Istituto Yoga Universale
Giordano Novielli
Asana, miti e
archetipi psicologici
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I simboli nella pratica dello Yoga
Nella pratica delle Asana risulta molto evidente l’importanza del loro
contenuto sul piano simbolico, a partire dalla loro denominazione
per proseguire nella loro esecuzione in termini di forma
rappresentata e agita fisicamente ed energeticamente.
La postura fisica ed energetica, infatti, agisce sul simbolo e
attraverso di esso, e ci consente di far esperienza delle infinite
sfaccettature del nostro essere.
La denominazione che è stata attribuita, non solo alle asana ma
anche ai pranayama e alle altre tecniche dello yoga, non è mai
casuale, ma tende a rievocare le caratteristiche della divinità o della
forma cui sono collegati.
La comprensione del linguaggio dello yoga, non sempre immediato,
richiede, ovviamente, una preparazione, come qualsiasi percorso
iniziatico; tale conoscenza implicava una ricerca di elevazione
spirituale attraverso pratiche morali e fisiche; inoltre la trasmissione
avveniva, prima di essere messa per iscritto in epoche più tarde,
per via orale. Per garantire l’accuratezza ma anche la snellezza
dell’informazione, il linguaggio simbolico presenta al meglio le
caratteristiche di sintesi e carattere iniziatico.
Ogni tecnica dello yoga, infatti, attraverso la propria denominazione
e quindi connessione ad un determinato aspetto della realtà
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espresso tramite una divinità, un animale, pianta o altro, riesce ad
esprimere le proprie motivazioni e le regole di esecuzione, anche in
assenza di spiegazioni dettagliate (che non compaiono, del resto, in
nessun testo antico).
Si tratta di vere e proprie regole simboliche, che consentono di
comprendere l’inserimento di ogni elemento nell’armonia generale
del cosmo.
Associare pertanto ogni Asana ad una particolare figura od
elemento ci consente di diventare maggiormente consapevoli del
messaggio e delle potenzialità che essa contiene, donandoci un
“raggio di luce” in più nel nostro percorso.
Mircea Eliade ci dice che la comprensione di un simbolo riesce non
solo ad aprirci al mondo oggettivo, ma anche a farci emergere dalla
nostra contingenza ed aprirci ad una comprensione più universale,
risvegliando la nostra energia personale e trasformandola in un atto
spirituale.
Secondo la tradizione orientale, ogni individuo è uno scopritore, il
laboratorio di se stesso. Chi si avvicina allo yoga avrà sempre la
gioia di fare le proprie scoperte, attraverso l’esperienza personale e
diretta.
La conoscenza che ci arriva dalle Asana parte dall’esperienza
fisica, poiché è fisica all’inizio la conoscenza umana, per arrivare ad
una più ampia.
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Nella pratica delle Asana bisogna sempre tener conto
dell’interdipendenza tra corpo, emozioni e mente.
Il continuo interscambio tra corpo e mente è particolarmente
evidente quando, praticando le Asana, incontriamo delle difficoltà,
richiedendoci una maggiore consapevolezza.
Proprio il superamento della dimensione strettamente personale
attraverso la pratica simbolica insita in ogni Asana, ci avvicina al
concetto occidentale di archetipo, così come è inteso nelle
discipline che si occupano di mitologia e psicoanalisi.
L’archetipo
La parola archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτῦπος col
significato di immagine: tipos ("modello", "marchio", "esemplare") e
arché ("originale").
In psicoanalisi viene usato da Jung ed altri autori per indicare le
idee innate e predeterminate dell'inconscio umano, definendosi
meglio come una forma universale del pensiero dotato di contenuto
affettivo.
Carl Gustav Jung ha teorizzato che l'inconscio, già al momento
della nascita, contenga delle impostazioni psichiche innate, quasi
sicuramente dovute al tipo di sistema nervoso caratteristico del
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genere umano, trasmesse in modo ereditario. Tali impostazioni e
immagini mentali sono quindi collettive, cioè appartenenti a tutti;
Jung chiama questo sistema psichico inconscio collettivo,
distinguendolo dall'inconscio personale che deriva direttamente
dall'esperienza personale dell'individuo. La formulazione
dell'archetipo è stata più volte ridefinita, precisata, approfondita da
Jung.
L'inconscio collettivo, per Jung, è costituito sostanzialmente da
schemi di base universali, impersonali, innati, ereditari che lui
chiama archetipi. Di questi i più importanti sono: il «Sé» (il risultato
del processo di formazione dell'individuo), l'«ombra» (la parte
istintiva e irrazionale contenente anche i pensieri repressi dalla
coscienza), l'«anima» (la personalità femminile così come l'uomo se
la rappresenta nel suo inconscio) e l'«animus» (la controparte
maschile dell'anima nella donna). Particolarmente rilevante è l'
archetipo femminile che chiama anima o animus (nella sua
controparte maschile).
Da un punto di vista psicodinamico Jung postula, poi, quattro
funzioni fondamentali: pensiero, sentimento, sensazione e
intuizione. Ciascuna di queste funzioni è variamente dominante in
ogni individuo e ogni individuo si rapporta con l'archetipo femminile
o maschile che risiede nel suo inconscio. Questa relazione ha, per
Jung, un ruolo nell'equilibrio delle funzioni psicodinamiche. Le
funzioni meno dominanti in un individuo vengono sommerse
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nell'attività dell'inconscio e assumono la forma di funzioni
psicodinamiche della sua anima come se questa fosse in qualche
misura separata e in grado di intrattenere una certa forma di
dialogo interiore.
L'archetipo, conseguentemente, viene a essere una sorta di
prototipo universale per le idee attraverso il quale l'individuo
interpreta ciò che osserva e esperimenta. È, per Jung, l'immagine
primaria (urtümliches Bild) dell'inconscio collettivo.
Gli archetipi, integrandosi con la coscienza, vengono rielaborati
continuamente dalle società umane.
L'archetipo è un concetto che contribuisce a dipingere l'individuo
come una entità non già isolata e razionale, ma implica un
inconscio irrazionale, sviluppatosi nella vita collettiva nel corso dei
millenni.
Gli esponenti dell'Umanesimo Normativo in sociologia attinsero al
lavoro di Jung l'idea che gli archetipi mitici possano essere
rintracciabili al di là dei confini tra le culture, facendo leva
sull'aspetto universale inteso come aspetto umano di un concetto.
Erich Fromm utilizzò questo strumento per dimostrare l'esistenza di
bisogni umani fondamentali che è possibile definire positivamente e
che tramite gli archetipi dimostrano di travalicare ogni differenza
culturale, ragione per cui ha senso anche per noi occidentali
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avvicinarsi al contenuto simbolico delle pratiche yoga, anche se non
derivano direttamente dalle nostre radici culturali.
Gli archetipi formulati da Jung sono stati comparati da diversi autori,
in particolare Joseph Campbell, con le strutture dei miti e delle
religioni umane, della cultura orale e delle fiabe popolari,
riscontrando una certa convergenza di significato fra le espressioni
mitico - religiose delle varie società umane verso alcuni motivi
fondamentali che sono, a loro volta, considerabili come degli
archetipi.
