Roberto Weitnauer 23 marzo 2006 (12 pagine, 12 immagini) www.kalidoxa.com Diritti riservati La sepoltura del concetto di etere Delle antiche concezioni sull’universo quella relativa all’“etere” è stata l’ultima a essere abbandonata. Ancora nel XIX secolo gli scienziati supponevano che il vuoto fisico non potesse sussistere (seppure fosse già stato dimostrato il vuoto pneumatico, cioè l’assenza di aria), come aveva statuito a suo tempo Aristotele, e che lo spazio fosse ovunque permeato da un mezzo chiamato appunto etere. Gli studiosi pensavano che questo possedesse caratteristiche elastiche e che potesse pertanto veicolare le onde elettromagnetiche, così come l’aria trasmette le vibrazioni meccaniche che costituiscono il suono. Il grande fisico scozzese Maxwell aveva ben descritto con uno storico sistema di equazioni il comportamento delle onde elettromagnetiche, ma ne derivava una velocità di propagazione fissa e indipendente dal moto della sorgente e dell’osservatore. Questo appariva molto strano agli scienziati, anche perché non si conciliava con la relatività galileiana. Il mondo scientifico (Maxwell compreso) si mise allora alacremente al lavoro per verificare come stessero realmente le cose. Se con qualche esperimento si fosse riusciti ad appurare che la velocità della luce, che è un’onda elettromagnetica, subisce in realtà qualche variazione in funzione del moto della Terra, ebbene allora si sarebbe anche attestato ch’essa viaggia in un mezzo e non nel vuoto. Infatti, le variazioni cinetiche sarebbero state attribuite al movimento del pianeta rispetto all’etere. L’esperimento fu compiuto nel 1887 dagli americani Michelson e Morley che ricorsero a un ingegnoso sistema di specchi, ma il risultato non soddisfò le attese dei fisici. Fu invece corroborata la teoria maxwelliana. La velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche divenne una costante naturale e costituì il fondamento per il lavoro di Einstein sulla relatività, un’estensione cruciale di quella galileiana. La parola “etere” ricorre nei nostri discorsi di uomini moderni. Diciamo che una comunicazione avviene “via etere”; citiamo la “spartizione dell’etere”, alludendo al mercato dell’emittenza; intendiamo altresì per “etereo” qualcosa che possegga una natura spirituale o incorporea. Questo termine è di antica data e ha nel linguaggio una discendenza astronomica e persino mistica per molti versi analoga a quella di “volta celeste” o di “mondo”. La volta celeste è così chiamata, perché nel medioevo, sulla falsariga delle teorie aristoteliche, si pensava che il cielo fosse formato da sfere perfette, cioè da volte concentriche. Il concetto di mondo rispecchia invece l’universo ordinato, il “cosmo” dei greci, un concetto contrapposto a quello di “caos”; il mondo è anche lo spazio mondato (pulito) dalle imperfezioni della materia corruttibile che ci circonda sulla Terra, un’altra idea di origine aristotelica e, indirettamente, platonica. Anche la nozione di etere ha una discendenza greca. L’etere era inteso come la porzione più limpida dello spazio sopra l’atmosfera. Aristotele lo riteneva la quintessenza di una realtà in cui non poteva sussistere il vuoto. L’idea risale ad Anassagora che lo assumeva come fattore primigenio del cosmo, un principio secco e caldo (dal greco ‘áither’, ‘ardente’). Volta celeste, mondo, spazio ed etere sono stati nei secoli concetti variamente intrecciati. In verità, la commistione era determinata da un’inevitabile ignoranza relativamente alla realtà fisica che abitiamo. Dopo la nascita della scienza moderna divenne chiaro che l’universo non fosse formato da cieli concentrici e che non esistessero dimensioni più o meno illusorie o corruttibili. Le leggi naturali dell’ordine cosmico sono ovunque le medesime, sul nostro pianeta, come nelle più remote galassie. Il grande filosofo Aristotele (384-322 a.C.) stabilì che la natura aborrisse il vuoto e che il mondo sublunare fosse imperfetto e corruttibile rispetto ai cieli che ruotavano in un sistema di sfere concentriche. http://www.geophysics.geol.uoa.gr/frame_gr/histo/aristotle.jpg La questione dell’etere venne invece risolta più tardi, qualche tempo dopo la scoperta delle onde elettromagnetiche. Il grande scienziato