Memo n.5 sulla filosofia di Giulio Preti

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Memo n.5 sulla filosofia di Giulio
Preti
Albe!o Per"zi
Dipa!imento # Filosofia • Università # Firenze
(Foto: Marco Salucci 2011)
albe!o.per"[email protected]
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
Il quinto Memo è uno zibaldino: se erano osservazioni sparse quelle raccolte finora, qui si troveranno appunti ancor più frammentari nell’argomentazione, con un numero maggiore di nessi
sottaciuti e per giunta con l’aria di papirotti d’ouverture per articoli o capitoli che fortunatamente non ho scritto. Ho deciso che mi fermerò a sette Memo, buttando via gli altri. Così imparo a non rispettare le scadenze e ad arzigogolare. Il 2011 è già finito e sono ancora qui alla tastiera a battere appunti stesi nel corso degli anni per un progetto fallito. Sarà bene che torni a
pensare invece che ricopiare pensieri del passato. Giusto, restano solo altri due memo dopo
questo, se no il rischio è quello di chi ebbe difficoltà a identificarsi con se stesso e alla fine si
trovò a dire “Finalmente riposo in pace ... accanto alla mia tomba”. La stessa sensazione straniante è veicolata dalle parole seguenti:
Una volta che la nozione di ‘assoluto’ perde il senso, perde il senso anche quella, ad essa
correlata, di ‘relativo’. Esorcizzato il fantasma dell’assoluto, non è più il caso di parlare di
relativismo, o di agnosticismo o di scetticismo. Certo, la verità della filosofia è tale in un
mondo di cultura determinato, ed entro i presupposti linguistici e culturali di questo. Ma
dal momento che non ha senso parlare di altra verità che questa, questa è la verità. Non si
vede perché dovremmo considerarla eterna ed immutabile: vale nel presente, nel nostro
presente, per noi, che non possiamo vivere altro che nel presente e siamo nati per morire.1
Sono le parole con le quali Preti chiude “Il linguaggio della filosofia” (1962) e potrebbero anche stare a mo’ di epigrafe di quanta subdola ambivalenza resta nello zibaldino.
1. Sintetico e analitico
Immaginate che in un esame di filosofia il professore chieda a uno studente: “Il ruolo del sintetico a
priori può essere svolto dall’analitico”? In generale, è ovvio che no. La domanda nasconde allora un trabocchetto. Ma per quale motivo si potrebbe rispondere di sì? Le regole degli scacchi non dicono come
muovere e le regole del linguaggio non dicono com’è fatto il mondo. Qualunque cosa sia sintetico seleziona strategie di gioco o di pensiero fra quelle compatibili con le regole del linguaggio. Altrettanto ovviamente la meccanica quantistica non si lascia esprimere nel mio vernacolo natìo. La semantica non è
una secrezione della sintassi e la conoscenza non è una secrezione della semantica. Un attimo, anche se
le ragioni per introdurre o per conformarsi a una cornice di regole sintattiche e semantiche hanno in sé
componenti extralinguistiche? Guarda caso, il termine scacchi, écheques, deriva dal persiano Shah.
Guarda caso, gli alfieri erano in origine elefanti (indiani). Strano che la rivoluzione francese non abbia
1 In Saggi filosofici, I, p. 474.
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Alberto Peruzzi – 2011
cambiato nome e forma ai pezzi degli scacchi. Ed è forse un caso o una convenzione che i giochi a somma
positiva abbiano avuto poca storia nella storia bellicosa dell’umanità? Barbaro e balbettare sono scherni
onomatopeici e i suoni sono quel che sono: è un fatto. Sì, ma che c’entra? Le convenzioni stradali (senso
di marcia e cartelli) valgono dal momento in cui sono istituite: il loro essere è nel valere.2 Sic (Tutto è un
fatto) et non (anche i lanci di colore di Jackson Pollock lo sono, però molti fatti costano di meno).
Ora ... sembra che Preti abbia risposto di sì alla domanda iniziale quando si è riferito ai “formatori
tautologici”. Era solo un’astuzia per far entrare di contrabbando in territorio empirista un po’ di merce
straniera, proveniente dalle terre del trascendentalismo? O era qualcosa di più? In interventi di qualche
anno fa suggerivo che i richiami di Preti all’empirismo sono da prendersi con le molle, perché il (suo)
trascendentalismo is here to stay: non viene mai meno e di tanto in tanto si riappropria della scena (vedi il
dialogo con Foucault).
Trattandosi di un trascendentalismo di tipo particolare e di un empirismo di tipo non meno particolare, se i due finiscono per trovare un modo per andar d’accordo, non dovremmo restare sorpresi. Né
dovremmo pensare subito male, cioè, a un compromesso di comodo, se il punto d’incontro è frutto di un
ripensamento generale dei termini della questione.
Con ciò voglio dire che il suggerimento relativo alla domanda iniziale potrebbe esser rovesciato: la
risposta sarà anche negativa, ma non è ovvio che sia tale. Oggi in effetti sarei più propenso a dire che il
trascendentalismo di Preti è una componente del suo empirismo e non viceversa. Egli stesso del resto si
era espresso al riguardo:
Quando ho cominciato ad occuparmi di filosofia la situazione non era certo delle più incoraggianti: era quel bellum omnium contra omnes [...] Di qui un bisogno di trovare piani del
discorso e metodi più positivi, più intersoggettivi [...]
