LO STERMINIO DEGLI EBREI IN URSS E IN POLONIA NELLA STORIOGRAFIA RECENTE Materiale a cura di F.M. Feltri DALL’EUTANASIA ALLO STERMINIO DEGLI EBREI IN POLONIA: LA AKTION T4 Esiste un legame diretto tra la campagna di eutanasia dei malati di mente e degli handicappati tedeschi, da una parte, e il giudeicidio, dall’altra. Per la prima volta, il regime nazista decise di risolvere un problema con le esecuzioni di massa; a questo fine, venne preparato un gruppo specifico di funzionari (che si abituarono a procedure omicide su vasta scala) e una tecnica (l’uccisione con il monossido di carbonio), che sarebbero poi stati trasferiti a Est, nel 1942. Hadamar, Grafeneck, Brandenburg, Hartheim, Sonnenstein, Bernburg: nessuno di questi nomi si è radicato nella memoria collettiva come quelli di Auschwitz o di Treblinka. Tuttavia, sono i nomi dei primi centri di annientamento. Vi furono liquidati infermi e portatori di handicap, malati di mente e depressi, marginali e detenuti dei campi di concentramento. Qui i nazisti misero in funzione le prime camere a gas, che, tra l’autunno del 1939 e l’state del 1941, servirono a uccidere quasi 70 000 persone, essenzialmente tedeschi, la cui <<vita era inutile>>, secondo i criteri del regime. La genesi di questo massacro ci interessa per una duplice ragione: perché ci è restato l’ordine che di esso diede Hitler, a partire dall’ottobre 1939, e perché Reinhard Heydrich fu implicato nella sua attuazione. Cominciata nell’ottobre 1939, la prima fase dell’operazione detta di eutanasia venne proseguita fino all’inizio dell’autunno del 1941. Era diretta da un ufficio ubicato al n. 4 della Tiergartenstrasse, a Berlino, da cui il nome in codice dell’operazione di annientamento: T4. Quando la Aktion T4 venne sospesa, il suo personale non dovette aspettare molto per essere reimpegnato. Il 25 ottobre 1941 Erhard Wetzel, incaricato della <<questione razziale>> alle dipendenze di Alfred Rosenberg, ministro per i territori occupati dell’Est, scriveva a Hinrich Lohse (1896-1964), Reichskommissar dell’Ostland [distretto comprendente i tre Paesi Baltici e parte della Bielorussia, della Russia e dell’Ucraina, occupate nel 1941 – n.d.r.], che si poteva prendere in considerazione l’idea di liberare l’area dagli <<ebrei inabili al lavoro>>. Infatti: <<… Herr Brack, Oberdienstleiter della Cancelleria del Führer, ha già fatto sapere di essere pronto a predisporre edifici e installazioni per la gassazione>>. Viktor Brack (1904-48), sin dall’autunno 1939, aveva dato assicurazioni a tutta l’amministrazione della Aktion T4 da parte della Cancelleria del Führer. E Wetzel aggiungeva che <<lo Sturmbannführer Eichmann, specialista di questioni ebraiche presso l’RSHA [= l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, diretto da R. Heydrich – n.d.r.] >> era d’accordo perché il procedimento venisse impiegato a Riga o a Minsk, dove si prevedeva, in quella data, di allestire campi di lavoro per gli ebrei deportati dalla Germania. Alla fine, nel novembre 1941, fu più a sud che vennero inviati i cento funzionari della Aktion T4, incaricati di lavorare con Odilo Globocnik (1904-45) e Adolf Eichmann alla progettazione e all’edificazione di Belzec in Polonia. A metà dicembre furono raggiunti dal primo comandante del campo di annientamento, Christian Wirth (1885-1944), che aveva contribuito a mettere a punto i procedimenti di eliminazione degli infermi e dei portatori di handicap a Brandenburg nel gennaio 1940, per poi occuparsi di compiti amministrativi a Hadamar e Hartheim. Si era ancora in fase sperimentale quando si tenne la conferenza di Wannsee. Si trattava di rendere quantitativamente più efficienti i metodi di uccisione che erano stati praticati sui malati mentali. A metà marzo 1942 il procedimento fu messo in funzione per gli ebrei del Governatorato Generale. In effetti, dal mese di aprile 1941, l’organizzazione T4 aveva cominciato a pianificare una Aktion 14f13, il cui bersaglio era la <<popolazione inadatta al lavoro>> dei campi di concentramento. Poiché nel contempo tale trattamento cominciava a venir applicato agli ebrei dei ghetti polacchi e poi, a partire dall’autunno, agli ebrei deportati del Reich, la pratica dell’eutanasia finì col convergere con la <<soluzione finale della questione ebraica>>, dando origine ai campi di annientamento, Belzec, Sobibor e Treblinka ebbero inizialmente comandanti provenienti dalla Aktion T4 – e pagati sul bilancio di questa. Un’altra istituzione, la Kriminalpolizei di Heydrich, non era da meno. Nell’agosto 1941 Arthur Nebe (18941945), direttore del Reichskriminalpolizeiamt e capo dell’Einsatzgruppe B, e Albert Widmann, del Kriminaltechnischer Institut, che aveva messo a punto i procedimenti di gassazione per i centri di eutanasia in Germania, furono invitati da Himmler a immaginare sistemi di assassinio diversi dalla fucilazione, da utilizzare sul territorio sovietico occupato per eliminare ebrei, asiatici, malati mentali e menomati; Widmann perfezionò progressivamente il modello del camion a gas. a fine ottobre 1941 Herbert Lange, della Kripo [= Polizia criminale – n.d.r.], si installo a Chelmno con il suo commando SS che aveva effettuato operazioni omicide in Polonia, indipendentemente dalla Aktion T4, ma nel quadro della politica di eutanasia voluta dal Führer. Qui le uccisioni cominciarono ancor prima che a Belzec, a partire dal 5 dicembre 1941. Fu la guerra a rivelare il volto totalitario del nazismo, creando le circostanze favorevoli alla realizzazione dei progetti genocidi generati dalla giudeofobia, dal razzismo e dall’eugenismo. Il pretesto invocato quando si cominciò a parlare di eutanasia fu quello di <<liberare letti>> per i feriti di guerra. si trattava anche – ed era un’ossessione del dittatore che sarebbe arrivata al parossismo in occasione della campagna contro l’Urss e della messa a morte dei prigionieri di guerra sovietici – di eliminare le bocche inutili. Esiste un testo, firmato di suo pugno da Hitler, antidatato al 1° settembre 1939 – giorno dell’inizio delle ostilità con la Polonia – che autorizzava l’effettuazione dell’eutanasia. Ma si ha a che fare, come sempre sotto il Terzo Reich, con un processo in cui vennero prese molteplici iniziative nel quadro fissato dal Führer, solo in seguito coordinate. Nel gennaio 1939, come già era capitato numerose volte, alcuni genitori si erano rivolti al Führer – la posta arrivava nella sua <<cancelleria personale>> – chiedendo di abbreviare le sofferenze dei loro figli malformati, e il dittatore aveva immediatamente incaricato Karl Brandt, uno dei suoi due medici personali, e Philipp Bouhler, capo della sua Cancelleria, non soltanto di dare seguito alla richiesta, cosa che era già avvenuta, ma di lanciare un processo più globale di selezione ed eliminazione delle <<vite non degne di essere vissute>>. È interessante notare la simultaneità di questo avvenimento con il discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939 in cui si annunciava il genocidio degli ebrei d’Europa in caso di guerra. Nel febbraio 1939 Brandt e Bouhler radunarono un gruppo di medici con l’incarico di ipotizzare una procedura di eliminazione dei bambini menomati. […] Sempre al ministero degli Interni, il Segretario di Stato alla Sanità Leonardo Conti (1900-45) […] aveva rapidamente preso in mano la questione dell’eliminazione degli adulti con handicap. Nel regime a esecuzione decentrata quale fu il Terzo Reich, chiunque volesse accrescere il proprio potere doveva affermare la propria autorità in un campo che investisse il cuore dell’ideologia hitleriana. Bormann, capo di gabinetto di Hess (e più tardi capo della Cancelleria del Partito) – e dunque rivale di Bouhler – si alleò con Leonardo Conti per giocare anche lui un ruolo nel processo. La rivalità era tanto più forte vista che ciascuno dei due attori voleva apparire come quello che lavorava meglio <<nella direzione del Führer>>. Fu una gara tra organismi del Partito e dello Stato che contribuì all’allargamento della cerchia degli individui coinvolti: dopo i bambini e gli adulti con handicap, furono presi di mira anche i malati colpiti da cancro, tubercolosi e arteriosclerosi. (É. Husson, Heydrich e la soluzione finale. La decisione del genocidio, Torino, Einaudi, 2010, pp. 35-38. Traduzione di M. Marchetti) <<LAVORARE IN FUNZIONE DEL FÜHRER>> Il discorso seguente fu pronunciato da un funzionario nazista di medio livello (Werner Willikens) il 21 febbraio 1934. La sua importanza consiste nel fatto che la formula <<lavorare per il Führer>> sintetizza in modo esplicito quanto il regime si aspettava dai suoi uomini: agire tenendo conto degli obiettivi finali dell’ideologia nazista, in tutte quelle situazioni in cui gli ordini delle autorità non erano chiari o completi. Chiunque abbia la possibilità di osservarlo sa che il Führer non può certo dettare dall’alto tutto ciò che intende prima o poi realizzare. Al contrario, chiunque oggi rivesta un incarico nella nuova Germania ha lavorato nel modo migliore quando ha, per così dire, lavorato in funzione del Führer. Molto spesso e in campi diversi vi sono stati casi – come pure negli anni passati – nei quali gli individui hanno semplicemente atteso ordini e istruzioni. La stessa cosa, purtroppo, potrebbe ripetersi in futuro; dovere di ciascuno è però cercare di lavorare in funzione del Führer lungo le linee che egli vorrà. Chi commette errori lo capirà molto presto. Ma chiunque lavori veramente in funzione