del metodo e della scienza filosofica. In una battuta, essa non è
quindi filosofia. Una presa diposizione contro Cartesio e soprattutto Kant.

Prima parte: contro il metodo in Filosofia

Seconda parte: ancora due parole sul metodo.
In ordine al primo pnto, afferma H., prima di affrontare la cosa stessa, la
conoscenza della verità dell’essere, sembra lecito chiedersi se il conoscere, lo strumento
utilizzato a conoscere la cosa stessa, sia idoneo a questo compito (riferimento a Kant, alla
prime pagine della Ragion Pura). La preoccupazione nasce dal saggiare lo strumento del
conoscere, se così non fosse
potremmo incappare nelle nubi dell’errore e non
raggiungere il cielo della verità.
Eppure questa preoccupazione per H. è insensata:
 Un primo pregiudizio a riguardo è relativo al fatto che il conoscere sia un
medio che filtra la realtà e ci dovrebbe far entrare in contatto con la realtà.
H.non è d’accordo108.
108
 Secondo aspetto pregiudiziale : che ci sia una differenza tra noi ed il
conoscere: noi siamo o saremmo dunque differenti dal conoscere e
dovremmo valutare lo strumento del conoscere in un modo non precisato.
 Terzo aspetto pregiudiziale, quello capitale: l’Assoluto, la realtà, sta da una
parte e la conoscenza dall’altra. La conoscenza non è forse reale? 109 Se la
cosa stessa, la realtà sono da una parte ed il conoscere dall’altra allora la
conoscenza non è vera. Se la conoscenza è intesa come mezzo allora
siamo già in difficoltà nel raggiungere le cose in se stesse. Ora questo
affacendarsi in tali discorsi ,secondo H., ha a che fare con il timore della
verità: scrive Hegel: “...non c’è bisogno di questi inutili discorsi, attraverso cui
sia dato scorgere la verità, (...) non c’è bisogno di quelle
scappatoie.”(Traduzione De Negri). Invece il primo compito della filosofia è
dare il concetto e la definizione di ciò di cui sta parlando (Aristotele).
Hegel esclude che noi siamo altra cosa dal conoscere, dalla verità: l’Assoluto ed il
Vero invece coincidono. Noi siamo110 già nella verità, viceversa se non fossimo nella
verità non ci entreremmo mai. Eppure non siamo l’Assoluto anche se noi siamo parti
Sini, La storia della conoscenza.Videolezione on line
109
Ibidem.
110
Ibidem.
della realtà, nel mondo, ci siamo già, questo non può essere rifiutato. Ma di nuovo, pur
essendo nell’Assoluto non siamo l’Assoluto. Piuttosto noi siamo nell’Assoluto, nella
differenza dall’Assoluto e nella differenza del sapere: siamo come il percorso della
coscienza e del sapere che sperimentiamo ogni giorno come caduco, come errore, come
differenza dall’Assoluto. Siamo dunque l’essere in errore. 111
Assistiamo dunque ad una rivoluzione: contro Kant che afferma che la metafisica è
densa di errori da secoli, Hegel afferma il contrario. L’errore e la verità, secondo Hegel,
sono dunque in qualche modo collegati, non stanno in due mondi separati.
Si tratta, dice Hegel, di un cammino tragico e doloroso: il cammino di una coscienza
che è errore (errare) che prosegue nel dubbio (figura dello scetticismo)che non può mai
essere abbandonato. Una coscienza che sperimenta il franare continuo del suo
fondamento: lungi da essere uno scandalo, questo continuo errare e sperimentare la
propria caducità è la stessa manifestazione dell’Assoluto.
Si tratta dice Hegel di uscire allora dal pregiudizio che stare nella verità sia uno
stare fermi, un possesso definitivo: una epistéme. La verità è invece movimento, dubbio,
divenire, dubbio ed incertezza. Il metodo filosofico non è quindi una intuizione (intuitus
mentis), un termine medio attraverso cui ci giunge la verità. NON è il termine medio, lo
strumento che ci consente di catturare la verità dunque.
Nel cammino del dubbio vi è poi un secondo punto: l’insufficienza del sapere non è
un risultato negativo. Quel negativo, quella negazione determinata non è il puro nulla
bensì l’esperienza che la coscienza fa del suo cammino e del suo sapere. L’intera Storia
della filosofia non è il luogo della sconfitta: è il luogo dellla sua vittoria invece, non è pura
negatività. E’ il luogo del suo calvario e della sua resurrezione. Ed ecco allora che le nubi
dell’errore non devono diradare: sono questo cielo della verità ed hanno una realtà,
seppure parziale. Scrive H.: “ Il sapere è necessariamente inerente la meta, non meno
che la serie del processo, la meta è là dove il sapere non ha più bisogno di andare oltre se
stesso. (...) la coscienza è per se stessa il suo concetto. Ed è quindi l’atto del sorpassare il
limitato e poichè questo limitato gli appartiene, del sorpassare se stessa.” (Tr. De Negri)
111
Ibidem.
Ora, le figure del sapere, procedono di nube in nube vaneggiando la verità:
pretendendo ognuna di essere la verità, nella sua parzialità. Ecco che allora l’oggetto del
sapere continuamente muta: in quanto l’Assoluto si manifesta senz’altro nel particolare,
senza però esaurirsi nel particolare 112. Dunque il percorso del sapere filosofico e della
coscienza
112
Ibidem.