In questo stato di cose la seduzione della scienza è irresistibile. Di fronte al filosofo di oggi,
lo scienziato [...] appare una persona seria [...]
Esistenzialismo ed empirismo logico, le due nuove forme di pensiero filosofico che secondo me risolvono definitivamente questa crisi, agirono in due direzioni divergenti ma cospiranti. [...]
Ma tra il disgusto per il vaniloquio filosofico e le esperienze dell’esistenzialismo e dell’empirismo logico, altre esperienze si sono inserite. [...] Da un lato c’è stata la Fenomenologia
di Husserl. [...] Ma è certo che ad un dato momento il pensiero di Husserl si è incontrato
con quello di Natorp e in genere del neokantismo, nonché con il relativismo simmeliano
2
Detto fra noi: ai neocriticisti questo discorso non sarebbe piaciuto proprio per niente. Ci avrebbero colto una canzonatura del sintetico a priori in forma valoriale.
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(per me questo incontro si è significativamente concretato nel pensiero di Banfi), nella
creazione di un nuovo razionalismo estremamente esperto, aperto, problematico. Qui il
piano della Ragione appariva come un ordine, un sistema trascendentale di idee vuote secondo cui, ma non in cui [corsivo mio], si doveva trasporre, per la sua intelligibilità, il concetto dell’esperienza più o meno tematizzato mediante le categorie del sapere naturalistico,
e più in generale, della riflessione pragmatica. [...]
Un’altra notevole influenza, assai diversa dalla precedente, ma in un certo senso ad essa
complementare, è stata quella delle filosofie pragmatiche – del marxismo e del pragmatismo
deweyano. [...]
L’adesione all’empirismo logico è risultata adunque da queste complesse esperienze [...]3
Alla luce di queste parole il punto non è semplicemente che che le strutture a priori della conoscenza abbiano perso l’assolutezza kantiana, ma è che le categorie e i principi dell’intelletto, specificandosi come formatori sul piano linguistico,finiscono per non aver altro significato se non quello che è
definito implicitamente dal ruolo che svolgono, dunque dal tipo di unificazione che rendono possibile
rispetto a una data classe di contesti di discorso ... e di esperienze.
Una volta che le verità logiche sono intese ‘alla Carnap’ e il soggetto trascendentale si configura
come reticolato categoriale che a sua volta si esprime in un insieme di formatori linguistici, il “formale”
della logica “formale” diventa il “trascendentale” dell’epistemologia critica, ed entrambi confluiscono in
un’analiticità sovralimentata. A metter in luce che il dominio dell’analitico era in funzione di una comunità linguistica, dunque aveva già un’intrinseca dimensione intersoggettiva, ci avevano pensato i filosofi
analitici, mentre a colmare la mancanza di una dimensione intersoggettiva sul piano trascendentale ci
aveva pensato Husserl e bisognava solo stare a attenti a interpretare le sue “essenze” come strutture
“formali”. 4 Dopotutto, all’origine di ogni forma che conosciamo c’è un formarsi.
I neoempiristi erano stati furbi a nascondere una questione: se ci sono solo o fatti o convenzioni,
l’intersoggettività che poteva essere di loro interesse da che parte stava? La distanza fra intersoggettività
empirica, de facto, e intersoggettivà de iure (un tempo trascendentale) cresce o diminuisce? Credo che
fossero portati a idealizzare la prima e così era salva la capra e lo erano pure i cavoli, come credo che in
una simile idealità Preti vedesse riaffermato qualcosa che i neoempiristi non avrebbero nominato volentieri: lo spirito oggettivo. Ma se ripartiamo dallo spirito oggettivo dobbiamo poi fare i conti con la ricerca
delle sue precondizioni a priori e allora siamo daccapo. La dilatazione del “trascendentale” che ancora
3 “Il mio punto di vista empiristico”, Saggi filosofici, I, pp. 476-479.
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Per chi non lo sapesse, la filosofia husserliana era stata l’oggetto della tesi di laurea di Preti, dalla quale ricavò il suo
primo articolo: “Filosofia e saggezza nel pensiero husserliano”, uscito nel 1934 sull’Archivio di Filosofia.
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Alberto Peruzzi – 2011
aveva luogo nelle Scuola del Baden (Rickert, in primis) da un lato l’aveva svuotato e dall’altro l’aveva pur
esteso verso nuove dimensioni dell’esperienza – qui esperienza culturale, la casa dello spirito oggettivo.
Lo so che sembra un’elucubrazione poco digeribile. Invece è una favola seria e ha la sua morale.
Quale? Ogni tentativo di attribuire priorità alla componente trascendentalistica o a quella empiristica nel
pensiero di Preti, oltre che circostanziale dev’essere ponderata alla luce di quel “principio d’immanenza”, che il giovane Preti sottoscrisse e che non mi risulta abbia mai ritrattato. Non occorre neanche farla
tanto lunga sulla definizione del termine “immanenza”, reperibile in ogni buon dizionario filosofico,
perché si capisce subito che il principio equivale per Preti a riconoscere come alpha e omega, primario e
ultimario, il dato empirico, non più cristallizzato ma visto nella sua fluida fusione di aspetti soggettivi e
oggettivi.