del Führer seguendo le sue linee e per i suoi obiettivi, un giorno, oggi o nel futuro, certamente avrà la migliore ricompensa in un inatteso riconoscimento ufficiale del suo lavoro. (I. Kershaw, << ”Lavorare in funzione del Führer”: riflessioni sulla natura della dittatura di Hitler>>, in I. Kershaw – M. Lewin (a cura di), Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, Roma, Editori Riuniti, 2002, p. 139. Traduzione di F. Buzza) I PROBLEMI LEGATI AL RIMPATRIO DEI VOLKSDEUTSCHE Inizialmente, numerose delle decisioni più gravi del Terzo Reuch furono legate alla scelta di richiamare in patria il maggior numero possibile di Volksdeutsche, i tedeschi che, in gran numero, vivevano fuori dai confini della Germania e soprattutto in territori controllati dall’URSS. Si creò così una situazione paradossale in cui mancava sempre spazio per qualcuno e qualcun altro doveva essere – nei progetti nazisti – spostato e reinsediato <<più ad Est>>. Infine, si decise che, per gli ebrei, la soluzione più rapida era quella dello sterminio. All’inizio del mese di ottobre del 1939 Heinrich Himmler venne posto alla guida del RKFV (Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums – Commissariato del Reich per il rafforzamento della nazionalità tedesca), e senza perdere tempo avviò una politica di insediamenti e reinsediamenti di vasta portata, che da un lato mirava a espellere la popolazione autoctona di etnia polacca e gli ebrei dai territori annessi, dall’altro aveva come obiettivo il reinsediamento all’interno dei confini del Reich dei tedeschi del Baltico <<rientrati in patria>> e il trasferimento nei territori incorporati degli altri gruppi di tedeschi provenienti dall’Europa centro-orientale e orientale. Una politica, quella di Himmler, che era la conseguenza del ritorno, sancito dal trattato d’amicizia e di demarcazione dei confini tra Germania e l’Unione Sovietica siglato il 28 settembre 1939, delle minoranze tedesche che ricadevano nella sfera d’influenza di Mosca. Nei mesi successivi, il fatto di dover agire i fretta, che fu un’inevitabile conseguenza dell’intesa con l’Unione Sovietica <<voluta>> in pratica dallo stesso governo del Reich, avrebbe influenzato in modo determinante la politica in tema di questione ebraica. L’assoluta necessità di trovare nel giro di poco tempo abitazioni e posti di lavoro per diverse centinaia di migliaia di immigrati – cosa che si sarebbe dovuta ottenere mediante la confisca dei beni di proprietà di polacchi ed ebrei e il reinsediamento forzato dei contadini polacchi – fu un fattore che contribuì notevolmente all’intensificazione della persecuzione antiebraica, anche se le misure adottate furono dirette in primo luogo contro gli agricoltori, gli artigiani, i commercianti e i piccoli industriali polacchi. Il programma di reinsediamenti di Himmler funse quindi da catalizzatore al fine di accelerare l’eliminazione degli ebrei in primo luogo dai territori incorporati e in seguito dallo stesso Reich e dal Protettorato di Boemia e Moravia. Fino ad allora, i pianificatori dello SD [i servizi segreti delle SS – n.d.r.] non avevano preso in considerazione la possibilità di effettuare deportazioni su vasta scala, ma da quel momento in poi il ricorso a tale metodo si generalizzò, anche perché apparve il più ovvio per far uscire la soluzione della questione ebraica dalle secche in cui si trovava. L’effetto di radicalizzazione indotto dalla <<ricomposizione fondiaria>> su base etnica voluta da Himmler si manifestò anche nel fatto che gli uffici incaricati del reinsediamento dei Volksdeutsche non ebbero timore, per mettere a disposizione gli ospedali e gli ospizi necessari, di far ricorso all’<<eutanasia>>, ciò che fecero chiedendo l’intervento del personale impiegato nell’attuazione del programma T4 (dall’indirizzo di Berlino – Tiergartenstrasse 4 – dove avevano sede gli uffici preposti alle operazioni). Come Götz Aly ha mostrato, nel quadro del <<programma di reinsediamento>> le SS eliminarono più di diecimila malati di mente, prima nella vasta zona comprendente le città portuali di Danzica, Swinemünde e Stettino e poi nel Warthegau. La stretta relazione fra le misure di eutanasia e il programma di reinsediamento è evidente, anche se i diretti interessati non hanno lasciato dietro di sé praticamente nulla di scritto, e inoltre manca, in merito alle misure adottate, un ordine formale. Nel periodo in questione, all’interno dei confini del Reich l’attuazione del programma di eutanasia era solo all’inizio, e tutto lascia ritenere che anche a questo riguardo la politica di reinsediamento abbia notevolmente contribuito alla sua accelerazione. Per preparare il previsto <<rientro in patria>> dei tedeschi del Baltico, il 30 ottobre 1939 Himmler ordinò l’espulsione di circa 500 mila ebrei e polacchi dal Warthegau, da Danzica e dalla Prussia occidentale. In base al suo ordine, gli ebrei avrebbero dovuto essere deportati in un non meglio precisato territorio di reinsediamento compreso tra la Vistola e il Bug, mentre tutte le misure finalizzate allo scopo avrebbero dovuto essere eseguite entro il febbraio del 1940. Entrambe le disposizioni si rivelarono del tutto inattuabili, dal momento che non c’erano sufficienti mezzi di trasporto disponibili e, soprattutto, spostamenti di popolazione di quest’ordine di grandezza non potevano essere attuati in tempi così rapidi. Heydrich [responsabile della polizia del Terzo Reich e suprema autorità delle SS, subito dopo Himmler – n.d.r.], quindi, si vide costretto a ridimensionare le direttive emanate, e il 28 novembre intervenne da Berlino ordinando, sotto forma di piano a breve termine, la deportazione nel Governatorato generale di 80 000 persone dalle province occidentali polacche già annesse. […] Götz Aly ha mostrato che l’operazione di trasferimento che ebbe luogo a Stettino tra il 12 e il 13 febbraio 1940 – operazione che coinvolse quasi tutta la locale comunità ebraica e più di 1100 persone – venne concepita e portata a termine soprattutto con uno scopo: fare in modo che i Volksdeutsche potessero trovare una qualche occupazione legata al mare. Gli stessi treni già utilizzati per trasportare a Stettino i coloni furono impiegati anche per la deportazione degli ebrei, che ebbe luogo in condizioni a dir poco terribili e provocò un gran numero di vittime. Non molto diversamente andarono le cose un mese più tardi, quando si procedette alla deportazione di 160 ebrei da Schneidemühl. La crescente opposizione di Hans Frank alle deportazioni nel Governatorato generale impedì in pratica a Heydrich, che pure inizialmente aveva potuto contare sull’appoggo di Himmler, di attuare il secondo piano a breve termine, che prevedeva la deportazione di 220 mila ebrei e polacchi dai territori incorporati. I programmi ancora più ambiziosi che prevedevano nel lungo periodo la deportazione e il reinsediamento di circa tre milioni e quattrocentomila polacchi si rivelarono nient’altro che chimere. Se si eccettuano le deportazioni da Stettino e da Scheidemühl, il trasferimento nel Governatorato generale venne prima bloccato e alla fine anche vietato con un decreto di Göring del 23 marzo 1940 con cui la rinuncia al piano veniva messa in relazione con la concentrazione degli ebrei nella regione di Lublino. (H. Mommsen, La soluzione finale. Come si è giunti allo sterminio degli ebrei, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 104-107. Traduzione di E. Morandi) IL GHETTO DI VARSAVIA Nel 1940, dopo aver occupato la Polonia, le autorità tedesche ordinarono che tutti gli ebrei della zona occupata dovevano risiedere in appositi quartieri speciali recintati. Fame, sovraffollamento e malattie furono i tratti più tipici di questi nuovi ghetti. L’autrice di questa pagina, Mary Berg visse l’invasione tedesca dapprima a Lodz, poi a Varsavia. Stese il suo diario tra il 1939 e il 1944. Nel gennaio 1943, tuttavia, l’autrice riuscì ad uscire dal ghetto. Infatti, poiché sua madre era cittadina americana, Mary Berg e la sua famiglia furono trasferite in Francia, per essere scambiate con alcuni ufficiali tedeschi catturati dagli Alleati. 15 novembre 1940 Oggi è stato ufficialmente istituito il ghetto. È vietato agli ebrei uscire dai confini formati da certe strade. C’è molta agitazione in giro. I nostri circolano nervosamente per le strade sussurrandosi notizie, le une più fantastiche delle altre. Sono già cominciati i lavori del muro, che sarà alto tre metri circa. Muratori ebrei, sorvegliati da soldati nazisti, posano un mattone sull’altro. Quelli che non lavorano con sollecitudine vengono frustati dai sorveglianti. Penso alla descrizione biblica della nostra schiavitù in Egitto. Ma dov’è il Mosè che ci libererà dai nostri nuovi ceppi? Nelle vie dove il traffico non è stato bloccato completamente, stazionano sentinelle tedesche. Tedeschi e polacchi hanno il diritto di entrare nel quartiere chiuso, ma senza potervi introdurre alcun pacco. Lo spettro della fame opprime tutti. 