Proprio il mondo della mitologia si riconnette, attraverso il concetto
di archetipo, alla psicologia.
Ovviamente gli studiosi occidentali si sono basati maggiormente sui
miti che formano la base del pensiero occidentale, di cui l'esempio
classico è il mito di Edipo, ma altri se ne possono fare: il mito viene
considerato rappresentazione di archetipi di personalità e di
comportamento.
Carl Gustav Jung e Jean S. Bolen, insieme ad altri studiosi, hanno
notevolmente contribuito ad una psicologia diversa del maschile e
del femminile, prendendo come esempi le divinità greche.
J. Bolen ha tracciato le figure archetipiche delle dee e degli dei
nelle persone; tali archetipi sono dei modelli innati, che plasmano
gran parte del carattere di una persona. Conoscerli significa
conoscere la propria persona e le altre, permette di intuire i modelli
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comportamentali che un individuo realizza, consapevolmente o
meno.
Per la mitopsicologia, in un uomo possono essere presenti vari
archetipi, in modo ora maggiore ora minore, sia maschili che
femminili. L'analisi non deve però concludersi nella presa visione
del proprio archetipo, poiché la vita è varia, mutevole, e attaccarsi
solo al proprio archetipo condanna l'individuo alla staticità. È bene
sviluppare altri archetipi, a seconda delle situazioni che la vita offre.
Anche attraverso la conoscenza della mitologia alla base dello yoga
possiamo esplorare dimensioni di noi stessi ancora poco
conosciute.
La mitologia alla base dello Yoga
Alle origine della mitologia che forma l’aspetto devozionale e
simbolico dello yoga, e che è anche la base su cui si fonda la
religione induista, vi è il sincretismo avvenuto all’incirca nel 1500
a.C. tra i culti non vedici e pre-ariani delle popolazioni della valle
dell’Indo (ben più antiche, presenti nella regione dal 4500 a.C., che
corrispondono alla stirpe etnica che oggi è definita dravidica) e il
brahmanesimo dei testi mitologici dei quattro Veda.
La civiltà pre-ariana, che ha gettato le basi del tantrismo e dello
yoga tantrico, era una civiltà sostanzialmente pacifica, con
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un’economia basata sull’agricoltura e sull’allevamento, con una
struttura sociale basata sul matriarcato e priva di rigide divisioni in
classi. La religione era basata sul culto femminile della Dea Madre,
che incarnava le forze della natura legate alla fecondità.
I popoli ariani erano invece nomadi, dediti alla caccia, con una
struttura sociale di tipo patriarcale e, di conseguenza, una
religiosità legata al culto della forza, ed invasero i territori della valle
dell’Indo, cercando di sopprimere il culto della terra e della Dea
Madre.
Nel II secolo a.C. questo fenomeno interessò altre regioni, ad
esempio nel Mar Egeo la civiltà matriarcale minoico - cretese venne
sostituita da quella patriarcale micenea.
Le scritture dei Veda rappresentano quindi l’espressione della
religiosità dei popoli ariani, il cui concetto di capo tribale veniva
espresso al meglio, ad esempio, nella figura di Indra il guerriero
distruttore.
La religione bramanica, figlia delle concezioni patriarcali dei popoli
guerrieri, sanciva, con effetti anche nel nostro presente, il sistema
delle caste e il concetto di eredità karmica.
Naturalmente le tradizioni dei popoli dravidici non furono azzerate,
ma diedero luogo a fenomeni di sincretismo; ragione per cui anche
nell’universo indiano moderno, si ritrovano elementi che non
derivano dalla tradizione ario-bhramanica. Uno di essi, almeno in
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alcuni suoi aspetti, è lo Yoga, anche se in India generalmente viene
attribuito alla tradizione dominante.
La mitologia indù si fonda su una trinità, forma triplice dell'Essere
supremo: Trimurti.
La Trimūrti (aggettivo sanscrito; devanāgarī ितमूित, lett. che
possiede "tre forme" o "tre aspetti") è una nozione presente nelle
religioni e nelle filosofie religiose dell'India che indica i "tre aspetti"
di una singola divinità (deva) o della divinità suprema.
Questa visione dell'induismo come un'unica religione presieduta da
una Trimurti rappresenta, in realtà, un quadro interpretativo
formatosi solo nel XIX secolo, quando intellettuali europei e indiani
cercarono di descrivere un insieme estremamente sincretico e
variegato di religioni , attribuendole caratteristiche simili a quelle
delle religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo).
Dato che l'azione dei brahmani non era guidata da un'autorità
religiosa centrale, il loro sforzo d'integrazione delle varie tradizioni
locali nel brahmanesimo ha dato luogo a fenomeni religiosi diversi
da regione a regione.
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La Trimūrti si manifesta nelle forma di tre importanti Deva archetipi:
•
Brahma è il Creatore
•
Vishnu è il Conservatore
•
Shiva è il Distruttore
La stessa Trimurti è spesso concepita come un'unica divinità e
rappresentata artisticamente con tre teste in un solo corpo
(sanscrito: trishiras, "triplice testa").
Queste figure Divine possono essere considerati aspetti differenti
riconducibili allo stesso e unico Dio (detto anche Īśvara o Saguna
Brahman), aspetto simile alla Trinità della religione cristiana o alle
triadi di molte divinità indoeuropee (Odino, Thor e Freyr; Giove,
Nettuno e Plutone, etc.)
In alcune forme narrative locali minori, ma non considerate dalla
maggioranza degli indù, essi sono nati dall'uovo primordiale
deposto da Ammavaru all'inizio dei tempi. Dal punto di vista storico,
la Trimurti è successiva alla trinità di dei vedici Agni, Vâyu et Sûrya,
tre aspetti del fuoco del sacrificio.
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La Trimurti può anche associata, anche con differenti interpretazioni
tra tradizione e tradizione, ad altri concetti ed aspetti filosofici
induisti.
Per quel che riguarda i guna (le tre qualità costitutive della Natura),
ad esempio, Brahma è associato a quello dinamico-creativo (Rajas
Guna), Vishnu al sattvico (Sattva Guna) e Shiva allo staticodistruttivo (Tamas Guna). La Terra, creatrice della vita, è
rappresentata da Brahma; l'acqua, che mantiene la vita, è Vishnu,
ed il fuoco che trasforma e distrugge è Shiva.
Nell'India del sud, dove sono maggiormente diffusi gli shiivaiti,
adoratori di Shiva quale divinità suprema, si crede che Shiva incarni
in sé il triplice principio dell'intera trimurti ed artisticamente ciò viene
reso mostrando Shiva in preminenza e Vishnu e Brahma che
escono rispettivamente dal suo fianco sinistro e destro.
Il culto di Shiva è associato al culto del sole e al principio maschile
(lingam), e quindi può essere associato al analoghe divinità di altri
pantheon, come Osiride. Al dio che rappresenta il
maschile/sole/cielo viene spesso associata una divinità
femminile/luna/terra: così abbiamo Parvati-Shakti.
Questa unione di due principi si ritrova addirittura nella parola
Hatha, che indica l’unione tra Ha (sole) e Tha (luna), e in senso più
ampio il superamento di ogni dicotomia.