L’immanenza cara a Preti escludeva la possibilità di intendere i fenomeni come spia di qualcos’altro
e più precisamente come porta aperta su una soggiacente ontologia, circa la quale i filosofi si sono sempre visti costretti a schierarsi. O con i dualisti e con i monisti: i primi impegnati a riconoscere la realtà
metafisica sia dello Spirito sia della Cosa, i secondi impegnati a ridurre uno dei due termini all’altro.
Quanta fatica per nulla: nel momento in cui diceva che il discorso filosofico deve fermarsi all’immanenza,
Preti tagliava la strada all’ontologia, di qualsiasi tipo fosse. La Ding-an-sich diventa Erscheinung-an-sich.
Anche l’apprezzamento verso la fenomenologia husserliana era da vedersi in chiave antispeculativa.
Il compito che restava alla filosofia era quello di dipanare la matassa, nel senso più lato, ovvero ricostruire la nostra immagine della realtà empirica e ricostruirla nella sua genesi. La fenomenologia “descrittiva” dell’intersoggettività doveva essere fenomenologia “genetica”, cioè (si fa per dire) Husserl
diventava Hegel e così le fenomenologie tornavano a essere una sola. Per il giovane Preti questo voleva
dire: seguire il farsi della ragione nella storia, individuandone i componenti e la relativa dialettica. E così
anche gli idealisti nostrani erano serviti, perché veniva loro revocato il diritto di proprietà su spirito e
storia.
Stando attenti a non uscire dall’immanenza, soggetto e oggetto non sono più entità esistenti al di
fuori del campo relazionale in cui si trovano immersi, ragion per cui anche i tentativi di ridurre l’uno
all’altro risultano fuorvianti. In questo senso si può cogliere il senso degli sforzi fatti dal giovane Preti
quando strattonava i neokantiani per farli uscire dal loro olimpico accademismo: voleva rimettere al centro dell’attenzione la fertile bassura dell’esperienza. Quegli strattoni gli erano stati suggeriti da Husserl e
conviene ricordarselo bene quando si passa a considerare la successiva propaganda di Preti a favore dell’empirismo. Preti fa a Husserl quel che Husserl aveva fatto a Hume: ne curva l’eredità in modo da ridurre
gli attriti sui punti che gli interessano e sorvola sul resto.
Le strutture dell’esperienza identificabili in questo modo erano a priori formali, da mantenersi
nettamente distinti da capacità innate indagabili con la psicologia, per un banale motivo: la loro oggettivi-
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Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
tà era tutta e unicamente inter-soggettiva. Inter significa tra: ma tra che tipo di soggetti? Già su questo
punto si profilava una tensione destinata a permanere fino all’ultimo: ora ci si riferiva al soggetto naturale, inteso come individuo in carne e ossa, identificato dall’appartenenza a una specie animale, e ora al
soggetto culturale, inteso come portatore dello spirito oggettivo. Era una tensione ... esistenziale,
drammaticamente sentita, che esigeva di essere descritta in maniera articolata e di essere razionalizzata
nella sua dinamica. Semplice a dirsi. La fenomenologia genetica di quel che c’è tra questi due tipi di soggetto era tutta da scrivere.
Simmel e Banfi gli avevano spianato la strada per dinamicizzare gli a priori formali. Anzi, gli avevano offerto due modi per farlo: ora in rapporto alle figure concrete di una non meno concreta fenomenologia dello spirito, andando dai bisogni del singolo alle relazioni sociali, e ora in rapporto a un’intrinseca,
vitale, dialettica tra le forme stesse identificate come a priori, in tal caso spostando il discorso su un piano
ancora più generale e astratto, necessario per cogliere il movimento dialettico dei concetti stessi. In un
modo o nell’altro la filosofia avrebbe pur sempre raccontato le disavventure dello spirito umano: La Vita
chiamava la Ragione e la Ragione rispondeva plasmando l’ethos, dando reale effettività ai valori, ma in
corso d’opera si generava una gabbia da cui gli impulsi vitali avrebbero indotto il soggetto in carne e ossa
a fuggire, ecc. ecc. Tema ricorrente nella Lebensphilosophie, ancor prima dell’esistenzialismo, e sufficiente a farsi un’idea del progetto che il giovane Preti realizzò in Fenomenologia del valore,5 che anche se
aveva richiesto molta ricerca era più una preparazione di una futura ricerca che una documentazione dei
suoi esiti – e anche se evitava la “barocca metafisica” di un Sartre e un Merleau-Ponty (così definita vent’anni dopo), usava un linguaggio che poi Preti avrebbe dismesso, salvo in seguito tornarci occasionalmente con la consapevolezza però della sua vaghezza evocativa.