20 novembre 1940 Le strade sono vuote. Riunioni straordinarie si svolgono in tutte le case. La tensione è spaventosa. Alcuni, i giovani soprattutto, chiedono che venga organizzata una protesta. Ma gli anziani considerano pericolosa l’idea. Siamo tagliati fuori dal mondo: non abbiamo più radio, telefoni e giornali. Solo gli ospedali e i posti di polizia polacchi situati entro il ghetto possono comunicare telefonicamente con l’esterno. Gli ebrei che vivevano nel lato ariano della città hanno avuto l’ordine di trasferirsi nel ghetto entro il 12 novembre. Molti hanno atteso l’ultimo momento perché speravano di poter indurre i tedeschi, con la corruzione o con le proteste, ad abrogare il decreto del ghetto. Ma non essendosi verificato ciò, molti dei nostri sono stati costretti ad abbandonare su due piedi i loro appartamenti lussuosi e sono giunti nel ghetto portandosi soltanto alcuni fagotti. Le ditte cristiane entro i confini del quartiere ebraico isolato sono autorizzate a rimanere temporaneamente, se possono dimostrare di avervi la loro sede da almeno venticinque anni. Molte fabbriche polacche e tedesche sono situate entro il ghetto e grazie ai loro operai e impiegati, abbiamo qualche contatto con il mondo esterno. […] 12 giugno 1941 Il ghetto va affollandosi sempre più; abbiamo in questo momento un afflusso costante di nuovi rifugiati. Si tratta di ebrei della provincia che sono stati spogliati di tutte le loro proprietà. La scena che si svolge al loro arrivo è sempre uguale: la guardia al cancello controlla l’identità del rifugiato e se scopre che è un ebreo gli dà uno spintone col calcio del fucile: segno che è autorizzato a entrare nel nostro Paradiso… Questi disgraziati sono laceri e scalzi, con gli occhi tragici di chi muore di fame. Sono in gran parte donne e bambini. Affidati alla carità pubblica, vengono inviati nei cosiddetti asili, dove presto o tardi morranno. Mi sono recata a visitare uno di questi rifugi. Una casa squallida, che stringe il cuore. Le parete delle stanze sono state abbattute per formare grandi sale: non ci sono bagni, né gabinetti, le condutture sono distrutte. Lungo le pareti sono allineate delle brande fatte di tavole coperte di stracci. Si vede qua e là qualche sudicio piumino. Ho visto coricati sul pavimento bambini sporchi, seminudi, scossi da un pianto convulso. In un angolo era seduta, in lacrime, una deliziosa bambina di quattro o cinque anni. Non ho potuto impedirmi di accarezzarle i capelli biondi spettinati, La bambina mi ha guardato con i suoi grandi occhi azzurri e mi ha detto: <<Ho fame>>. Ho provato un sentimento di profonda vergogna. Quel giorno io avevo mangiato, ma non avevo con me un pezzo di pane da darle. Mi sono allontanata senza più osare guardarla in faccia. Durante la giornata, il gruppo degli adulti esce a cercare lavoro. I bambini, gli ammalati e i vecchi rimangono stesi sui loro giacigli. C’è in questi asili gente di Lublino, Radom, Lodz e Piotrkow: di tutte le province insomma. Hanno tutti da raccontare terribili storie di violenze e di esecuzioni in massa. E’ impossibile capire perché i tedeschi permettano a tutta questa gente di stabilirsi nel ghetto di Varsavia che contiene già quattrocentomila ebrei. La mortalità è in continuo aumento. Solo l’inedia uccide da quaranta a cinquanta persone al giorno. Ma centinaia di nuovi rifugiati ne prendono di nuovo il posto. La comunità non ha mezzi per intervenire. Tutti gli alberghi sono gremiti e le condizioni igieniche trascuratissime. Il sapone è introvabile; ciò che si distribuisce col nome di sapone è una massa viscida che si disgrega appena entra in contatto l’acqua, che sporca invece di pulire. Una delle piaghe del ghetto sono i mendicanti, che continuano a moltiplicarsi. Alcuni rifugiati non hanno più amici né parenti e non riescono nemmeno a trovare posto negli spaventosi asili fondati dalla Comunità. Costoro dedicano i primi giorni dopo l’arrivo alla ricerca di un lavoro. La notte dormono sulle soglie delle porte, cioè nella stradaQuando le loro forze si esauriscono e i loro piedi gonfi rifiutano di sostenerli, siedono sull’orlo dei marciapiedi o si appoggiano a un muro e chiedono la carità con gli occhi aperti. Quando il morso della fame si fa più crudele, cominciano a piangere… e così prendono vita i cosiddetti mendicanti rabbiosi… Alcuni buttano loro venti groszy o perfino mezzo zloty, ma con somme così piccole non si può acquistare niente. (M. Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944), Torino, Einaudi, 1991, pp. 31-34 e 66-68. Traduzione di M. Martone) ORDINI DALL’ALTO E INIZIATIVA DAL BASSO La maggior parte degli storici, al momento attuale, non accetta più le posizioni estreme denominate intenzionalismo e funzionalismo. Nel primo caso, tutto era deciso ai massimi livelli, a Berlino, da Hitler e Himmler; nel secondo modello esplicativo, l’accento era posto prevalentemente su quanto accadeva a livello locale, lasciando in ombra, di fatto, l’esistenza stessa di un processo decisionale. L’approccio più recente media e integra le due prospettive. Sia i pubblici ministeri del processo di Norimberga che cercarono di far condannare, oltre ai principali dirigenti nazisti, anche alcune cosiddette organizzazioni criminali, sia le argomentazioni degli avvocati difensori, che si richiamarono invariabilmente alla cogenza [= situazione di obbligatorietà, tale per cui era del tutto impossibile disobbedire – n.d.r.] di determinati ordini, crearono un’immagine del dittatoriale Stato delle SS hitleriano che lo presentava come un meccanismo il quale condusse – dall’alto – alla Soluzione Finale. Uno dei più grandi contributi della magistrale opera di Raul Hilberg, pubblicata per la prima volta nel 1961, consisté nella descrizione di una <<macchina di distruzione>> molto più vasta, che <<non era diversa strutturalmente dal complesso della società tedesca organizzata>>. Inoltre, i quadri burocratici che formavano quella macchina di distruzione non furono dei semplici recettori passivi di ordini impartiti dall’alto. Ispirati da un’Erlebnis [= sete d’avventura e disponibilità a nuove esperienze – n.d.r.], dall’inebriante esperienza di essere artefici di storia, e armati di una serie di razionalizzazioni e di regole linguistiche, i burocrati assassini furono degli innovatori e dei solutori di problemi. <<Con un’inquietante abilità nel ritrovare la strada>>, concludeva Hilberg, <<quella burocrazia toccò, in direzione dello scopo finale, la linea più diretta>>. Nell’edizione riveduta dell’opera di Hilberg, pubblicata nel 1985, le componenti periferiche del meccanismo di distruzione da lui descritto diventarono ancora più autonome, e minore rilievo assunse il ruolo decisionale di Hitler e dei principali gerarchi nazisti. L’interesse di Hilberg si concentrò assai più sul modo in cui il sistema operava a livello locale, che non sulla cronologia delle decisioni di vertice e sull’evoluzione dei comportamenti politici delle superiori gerarchie. Egli sostenne che, nel corso del tempo, la struttura delle leggi e dei regolamenti scritti finì col dissolversi in una rete sempre più opaca di direttive segrete, vaghe autorizzazioni, comunicazioni orali, e fondamentali intuizioni da parte dei funzionari, che si traducevano in decisioni le quali non avevano alcun bisogno di ordini o di spiegazioni. In questo regime informale – concludeva Hilberg – un burocrate di medio livello, non diversamente dal suo superiore più alto in grado, conosceva l’esistenza di varie tendenze e possibilità. Nelle piccole come nelle grandi cose, sapeva riconoscere ciò che ormai era richiesto dalla situazione; molte volte era lui stesso che dava inizio all’azione. <<In ultima analisi, la distruzione degli ebrei non si realizzò solo in esecuzione delle leggi e degli ordini, ma come conseguenza di una disposizione dello spirito, di un accordo tacito, di una consonanza e di un sincronismo>>. Quando Hilberg pubblicò la sua edizione riveduta, la disputa fra intenzionalisti e funzionalisti era giunta al culmine, e molti studiosi concentravano la loro attenzione proprio su ciò che Hilberg stava in qualche modo svalutando, cioè sulla cronologia del processo decisionale e sull’evoluzione politica delle gerarchie centrali, nonché sul ruolo che in tutto questo ebbero Hitler e la sua ideologia: un argomento, a mio parere, molto importante al quale ho dedicato le prime due lezioni di questa serie. Ma attualmente molti giovani studiosi, soprattutto in Germania, stanno producendo nuovi importanti studi di carattere regionale, basati sia sulla larga utilizzazione degli archivi, recentemente aperti, dell’Europa orientale, sia sull’esplorazione di un certo numero di carte processali tedesche finora trascurate. Questi studi riprendono i temi di Hilberg: l’importanza delle iniziative locali, il tacito consenso da cui erano circondate, e l’ampia partecipazione di tutto il personale di occupazione agli eccidi. Oltre alla ripresa di questi temi, è stato dato particolare rilievo alle notevoli varianti esistenti fra regione e regione, che sembrano sminuire la centralità degli orientamenti politici imposti in modo uniforme dagli ordini provenienti dall’alto. Queste ricerche di carattere regionale, con le loro minuziose indagini empiriche e le loro acute interpretazioni, stanno dando un grande contributo agli studi sull’Olocausto. Ma vorrei esprimere, in proposito, una certa cautela. Le iniziative locali furono certamente importanti, ma lo furono anche le esortazioni, le istigazioni e gli ordini espliciti che venivano dall’alto. Vi fu spesso un consenso, sull’uccisione degli ebrei, da parte di una pletora [= un numero altissimo – n.d.r.] di autorità di occupazione tedesche a livello locale – SS, amministrazione civile, autorità tedesche d’occupazione –; ma vi furono anche discordie fra organismi tedeschi rivali e conflitti fra differenti priorità. In definitiva, per quanto importanti fossero i fattori locali per le varianti che