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La particolarità della mitologia indù risiede nel pragmatismo di
questa trinità.
Questi tre aspetti dell'eternità influiscono direttamente sul destino
dell'uomo, manifestandosi nella dimensione temporale.
I principali racconti epici sono il Ramayana, il Mahabharata e i
Purana. Questi testi hanno una grande influenza sulla cultura
indiana, raccontano la storia degli dei, servendo da parabola e da
fonte di devozione per gli induisti.
Shiva
In molti dei tesi classici, come la Bhagavadgita, è Vishnu, o Krishna,
o soprattutto Shiva che impartisce gli insegnamenti dello Yoga.
Il dio Shiva può anche essere visto come una sintesi di elementi
pre-ariani nell’ambito della sfera religiosa indù.
Le ipotesi di un'origine pre-aria delle tecniche e delle dottrine che
vanno sotto il nome di yoga ruotano attorno a un discusso reperto
archeologico: si tratta di un "sigillo" rinvenuto negli scavi di Mohenjo
Darò (oggi in Pakistan), uno dei siti principali della Civiltà della valle
dell'Indo (III millennio a.C.), da John Henry Mackay.
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Tale sigillo, che, nella numerazione data dallo stesso Mackay, reca
il numero 420, rappresenta una figura umana forse tricefala in
posizione assisa su uno sgabello "né troppo alto né troppo basso"
(Bhagavadgita 6,11c), la testa ornata da un copricapo con due
corna; la figura è circondata da animali, e precisamente un elefante,
una tigre, un bufalo, un rinoceronte e un'antilope, ed è assisa in una
postura yoga che è stata diversamente definita e che mi sembra
simile a quella "classica" di bhadrasana, una posizione non a caso
collegata all’energia della fecondità.
Sir John Marshall, che fu uno dei primi a studiare questo reperto,
ravvisò nella figura un prototipo preistorico di Shiva, fondando la
sua ipotesi su due epiteti di questo Dio che lo descrivono come
"signore degli yogi" (Yogindra, Yogishvara) e "signore degli animali"
(Pashupati).
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L'identificazione della figura con una sorta di proto - Shiva, tuttavia,
non è del tutto sicura.
Il mito più diffuso sull’origine dello yoga vede comunque Shiva
come protagonista.
Il dio Shiva, vicino alla riva del mare, insegnava alla moglie, la dea
Parvati, i misteri e le pratiche dello yoga. Ma c’è qualcuno che di
nascosto continua a seguire la spiegazione con grande interesse: è
un pesce, che, concentrato e immobile, impara lo yoga direttamente
dalle labbra di Shiva. Più tardi esploreremo il mito di matsyendra.
Shiva è il Signore di tutti gli yogi, l'asceta perfetto, simbolo del
dominio sui sensi e sulla mente, eternamente immerso nella
beatitudine (Ananda) e nel Samadhi. È il signore dell'elevazione
che dona ai devoti la forza necessaria per perseverare nella propria
disciplina spirituale (sadhana), e nel proprio percorso ascetico; è il
protettore degli eremiti, degli asceti, degli yogi solitari, dei Sadhu, di
tutti quegli aspiranti spirituali che – con lo scopo di indagare sulla
Verità e conseguire così la liberazione, o Moksha – hanno scelto
come stile di vita la rinuncia all'individualità, al mondo, alla sua
ricchezza e ai suoi piaceri.
In questa forma prende i nomi di Yogishvara ("Signore degli Yogi"),
Sadashiva ("Shiva l'eterno") e Parashiva ("Shiva supremo"), poiché
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essa è da molti considerata la sua forma ultima. Numerose
raffigurazioni lo ritraggono in questo particolare aspetto:
perfettamente calmo e concentrato, raccolto in sé stesso e immerso
nella meditazione (Dhyana), gli occhi socchiusi, con la schiena
eretta, seduto nella posizione del loto, in eterna estasi e
contemplazione della Realtà ultima.
Shiva Yogishivara è dunque per eccellenza il Deva della
meditazione e dell'ascesi mistica, perfetto, eternamente immobile,
eternamente beato, eternamente cosciente di sé, il simbolo stesso
della trascendenza e dell'Assoluto. Questo è sicuramente uno degli
aspetti che hanno reso Shiva una delle icone più popolari, diffuse e
adorate all'interno dell'Induismo.
Ma Shiva è anche chiamato Nataraja, il Signore della Danza, la cui
danza cosmica, detta Tandava, è ciò tramite cui l'universo viene
manifestato, preservato e infine riassorbito. Essa è simbolo
dell'eterno mutamento della natura, dell'universo manifesto, che
attraverso una danza scatenata Shiva equilibra con armonia,
determinando la nascita, il moto e la morte di un numero infinito di
corpi celesti.
Il luogo in cui questa danza si compie viene chiamato
Chidambaram: contemplando macrocosmo e microcosmo come
un'unica realtà, il centro della danza universale di Shiva viene
definito essere il cuore (fisico e spirituale) dell'uomo. In questo
senso il suono dei tamburi (simbolo dell'OM, quindi della
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creazione), che Shiva produce ballando, viene identificato con il
battito del cuore, che determina la vita. In questa visione,
l'identificazione tra macrocosmo e microcosmo evidenzia la
medesima natura dell'individuale e dell'Universale.
Una delle forma in cui incontriamo Shiva nella pratica delle Asana è
quindi Shiva Nataraja, Signore della danza.
Qui il dio, dopo la distruzione dell’Universo, si risveglia e danza per
trasmettere onde di energia cosmica alla materia inerte. La danza
di Shiva rappresenta la continua creazione e distruzione, indicando
che la morte è in perfetto equilibrio con la vita, e non antitetica ad
essa.
In piedi, inspirando, sollevare contemporaneamente il braccio
destro in avanti ed il sinistro e la gamba sinistra all’indietro; afferrare
il collo del piede ed espirando inclinare il busto in avanti inarcando
leggermente la schiena, sfruttando la spinta del ginocchio sinistro
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che sale verso l’alto. Equilibrare la forza tra le due braccia per
mantenere l’arco della schiena. Sciogliere e ripetere sull’altro lato.
Data la sua forza ed apertura, è adatta alle persone introverse e
che non riescono ad avere un buon rapporto con gli altri.
La danza è qui anche una forma di meditazione, che amplifica la
personalità del danzatore conducendolo verso l’esperienza del
divino e la realizzazione della propria natura. La danza è anche un
atto creativo, che risveglia le energie latenti, radunando e liberando
le forze che sono in grado di plasmare il mondo.
Shiva e la sua consorte
Si narra nei Purana che Shakti fosse figlia di Daksha, signore
dell'arte rituale, e che desiderasse sposarsi con Shiva. Il padre non
era favorevole al matrimonio di sua figlia con Shiva, che
considerava un personaggio bizzarro, ma alla fine acconsentì.
Un giorno Daksha decise di offrire una cerimonia sacrificale (Yajña),
alla quale furono invitati tutti gli dèi tranne Shiva stesso. Solo Shakti
ebbe il coraggio di recarsi presso Daksha a protestare, e
quest'ultimo come risposta iniziò ad insultare sia lei che il marito.