Chiaro è in Fenomenologia del valore il rimprovero a Banfi: oh, la “sistematica” razionale era elegantissima, ma quell’eleganza veniva pagata a spese dell’io concreto, passando sopra alla sua esperienza
di vita. Il rimprovero è per interposta persona. Giusto all’inizio di Fenomenologia del valore, Preti scrive
che “vi sono temi che sfuggono a Hegel [...] sono temi che il sistema della ragione deve ignorare” (p. 9) e
con ciò non voleva certo dire ai suoi lettori di richiudere il libro che avevano appena cominciato a legge-
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Al riguardo mi ricordo di un episodio curioso. Un paio d’anni dopo la morte di Preti incontrai nel bar antistante
l’ingresso dell’università in via di Parione (comunemente detta “del” Parione) un signore intorno tra i quaranta e i
cinquanta che era stato allievo di Preti e che, sentendomi parlare di Preti con altri ex-studenti, intervenne chiedendoci quale era secondo noi la linea filosofica più interessante che era emersa dal suo insegnamento. In maniera terribilmente ingenua, ma anche per colpire i miei compagni (di tutt’altra idea), risposi che era il recupero della filosofia
dell’esistenza effettuato passando per la filosofia della scienza. Mi sentii dire che non avevo capito nulla, in particolare il senso del neopositivismo, e che lui, da ex-allievo di Preti, non capiva come fossimo così ignoranti di filosofia da
non sapere che la filosofia dell’esistenza era andata sempre a braccetto con l’irrazionalismo – che Preti, da alfiere
della cultura scientifica – gli aveva insegnato a disprezzare. Per molto tempo ho ripensato a quella reazione chiedendomi se io non avessi davvero frainteso quel che Preti diceva a lezione. Per anni ho scosso la testa ripensando all’ingenuità con cui avevo risposto e, in fondo, dando ragione a quel signore. Col senno di poi, arrivato un po’ prima
però della ripresa del tema della corporeità nella filosofia della mente di questi ultimi anni, sono tornato a credere di
aver dato una buona risposta. Forse quel signore ignorava il legame di quell’alfiere con Simmel – che a Preti era
arrivato filtrato attraverso Banfi e che Preti poi s’impegnò a recuperare direttamente, senza dover passare per Banfi.
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re! Intendeva annunciare che il Sistema, ivi compreso quello “aperto” di Banfi, non bastava. Non sarebbe
mai bastato. Così, la reazione che fu di Kierkegaard verso Hegel si rinnova in Preti e riguarda, dopo Hegel, lo stesso Banfi. Con una piccola grande differenza: l’empirismo rivendicato da Preti va in direzione
opposta alla chiusura del soggetto nel suo intimo e punta a un discorso che voglia essere il più possibile
trasparente, intersoggettivo, aperto alla verifica.
Da qui il passo ulteriore, cioè quello verso la centralità della scienza, non sarà tanto lungo. Certo,
non si capiva bene come conciliare la dinamicità, hegeliana-e-vitale, con la “validità” e il “significato”
della logica, come appaiono in Bolzano e nell’Husserl delle Ricerche logiche. Ci sarebbe voluto qualche
anno prima di riconoscere agli a priori il carattere di convenzionalità su cui avevano insistito i neoempiristi. Con un chiaro inconveniente: bisognava ripensare anche quel che finora sembrava essere a posto.
Quindi la partita non era chusa. Ma anche se non era chiusa, c’era un vantaggio: quando Preti arriva alla
stazione di Vienna, ha dalla sua un percorso che lo aiuta a non cadere in un empirismo atomistico e statico e in un positivismo dogmatico. Per la cronaca: senza essersi dovuto leggere Quine. Proprio per questo
meriterebbe maggiore attenzione il fatto che Preti abbia continuato ad accettare la dicotomia tra analitico
e sintetico intendendola sotto un profilo di storicità dialettica. 6
Prima ho detto che ci volle qualche anno a Preti per riformattare, in chiave linguistica, lo status
dell’a priori fino a farne qualcosa di assimilabile a convenzioni verbali. Se ci accontentiamo di un po’ di
meno (per esempio, di qualche dichiarazione programmatica in tal senso), già nel 1943, in Idealismo e
positivismo, Preti è esplicito nell’apprezzare il convenzionalismo di Poincaré e Hilbert, salvo glissare sul
fatto che entrambi (per motivi diversi) elaborano anche altri argomenti per salvare un qualche frammento
di sintetico a priori che non sia convenzionale (nozione di gruppo nella costituzione degli oggetti percettivi, principio d’induzione, intuizioni combinatorie finitarie). Preti non avrebbe mai sottoscritto la distinzione di Poincaré tra dati grezzi (nudi, bruti, in-sé) e fatti scientifici, né si sarebbe schierato a favore
del finitismo e del sintatticismo di Hilbert. Per entrare nei dettagli della questione sarebbe necessario
aprire una parentesi lunga e complicata. Siccome voglio scansarla, metterò da parte tanto la lettura pretiana di Hilbert quanto l’ accostamento (troppo rapido) di Hilbert a Poincaré. Mi limiterò alla questione
di che cosa diavolo sono i “fatti” una volta che mettiamo da parte l’atomismo dei dati e la loro nudità.