localmente furono adottate nel processo di realizzazione della Soluzione Finale, gli orientamenti politici generali del regime nazista fissarono non solo gli obiettivi che le autorità tedesche locali dovevano perseguire, ma anche i parametri entro i quali esse erano libere di operare. (C. Browning, Procedure finali. Politica nazista, lavoratori ebrei, assassini tedeschi, Torino, Einaudi, 2001, pp. 121123. Traduzione di A. Serafini) L’APPROCCIO ANTROPOLOGICO DI CHRISTIAN INGRAO Christian Ingrao ha proposto un’interessante analisi dei meccanismi mentali degli assassini che hanno proceduto alle fucilazioni di massa in URSS, negli anni 1941-1942. A suo giudizio, è fondamentale tener conto del fatto che le esecuzioni ebbero luogo in due fasi, in due tappe. In un primo momento, quando furono eliminati i maschi adulti, il massacro fu giustificato affermando che gli ebrei/bolscevichi erano esseri animaleschi, selvaggi e bestiali, da cui bisognava difendersi; in un secondo tempo, quando lo sterminio investì anche donne e bambini, assumendo carattere sistematico, l’immagine negativa dell’ebreo – paradossalmente – si attenuò: l’omicidio perse i caratteri della caccia ed assunse quelli (seriali) del macello. In Austria, nei Sudeti e in Cecoslovacchia – fasi principali dell’espansione dell’imperium nazista durante le quali i gruppi furono organizzati per la prima volta con tali ordini – le pratiche degli Einsatzgruppen costarono la vita al massimo a qualche centinaio di persone per ogni caso. Non bisogna evidentemente sottovalutare la violenza mostrata dagli attivisti nazisti e poliziotti dei gruppi: molti oppositori del regime scelsero di suicidarsi per evitare di cadere nelle loro mani. Ciò non toglie che le cifre delle esecuzioni sono incomparabilmente più basse in questi casi specifici che durante l’impiego degli Einsatzgruppen nelle campagne di Polonia e d’URSS. Sebbene i gruppi operanti in Polonia uccisero più di 10 000 persone, è solo in URSS che gli Einsatzgruppen diventarono veramente gli strumenti di una politica genocidiaria e uccisero, solo negli ultimi sei mesi del 1941, quasi 550 000 persone. Se si suddivide questa cifra in base al numero di uomini e al periodo di attività dei gruppi per avere un’idea della frequenza statistica della pratica dell’assassinio, si constata che, se le vittime fossero ripartite regolarmente nel tempo e per persona, ogni membro dei gruppi [complessivamente, secondo le stime di Ingrao, i quattro Einsatzgruppen comprendevano circa 2100 uomini – n.d.r.] avrebbe ucciso una persona al giorno per sei mesi. Questa cifra, anche se per la sua rappresentatività statistica è discutibile, costituisce un prezioso indice di valutazione della familiarità con l’esecuzione dei membri dei gruppi. Pratica molto frequente e, ancora più sicuramente, spettacolo quotidiano, quest’ultima era quindi onnipresente nel loro universo mentale, individuale e collettivo. Ciò non toglie che la linearità statistica di questa cifra, che non può che essere relativa e non corrisponde ad alcuna realtà – certi membri dei gruppi non hanno mai ucciso, e altri hanno ucciso molto di più e molto più sovente – non deve mascherare la nettissima evoluzione nel tempo di queste pratiche di violenza. L’evoluzione del massacro perpetrato dai gruppi è segnata da due caratteristiche. La prima è l’allargamento degli obiettivi. All’inizio, i commando non giustiziano che uomini, adulti o adolescenti. Non riguardando nelle prime due settimane di conflitto che degli insiemi di vittime relativamente ridotti, la pratica omicida dei gruppi tende a estendersi e a diventare sistematica durante il mese di luglio 1941. L’EK 3 [Einsatzkommando 3: i quattro reparti operativi erano divisi in sottogruppi, denominati Sonderkommandos o Einsatzkommandos – n.d.r.] commando dell’ Einsatzgruppe A che ha lasciato un elenco giornaliero delle esecuzioni effettuate, costituisce un osservatorio ideale di questa evoluzione. Dopo due esecuzioni particolarmente massicce, il giorno dell’installazione a Kovno (Kaunas, Lituania) e l’indomani, durante le quali vengono giustiziati rispettivamente 463 e 2514 ebrei al Forte VII (opera di fortificazione di epoca della Russia zarista, trasformata dall’SK 1b [Sonderkommando 1b – n.d.r.] in campo di concentramento e di esecuzione per la popolazione ebraica), il gruppo sopprime una trentina di ebrei al giorno tra il 7 e il 19 luglio 1941. A partire dal 21 luglio e per una settimana, il numero di esecuzioni giornaliere si eleva a un centinaio d’individui, poi a 300 al giorno per un’altra settimana, per raggiungere, durante quella dal 7 al 14 agosto 1941, la cifra di 500 vittime. Durante questa fase, il gruppo mira in modo sempre più sistematico agli ebrei adulti, che formano il grosso del contingente di vittime. Una seconda categoria interessa tuttavia questo bilancio così preciso del colonnello SS: si tratta delle donne. Esse non fanno parte delle vittime designate negli ordini di Heydrich. Largamente escluse dal mondo del combattimento, esse non sono neppure l’oggetto delle fucilazioni sommarie iniziali. Tuttavia, a partire dal 9 luglio, l’EK 3 comincia a giustiziare in numero limitato delle donne, ebree o lituane comuniste. Queste esecuzioni, che non riguardano ai più di 20 persone, sono operate in modo regolare a partire dal 18 luglio, cioè alla fine di un primo stadio di sistematizzazione delle fucilazioni degli uomini. A partire dal 1° agosto, le donne saranno giustiziate a gruppi di 50 e aumentano regolarmente nella settimana dall’8 al 15 agosto. Quello che notiamo, parallelamente alla sistematizzazione delle pratiche di uccisione di adulti di sesso maschile, è una forma progressiva di allargamento dello spettro delle vittime, specchio dell’assuefazione al massacro degli uomini del commando che, nel selezionare le loro vittime, trasgrediscono sempre più frequentemente la barriera del genere. Il secondo stadio che si osserva, incominciato con il mese di agosto, è quello dell’aggiunta sistematica delle donne ai massacri fino a quel momento concentrati sugli uomini: questa volta si tratta di gruppi massicci, anche se le donne rappresentano solo il 10% del totale delle vittime. Il salto successivo, effettivo a partire dalla metà di agosto, è quello, assolutamente determinante, dell’inclusione dei bambini nelle stragi. Contrariamente al processo osservato nel caso delle donne, questo passaggio si effettua senza alcuna progressività: secondo il rapporto Jäger, il commando non ha ancora giustiziato nessun bambino quando, il 15 e il 16 agosto 1941, s’incarica dell’esecuzione di 3000 donne e bambini ebrei a Rokiskis. A partire da questa data, donne e uomini sono fucilati in numero uguale, prima che il commando non giustizi, a partire dalla settimana seguente (23 agosto), più bambini che adulti. In ogni caso, a partire dal 26, comincia a sterminare comunità intere e non effettua più neanche il conteggio di uomini, donne e bambini: è a quel punto che appare l’espressione <<tutti gli ebrei, uomini, donne e bambini>>. Il processo di mutamento della violenza omicida esercitata dal commando può così essere definito come un continuum, con un allargamento progressivo e una sistematizzazione del massacro degli adulti. Un continuum che lo porta da una violenza di guerra motivata dal mantenimento dell’ordine, a una violenza quasi esclusivamente diretta verso le donne e i bambini di un nemico definito in senso razziale; con un’ambizione di estirpazione completa che diventa manifesta negli ultimi giorni di agosto. La pratica del massacro era ormai visibilmente di carattere genocidiario, anche se sappiamo ora che l’ordine di sterminio delle popolazioni ebraiche d’Europa non era ancora stato diffuso da Hitler e dai massimi funzionari SS. (C. Ingrao, <<Antropologia storica del massacro: il caso degli Einsatzgruppen in Russia>>, in D. El Kenz (a cura di), Il massacro oggetto di storia. Dall’antichità a oggi, Torino, UTET, 2008, pp. 208-210. Traduzione di A. Ieva) KIEV: L’ORDINANZA DEL 28 SETTEMBRE 1941 In previsione del grande eccidio di Babi Yar, i tedeschi affissero un’ordinanza che ordinava agli ebrei di radunarsi, il giorno seguente, all’angolo tra due strade di Kiev. L’ordinanza fu predisposta in fretta. Un testimone ricorda che era stampata su una brutta carta da pacchi grigia; inoltre, mentre esistevano due strade che si chiamavano Melnikov e Degtjarev, nessuna via della capitale ucraina portava i nomi presenti nell’ordinanza tedesca. Tutti gli ebrei residenti a Kiev e dintorni sono tenuti a presentarsi alle 8 di lunedì 29 settembre 1941 all’angolo tra via Melnikovsky e via Dokturov. Dovranno portare con sé i documenti, denaro e valori, oltre a vestiti pesanti, biancheria, ecc. Chi non osserverà queste disposizioni e verrà sorpreso altrove sarà fucilato. Tutti i civili che entreranno nelle abitazioni lasciate dagli ebrei o ne asporteranno qualsivoglia oggetto saranno fucilati. (R. Rhodes, Gli specialisti della morte. I gruppi scelti delle SS e le origini dello sterminio di massa, Milano, Mondadori, 2005, pp. 123-124. Traduzione di C. Lazzari) LA PARTENZA DA KIEV E L’ECCIDIO, IN UNA RICOSTRUZIONE RUSSA All’alba del 29 settembre, migliaia di ebrei si radunarono, convinti di partire per essere reinsediati, e certo del tutto inconsapevoli dell’intenzione nazista di eliminarli in massa. I testimoni ricordano una fiumana enorme di persone, che lentamente uscì dalla città, diretta verso il burrone denominato Babij