Sconvolta e disonorata dalle parole del padre, Shakti decise di
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commettere il suicidio sedendo in posizione yogica e dandosi fuoco
con la sua stessa energia interiore. Shiva, appresa la notizia della
morte di Shakti, si infuriò. Si staccò una treccia di capelli e
gettandola a terra generò Virabhadra, il guerriero invincibile.
Virabhadra irruppe sulla scena del sacrificio e decapitò Daksha,
gettando poi la sua testa nel fuoco sacrificale. Gli altri Deva presenti
al sacrificio pregarono Shiva di avere pietà, e di restituire la vita a
Daksha. Egli acconsentì e lo resuscitò; però, essendo la sua testa
distrutta nel fuoco, Shiva la sostituì con quella della capra
sacrificale.
Secondo altri miti (Shiva Purana, Ramcharitmana, e altri), Shakti
rinacque in seguito come Parvati da Himavan, signore
dell'Himalaya.
Parvata è una delle parole sanscrite per "montagna"; "Parvati" si
può tradurre quindi come "Figlia della montagna" e si riferisce alla
sua nascita da Himavan, per l'appunto il Signore/Sovrano delle
Montagne. I genitori di Parvati sono infatti Himavat, la
personificazione delle cime dell'Himalaya, e l'apsara (uno spirito
femminile delle nubi e delle acque) Menā.
Parvati, inoltre è considerata come la madre del dio dalla testa
d'elefante: Ganesh o Ganesha.
Nello Shaktismo si adora la dea shakti che è un'emanazione della
forza infinita del dio Shiva; una delle sue forme più importanti è
Kundalini che in oriente prende il nome di Kundalini-Shakti.
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Shakti e Shiva sono un tutt' uno e per questo motivo gli yogi
cercano di attivare Kundalini che risiede nel primo Chakra per
portarla fino al settimo Chakra dove risiede Shiva. Quando la forza
di Kundalini-Shakti si unisce con lui nel Chakra della corona ci si
trova in uno stato dove il tutto viene percepito come uno e come
un'emanazione di Dio, si è in beatitudine eterna, si sviluppano
poteri spirituali (siddhi) e si è in perfetta unione e comunione con
l’Assoluto trascendendo il cosmo, la mente, lo spazio e il tempo.
Nello Shaktismo quindi viene adorata la parte della forza di Shiva
che è di natura femminile. La Shakti è energia femminile che crea,
conserva e distrugge l' universo materiale e con la sua forza crea il
velo di Maya, invece Shiva è il Divino Nulla la cui forma è OM.
Anche nella forma di Parvati l'aspetto femminile e materno di Dio si
manifesta in aspetti differenti. In pratica, se Shiva rappresenta
l'aspetto personale di Dio (Ishvara), immanifesto e trascendentale,
Parvati è l'energia divina (Shakti) che da lui scaturisce, generando
gli universi materiali e determinandone la trasformazione.
In termini metafisici, Shiva può considerarsi la causa materiale ed
efficiente della creazione, la quale è strettamente correlata a prakrti
(la natura materiale, che è la stessa Shakti) che è la causa
efficiente secondaria. Ciò può essere paragonato alla relazione che
esiste tra un vasaio e la sua argilla: è l’azione del vasaio, la sua
energia, che modella la creta. Spirito e Natura, Shiva e Shakti,
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maschile e femminile, sono inseparabili poiché entrambi sono
necessari al gioco duale della manifestazione.
Tuttavia, Shiva non è visto soltanto come l'uomo cosmico
contrapposto alla sua parte femminile; una visione più universale e
metafisica vuole che la natura di Shiva sia così profonda e
ancestrale da racchiudere in sé al tempo stesso l'aspetto divino
maschile e quello divino femminile. Quando questo concetto viene
rappresentato nell'arte sacra, Shiva assume le sembianze di un
essere ermafrodita, per metà Shiva e per metà Shakti, e viene
chiamato Ardhanarishvara. Il significato simbolico è quello della
complementarità (e, quindi, della sostanziale unità) dei due opposti,
un concetto molto simile a quello di Yin e Yang della filosofia
taoista: spirito e materia, intelligenza ed energia, conoscenza ed
azione, staticità e dinamismo, sono due metà perfette e
complementari di un Tutto cosmico, la Creazione stessa,
rappresentato appunto da Shiva nella sua forma androgina.
Una riprova di questa complementarità consiste nel paragonare il
modo in cui Shiva e Parvati sono raffigurati: il primo è un eremita,
trasandato, con i capelli arruffati ed il corpo cosparso di cenere,
vestito con pelli di animali; la consorte invece indossa abiti raffinati,
è delicata e adornata con gioielli di ogni tipo. Essi si fanno simboli
rispettivamente della rinuncia e dell'abbondanza, dell'abbandono
del mondo e della prosperità, della povertà e della ricchezza: gli
opposti rappresentano l'onnipervadenza divina, che proprio in virtù
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della sua immanenza può manifestarsi in qualunque forma,
maschile, femminile o androgina. Shiva rappresenta l'immanifesto,
Shakti il manifesto; Shiva il sole e la sua nadi, Shakti la luna e la
sua nadi; Shiva il senza forma, Shakti la forma; Shiva la coscienza,
Shakti l'energia.
La radice di Shakti è in Shiva: l'uno è il principio dell'immutabilità,
l'altra del cambiamento; Shakti è cambiamento interno
all'immutabilità, mentre Shiva è il substrato immutabile che
costituisce la base del cambiamento, la sua radice.
L'esperienza di unità integrale tra l'immutabile e il mutevole
rappresenta la dissoluzione della dualità. In questo senso si può
affermare che Shiva e Shakti concorrano alla medesima realtà, che
siano la medesima realtà, e che quindi la forma ultima di Shiva
(nonostante egli sia usualmente ritratto con sembianze maschili) sia
di tipo femminile e maschile al tempo stesso, ovvero li comprenda
trascendendoli entrambi.
Possiamo considerare Trikonasana come la posizione dedicata alla
coppia divina, Shiva e Shakti.
In piedi, da Tadasana, espirando divaricare le gambe tenendo i
piedi paralleli. Inspirando, estendere le braccia all’altezza delle
spalle e ruotare la gamba destra fino ad avere il piede con la punta
rivolta verso il lato. Espirando, allungarsi con il busto verso la
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gamba ruotata, fino ad toccare con la mano destra la caviglia od il
piede. Nella variante classica, il braccio sinistro è esteso verso il
cielo ed il capo ruotato a guardarne il palmo della mano. Ripetere la
posizione sull’altro lato.
I due triangoli sovrapposti rappresentano, nella tradizione induista,
l’equilibrio tra l’energia maschile e quella femminile. Il triangolo con
la punta verso l’alto è il simbolo di Shiva, del maschile, del fuoco
che sale verso il cielo, e indica il cammino dal molteplice verso
l’uno.
Il triangolo con la punta verso il basso è il simbolo di Shakti, della
potenza femminile, e indica il percorso all’uno al molteplice. E’un
Asana propizio per le persone fragili, di corpo e di mente, e a chi
deve abbracciare la propria parte maschile o femminile rimasta in
ombra.