scozzese James Clerk Maxwell stabilì nel 1873 un potente sistema di equazioni differenziali che descriveva la propagazione di queste vibrazioni a una velocità c fissa e indipendente da come si rilevassero. Come le già note onde meccaniche (ad esempio quelle sonore), era evidente che anche quelle elettromagnetiche costituissero un trasporto di energia e non di massa. Ma c’erano delle differenze non da poco. Come riuscivano le onde elettromagnetiche a propagarsi in mancanza di un chiaro supporto fisico? E come poteva essere che la velocità apparisse costante, indipendentemente dall’osservatore? Maxwell aveva introdotto una curiosa nozione per definire lo spazio in cui si producono le interazioni elettriche e magnetiche. Era il concetto di “campo”. In verità, già l’inglese Michael Faraday aveva in precedenza anticipato qualcosa di analogo, studiando le forze scambiate tra fili metallici posti in prossimità uno all’altro e percorsi da una corrente elettrica. Il campo di Maxwell andava però oltre le intuizioni di Faraday e corrispondeva a una regione di spazio in cui si predisponeva una sorta di “potenzialità” interattiva che, nel caso fossero stati presenti certi corpi (ferromagnetici), si sarebbe chiaramente manifestata su di essi. Questa interpretazione non corrispondeva ad alcunché di materiale ed appariva quindi a molti fisici troppo astratta. Il fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879) formulò nel 1873 un sistema di quattro equazioni differenziali che descrivevano l’evoluzione spaziale e temporale del campo elettrico e di quello magnetico che sono accoppiati in un’onda elettromagnetica. Il concetto di “campo” era duro da digerire, perché presupponeva una specie di potenzialità interattiva che non aveva nulla di materiale. http://www.nrao.edu/whatisra/images/maxwell2.jpg Ecco allora che gli scienziati del XIX secolo ricorsero alla vecchia idea di etere. Quest’ultimo doveva costituire l’effettivo mezzo di propagazione per la radiazione elettromagnetica. Gli studiosi ipotizzarono insomma che le sue deformazioni e le sue tensioni interne spiegassero le oscillazioni maxwelliane. La convinzione di fondo era che l’etere reagisse alla stregua di un corpo elastico, trasmettendo le sollecitazioni, come succede per le onde sonore che si propagano in virtù della compressione e decompressione periodica dell’aria. La velocità di un’onda in un mezzo di propagazione dipende dalle caratteristiche del mezzo stesso. La velocità del suono, ad esempio, dipende dal modulo di compressibilità del fluido e dalla sua densità. Per Maxwell la velocità delle vibrazioni elettromagnetiche corrispondeva invece a una grandezza invariante di natura, qual’è ad esempio la costante gravitazionale o la costante dei gas. Ciò faceva storcere il naso a molti scienziati, perché era come ritenere che esistesse un limite invalicabile per le velocità che potessero prodursi nel mondo fisico. Allora si riteneva che le velocità osservabili potessero crescere a dismisura. In effetti, la teoria maxwelliana si scontrava con quella di Galileo. Quest’ultimo aveva a suo tempo ben introdotto i concetti inerenti il moto relativo, sottolineando l’importanza del punto di vista dell’osservatore. Era ad esempio assodato che le velocità dovessero sommarsi (vettorialmente). Ad esempio, un uomo che corre in avanti nel corridoio di un treno, il quale a sua volta si sposta sulle rotaie, si muove rispetto a una stazione a una velocità data dalla somma della sua velocità nel corridoio e di quella del convoglio rispetto alla stazione. Galileo Galilei (1564-1642), uno dei padri della scienza moderna (insieme a Cartesio e Newton). Secondo la relatività classica galileiana le velocità dipendono dal punto di vista dell’osservatore. Ad esempio, rispetto all’osservatore posto su un treno una stazione di passaggio sembra scorrere all’indietro alla stessa velocità che possiede il treno rispetto alla stazione. Analogamente, la velocità di un uomo che corra in un treno verso la motrice è rispetto a un osservatore posto nella stazione pari a quella dell’uomo rispetto al treno sommata a quella del treno rispetto alla stazione. Secondo le equazioni di Maxwell c’era invece un limite superiore per i valori della