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Viene infatti da pensare che gli effetti della critica quineana alla dicotomia non fossero poi tanto diversi dagli effetti
di una storicizzazione dell’analiticità. Non presumo di trovare consenso dicendolo. Su questo punto si potrebbe
disquisire a lungo. Forse l’unico in grado di chiarire la questione è Paolo Parrini perché la tesi di laurea che scrisse
per laurearsi con Preti verteva proprio sulla filosofia di Quine. Mi preme fare un’aggiunta: con quel che “viene quindi da pensare” non intendo suggerire che al riguardo la soluzione pretiana fosse giusta. Dubito che l’articolazione
data da Preti al tema avrebbe convinto un filosofo analitico come Quine. Peccato che non si siano mai incontrati. Se
ricordo bene, Quine venne a Firenze nel ’74 per tenere una bellissima conferenza. (Da quel poliglotta che era, la
tenne in italiano, curiosamente usando “sentenza” per “enunciato”, cosicché avevo l’impressione fantscientifica di
sentire un giurista che affrontava questioni di filosofia del linguaggio! Quando anni dopo lo dissi a Quine, ci fece su
un bel sorriso.) Ma perché Quine non era venuto due anni prima? V’immaginate un dibattito Quine-Preti ...
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Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
Per Preti, nessun dato dell’esperienza è nudo: una qualche categorizzazione è sempre in atto. Ma
non è detto che debba essere sempre la stessa e la moltitudine di abiti per rivestire il “dato” non è solo
dalla parte del negativo: opinioni ingenue, esoterismi, superstizioni che cambiano attraversando un fiume. La storia del pensiero scientifico mostra che la possibilità di categorizzazioni diverse si è di fatto
realizzata anche dalla parte del positivo. Un simile riconoscimento non prepara tuttavia al relativismo,
perché la notitia quinque sensuum frappone una barriera a qualunque Sistema (ora di credenze) voglia
proporsi come generatore di fatti, troppo facilmente pronti a cambiare quando cambia il Sistema.7
Ecco le parole testuali che si leggono alle pp. 60-61 di Idealismo e positivismo:
[...] se anche non mi piace di vedere la mia bicicletta fracassata in seguito ad un incidente, la
vedo, ahimè, lo stesso [...] La conoscenza sensibile è oggettiva; ma guardiamoci bene dall’imitare «gli sciocchi che vinsero Berkeley con una smorfia» — è oggettiva nel senso che
essa è il fondamento di quel vero sapere, che solo ha valore e significato per gli uomini [...]:
il sapere intersoggettivo. Dico sapere, ma dovrei dire cultura: non solo la scienza, ma l’arte,
e la religione, la stessa misitica tendono irresistibilmente alla comunicazione intersoggettiva [...]
In altri brani di questa stessa opera, e in altri scritti di Preti, si avverte la linea di continuità tra
l’esperienza che resiste alla Ragione e l’Anima che sfugge dalle maglie dello Spirito. Oltre al latente dialogo con Banfi, c’è una traccia della nozione di “cosa” che Preti riprende da Husserl, quale polo/residuo
delle sue varie Abschattungen. D’accordo, sono aspetti che non danno indicazioni univoche. Ci si potrebbe ricamare sopra a lungo. Per andare al sodo dico subito quel che vedo sullo sfondo delle parole di
Preti: ovvero, abilmente traslato, il busillis kantiano del rapporto cosa-fenomeno. Se il polo/residuo è
extralogico ed extralinguistico, come si fa a parlarne e ad argomentare quel che se ne dice? Dopo chi
aveva inaugurato una teologia negativa, il nostro voleva forse inaugurare una fenomenologia per viam
negationis di ‘qualcosa’ di cui si deve tacere? Quanto mai curioso. E allora?
La rete delle “funzioni logiche” era insufficiente ad assicurare un minimo invariante, da allocarsi
nel substratum, al di sotto delle variazioni cui vanno incontro i sistemi concettuali. Se un tale substratum
era pura potenzialità, restava da dire come mai la gamma delle sue attualizzazioni conoscitive è, dopotutto, vincolata. Per fare un esempio banale, anche Preti avrà fatto un’esperienza comune: quella di vedere
la propria penna rotta anche se non la voleva vedere così. Al contempo in Idealismo e positivismo, p. 24,
ci dice che ogni concettualizzazione, “astrazione”, “rappresentazione simbolica”, è una tra infinite pos-
La notitia quinque sensuum era intesa da Preti come proiezione sugli assi di una notitia legata a una “esperienza
globale del corpo”.
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sibili scelte finitarie nei confronti dell’esperienza, intesa dunque come infinitum, un infinitum che però è
anche assoluta plasticità, non sommatoria di vincoli. Quindi il substratum non dovrebbe aver nulla in
contrario a dire che la penna rotta è solo un’apparenza. Il che non torna.
Proviamo allora a fermarci un attimo sulla storicità dei sistemi categoriali per vedere se aiutava, o
poteva aiutare, Preti a uscire dal busillis.