Il triangolo rappresenta anche l’unione di corpo, mente e spirito. La
posizione del triangolo mette inoltre l’accento sull’interconnessione
tra corpo ed ambiente, attraverso dipendenza, interdipendenza ed
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interazione. Il triangolo è una figura capace di resistere alla
pressione; consente quindi di chiederci in quale misura anche noi
riusciamo a resistervi.
Dee del femminile.
Il principio femminile presente in tutto l’esistente si manifesta a noi
attraverso diverse Dee. La femminilità è tradizionalmente associata
alla fecondità, alla natura e alla terra, e quindi, in termini di fisiologia
yoga, al primo e secondo chakra. Le Asana relative alla dee si
concentrano quindi, generalmente, sulla zona del bacino e sul
radicamento con la terra, come elemento ma anche come Bhumi,
mondo terrestre. E’ importante ricordare, soprattutto nei loro
attributi, che in realtà tutte le divinità del pantheon induista sono
manifestazioni di un unico Assoluto, che però può essere da noi
percepito non nella sua interezza, ma appunto nelle sue molteplici
forme. Per questo, molte delle Dee sono strettamente collegate tra
loro, attraverso gli attributi ed epiteti.
Durga è "colei che difficilmente si può avvicinare". È una forma di
Devi, la Madre Divina, che assume appunto anche molte altre
forme, tra cui Sarasvati, Parvati, Lakshmi, Kali. È raffigurata come
una donna che cavalca una tigre, con numerose braccia mani che
impugnano diversi tipi di armi ed eseguono dei mudra. Questa
forma della Dea è anch’essa l'incarnazione dell'energia creativa
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femminile (Shakti). Di carattere ambivalente, ha in sé entrambi i
poteri di creazione e distruzione.
La forma di Durga fu creata come dea guerriera per combattere e
distruggere il demone Mahishasura.
Mahishashura sconfisse tutti gli dèi compresa la Trimurti stessa.
Scatenò un regno di terrore sulla terra, in cielo e negli inferi. Infine,
dal momento che solo una donna avrebbe potuto ucciderlo, gli dèi e
la triade crearono un abbagliante raggio di energia dal quale
nacque Durga.
L’associazione, anche qui, alla parola Shakti nel significato di
"forza" riflette l'aspetto guerriero della dea, incarnando un ruolo
altrimenti tradizionalmente maschile. Ma è anche notevolmente
bella e inizialmente Mahishasura tentò di sposarla. In altre sue
incarnazioni come Annapurna o Parvati appare più materna, e
come Karunamayi (karuna, "gentilezza") è più dolce.
Per praticare Durga Asana, In piedi, a gambe divaricate come la
misura della spalle. Inspirando, sollevare le braccia lateralmente
stringendo i pugni, espirando, piegare i gomiti portando il sinistro
vicino alla spalla destra e il destro davanti a questo;
contemporaneamente flettere le ginocchia e, scaricando il peso a
destra, portare il ginocchio sinistro dietro al destro. Sollevare la
gamba sinistra, che va in fuori verso destra. Questa forma ci mette
in contatto con la forza di questa grande Dea. Aumenta il nostro
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equilibrio psicofisico risultando propizio per persone depresse,
paurose, senza fiducia in se stesse.
Esiste anche una Asana relativa a Durga come Bhadra. Bhadra
significa di buon auspicio, propizio, gentile.
Bhadra è un epiteto riferito a Durga, la dea della fertilità e della
natura, ma anche l'inaccessibile e la terrificante. La natura può
manifestarsi infatti tanto in forma benevola quanto in aspetto
malefico.
Seduti a terra piegando le ginocchia,
unire le piante dei piedi. Afferrando i piedi
con le mani, portare i talloni vicini al
perineo e far scendere le ginocchia verso
il suolo. Mantenere il busto ben diritto, le
braccia distese, il respiro calmo e
regolare.Va bene per persone con mentalità un po' rigida, che non
riescono a vivere bene la sessualità.
Sarasvati (dal sanscrito "colei che scorre") è una delle tre grandi
dee dell'induismo, insieme a Lakshmi e Durga, ed è la consorte di
Brahma, il Creatore.
Sarasvatī è venerata sin dall'epoca vedica come dea della
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conoscenza e delle arti, come letteratura, musica, pittura e poesia,
ma anche della verità, del perdono, delle guarigioni e delle nascite;
è spesso menzionata nel RigVeda e nei Purana come divinità
fluviale.
Nei Vedānta viene invece citata come energia femminile e aspetto
di Brahman (L’Assoluto), in particolare come personificazione della
sua conoscenza. I fedeli che seguono l'insegnamento dei Vedānta
credono che solo attraverso l'acquisizione della conoscenza è
possibile intraprendere il cammino che porta al moksha, liberazione
dal Samsara, e quindi solo pregando Sarasvati concedere la vera
conoscenza è possibile raggiungere l'illuminazione necessaria per il
moksha.
Per al sua Asana, ci sediamo a terra, con le gambe distese in
avanti. Incliniamo il busto all’indietro, sostenendoci sui gomiti ed
avambracci. Pieghiamo la gamba destra, portandone il piede su
quello sinistro. Espirando, solleviamo entrambe le gambe.
E’ una posizione adatta a alle persone che sentono la necessità di
riempirsi, ad esempio di cibo e di parole.
Nell'induismo, Lakshmi è la devi dell'abbondanza, della luce, della
saggezza e del destino, ma anche (secondariamente) fortuna,
bellezza e fertilità. È comunemente considerata consorte (Shakti) di
Vishnu, e madre con lui di Kama, deva dell'amore.
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Come divinità della ricchezza è venerata da coloro che vogliono
guadagnare o mantenere i propri guadagni; si crede che Lakshmi (e
quindi la ricchezza) visiti solo case pulite e abitate da gente che
lavora, mentre si tiene lontana dalla sporcizia e dai pigri.
La dea Lakshmi è incorrettamente identificata col denaro, in
conseguenza del suo attributo principale, la prosperità o
abbondanza. È inoltre dea anche della purezza e della santità, oltre
che del Brahma-vidya (conoscenza divina); è a lei che ci si rivolge
per chiedere felicità in famiglia, amici, matrimonio, bambini, cibo e
ricchezza, bellezza e salute. Fisicamente, la dea Lakshmi è
generalmente rappresentata come una bella donna, con quattro
braccia, seduta su un loto, vestita con vesti preziose e gioielli; ha un
atteggiamento benevolo, è giovane ed ha un aspetto materno.
Il particolare più evidente dell'iconografia di Lakshmi è la sua
costante associazione al fiore di loto; questo perché tale pianta, che
nasce dal fango ma fiorisce sulla superficie dell'acqua, senza che il
fiore porti traccia alcune del fango, è simbolo di purezza, forza
spirituale, perfezione e autorità. Inoltre, la posizione seduta su un
loto è un elemento ricorrente dell'iconografia di molte altre divinità
dell'induismo e buddhiste, ed indica che l'essere in questione
trascende le limitazioni del mondo (il "fango" dell'esistenza) per
muoversi liberamente in una sfera di purezza e spiritualità (come il
loto sulla superficie dell'acqua).