velocità, dato che nella sua teoria le onde elettromagnetiche si propagano a velocità fissa e totalmente indipendente da come le si osservi. http://www.bo.astro.it/universo/venere/Sole-Pianeti/planets/stoimm/galileo2.jpg Le equazioni di Maxwell dicevano invece che il punto di vista non contava per le onde elettromagnetiche, ossia che la loro velocità di propagazione fosse qualcosa di assoluto, non qualcosa di relativo. Così, un raggio di luce, che è un’onda elettromagnetica, doveva avanzare alla stessa velocità, sia che fosse visto dall’interno del treno in movimento, sia che fosse misurato dalla stazione; e questo indipendentemente dai versi di percorrenza. Bisognava d’altronde riconoscere che in senso puramente formale nessuno aveva scoperto errori nella elegante costruzione matematica di Maxwell, tantomeno sembrava ch’egli fosse esordito da fondamenti fisici inaccettabili. A quel punto per rimuovere le difficoltà insite nella nozione di campo e di velocità assoluta non restava che procedere con qualche esperimento che tagliasse la testa al toro. Ci si aspettava in effetti che su larga scala la grande velocità della radiazione presentasse alcune differenze in funzione del moto dell’osservatore. Tale verifica avrebbe confermato la presenza di un mezzo di propagazione ubiquitario. La parola “campo” sarebbe stata allora ridimensionata o addirittura abolita, giacché il fenomeno elettromagnetico sarebbe rientrato nella consueta ottica galileiana. Divenne presto chiaro quale fosse l’opportunità principale da sfruttare: occorreva innanzitutto concentrarsi sulla misurazione della luce. Come infatti si accennava, essa è un’onda elettromagnetica che si propaga nello spazio a grandi distanze; uno spazio che i fisici credevano appunto riempito dall’etere. Inoltre, si comprese che la misurazione avrebbe dovuto compiersi, tenendo conto dei movimenti della Terra nello spazio siderale. Ruotando intorno alla stella madre, il nostro pianeta si sposta a una media di circa 108' 000 km/h. Anche il Sole segue un suo movimento e anche l’intera Via Lattea. Gli studiosi dell’epoca pensavano quindi che nel suo moto articolato (planetario, solare, galattico) la Terra incontrasse un “vento dell’etere”, un po’ come capita a un motociclista che è lambito da un flusso d’aria mentre viaggia sul suo veicolo scoperto. C’è un termine intuitivo che i velisti usano spesso: “vento apparente”. Esso sottintende il vento percepito da bordo dell’imbarcazione che solca il mare; vento che è diverso da quello rilevato da un riferimento fisso come una costa. Il vento reale (freccia blu) spira da sinistra e fa sbattere la vela di un’imbarcazione ferma. Quando essa procede l’aria che le viene incontro (freccia viola) si combina col vento reale e forma il vento apparente (freccia azzurra). Elaborato da: http://www.abc-of-sailing.com/images/pics/wind.jpg Si pensava dunque che il nostro pianeta fosse soggetto a un vento apparente di etere la cui direzione e intensità dipendessero dal particolare movimento che la Terra segue in ogni dato istante lungo la sua orbita, oltre che dalla rotazione su sé stessa. Il vento dell’etere poteva quindi variare con l’ora del giorno e con la stagione. Siccome si era stabilito che la luce si propagasse attraverso l’etere per azione meccanica, anche la velocità di quest’ultima avrebbe dovuto mutare con l’ora e la stagione. Misurare la velocità della luce secondo direzioni diverse e in istanti differenti avrebbe insomma potuto rendere conto di come essa si propagasse nell’etere. Tutto ciò sarebbe stato un po’ come procedere sull’acqua di un lago con un idrovolante verso il punto in cui è caduto un sasso e poi tornare indietro, valutando entrambe le volte dal velivolo la celerità delle onde generate dall’impatto. Un’eventuale corrente del lago può fare in modo che la misura all’andata sia uguale a quella ottenuta nel ritorno. Tuttavia, ripetendo la rilevazione con rotte di differente orientamento o tracciato, si finisce per apprezzare un certo scarto nelle misure. Esemplificazione: il lancio di una pietra nell’acqua di un lago. Le onde provocate dall’impatto possono essere viste come una sorgente luminosa. Nel lago c’è una corrente che spinge l’acqua verso il basso nello schema in