Preti è convinto che non si può più tornare indietro rispetto a un’acquisizione fatta una volta per
sempre dalla filosofia tra Ottocento e Novecento: la pretesa di una deduzione pura di categorie e principi
è da abbandonarsi come illusoria. Kant e soci non avevano semplicemente preso qualche cantonata sui
dettagli. Avevano sbagliato l’obiettivo. L’unica legittimazione razionale di categorie e principi è a parte
post, pragmatica, perché si valuta in termini dei risultati empirici cui categorie e principi portano, e dunque è storica, perché di certo una simile valutazione non è un caffè solubile all’istante. Qualcosa del genere lo dirà (un po’ dopo, però) anche Imre Lakatos ed è curioso che la domanda-obiezione rivolta a Lakatos non sia stata posta già a Preti: quanto si deve aspettare per un giudizio di legittimazione? Infatti
potrebbe darsi che un principio non porti a nulla dopo 10 anni, a qualcosa di interessante dopo 20, a
qualcosa di sbagliato dopo 30, a qualcosa che non è più sbagliato dopo 40, ecc. Preti non sarà stato d’accordo con Geymonat sulla cumulatività necessaria, per progressivi “approfondimenti”, ma a una qualche
versione di cumulatività de facto non credo che intendesse rinunciare.
Chi mette l’enfasi sul pragmatismo pretiano come quasi automatico titolo di merito è bene che, di
fronte alla domanda-obiezione su menzionata, si prepari a sfogliare la margherita e in effetti temo che il
discorso di Preti si mantenga troppo sul generico per quanto riguarda la razionalità di una legittimazione
delegata esclusivamente al senno di poi. Preti maturerà piano piano una diagnosi, ovvero che c’è un
drammatico scarto tra il piano trascendentale dell’epistemologia e il piano fenomenologico-descrittivo
della natura e della praxis. La presenza di questo scarto è stata colta molto bene da Pier Luigi Lecis già
nel Preti degli anni Quaranta, allorché si presenta come difficoltà di conciliare vincoli e svincoli (da un
lato funzioni trascendentali costantemente all’opera nella categorizzazione dei fatti e dall’altro libera
convenzionalità del linguaggio in cui descriverli).8
Pur di chiudere a ogni Assoluto, il circolo dialettico di Preti si garantisce la genericità: sembra che
il necessario che emerge dal contingente torni nel contingente e dal contingente venga giudicato. Ma
davvero poteva andargli bene un’ipotesi del genere? Ne dubito. Inoltre, così come il necessario è relativo, non si capisce perché tale non sia anche il contingente relativamente al quale il necessario emerge e al
quale ritorna. E allora la frittata si rovescia. O la cornice predisposta da Preti non ha conseguenza alcuna
per la dialettica in actu oppure è di ardua coerenza con l’empirismo.
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Si vedano in particolare le considerazioni di Pier Luigi Lecis, nella sua monografia del 1989, alle pp. 29-33.
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Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
Vergogna! Esprimo riserve sulla genericità delle sue parole sul punto in esame e poi faccio un discorso ancor più vago! Va bene, proviamo allora a precisarlo riconsiderando quelli che chiamava “formatori tautologici”. In un articolo9 del ’42 Preti afferma che il principio di causalità e altri principi-quadro di
ugual portata universale, non essendo né analitici né a posteriori, sono presupposti della “pensabilità”
dell’esperienza, con ciò garantendo uno spazio di manovra per un’analisi trascendentale di nozioni come
quella di causa e altre ancora. A quest’affermazione, Preti aggiunge critiche di stampo kantiano al riduzionismo e al nominalismo fatti propri da alcuni neopositivisti. Dunque, non era assolutamente possibile
farsi un’idea di Preti come nunzio apostolico del neopositivismo. Chi se la fece ugualmente o era stupido
o era in malafede.
In seguito ritroviamo Preti impegnato ad affermare che il ruolo di tali principi è solo quello che
compete a definizioni implicite. Un bel cambiamento! Certo, tutto si semplifica una volta accettata, carnapianamente, l’uguaglianza convenzioni = postulati = definizioni implicite, al punto tale che la logica
trascendentale di kantiana memoria viene assorbita dall’analisi del linguaggio e con ciò lo spazio di manovra del filosofo non è più qualcosa di ‘superiore’ alle alterne vicende della teorizzazione (nelle scienze), offrendo solo l’occasione per riflettere ‘in parallelo’ sulle diverse aree della cultura. Tutto si semplifica ... un po’ troppo. E troppo anche per Preti.
Se vogliamo esser coerenti nel passaggio dal trascendentale al convenzionale, c’è un prezzo da
pagare. Credo che Preti abbia soppesato a lungo se era davvero disposto a pagarlo per intero, oscillando
tra una risposta e un’altra. Per alcuni interpreti invece, il debito era minimo e valeva ovviamente la pena
saldarlo. Ho qualche dubbio in merito e sono portato a pensare che Preti non pagò mai interamente il
prezzo del cambiamento, mostrando in questo una coerenza con se stesso maggiore di quella che avrebbe
conseguito pagandolo in conformità al mio metro.
Coerenza con se stesso significa che non ha mai smesso di sentire il richiamo del trascendentalismo
critico. La spinta a dilatare l’ambito del metodo trascendentale dall’epistemologia alla totalità della cultura gli era venuta da Banfi e non era una novità. Al riguardo Banfi non faceva altro che riprendere idee già
elaborate dal neocriticismo tedesco (l’originalità di Banfi era altrove) e fra esse ce n’era una che Preti
teneva in gran conto: l’idea che alla filosofia tocchi tematizzare e al contempo favorire l’unità dell’esperienza, raccordando tutte le forme in cui lo spirito umano si oggettiva e dunque non solo analizzando la
razionalità scientifica. Le parole che Preti usa nel primo capitolo (§ 2) di Praxis ed empirismo puntano
inequivocabilmente a riaffermare tale idea.