Il veicolo di Lakshmi è il gufo (ulooka in sanscrito).
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Per la sua Asana, dalla posizione eretta, con i piedi e le ginocchia
uniti, inspirando alziamo le braccia ed espirando flettiamo le
ginocchia, scendendo con il bacino a terra, senza sollevare i talloni
dal suolo.
E’ un’Asana adatta alle persone insicure.
Anche Kali rappresenta l'aspetto guerriero di Parvati. È conosciuta
anche come Devi (la dea) e Mahadevi (la grande dea) e assume
aspetti diversi: Sati (la donna virtuosa), Jaganmata (la madre del
mondo), ed è anch'essa Durga (l'inaccessibile).Nonostante sia
grossolanamente identificata come simbolo di oscurità e violenza, si
tratta di una deità benefica e terrifica al tempo stesso, dotata di
numerosi attributi dal profondo significato simbolico:
la carnagione scura rimanda alla dissoluzione di ogni individualità;
la nudità della dea rappresenta la caduta di ogni illusione;
il laccio con cui prende le teste per mozzarle rappresenta la
caducità di tutto ciò che esiste;
le quattro braccia reggono strumenti di distruzione e purificazione.
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Un’associazione simbolica che nelle mie ricerche ho trovato
particolarmente interessante, proprio nella sua potenza attuativa, è
quella della posizione Salamba Sarvangasana con la dea Sakini.
Sakini è la dea tutelare del chakra della gola, Vishuddha, e viene
rappresentata seduta su di un mucchietto di ossa, ad indicare che
ha il controllo del corpo intero e della sua parte più profonda.
L’osso appunto. Il chakra Vishuddha è infatti collegato alle funzioni
della ghiandola tiroide, influenza la crescita del cervello e del corpo
favorendo la forza delle ossa, nonché a quelle delle paratiroidi che
regolano la distribuzione del calcio e del fosforo. La posizione,
proprio per la sua azione sulla tiroide, è adatta alla persone
apatiche e lente.
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La natura guerriera e le sue armi.
Virahbhadra, potente eroe guerriero, nato da un capello di Shiva,
guidò il suo esercito per vendicare la morte di Shakti, sposa di
Shiva. Le sue gesta sono raccontate ne “La nascita del Dio della
Guerra”. A lui è dedicata questa potente asana, di natura maschile.
Manifestazione della forza virile e dell’ira di Shiva, la sua effige è
spesso utilizzata in funzione di guardiano all’ingresso dei templi.
In piedi, da Tadasana, inspirare e portare le braccia parallele
all’altezza delle spalle. Espirando compiere un salto, divaricando le
gambe di circa un metro, piedi paralleli. Espirando, girare di 90
gradi la gamba destra verso l’esterno, piegando il ginocchio destro
ad angolo retto, in modo che la coscia sia parallela al suolo ed il
ginocchio non superi la punta del piede. Il capo e lo sguardo sono
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rivolti verso destra, la tensione del corpo distribuita equamente sia
verso destra che sinistra, peso nel centro della gambe. Ripetere sul
lato sinistro.
Adatto a chi ha bisogno di forza e potere, ha anche un importante
significato simbolico, rappresentando la tensione tra passato e
futuro.
In un'altra variante, da Tadasana, inspirare e compiere un salto
aprendo le gambe di circa un metro, tenendo i piedi paralleli.
Ruotare la gamba destra di 90 gradi all’esterno,espirando ruotare
tutto il busto verso la gamba, girando un poco la gamba sinistra
all’interno. Inspirando, allungare il busto e le braccia verso l’alto ed
irrigidire la gamba sinistra. Espirando, piegare il ginocchio destro ad
angolo retto, in modo che il ginocchio non superi la punta del piede.
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Il capo è rivolto verso l’alto, gli occhi verso i palmi delle mani unite.
Ripetere sul lato sinistro.
Dona forza ed equilibrio a chi si sente debole e privo di potere.
Dhanus è l’arco, arma degli dei, dei re e dei nobili guerrieri.
Sempre associato ai grandi eroi, l’arco è segno di potere e di forza.
Analogamente alla mitologia occidentale, la posizione è anche
dedicata a Kama, colui che lancia le frecce d’amore, e alla sua
sposa Rati, dea della passione.
In questa Asana sono infatti ben presenti entrambi gli elementi,
fuoco ed acqua, legati rispettivamente al potere ed alle emozioni.
Nell’Induismo la sillaba mistica OM è l’arco, la mente la freccia, l’Io
Superiore (Brahman) il bersaglio.
E’ un simbolo collegato ad Arjuna, che si trovò innanzi tutti i suoi
amici e parenti, raffigurazione dei diversi aspetti della propria
personalità, che andavano superati affinché egli potesse progredire
spiritualmente.
In posizione prona, pieghiamo le ginocchia ed afferiamo con le mani
le caviglie. Solleviamo capo, spalle e petto e, aiutandoci con le
braccia, le gambe, in modo da tendere il corpo come un arco.
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La posizione può essere eseguita anche con delle fasi preparatorie,
prima flettendo e poi inarcando una gamba e quindi un lato del
corpo alla volta.
La posizione ci ricorda che non è importante darsi continuamente
da fare, disperdersi, ma piuttosto avere un chiaro bersaglio. L’arco
è anche collegato all’arcobaleno, simbolo di ottimismo e del
collegamento tra cielo e terra. L’arciere è simbolo di intelligenza
attiva. E’ una posizione che ci fa confrontare con i nostri limiti, di
flessibilità e di forza, a partire dalla nostra spina dorsale sino ad
abbracciare tutto il nostro Essere. L’avvicinare i piedi alla testa nel
senso opposto a quello cui siamo abituati, ci pone anche in
relazione con la sensazione di vulnerabilità.
E' un'Asana particolarmente adatta alle persone che devono
eliminare impurità dal corpo e dalla mente.
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Vajra è il fulmine, arma di Indra, re dei cieli. Indica anche il
diamante, che si riteneva essere della stessa materia. Tutto ciò
rende la posizione, oltre che forte, anche carica di una energia
adamantina che possiamo sentire durante l'esecuzione.
Personalmente, quando la eseguo avverto una diminuzione della
sensazione di fragilità emotiva.
In alcune scuole viene chiamata Virasana che deriva dal sanscrito
"vira" che significa "eroe, uomo, capo".
Inginocchiati a terra, teniamo le ginocchia vicine ed apriamo i piedi
quel che basta affinché il bacino posi a terra, talloni accanto al
bacino. Le mani possono restare poggiate sulle cosce, oppure in
grembo una dentro l'altra, oppure stendiamo le braccia in alto con le
dita intrecciate e i palmi rivolti verso l'alto. Se la posizione completa
riuscisse difficile, spesso a causa di problemi alle ginocchia,
possiamo tenere il bacino poggiato sui piedi sovrapposti, ed
allontanarli man mano che ci sentiamo più comodi (maggiore
elasticità alle ginocchia ed allungamento dei quadricipiti), magari
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sostenendoci con le mani accanto alla gambe, così da togliere un
po' del peso del corpo dalle gambe.