pianta e che può essere considerata il vento d’etere. La corrente trascina le onde generate dal sasso, così che le creste che avanzano verso l’alto sono più lente di quelle che procedono verso il basso. Seguendo il percorso A dall’idrovolante potrebbe capitare di misurare lo stesso ritmo di successione tra creste e avvallamenti all’andata e al ritorno. Ma questo non può capitare lungo il percorso B, seguendo il quale il ritmo sarà senz’altro superiore all’andata che al ritorno. Questa differenza tra i percorsi è di per sé stessa un’indicazione della presenza di corrente. In generale, battendo vari tracciati (anche rettilinei) sopra le onde che si propagano sulla superficie dell’acqua ci si può rendere conto della reale situazione, inquadrando la velocità della corrente e quella di propagazione. Grafica dell’autore. I fisici si misero all’opera, stimolati anche dallo stesso Maxwell, ma per vari anni il compito risultò semplicemente troppo difficile a livello tecnico. Per quanto elevata, la velocità della Terra è sempre una piccola frazione di quella della luce. Questo significava che occorrevano strumentazioni molto precise per rilevare gli scarti cinetici che quasi tutti si aspettavano. Maxwell aveva sottolineato che la precisione richiesta fosse di almeno una parte su 200 milioni. Solo nel 1887 fu approntato a Cleveland negli Stati Uniti un apparato che poteva dare responsi attendibili e sufficientemente accurati. I fautori erano Albert Abraham Michelson e Edward Morley (unitosi in un secondo tempo). L’esperimento in oggetto è oggi considerato uno dei più importanti dell’intera storia della fisica. Michelson (1852-1931, a sinistra) e Morley (1838-1923, a destra). Dopo alcune prove fallite nell’ambito della ricerca fisica, i due statunitensi riuscirono per primi a costruire un apparato di misura che tagliasse la testa al toro relativamente alla questione dell’etere. Il loro esperimento è oggi riconosciuto come uno dei più importanti della storia della fisica. Michelson: http://www.sil.si.edu/digitalcollections/hst/scientific-identity/fullsize/SIL14-M004-01a.jpg Morley: http://www.physics.gla.ac.uk/Physics3/Kelvin_online/Morley.gif I due americani predisposero una lastra di arenaria galleggiante sopra del mercurio, onde filtrare i possibili disturbi (traffico stradale) che potevano interferire con l’esperimento. Sopra la pietra vi era un sistema di specchi multipli che faceva percorrere alla luce proveniente da una sorgente al sodio (luce gialla) una distanza complessiva di 22 metri, giudicata necessaria per ottenere la precisione richiesta. L’intero sistema si fondava sul ricorso al fenomeno dell’interferenza. Per capire le ragioni del ricorso a un apparato interferometrico dobbiamo considerare che una precisione di una parte su 200 milioni valutata sul tempo di percorrenza della luce in varie direzioni era a quei tempi improponibile. Michelson decise pertanto di focalizzarsi sulle distanze percorse dalla luce, anziché sui tempi. Ed è proprio in questo contesto che l’interferenza risultava critica. L’interferenza avviene quando due o più onde si sovrappongono. Succede allora che i picchi e gli avvallamenti si combinano tra loro, producendo delle tipiche “frange d’interferenza”. Si tratta di un processo che può essere osservato anche sulle onde dell’acqua, ad esempio quando gettiamo due sassi a distanza vicina, in modo che le onde concentriche generate dall’impatto vadano a sovrapporsi. La luce possiede un carattere ondulatorio e può quindi manifestare frange d’interferenza. Come si presenta l’interferenza delle onde in acqua. Elaborata da: http://www.exo.net/~pauld/lectures/patternscostarica/waterwaveinterfere1200.jpeg I cosiddetti “arcobaleni soprannumerari” sono fenomeni d’interferenza luminosa. http://epod.usra.edu/library/regnbuer.jpg In sostanza, la luce emessa dalla sorgente incideva su di un vetro semiargentato che in parte la rifletteva e in parte la lasciava passare. Il fascio di luce veniva così diviso in due parti. L’orientamento del vetro era tale da far transitare i due raggi verso due specchi tra loro perpendicolari che, a loro volta, li riflettevano completamente indietro, di nuovo verso il vetro semiargentato. In tal modo i due raggi, dopo essere