Il lavoro filosofico puntava così a realizzare una fenomenologia-della-cultura che includeva la genesi storica dei sistemi di idee. Per realizzarla bisognava solo lasciar cadere un’ambizione: quella di identificare le stesse leggi della dinamica del pensiero. Pertanto bisognava rinunciare al sogno di fare della filo9 “Il neopositivismo del Circolo di Vienna”, pubblicato sul terzo fascicolo di
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Studi filosofici.
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sofia una meta-scienza. Preti ha lavorato in questo senso. La domanda è allora se quel che scaturisce dal
suo lavoro possa o no configurarsi come un abbozzo di Kritik der reinen Sprache.
L’adesione di Preti alla svolta linguistica si colloca all’inizio degli anni Cinquanta, con una chiara
presa di posizione a favore dell’ala “ideal-linguista” (ricalibrata). A parte gli sforzi già testimoniati nel
1953 con “Linguaggio comune e linguaggi scientifici” al fine di trovare un superiore equilibrio, la misura
di quanto tale scelta si stemperò è avvertibile sia nella tarda ripresa della tematica affrontata da George
Edward Moore nella difesa del senso comune, sia nel puntiglioso commento alla Introduzione alla teoria
logica di Peter Strawson.10 Del Wittgenstein successivo al Tractatus ciò che Preti poteva apprezzare era
qualcosa di non coincidente con il richiamo alla pragmatica del fare con le parole (vedi poi Austin) e all’enfasi sull’uso (leggesi: uso del linguaggio in situazione), perché era quanto si prestava a una lettura
pragmatistica, in chiave Dewey, dunque una chiave poco wittgensteiniana. Era questa stessa lettura a
mettere in discussione il mito del linguaggio puro e con esso l’analisi logica standard d’impianto analitico, fermo restando il valore del linguaggio ideale, come già inteso in Praxis ed empirismo. Ed era per
questa stessa via che in gioco entrava la dimensione valutativa/persuasiva, piuttosto che in ragione dell’inadeguatezza del linguaggio ideale a esprimere le sfumature del linguaggio ordinario (“comune”). 11
NB: raccontando tutto ciò, non ho fatto filosofia. Non ho argomentato alcuna risposta alla domanda Che
diavolo sono i fatti? Ho solo messo sul tappeto vari componenti da tener presenti per rispondere alla
domanda from a Pretian point of view. Questi componenti però non si lasciano mettere insieme in ogni
modo possibile. C’è un modo in cui stanno meglio insieme? È unico? La risposta – ragionamento e conclusione – è lasciata come esercizio a chi stia leggendo queste righe.
2. La scienza dei filosofi: o metodologia o storia
Oggi tra i benpensanti è molto diffusa, financo ovviabonda, la convinzione che un certo modo di far
filosofia della scienza sia stato definitivamente superato. Mi riferisco al modo di cui l’empirismo logico
offriva il paradigma. Ad affossare modo di far e fatto non sarebbero state aporie interne o difficoltà che
non si è capito come risolvere dopo decenni di sforzi (il che Preti avrebbe potuto commentare salacemente, dicendo che non solo siamo epigoni, ma siamo anche pigri e, per eufemismo, poco brillanti) bensì
l’apertura di un nuovo fronte di indagini legato alla storiografia della scienza.
È infatti opinione comune che l’attenzione alla struttura logica del linguaggio delle teorie scientifiche e l’attenzione alla storia della scienza, con tutti i suoi più o meno sporchi risvolti psico-sociologici,
10 Ricordo più ore di lezione passate da Preti ad analizzare il senso della “implicazione materiale”.
11
Si vedano le voci “Filosofia analitica” e “Filosofia del linguaggio” che Preti redasse per l’Enciclopedia FeltrinelliFischer e le sue osservazioni a p. 75 e segg. di Praxis ed empirismo.
11
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
siano reciprocamente esclusive, come lo sono l’enfasi sul momento della giustificazione delle ipotesi e
l’enfasi sul momento della scoperta, come lo sono l’enfasi sul contenuto e l’enfasi sui processi di diffusione delle idee.
Le controversie in materia sono state accese e, dando per scontato che ci fossero solo queste due
chances, gli epistemologi più avvertiti hanno piano piano cercato di trovare una saldatura che conservasse almeno alcune prerogative dei due modi, stili, orientamenti, approcci, nell’analisi della scienza.