E’ un’Asana adatta alle persone agitate ed insicure.
Matsyendra e la saggezza.
Quando Shiva, mentre insegnava i segreti dello Yoga a Parvati, si
accorge della presenza di un pesce, lo spruzza d’acqua e, in una
versione del mito, il pesce assume sembianza divina, diventando
Matsyendra, il Signore dei Pesci (matsya = «pesce», Indra =
«signore»).
Con questa trasformazione da pesce a yogi, Matsyendra diventa il
depositario e il messaggero della disciplina, il guru dei guru, il
maestro da cui parte l’ininterrotta catena di maestri che avrà il
compito di trasmettere lo hatha-yoga nei secoli a venire.
I miti e le leggende che raccontano di Matsyendra sono
innumerevoli, ampiamente distribuiti nel tempo e nello spazio, ma è
proprio attraverso la leggenda dello yoga che la tradizione antica
conferisce un’importanza particolare alla figura di questo maestro.
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Matsyendra è colui che ha ricevuto gli insegnamenti sullo yoga
direttamente dalla bocca della divinità, il primo yogi che sia mai
esistito e che ha iniziato la diffusione dello yoga nel mondo.
Matsyendra è il maestro che ha saputo trasmettere fedelmente un
cammino di salvezza spirituale, che offre all’uomo la possibilità di
spezzare le catene dell’inesorabile ciclo di nascite e di rinascite, e
di liberarsi dalla sofferenza. Matsyendra è il guru dei guru che
attraverso la sua esperienza di trasformazione ha potuto
trascendere la condizione umana e diventare tutt’uno con il divino.
Nella tradizione indiana mito e storia si fondono continuamente e
tentare di distinguerli è spesso impossibile. La figura di Matsyendra
è in parte leggendaria e le notizie storiche veramente attendibili
sono scarse e spesso contrastanti fra di loro. Autorevoli studiosi
ritengono comunque che un maestro di nome Matsyendra, o
Matsyendranâtha, sia effettivamente esistito nel lontano passato
dell’India e lo collocano intorno all’XI secolo d.C. nella parte nordoccidentale del continente.
Matsyendra non è solo il primo yogi che sia mai esistito, colui che
ha imparato la dottrina direttamente da Shiva, ma è anche il primo
guru, che, come racconta un’altra leggenda, ha avuto per discepolo
Goraksha, uno dei fondatori dell’Hatha yoga. E tra le 8400000
posizioni esposte da Shiva, Matsyendra ne sceglie una e la lega al
suo nome, segno dell’importanza di questa Asana.
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Ci sediamo con le gambe distese davanti al corpo. Pieghiamo la
gamba destra e poniamo la pianta del piede destro sul pavimento
sul lato esterno del ginocchio sinistro. Pieghiamo la gamba sinistra
e portiamo il piede vicino al fianco destro. Il bordo esterno del piede
deve essere in contatto con il pavimento. Giriamo tutto il tronco e la
testa verso destra, mentre passiamo il braccio sinistro oltre il
ginocchio destro, fino ad afferrare la caviglia destra. Guardiamo
oltre la spalla destra. Possiamo poggiare la mano destra sul
pavimento vicino al bacino, o piegare il gomito destro e passare il
braccio intorno alla vita. Ripetiamo dall’altro lato. Per preparare la
posizione completa, si può praticare lasciando estesa una gamba,
accavallando o no quella piegata, e abbracciando il ginocchio
piegato.
La posizione è impegnativa, e ci pone innanzi a domande relative
alla flessibilità e alla forza, a partire dalla spina dorsale sino a tutto il
nostro essere. Una persona troppo rigida o contorta può sentirsi
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immobilizzata nei confronti degli eventi dell’esistenza, mentre una
eccessiva flessibilità può indurre ad essere manipolati. La torsione
può essere concepita come una spirale, diretta tanto verso l’alto
quanto verso il basso, con tutti i significati che la discesa verso la
materia o l’ascesa verso lo spirito comporta.
Tradizionalmente, l’energia in questa Asana viene liberata verso
l’alto, per dirigerla verso fini spirituali (negli antichi testi è scritto che
conduce verso moksha, la liberazione)
E’ un’Asana adatta alle persone volubili ed emotive.
Nello yoga le torsioni spinali portano spesso il nome di uno Sri,
venerabile saggio, poiché indicano, a livello simbolico, la capacità di
muoversi in ogni direzione, pur rimanendo in un punto centrato.
Altre posizioni di torsione ci ricordano simbolicamente uno dei
grandi saggi, in particolare Bharadvaja e Marici, ognuno con le
rispettive Asana.
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Ganesha, la testa di elefante. Dalle divinità agli animali.
Ganesha ,figlio primogenito di Shiva e Parvati, viene raffigurato
con una testa di elefante provvista di una sola zanna, ventre
pronunciato e quattro braccia, mentre cavalca o viene servito da un
topo. Spesso è rappresentato seduto, con una gamba sollevata da
terra e ripiegata sull'altra, in una posizione di asana . Tipicamente, il
suo nome è preceduto dal titolo di rispetto induista, Shri. E'una delle
divinità più venerate, e apre questo capitolo, in seguito dedicato
solo agli animali, a causa dei suoi attributi divini in forma di elefante.
Ga sta per Intelligenza (Buddhi), Na per Saggezza (Vijtlana), Pathi
per Maestro. Ganapathi, pertanto, è il Maestro della Conoscenza,
dell'Intelligenza e della Saggezza. Un altro nome a Lui attribuito è
Vighneswara, poiché egli rimuove tutti gli ostacoli che potrebbero
intralciare l'azione dei devoti che lo pregano con sincerità. È anche
chiamato Ganapathi per indicare che egli è il Condottiero (Pathi)
degli Esseri Celesti (Gana).È raffigurato con la testa di elefante
perché un animale dotato di profonda intelligenza. Esso ha, inoltre,
grandi orecchie che gli permettono di sentire ogni minimo rumore.
Ascoltare è il primo passo da intraprendere nel sentiero della
pratica spirituale e, per fare ciò, bisogna tenere le orecchie ben
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aperte. Il topolino è il suo veicolo. Il topolino è simbolo del buio
dell'ignoranza, mentre Ganesha rappresenta il fulgore della
Saggezza che dissipa le tenebre dell'ignoranza.
E’ il protettore dei villaggi, dei viandanti, degli studenti, ed è colui a
cui ci si rivolge quando si intraprende un’iniziativa od un viaggio.
La sua è un’Asana di equilibrio, con una gamba a terra mentre il
corpo forma una linea dritta, parallela al suolo, dalla testa all’altra
gamba sollevata. Le braccia sono conserte dietro la schiena.
Simbolicamente, è un’Asana benefica per le persone con la
memoria fragile e difficoltà di apprendimento.
Spostandoci verso le Asana più direttamente connesse con il
mondo animale, è importante ricordare che esse furono praticate
dai primi yogi perché essi avevano osservato la perfetta salute e
vitalità degli animali e, imitandone simbolicamente la forma, potersi
connettere a tale energia. Le Asana rappresentano qui uno dei
Loka, cioè quello animale, mentre ad esempio, l’Asana di Ganesha
rappresenta il loka divino.