Jar. Il passo seguente è tratto dal Libro nero, un accurato resoconto della Shoah in URSS predisposto da V. Grossman e I. Erenburg. I passi in corsivo furono cancellati dalla censura (che comunque, in un secondo momento, vietò la pubblicazione di tutto il testo). Alle prime luci del 29 settembre 1941 gli ebrei di Kiev iniziarono a muoversi a poco a poco da ogni parte della città in direzione del cimitero ebraico di via Lukjanovskaja. Molti si aspettavano che li attendesse un trasferimento in qualche città di provincia. Ma alcuni l’avevano ormai capito: Babij Jar significava la morte. Per questo si ebbero quel giorno tanti suicidi. Le famiglie avevano cotto il pane per il viaggio, cucito zaini a spalla, noleggiato veicoli e carri. I vecchi, uomini e donne, procedevano sorreggendosi l’un l’altro. Le madri tenevano in braccio i neonati o spingevano le carrozzine. La gente trascinava sacchi, fagotti, valigie e casse. I bambini seguivano da vicino i genitori. I ragazzi non avevano quasi nulla, mentre gli adulti avevano cercato di portare con sé il più possibile. I vecchi, pallidi e gementi, venivano sorretti dai nipoti. Infermi e malati, avvolti in coperte e lenzuoli, erano trasportati in barella dai congiunti. La folla procedeva in colonne ininterrotte lungo la via L’vovskaja, mentre i marciapiedi erano presidiati dai tedeschi di pattuglia. Dal primo mattino sino a notte inoltrata affluì sulla carreggiata un così gran numero di persone che attraversare la L’vovskaja risultava problematico. Questa marcia di morte durò tre giorni e tre notti. La città ammutolì. Da via Pavloskaja, via Dimitrievskaja, via Volodarskij e via Nekrasov la gente si riversava nella L’vovskaja come affluenti che si gettano in un fiume. La L’vovskaja prosegue in via Melnik, da dove ha inizio un territorio desolato di colline brulle e gole in ripida pendenza: Babij Jar. A mano a mano che la fiumana di gente si avvicinava a Babij Jar, il mormorio cresceva, mescolandosi a gemiti e sospiri. C’erano delle scrivanie all’aperto. La folla, ferma in attesa alla barriera innalzata dai tedeschi al termine della strada, non poteva vederle. Dal corteo venivano fatte uscire e condotte sotto sorveglianza a farsi “registrare” dalle trenta alle quaranta persone per volta. Dovevano consegnare i documenti e gli oggetti di valore. I documenti venivano buttati per terra (testimoni oculari raccontano che il posto era ricoperto da uno spesso strato di cartacce, documenti d’identità e libretti di lavoro strappati). Quindi i tedeschi obbligavano tutti, senza eccezione – anche ragazze, donne, vecchi e bambini –, a svestirsi completamente. I vestiti venivano raccolti e impilati con cura. Dalle dita degli uomini e delle donne denudati venivano strappati gli anelli. Poi i carnefici disponevano i condannati sull’orlo di un profondo dirupo e li fucilavano alla schiena. I corpi rotolavano giù per il ripido pendio. I bambini piccoli venivano buttati nel precipizio vivi Giungendo sul luogo dello sterminio non pochi impazzivano. Molti di quelli il cui turno non era ancora venuto vennero a sapere che cosa accadeva a Babij Jar e si prepararono. I vecchi indosarono abiti neri, si radunarono nelle case per pregare e solo in seguito si incamminarono per via L’vovskaja. La maggior parte degli abitanti di Kiev non seppe fino all’ultimo del massacro che i tedeschi stavano consumando a Babij Jar. (V. Grossman – I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, Milano, Mondadori, 1999, pp. 28-29. Traduzione di L. Vanni) BABIJ YAR, DI E. A. EVTUSHENKO Per molto tempo, nel dopoguerra, il governo sovietico si rifiutò di ammettere che migliaia di persone erano state uccise dai nazisti per il solo fatto di essere ebrei. Pertanto, quando il ventottenne poeta russo Evgenij A. Evtushenko (il 16 settembre 1961) lesse una lunga poesia dedicata alle vittime di Babij Yar mettendo in chiaro innanzi tutto che erano israeliti, il suo testo assunse valore polemico e, per certi aspetti, perfino eversivo. Nel dopoguerra Babij Jar divenne il simbolo dell’atteggiamento minimalistico del governo sovietico di fronte alla catastrofe ebraica. Per molto tempo non si fece pressoché allusione alla sorte degli ebrei di Kiev. Nel 1959 lo scrittore Viktor Nekrasov denunciò con asprezza come non vi fosse nessuna lapide a ricordare il luogo in cui erano state assassinate decine di migliaia di persone. La sua proposta di erigervi un monumento era una esplicita protesta contro l’intenzione manifestata a più riprese dai poteri locali di costruire un mercato, uno stadio oppure un parco della cultura che avrebbe ricoperto il burrone. <<A Buchenwald hanno collocato una campana, il cui rintocco avverte che nulla di simile si deve ripetere. E a Kiev? Danze sulla tomba di chi è stato fucilato?>>. L’intento di Nekrasov provocò reazioni favorevoli alla costruzione di un’opera commemorativa, ma è eloquente il fatto che, nel dibattito seguitone, mancasse ogni riferimento diretto agli ebrei, mentre si parlava della necessità di rammentare il sacrificio dei cittadini sovietici vittime del nazismo. Il comitato centrale del Partito comunista ucraino decise infine di coprire il non luogo riempiendolo di fanghiglia, ma la diga di sbarramento cedette, il 13 marzo 1961, e l’acqua si riversò su alcune zone della città, causando ingenti danni e centinaia di vittime. Il poema che il ventottenne Evgenij A. Evtushenko consacrò agli ebrei massacrati di Kiev è l’esempio più significativo delle tensioni in atto. <<Non c’è nessun monumento a Babij Jar>>: è così che il primo verso della composizione – letta per la prima volta il 16 settembre 1961 di fronte a milleduecento studenti del Museo politecnico di Mosca – evocava i timori per l’oblio e l’abbandono che circondavano il sito. L’opera era del tutto ortodossa dal punto di vista ideologico. Evtushenko deplorava l’odio razziale secondo i tradizionali dettami comunisti ed esaltava la Russia come il paese in cui sarebbe risuonata l’Internazionale allorquando fosse stato infine sepolto l’ultimo antisemita sulla terra. Eppure i suoi versi, accolti come il <<grido>> di <<un giovane russo in collera>>, sollevarono una delle bufere più gravi della storia della letteratura sovietica. L’autore ricorderà in seguito, in uno scritto autobiografico, la reazione incontenibile dei suoi primi uditori: <<Quando terminai [la lettura] c’era un silenzio di tomba. Restai con il foglio tremolane, preoccupato di sollevare lo sguardo. Quando lo feci, vidi che l’intera sala si era alzata in piedi. Poi scoppiò un applauso che andò avanti per dieci minuti buoni. La gente saltò sul palcoscenico e mi abbracciò. Avevo gli occhi pieni di lacrime>>. Il poema non solo riportava alla luce la persistenza dell’antisemitismo in Russia, ma faceva vedere gli ebrei, nel tempo e nello spazio, con un popolo e una cultura comuni, che li rendevano un’entità distinta. Riconoscendosi i volta in volta in un antico israelita, in Dreyfus, in un bambino di Bialystok, in Anne Frank, Evtushenko assumeva su di sé l’intera storia del popolo ebraico perseguitato: <<Oggi mi sento Anna Frank, limpida come un ramo in aprile. E amo A che servono le parole? Mi basta che ci si possa guardare negli occhi, tu e io. Come sono poche le cose al mondo Che ci è dato vedere, annusare! Non ci sono foglie per noi, non c’è cielo per noi. Eppure molto ancora ci è dato: teneramente abbracciarci nella camera al buio. Qui vengono? Non aver paura: è il clamore della primavera che viene. Avvicinati. Presto, dammi le labbra. Sfondano la porta? È soltanto il disgelo… Sopra Babij Jar non c’è che la voce delle erbe selvagge. Severi come giudici Guardano gli alberi. Qui tutto, tacendo, grida, e io mi scopro il capo e lentamente mi sento incanutire. Questo interminabile urlo senza suono Sui mille e mille qui sepolti Io sono. Io sono ogni vecchio qui massacrato. Io sono ogni bambino qui assassinato. Nulla in me può dimenticarlo. E tuoni, tuoni l’Internazionale quando sarà sepolto l’ultimo antisemita della terra! Non ho sangue ebraico nelle vene, ma gli antisemiti nella loro rabbia cieca mi odiano come se fossi ebreo. Ed è per questo che sono Un vero russo>>. Il poema non poteva non risuonare come una sfida all’antisemitismo che allora serpeggiava negli ambienti politici e culturali. I difensori furono pochi e si pronunciarono piuttosto timidamente, dovendo accontentarsi di far circolare – seguendo una pratica del tempo – alcune composizioni poetiche di supporto, manoscritte e anonime. I detrattori ebbero invece immediata risonanza pubblica. (A. Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 28-31) L’ESPERIENZA DI PATRICK DESBOIS Patrick Desbois è un sacerdote cattolico francese che nel 2002 fece un primo viaggio in Ucraina, per conoscere meglio la realtà del lager di Rava-Rus’ka, in cui suo nonno era stato internato per ragioni politiche. In quella occasione, raccolse la testimonianza di un’anziana signora, che aveva assistito ad un eccidio. Da quel momento, ha dedicato la propria vita alla raccolta di tali racconti, da cui sono emersi numerosi dettagli importanti, utili ai fini della ricostruzione della prima fase dello sterminio, condotto con le fucilazioni di massa. In particolare, emerge da queste testimonianze che spesso i nazisti imponevano ai contadini di aiutarli in vari lavori di tipo pratico, direttamente connessi con le esecuzioni. Ogni villaggio è un luogo d’assassinio differente. Ciascun caso è particolare. Se il genocidio era regolato da disposizioni di massima, la sua attuazione era lasciata alla libera interpretazione dei comandanti delle unità. I massacri variavano a seconda delle circostanze, della topografia, della presenza o meno di partigiani. Elementi, questi, dei quali i tedeschi dovevano tener conto per perpetrare il crimine nella maniera più rapida ed efficace possibile. Senza dubbio, quelli che mi hanno dato le maggiori informazioni sulle fucilazioni degli ebrei sono stati i precettati. Ricordo molto bene la prima volta che un testimone mi ha raccontato di essere stato precettato in occasione di un assassinio di massa di ebrei. La sorpresa, in quel caso, è stata duplice: innanzi tutto, per il ruolo che questi testimoni hanno avuto e, secondariamente, per il fatto che siano stati tenuti in vita. I tedeschi non eliminavano i precettati dopo il loro lavoro, non temendo evidentemente che il segreto delle uccisioni potesse essere svelato. Questi precettati non erano poliziotti ucraini, né collaboratori, né ausiliari; per la maggior parte erano ragazzi, tanto maschi quanto femmine, o ragazzini, che venivano utilizzati per uno due giorni dopo essere stati prelevati da casa, di buon mattino, da un uomo armato. […] I primi precettati che ho incontrato mi dissero di essere arrivati dopo l’esecuzione degli ebrei, per ripulire il posto. Mi raccontarono che i tedeschi li avevano fatti venire dopo la fucilazione e che avevano dovuto gettare del cloro o della cenere per far sì che il sangue non traboccasse dalla fossa. Dopo questi primi incontri, ho saputo da altri testimoni che già alla vigilia delle esecuzioni gli assassini si mettevano a caccia del personale necessario. Queste precettazioni non erano lasciate al caso, ma facevano parte del piano criminale. In alcuni casi, si giunse a impiegare più di centocinquanta giovani come manodopera. Nel loro ruolo di attori obbligati, costoro all’intero processo. Sono come delle fiaccole, che fanno luce sui fatti e ci consentono di comprenderne lo svolgimento. Ho un ricordo vivido di ciascuno di loro. Ternivka, 23 luglio 2007. La pigiatrice. I documenti d’archivio ci dicono che 2300 ebrei sono stati uccisi in questo piccolo paese. Per tutta la mattinata, numerosi abitanti che sostengono di non essere presenti sul luogo delle uccisioni ci indicano in una certa Petrivna la testimone oculare. […] Nell’aia, Petrivna è seduta in compagnia di due amiche su una panchina di legno accostata al muro di cemento imbiancato. Il suo racconto inizia senza particolari emozioni: <<Nel paese è arrivato un commando punitivo tedesco agli ordini del capo della Gestapo di qui, un certo Kummel, per ammazzare gli ebrei. Sono stati radunati nella via centrale, davanti alla residenza di Kummel, e poi messi in colonna per quattro. I bambini ebrei e i minorati sono stati separati dalle famiglie e caricati su carretti tirati da cavalli, che seguivano la colonna>>. Dalla sua abitazione, con un gesto della mano ci indica il luogo dell’assembramento nel centro del paese. <<La colonna degli ebrei è stata avviata verso una grande fossa all’uscita del paese. I tedeschi si sono piazzati sul bordo. Gli ebrei sono scesi dentro, venti per volta>>. Gli assassini utilizzavano il cosiddetto metodo Jeckeln. Gli ebrei dovevano scendere nella fossa – un lato della quale era stato scavato in pendenza – e, quindi, stendersi sui morti del turno precedente, prima di essere a loro volta ammazzati con un colpo alla testa o alla nuca. Petrivna si interrompe bruscamente e il suo corpo prende ad agitarsi curiosamente. Le parole le escono di bocca con un sussurro. Le mani sbattono l’una contro l’altra: <<Sapete, non è facile camminare sui corpi>> dice alludendo alla cedevolezza di quello che era divenuto il fondo della fossa. All’improvviso, mi rendo conto che sta cercando di comunicarci l’indicibile e tutta la sua sofferenza. Con calma, le chiedo se avesse dovuto camminare sui corpi. Mi risponde: <<Sì, per pigiarli>>, mimando con le braccia. Ho capito. <<E ha dovuto farlo la sera, al termine delle fucilazioni>> aggiungo, <<oppure di volta in volta?>>. Accorgendosi che ho compreso, la donna riprende a raccontare: <<Di volta in volta. Eravamo trenta giovani ucraine, con i piedi nudi dovevamo pigiare i corpi degli ebrei e spalarci sopra uno strato di terra, così gli altri ebrei si potevano stendere>>. <<A piedi nudi?>>. <<Sapete, eravamo molto poveri, non avevamo scarpe. I tedeschi mi avevano vista la mattina nei campi. Sorvegliavo una mucca. Mi hanno detto di andare da mia madre, di prendere un badile e tornare. Quando sono arrivata a casa, mia madre mi ha detto di obbedire, se no mi avrebbero ammazzata. Anche le altre ragazze che sono state prese sorvegliavano le mucche. Eravamo tutte povere>>. Mai avrei potuto immaginare che i tedeschi avessero utilizzato delle ragazze ucraine per pigiare i corpi degli ebrei con i piedi, come si fa con i grappoli nel Beaujolais [regione della Francia centrale famosa per i suoi vini – n.d.r.] nei giorni della vendemmia. Le pigiatrici dovevano buttare della terra sui corpi perché le vittime successive potessero stendersi più facilmente. Cerco di ricostruire la scena. Le chiedo se loro venivano fatte uscire dalla fossa tra una fucilazione e l’altra. <<Sì>> mi risponde, <<il comandante tedesco dava un ordine per scendere nella fossa e uno per uscire. Dovevamo correre tutte assieme nella fossa con le nostre vanghe, pigiare i corpi con i piedi, spalare la terra sui corpi e poi uscivamo tutte quante. Molti ebrei erano solo feriti… era dura camminarci sopra>>. <<Avevate il tempo di sedervi tra una fucilazione e l’altra?>>. <<Le fucilazioni erano così veloci che non c’era neppure il tempo di riprendere fiato. È durato dalle dieci della mattina alle quattro del pomeriggio. I tedeschi si davano il cambio per mangiare, ma non noi>>. (P. Desbois, <<Fucilateli tutti!>>. La prima fase della Shoah raccontata dai testimoni, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 99-103. Traduzione di C. Saletti LE PERPLESSITÀ DI LOHSE Nell’autunno del 1941, si verificò un singolare scambio di lettere tra i Commissario Lohse – suprema autorità civile nell’Ostland, cioè nei Paesi Baltici – e l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich di Berlino. Verso la fine di ottobre, Lohse bloccò l’attività dell’Einsatzgruppe A, impedendo – soprattutto – l’esecuzione degli ebrei di Liepaja (Libau, in tedesco). Il comandante Stahlecker fece rapporto a Berlino, da dove partì una richiesta di precisazioni. Lohse avrebbe voluto limitare, sul territorio di sua competenza, l’autonomia della Polizia di sicurezza, comandata da Heydrich e Himmler. Inoltre, dalla sua risposta, emerge che Lohse non era ancora a conoscenza della decisione di procedere allo sterminio generalizzato. Inutile sottolineare che le perplessità di Lohse non erano di tipo etico, bensì di ordine politico e amministrativo. Lettera del 31 ottobre del ministro del Reich per i territori orientali al Commissario del Reich a Riga. La Direzione generale per la sicurezza del Reich [= l’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich, diretto da Heydrich – n.d.r.] ha presentato un reclamo in merito al divieto di fucilare ebrei a Libau imposto dal Commissario del Reich Ostland. Chiedo un rapporto immediato sulla faccenda. Lettera del 15 novembre 1941 del Commissario del Reich Lohse, responsabile del territorio denominato Ostland, al ministro del Reich per i territori orientali. Ho vietato le selvagge fucilazioni di ebrei a Libau, perché il modo in cui venivano eseguite era insostenibile. La prego di farmi sapere se la Sua lettera del 31 ottobre debba essere intesa come direttiva di liquidare tutti gli ebrei dell’Ostland. Bisogna procedere in tal senso senza tenere conto dell’età e del sesso e degli interessi economici (per esempio della Wehrmacht rispetto agli operai specializzati del’industria degli armamenti? La ripulitura dell’Ostland dagli ebrei rappresenta certo un obiettivo prioritario, tuttavia la sua attuazione deve rispettare le necessità dell’economia bellica. Finora non sono riuscito a desumere tale direttiva né dalle disposizioni contenute nella cartella bruna [ = l’insieme delle direttive impartite per la gestione dei territori dell’URSS occupati dai tedeschi – n.d.r.], né da altre ordinanze. Lettera del 18 dicembre del ministro del Reich per i territori orientali al Commissario del Reich a Riga. Per quanto riguarda la questione ebraica, nel frattempo essa dovrebbe essere stata chiarita dai colloqui intercorsi. Ai fini della soluzione del problema, va fondamentalmente trascurata qualsiasi considerazione di natura economica. Quanto al resto, La prego di risolvere i problemi che affioreranno direttamente con l’Alto comandante della SS e della polizia. (K. Pätzold – E. Schwarz, Ordine del giorno: sterminio degli ebrei. La conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942 e altri documenti sulla “soluzione finale”, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 95-96. Traduzione di A. Michler) IL PRIMO CONVOGLIO DA VARSAVIA Il primo treno di ebrei da Varsavia arrivò a Treblinka il 23 luglio 1942. Il ferroviere polacco Franciszek Zabecki, capo-movimento alla stazione, lo vide arrivare. Da quel momento, tenne il conto preciso di tutti i convogli diretti al campo di sterminio. Secondo i suoi calcoli, le vittime di Treblinka potrebbero essere addirittura 1 200 000. Molti ucraini avevano degli amici, qui, nel villaggio più vicino a Treblinka, una frazioncina di duecento abitanti chiamataWolga-Oknaglik. E’ un posto molto piccolo, non c’è nemmeno la scuola e la chiesa – bambini devono andare a scuola a Kossov, a sei chilometri di distanza. Ma fu lì che cominciarono ad arrivare delle voci. Udimmo che una vasta zona di terreno boscoso era stata recintata, e una parte veniva disboscata; stavano costruendo una baracca, ci dissero, per la guarnigione tedesca, e un’altra per i lavoratori. Ed era anche stato scavato un pozzo per l’acqua. Entro pochissimo tempo venimmo a sapere che non soltanto il campo era stato costruito, ma vedemmo anche che stavano costruendo un binario che dalla nostra linea principale portava nella zona recintata. […] Il 23 luglio 1942 era di servizio il mio collega Josef Pogonzelski. Il giorno prima era arrivato un telegramma che annunciava l’arrivo di alcuni locali [= treni regionali, che percorrono brevi distanze – n.d.r.] provenienti da Varsavia, con degli ebrei da reinsediare. Questo telegramma era stato seguito da un telegramma-lettera che comunicava l’orario giornaliero di arrivo di questi treni locali a partire dal giorno 23 luglio. Li stavamo aspettando fin dal mattino presto, chiedendoci di che si trattasse. A un certo momento, arrivarono due SS – dal campo, immagino – e domandarono: <<Dov’è il treno?