stati divisi, tornavano a unirsi in un unico fascio che procedeva verso un rilevatore ottico. Ora, se i percorsi seguiti dalla luce fossero stati uguali nei due casi e se anche la velocità della luce fosse stata la stessa, ebbene presso il rilevatore non si sarebbe dovuta rimarcare alcuna frangia d’interferenza, giacché le onde sarebbero rimaste perfettamente in fase. Viceversa, se le velocità fossero risultate differenti nelle due direzioni (a parità di tragitto), allora si sarebbe generato uno sfasamento e quindi un’interferenza. Siccome l’apparecchio aveva una precisione finita, possiamo dire che nel primo caso si sarebbe prodotto uno sfasamento e quindi una frangia d’interferenza minori che nel secondo. " # ' ( & ' ( " # " $ ! # # % ! Schema della strumentazione usata da Michelson e Morley. Per semplicità non sono raffigurati gli specchi intermedi che servono solo ad allungare il tragitto della luce (sino a 22 m). La sorgente di luce emette un raggio verso lo specchio semiriflettente centrale che lo divide in due fasci: il fascio 1 viene riflesso, mentre il fascio 2 prosegue dritto. I due fasci rimbalzano poi sugli specchi esterni e raggiungono nuovamente lo specchio centrale. Si ha una seconda semiriflessione. Così, una porzione di luce di entrambi i fasci viaggia verso l’oculare di rilevazione. Se le velocità della luce nelle due direzioni perpendicolari variano una rispetto all’altra nel corso della prova, allora presso l’oculare si dovrebbe riscontrare uno sfasamento più o meno intenso delle onde e quindi un’alterazione della figura d’interferenza (frange). I fisici del tempo ritenevano che le ragioni per cui le velocità dovevano cambiare andassero imputate al vento dell’etere che in vari istanti della giornata soffiava in direzione differenti (a causa della rotazione del pianeta), influenzando in tal modo la propagazione luminosa. Grafica dell’autore. Come spiegato, si pensava che a influire sulla velocità della luce fosse il vento dell’etere. L’orientamento dell’apparecchio di Michelson e Morley e il momento della giornata (rotazione terrestre) stabilivano pertanto fattori discriminanti. La lastra di pietra, una volta posta in movimento, poteva ruotare per ore e molto lentamente sul mercurio; ciò consentiva di ottenere vari orientamenti, senza toccare la strumentazione e leggendo le misure a prefissati intervalli di tempo. La lenta rotazione dell’apparecchio unita a quella del pianeta determinava differenti combinazioni tra i fasci di luce e il presunto vento dell’etere. Le letture vennero effettuate due volte al giorno, a mezzogiorno e alle sei del pomeriggio. L’esperimento venne protratto per vari giorni. Ci si aspettava uno sfasamento massimo di una certa entità con conseguente variazione delle frange d’interferenza nel corso del tempo. Quale fu dunque l’esito? Ebbene, Michelson e Morley non rilevarono alcuno spostamento. Presso il rilevatore la situazione era insomma sempre la stessa. Nel corso dei decenni la prova è stata condotta anche con strumenti molto più precisi, ma i risultati sono ancor oggi i medesimi. Tutto questo ha un significato fondamentale: l’etere non esiste! Maxwell aveva dunque ragione e le sue equazioni raccontavano la verità. Le onde elettromagnetiche non hanno bisogno di alcun mezzo per propagarsi e viaggiano nel vuoto a una velocità insuperabile che vale c = 299' 792 km/s e che è indipendente dalla sorgente e dall’osservatore. La condizione può apparire strana, ma così ha decretato Madre Natura che, evidentemente, non aborrisce affatto il vuoto, come invece pensavano gli aristotelici. Il concetto di campo non venne dunque rimosso e, anzi, è oggi dominante nella fisica. Il responso dell’esperimento di Michelson e Morley fu in fondo un fallimento, perché molti si aspettavano una scarto nelle velocità della luce. Qualcuno suppose ancora che il mancato riscontro dipendesse dall’insufficiente precisione dell’apparato impiegato. Tuttavia, col tempo e col migliorare della tecnica emerse in modo chiaro anche per gli irriducibili che si trattava di un fatto sostanziale, non di una questione di accuratezza strumentale. La circostanza aprì gli occhi ai fisici, delineando una realtà ben diversa da quanto ci si aspettasse. In questo