Un animale mitico che ha dato il nome ad un asana è Garuda,
un’aquila o avvoltoio dalle possenti ali, cavalcatura di Vishnu.
Strettamente collegato al sole, che con i suoi raggi consuma ogni
cosa, è anche tradizionalmente l’uccisore dei serpenti , e nella
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tradizione popolare neutralizza il veleno. Raffigura quindi il conflitto
tra intelletto e materia, ovvero l’aquila che si libra al di sopra della
terra e delle tentazioni del serpente. E’ un grande simbolo di forza,
equilibrio e concentrazione. La sua è, infatti, un’Asana di equilibrio
fortemente radicata.
Una gamba è a terra, l’altra accavallata sull’altra in modo che il
piedi passi dietro al polpaccio. Le braccia sono incrociate, con i
gomiti sovrapposti ed anche i polsi incrociati, sino a giungere anche
i palmi delle mani.
Quando eseguiamo l’Asana, possiamo ricorrere al simbolismo
mitologico per espandere la nostra visuale e la nostra conoscenza.
E’ una posizione in cui è difficile mantenere l’equilibrio, trovandosi
un po’ annodati. Quando si riesce a mantenere, però, si ottiene una
concentrazione paragonabile alla visuale dell’aquila.
E’ un’Asana adatta alle persone indifese, con carattere debole.
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Collegandoci a Shiva, ci ricorderemo il mito del pesce che
osservava il Dio mentre impartiva gli insegnamenti dello Yoga a
Parvati.
Matsya è il pesce, simbolo di crescita e riproduzione. E’ la prima
delle dieci reincarnazioni (avatara) del dio Vishnu. Sotto forma di
pesce, Vishnu salvò Manu Satyavrata (un equivalente del Noè
biblico) dal grande diluvio, ordinandogli di mettere in salvo su una
barca una coppia di ogni specie vivente ed i semi di ogni pianta.
Il pesce è anche legato a Shiva, poiché uno di essi uscì dall’acqua
per osservare meglio il dio che insegnava i segreti dello yoga alla
sua sposa Parvati. Man mano che progrediva nel suo
apprendimento, il pesce si evolveva sempre di più. Il mito si
ricollega qui al saggio Mastyendra, il cui nome ci rimanda a questa
leggenda.
Possiamo prepararci dalla posizione supina poggiandoci sugli
avambracci, gomiti puntati e parte superiore delle braccia
perpendicolare al suolo, e abbandonando il capo all’indietro. Per la
posizione completa, partiamo completamente distesi sulla schiena,
spingiamo in alto il petto inarcando il tratto cervicale sino a poggiare
al suolo la sommità del capo. I gomiti spingono a terra per
sostenere l’arco del busto, con le mani poggiate sulla piega
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dell’inguine. Le varianti della posizione possono essere eseguite da
Vajrasana e da Padmasana; in quest’ultimo caso le mani
afferreranno i piedi o gli alluci.
E’ una posizione simbolicamente legata all’acqua, legata ad
inconscio ed emozioni, dove per nuotare dobbiamo unire la grazia
alla potenza, richiedendoci quindi flessibilità in un senso ampio.
Inoltre ci porta a sollevare il cuore verso l’alto. Il pesce simboleggia
la ricerca nelle profondità dell’inconscio, dove ci può illuminare
l’introspezione e l’ispirazione che viene, appunto, dal cuore.
Permettere al cuore di espandersi favorisce il rilassamento e dà un
profondo senso di sollievo.
E' un'Asana adatta alle persone facilmente eccitabili, conferendo
forza attraverso la flessibilità.
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Un altro grande simbolo del Loka animale, sempre collegato a
Shiva, è il cobra, con la sua Asana, Bujangasana.
Il serpente è simbolo di fertilità, nascita e morte, saggezza e
tentazione. Anche l’energia della kundalini è rappresentata come un
serpente arrotolato che riposa nel primo chakra, Muladhara.
Bhujanga è la parola che indica il cobra, re di tutti i serpenti, il
grande naga simbolo di Shiva, patrono degli yogi, che lo porta al
collo, ai polsi ed alle caviglie, indicando lo scorrere del tempo.
Nella mitologia Hindu, il cobra è anche associato a Brahma (il
principio creativo) e a Vinsu (la preservazione della vita), che
protegge allargando la testa ad ombrello. Il serpente è a contatto
con la terra, sale sugli alberi e si immerge nelle acque, incarnando
un grande simbolo di indagine nel profondo di se stessi e di
trasformazione, anche perché è un animale che cambia
letteralmente la propria pelle.
Stesi sull'addome, portiamo le mani ai lati del petto, senza superare
con le dita la linea delle spalle. La fronte e la punta del naso
toccano il suolo. Inspirando, solleviamo dapprima il capo, poi
alziamo il busto stendendo le braccia, con i gomiti vicini al corpo.
Nella variante parziale, possiamo semplicemente appoggiarci sugli
avambracci, assumendo la posizione della sfinge. In una variante
più avanzata, divarichiamo le gambe di circa 50 centimetri girando
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le punte dei piedi all'esterno, ed espirando giriamo il capo e le
spalle prima da un lato e poi dall'altro.
In questa posizione ci sentiamo vicini al terreno ma percepiamo
comunque degli aspetti generalmente non familiari: allo stesso
tempo umiltà, paura di essere calpestati, e soprattutto il confronto
con il nostro potenziale latente, di cui spesso siamo inconsapevoli,
rappresentato dall’inarcamento che è un movimento che spesso ci
risulta inusuale.
Il serpente inoltre avanza strisciando sul ventre, cioè per mezzo
delle conoscenze che ha assimilato a livello viscerale.
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E' un'Asana adatta alle persone chiuse in uno schema, che non si
lasciano andare facilmente agli stati emozionali e che non sanno
vivere bene la propria sessualità.
Anche la mucca è presente nella mitologia indiana. Secondo le
Upanishad, l’Atman si è incarnato prima dell’uomo e nella donna,
che hanno dato origine ad un toro e ad una mucca. Surabhi è la
vacca dell’abbondanza, chiamata anche Kamadhenu, colei che
soddisfa ogni desiderio. La posizione dedicata a questo animale
sacro è Gomukhasana, posizione del muso di vacca.
Da seduti, pieghiamo la gamba destra sovrapponendo il ginocchio a
quello della gamba sinistra, anch’essa piegata. Inspirando,
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pieghiamo il braccio destro dietro la schiena, mentre il sinistro sale
in alto e si piega al gomito. Espirando, uniamo le mani dietro le
spalle. Ripetiamo dall’altro lato.
E’ una posizione che ci collega simbolicamente al sostentamento, al
nutrimento materiale e spirituale,al latte ed ai simboli di maternità.
Per eseguire questa posizione occorre forza e tranquillità. La
mucca è un animale forte ma anche simbolo di tranquillità e docilità.
I limiti imposti dall’Asana ci faranno confrontare con le nostre
debolezze e limitazioni.
E’ un’Asana adatta alle persone che si sentono a disagio nelle
situazioni nuove, richiamando la forza tranquilla della mucca.
OM SHANTI
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