>>. Da Varsavia erano stati informati che doveva essere già arrivato, ma in realtà non c’era ancora. Poi arrivò un tender – di quel tipo che chiamavano taxi ferroviario – con due macchinisti tedeschi, uno si chiamava Blechschmied, e l’altro, il suo aiutante, Teufel. Erano stati mandati avanti per guidare i primi treni sul nuovo tronco che entrava nel campo. Quando arrivò il primo treno – erano le nove e mezzo del mattino – lo udimmo quando era ancora a notevole distanza. Non già per il rumore del treno, ma per via delle grida della gente e delle sparatorie. C’erano delle guardie sedute sul tetto dei vagoni, con le maniche rimboccate, e col fucile in mano. Avevano l’aria di chi ha ucciso; come se avessero immerso le mani nel sangue, e poi se le fossero lavate prima dell’arrivo. Il treno era stipato – in maniera incredibile. Era una giornata calda, ma, con nostro sbalordimento, la differenza di temperatura tra l’esterno e l’interno dei carri era evidentemente tale che dal treno emanava una specie di nebbia che lo avvolgeva tutto. Su ogni vagone erano segnate delle cifre col gesso – sa come sono metodici i tedeschi – è per questo che so esattamente quante persone furono uccise a Treblinka. Le cifre su ogni vagone variavano tra i centocinquanta e i centottanta. Noi non sapevamo che cosa stesse succedendo, ma cominciammo ad annotare le cifre fin da quel primo giorno, e continuammo per un intero anno senza mai interromperci, finché non fu tutto finito. Il treno era partito da Varsavia la notte prima – aveva viaggiato per quasi dodici ore… o almeno, erano dodici ore che la gente stava dentro il treno – il viaggio, normalmente, dura soltanto un paio d’ore. La gente, dal treno, gridava che li stavano portando a lavorare nelle fattorie o nelle fabbriche, ma noi non lo credevamo. Traemmo le nostre conclusioni; un trasporto sorvegliato con tanta attenzione, con tutti quegli spari… Ci avevano detto che il binario che portava al campo poteva sopportare soltanto venti vagoni alla volta. Un treno, normalmente, aveva almeno venti vagoni, e a volte, nelle settimane e nei mesi successivi, arrivavano tre treni contemporaneamente. Così, tutto quanto superava i venti vagoni rimaneva in attesa nella nostra stazione, finché ogni gruppo di venti vagoni avviato nel tronco del campo non era tutto finito . (G. Sereny, In quelle tenebre, Milano, Adelphi, 1999, pp. 202-204. Traduzione di A. Bianchi) LE CAMERE A GAS DI TREBLINKA Nel 1942, iniziarono a funzionare i centri di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. In questi luoghi (che non vanno confusi con i lager) vennero uccisi circa due milioni di ebrei polacchi. Il più importante centro di sterminio fu quello di Treblinka, a circa 80 Km da Varsavia. Solo qui furono uccise 900 mila persone. D. [= Domanda di Claude Lanzmann - n.d.r.]: Quale capacità avevano le nuove camere a gas [costruite nel settembre 1942 - n.d.r.]? R. [= Risposta di Franz Suchomel, sottufficiale delle SS in servizio a Treblinka]: Le nuove camere a gas... vediamo... Si poteva far fuori tremila persone in due ore. D. Ma quante persone alla volta, in una sola camera a gas? R. Non posso dirglielo esattamente, io. Gli ebrei dicono duecento. D. Duecento? R. Sì, duecento. Immagini un locale della misura di questo. D. Ad Auschwitz ne mettevano di più! R. Ma Auschwitz era una vera fabbrica! D. E Treblinka? R. Le darò la mia definizione. Ricordi questo: Treblinka era una catena di morte, primitiva, certo, ma che funzionava bene. D. Una catena? R. ...di morte. Capisce? D. Sì. Ma primitiva? R. Primitiva. Sì, primitiva, ma funzionava bene, quella catena di morte. [...] D. Bene. Arriva un trasporto: vorrei che descrivesse con precisione tutto il procedimento nel primo periodo [...]. R. Treblinka era un villaggio. Un piccolo villaggio. La stazione aveva acquistato importanza a causa dei trasporti di ebrei. Ogni convoglio aveva da trenta a cinquanta vagoni. Li dividevano sempre in sezioni di dieci, dodici, perfino quindici vagoni, che erano portati fino al campo e condotti alla rampa. Gli altri vagoni restavano in attesa, con le persone, nella stazione di Treblinka. I finestrini erano protetti da filo spinato perchè nessuno potesse uscire. E sui tetti stavano i <<cani sanguinari>>, gli ucraini o i lettoni. I lettoni erano i peggiori. Sulla rampa, di fronte ad ogni vagone, si tenevano pronti due ebrei del reparto blu perchè tutto procedesse alla svelta. Dicevano: <<Uscite, uscite, presto, presto! >>. C'erano anche degli ucraini e dei tedeschi. D. Quanti tedeschi? R. Da tre a cinque. D. Non di più? R. No, gliel'assicuro. D. E quanti ucraini? R. Dieci. D. Dieci ucraini, cinque tedeschi. R. Sì, sì. D. Due... Cioè venti uomini del reparto blu. R. Sì. quelli del reparto blu erano qui, e da qui mandavano le persone all'interno. Là c'era il reparto rosso. Sì. D. Il reparto rosso, qual era il suo incarico? R. I vestiti. Doveva raccogliere i vestiti degli uomini, i vestiti delle donne, e portarli immediatamente quassù. D. Quanto tempo fra la rampa e l'operazione di denudamento? Quanti minuti? R. Vediamo... per le donne, per le donne diciamo un'ora in tutto. Un'ora, un'ora e mezza. Un intero treno in due ore. D. Sì. R. In due ore era tutto finito... D. Fra l'arrivo... R. ... e la morte. D. .... e la morte, era tutto finito in due ore? R. Due ore, due ore e mezza, tre ore. D. Un treno intero? R. Un treno intero. D. E per una parte soltanto, per dieci vagoni? R. Non si può calcolare: i vari trasporti si susseguivano, la gente affluiva continuamente, capisce? (...) D. Treblinka, dove tanta gente è stata sterminata, non era grande, vero? R. Non era grande. Cinquecento metri nel suo lato più esteso. Non era un rettangolo, piuttosto un rombo. Provi a figurarselo: qui era piatto e là si cominciava a salire. E in cima alla collina c'era la camera a gas. (Testimonianza di Franz Suchomel, Unterscharfuehrer delle SS in servizio a Treblinka, riportata in C. Lanzmann, Shoah, Milano, Rizzoli, 1987, pp. 127-131) IL CANTO DEL POPOLO EBRAICO MASSACRATO Nato nel 1886, Yitzhak Katzenelson divenne un intellettuale di spicco nell’ambito del movimento sionista attivo in Polonia. Rinchiuso nel ghetto di Varsavia, fu costretto ad assistere impotente alla deportazione di sua moglie e di due suoi figli a Treblinka, il 14 agosto 1943. Nel maggio del 1943, utilizzando un falso passapoto dell’Honduras, riuscì a trasferirsi in Francia, e qui scrisse in lingua yiddish – tra il 3 ottobre 1943 e il 17 gennaio 1944 – un terribile poema intitolato Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944, insieme ad un altro figlio, Katzenelson fu deportato ad Auschwitz. Il primo testo che riportiamo è tratto dal canto n. 4 (dei 15 che, nell’insieme, compongono il poema); datato 26 ottobre 1943, descrive in forma poetica le deportazioni da Varsavia a Treblinka. Il secondo testo è tratto dal canto n. 9: datato 23-26 novembre 1943, attacca i Cieli e Dio stesso per la loro passività, di fronte alle deportazioni a Treblinka. IV. I vagoni sono tornati! 1 Orrore e paura mi assalgono, mi soffocano – i vagoni sono già di ritorno! Sono partiti solo ieri sera – e oggi sono qui di nuovo, già pronti all’Umschlag [= abbreviazione di Umschlagplatz, posto di smistamento, il luogo in cui gli ebrei erano caricati sui vagoni – n.d.r.]. Li vedi, là con le fauci aperte, spalancate nell’orrore? 2 Hanno ancora fame! Niente li sazia. Aspettano gli ebrei! Quando glieli porteranno? Sono affamati – come se non avessero già divorato i loro ebrei… Ne hanno avuti tanti! Ma ne vogliono di più, ancora di più! 3 Ne vogliono ancora di più. Sono là in attesa che sia servito loro il pasto, che arrivino gli ebrei in grandi quantità! Avanti, vecchio popolo dai giovanissimi germogli, uva fresca di una vecchia vite, vecchi ebrei forti come il vino. 4 Ne vogliamo di più, molti di più… gridano i vagoni come freddi e spietati criminali: di più! Non ne hanno mai abbastanza! Stanno aspettando all’Umschlag. Aspettano noi i vagoni, aspetta noi il treno. […] 11 Vagoni vuoti! Eravate pieni, ed eccovi di nuovo vuoti. Cosa ne avete fatto degli ebrei? Dove sono finiti? Erano diecimila, contati e stivati – e voi siete qui di nuovo! O vagoni, vagoni vuoti, ditemi dove siete stati! 