senso la prova fu decisiva per fare avanzare la scienza. Tutto questo significava forse che Galileo aveva torto? In un certo senso è proprio così, ma in un altro senso la sua teoria restava in auge. Oggi sappiamo che quando le velocità sono basse la loro composizione è perfettamente valida: si pensi all’esempio precedente del treno e dell’uomo che corre al suo interno. In questi termini la relatività galileiana è quella che fa testo. Tuttavia, quando le velocità iniziano a essere frazioni non trascurabili di quella della luce, allora la regola della semplice composizione (o della somma algebrica se le velocità hanno la stessa direzione e lo stesso verso) diventa fallace. Se di notte lanciamo con una torcia un raggio di luce all’interno di un treno che passa veloce a fianco di una stazione, ebbene da quest’ultima un osservatore non vedrà che il raggio avanza a una velocità superiore a quella della luce; vedrà invece ch’esso prosegue proprio alla velocità della luce (come dall’interno del treno), anche se è su un mezzo in movimento. ) *+ + * Un uomo corre sul tetto di un treno a una velocità *+ rispetto al tetto, mentre il treno prosegue sui binari a una velocità + rispetto ai binari. Nel caso classico (galileiano) la velocità dell’uomo rispetto ai binari è data da: VUB = *++ + . Nel caso relativistico, cioè per velocità molto elevate (frazioni significative della velocità della luce) la sommatoria non è più corretta e occorre invece applicare una formula più complessa, tale per cui risulta sempre: VUB < *++ + . In altre parole, la velocità dell’uomo rispetto ai binari è sempre inferiore a quella somma. Per la precisione, risulta tanto più inferiore a quella somma, quanto più le due velocità ( *+ e + ) sono elevate. Infatti, la velocità della luce non può essere superata. Ad esempio, nel caso l’uomo corra rispetto al tetto a una velocità *+pari alla velocità della luce, la stessa velocità sarà rilevata anche dai binari. Anche se ad avanzare alla velocità della luce è il treno l’uomo si sposterà alla velocità rispetto ai binari, qualunque sia la sua velocità *+rispetto al tetto del treno. www.naturamediterraneo.com/Public/data3/stekal/0002%20treno%20.jpg_200631919711_0002%20treno%20.jpg Grafica dell’autore. Come si fa allora a combinare le velocità in quest’ultimo caso? In effetti, era questa una delle domande cruciali che sottostavano alla scoperta di Michelson e Morley. A indagare sulla questione nel modo più prolifico, mentre lavorava presso un ufficio brevetti di Berna in Svizzera, fu un giovane tedesco (poi naturalizzato svizzero) di origine ebrea di nome Albert Einstein, forse il massimo scienziato del secolo appena passato. Einstein comprese molto bene che se la velocità della luce era una grandezza invariante e insuperabile le leggi fisiche non potevano restare quello che erano nella letteratura dell’epoca e che occorressero degli aggiustamenti. In effetti, la relatività di Einstein è un’estensione di quella galileiana che è in fondo solo un caso speciale che vale per velocità basse. La legge generale non è dunque quella di Galileo, bensì quella di Einstein. Nel 1905 Einstein pubblicò la “relatività ristretta”, coniugando l’elettromagnetismo con la meccanica per osservatori in moto uno rispetto all’altro. Ma i fenomeni elettromagnetici e meccanici restavano ben distinti. Albert Einstein (1879-1955) esordì dall’evidenza sperimentale di Michelson e Morley per formulare la teoria della “relatività ristretta”, valida per osservatori inerziali, e poi per estendere il ragionamento alla “relatività generale”, valida anche per osservatori soggetti alla gravità. http://hep.fi.infn.it/wyp2005/img/einstein.jpg Quella relatività è detta “ristretta”, perché si riferisce a osservatori inerziali, cioè che si spostano uno rispetto all’altro, ma senza accelerare, decelerare o cambiare direzione (moto rettilineo uniforme). La “relatività generale”, sempre per opera di Einstein, sarebbe stata pubblicata nel 1915, inglobando nella teoria anche gli osservatori immersi nei campi gravitazionali e quindi accelerati. Le conseguenze delle leggi einsteiniane sono finora state verificate dagli esperimenti e sono a dir poco mirabolanti. Ma questa è un’altra storia. Roberto Weitnauer