12 Voi tornate dall’altro mondo, lo so. Non dev’essere lontano. Solo ieri siete partiti carichi, e oggi siete già di ritorno! Perché questa fretta? Avete così poco tempo? Presto sarete vecchi come me, logori e grigi. 13 Solo a guardare, a vedere, a sentire tutto ciò – gevàld ! [= aiuto!, in lingua yiddish – n.d.r.] come fate, anche se siete di ferro e di legno? O ferro, giacevi nel profondo della terra. O legno, un giorno fosti un albero alto e fiero. 14 E ora? Ora siete vagoni, e state a guardare, testimoni muti di un tale carico, di una tale pena. In silenzio tutto avete osservato. Oh, ditemi, vagoni, dove andate, dove avete portato a morire il popolo ebraico? 15 Non è colpa vostra – vi caricano e poi vi dicono: andate! Vi fanno partire pieni e tornare vuoti. Voi che tornate dall’altro mondo, ditemi una parola. Vi prego, ruote, parlate, ed io, io piangerò… 26 ottobre 1943 (Y. Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, Firenze, Giuntina, 1998, pp. 43-47. Versione poetica di D. Vogelmann dalla traduzione dallo yiddish di S. Sohn) IX. Ai cieli 1 E così avvenne… e questo fu l’inizio… Cieli, ditemi perché, perché! Perché dobbiamo essere tanto umiliati in questo mondo? La terra, sorda e muta, ha chiuso gli occhi… Ma voi cieli, voi dall’alto avete visto tutto e non siete crollati dalla vergogna! 2 Non una nuvola ha coperto il vostro vile azzurro, che come sempre mostrava il suo falso splendore; il sole, rosso come un carnefice feroce, ha continuato il suo corso; la luna, come una vecchia puttana, come una peccatrice, è uscita di notte a passeggiare, e le stelle ammiccavano luride come occhi di topi. 3 Basta! Non voglio più guardarvi, non voglio più vedervi… O cieli falsi e bari, cieli infimi pur così in alto; o mio dolore! Un tempo ho creduto in voi, vi ho confidato le mie pene e le mie gioie, le mie lacrime e i miei sorrisi – voi non siete migliori della terra, di questo mucchio di letame! 4 Vi lodavo, cieli, vi esaltavo in tutti i miei canti. Vi ho amato come si ama una donna. Ma ora se ne è andata, dissolta come schiuma. Fin dall’infanzia il vostro sole, fiammeggiante nel tramonto, l’ho somigliato alle mie attese: <<Così svanisce la mia speranza, così sfuma il mio sogno!>>. 5 Basta! Basta! Vi siete presi gioco di noi, del mio popolo e della mia stirpe! Da sempre ci avete presi in giro – anche i nostri padri, anche i nostri profeti! Verso di voi hanno alzato i loro occhi, nella vostra fiamma si sono accesi; sempre fedeli, per nostalgia di voi si sono consumati. […] 13 Non c’è Dio in voi! Aprite le porte, cieli, spalancatele, e lasciate entrare i figli del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato. Aprite le porte per la grande ascensione : un intero popolo crocifisso Sta per arrivare… ognuno dei miei figli massacrati può essere un Dio! (Y. Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, Firenze, Giuntina, 1998, pp. 77-81. Versione poetica di D. Vogelmann dalla traduzione dallo yiddish di S. Sohn) LE TERRE DI SANGUE Secondo Timothy Snyder, l’area compresa tra i Paesi Baltici e la Crimea (da nord a sud) e tra la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina attuali può essere denominata terre di sangue. In effetti, i crimini maggiori del Novecento furono perpetrati proprio in questi territori. L’imperativo della comparazione si impone, se non altro, perché le popolazioni di queste regioni sperimentarono dapprima la violenza sovietica e poi quella nazista. Nel cuore dell’Europa, in poco più di un decennio, i regimi nazista e sovietico eliminarono circa 14 milioni di persone. Il luogo in cui inesorabilmente le vittime morirono, le terre di sangue, si estendeva dalla Polonia centrale alla Russia occidentale, includendo anche la Bielorussia, l’Ucraina e gli Stati Baltici. Nel corso del consolidamento del nazionalsocialismo e dello stalinismo (1933-1938), dell’occupazione congiunta tedesco-sovietica della Polonia (19391941) e poi della guerra tra Germania e Unione Sovietica (1941-1945), una violenza di massa mai avvenuta in precedenza si diffuse in queste regioni mietendo vittime fra gli stessi abitanti, principalmente ebrei, bielorussi, ucraini, polacchi, russi e baltici. Furono uccisi 14 milioni di persone nello spazio di soli dodici anni, tra il 1933 e il 1945, mentre Hitler e Stalin erano al potere. […] Durante la Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica sconfisse la Germania nazista sul fronte orientale, ottenendo in tal modo la gratitudine di milioni di persone nei confronti di Stalin e un ruolo fondamentale nella definizione dell’ordine postbellico in Europa. Ma le uccisioni di massa attuate da Stalin erano impressionanti quanto quelle ordinate da Hitler. Anzi, proprio in tempo di pace furono peggiori. Con il pretesto di difendere e modernizzare l’Unione Sovietica, negli anni Trenta Stalin fu responsabile della morte per fame di milioni di concittadini e della fucilazione di 750 000 persone. Stalin massacrò i propri connazionali con la stessa efficienza con cui Hitler eliminò gli abitanti di altri Paesi. Dei 14 milioni di persone deliberatamente sterminate nelle terre di sangue tra il 1933 e il 1945, un terzo lo si deve ai sovietici. Questa è una storia di assassini di massa politici. I 14 milioni erano tutti vittime di una politica di morte sovietica o nazista, spesso di un’interazione tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista, ma mai vittime della guerra in corso tra i due Paesi. Un quarto di essi fu ucciso addirittura prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Altri 200 000 perirono tra il 1939 e il 1941, mentre l’Unione Sovietica e la Germania stavano rimodellando l’Europa in qualità di alleati. Le morti dei 14 milioni di persone erano a volte previste o affrettate da pianificazioni e considerazioni economiche, ma non furono mai causate da necessità finanziarie in senso stretto. Nel 1933 Stalin sapeva che cosa sarebbe successo se si fosse impossessato del cibo dei contadini affamati dell’Ucraina, esattamente come Hitler sapeva che cosa aspettarsi quando, otto anni più tardi, privò del cibo i prigionieri di guerra sovietici. In entrambi i frangenti, persero la vita più di 3 milioni di persone. Le centinaia di migliaia di contadini e operai sovietici uccisi durante il Grande Terrore nel 1937 e 1938 erano vittime di chiare direttive di Stalin, proprio come i milioni di ebrei sterminati tra il 1941 e il 1945 erano vittime di una esplicita decisione di Hitler. La guerra modificò l’equilibrio dei massacri. Negli anni Trenta, l’Unione Sovietica era l’unico Stato europeo che eseguiva una politica di uccisione di massa. Nei primi sei anni e mezzo in cui Hitler fu al potere, il regime nazista uccise non più di 10 000 persone circa. Il regime stalinista ne aveva già affamate a milioni e ammazzate oltre 500 000. La politica tedesca di uccisione di massa giunse a rivaleggiare con quella sovietica tra il 1939 e il 1941, dopo che Stalin permise a Hitler di intraprendere la guerra. […] È opinione comune che l’orrore del XX secolo risiedesse nei campi di concentramento, ma non è lì che morì la maggioranza delle vittime del nazismo e dello stalinismo. I fraintendimenti riguardanti i luoghi e i metodi degli stermini di massa ci impediscono di comprenderlo. […] Un milione circa di persone morì perché fu destinato a lavorare nei campi di concentramento tedeschi, tutt’altro dalle camere a gas, dai campi di sterminio e da quelle aree in cui i nazisti avevano imposto la morte per fame, in cui perirono 10 milioni di persone. Più di un milione di vite fu stroncato per sfinimento e malattie nei gulag sovietici tra il 1933 e il 1945 – anche in questo caso con una netta differenza rispetto ai campi di sterminio sovietici e alle regioni dell’Unione Sovietica ridotte alla fame, dove morirono attorno ai 6 milioni di persone, di cui circa 4 nelle terre di sangue. Il 90 per cento di quelli che entrarono nei gulag rimase in vita. Anche la maggior parte delle persone chiuse nei campi di concentramento tedeschi (al contrario dei campi di gassificazione), delle fosse comuni e dei campi di prigionieri di guerra) sopravvisse. Il destino degli internati nei campi di concentramento, per quanto intollerabile, è diverso da quello dei molti milioni che furono sottoposti a camere a gas, uccisi con le armi da fuoco o perirono di stenti. […] La stragrande maggioranza delle vittime dei regimi tedeschi e sovietici non vide mai un campo di concentramento. Auschwitz era due cose in una, un campo di lavoro e una fabbrica di morte, e il destino degli ebrei e dei non ebrei costretti al lavoro divergeva da quello degli ebrei selezionati per finire nelle camere a gas. Quindi Auschwitz appartiene a due storie correlate ma distinte. In quanto campo di lavoro coatto rappresenta perfettamente l’esperienza delle persone che furono sottoposte alle politiche di concentramento tedesche (e sovietiche), mentre intesa come fabbrica di morte è più rappresentativa del destino di coloro che vi furono deliberatamente uccisi. La maggior parte degli ebrei che arrivarono ad Auschwitz fu semplicemente gassata e non passò mai per un campo di concentramento, come quasi tutti i 14 milioni di morti delle terre di sangue. (T. Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano, Rizzoli, 2011, pp. 10-16. Traduzione di L. Lanza, S. Mancine e P. Vicentini)