Ho sempre trovato strano che i partecipanti alla diatriba non si rendessero conto di riproporre,
cambiando quel che c’è da cambiare, cioè passando dalla sincronia alla diacronia, la stessa questione che
si era posta in filosofia del linguaggio tra “ideal-linguisti” e “comun-linguisti”, per usare i termini di
Preti. Nella sostanza, per farsi un quadro della disputatio sarebbe bastato considerare gli argomenti addotti rispettivamente da Carnap e da Strawson nella loro famosa12 polemica ... o gli argomenti di Preti nel
su citato saggio del 1953, che precede di ben dieci anni il volume in cui Carnap e Strawson si
confrontano. 13 Forse Preti non sarà riuscito a mettere insieme nel modo dovuto (...) le sue osservazioni al
riguardo con le altre sue osservazioni sull’esigenza di una dimensione storica della filosofia della scienza,
ma il fatto che non ci sia ruscito non cancella la similarità di fondo degli argomenti prodotti nei due casi.
E allora vien da chiedersi che cosa può aver impedito almeno a lui il raccordo fra le due tematiche.
Il merito di Preti consisteva nell’essersi reso conto del vuoto che si crea tra i due modi, presi come
estremi antitetici, e nell’aver cercato con coerenza di riempirlo riconoscendo il ruolo chiave dei linguaggi
tecnici come intermediari, sia nella vita quotidiana sia nei laboratori scientifici. Ed eccomi al punto dolente: nel caso della contrapposizione fra Teoria e Storia non mi sembra che Preti individui un altrettanto
nitido mediatore; così, quel che ci prospetta è un’analisi del cambiamento categoriale che ora sospinge a
riassorbire lo storico nel teorico e ora a fare l’inverso, per accorgersi alla fine che nessuno dei due riassorbimenti può aver successo, quindi, per viam negationis, la vicenda si conclude per modo di dire, cioè,
riconoscendo una tensione destinata a non risolversi.
È indubbiamente una soluzione ‘continentale’ al contrasto fra i due modi di filosofare, una soluzione diversa da quelle poi variamente tentate da filosofi della scienza più noti di Preti in campo internazionale, ma ... e con questo? Avrebbe solo il merito di aver precorso soluzioni analoghe oggi emergenti, non
per ciò stesso da considerarsi soddisfacenti. Ho detto qual è, per me, il punto dolente e ora dico qual è,
per me, la diagnosi: la soluzione di Preti non è incisiva quanto avrebbe potuto se fosse stata analoga a
12 Qualora non fosse chiaro, l’aggettivo è provocatorio per chi l’ha bellamente ignorata.
Mi riferisco a The Philosophy of Rudolf Carnap, a cura di P. Schillp. Il volume si inseriva nella collana Library of
Living Philosophers, iniziata da Schilpp nel 1939. Una collana del genere era impensabile in un paese in cui era importante che il discutendo appartenesse a defunti.
13
12
Alberto Peruzzi – 2011
quella adottata per i due tipi di linguaggio, cioè, se avesse individuato un ben preciso mediatore o più di
uno (stratificati) anche nel caso del rapporto Metodo/Storia.14
Per esempio, tra i principi a priori, come “formatori”, di una particolare regione come quella della
NATURA,
Preti includeva le prime due leggi della dinamica classica, che assumono il ruolo di definizioni
implicite dei concetti interessati. Il che è tutt’altro che pacifico e avrebbe dovuto creargli qualche problema, perché se quei principi sono definizioni (nella linea interpretativa che già Mach aveva proposto) e
perciò hanno carattere di verità analitica, allora non sono suscettibili di verificazione o falsificazione; e se
hanno carattere sintetico, non sono più definizioni in senso stretto. (Qui faccio il verso, un infimo verso,
ad Einstein, per chi non l’avesse capito.)
Nondimeno, la soluzione è griffata: il marchio è quello dell’eredità neocriticista e husserliana impresso ab imis sull’empirismo di Preti. Detto in maniera meno vaga e più pomposa: qualsiasi analisi ricostruttiva del farsi della conoscenza non può che essere duplicemente fondata su una fenomenologia trascendentale della costituzione, cioè, a) su un’analisi delle modalità con cui si giunge a identificare certi
tipi di oggetti e certi tipi di loro proprietà, invece che altri, come facenti parte della realtà empirica e b) su
un’analisi delle modalità epistemiche con cui si giunge all’oggettività del discorso scientifico. A confronto con l’immagine che Quine ha dato della scienza come “campo di forze”, avente la logica al centro e le
impressioni sensoriali all’estrema periferia, l’immagine che Preti offre della cultura, scienzinclusiva, è un
patchwork, alla Riemann, di ontologie regionali, per ciascuna delle quali le relative categorie sono i suoi
propri assi di coordinate, e le esperienze basiche non sono al bordo ma entrano in gioco nelle zone di
interfaccia, ove si si combinano le varie regioni, assicurandone la coerenza (in linea di principio). Preti
non sviluppò mai quest’idea come meritava e non ne vide con chiarezza le conseguenze. Ho fatto il nome
di Riemann perché è decisivo il rimando alle zone di overlapping, vale a dire ai mediatori fra piani radicalmente diversi del Metodo e della Storia.
Se a una tale ipotesi riemanniana Preti non prestò attenzione, una cosa gli era chiara: riconoscendo
la convenzionalità dei principi, l’assolutezza dell’a priori kantiano era corrosa in maniera irrecuperabile.
Altrettanto chiaramente, qualcosa dell’a priori kantiano restava, ma trasfigurato in forma logica e quindi
il tipo di ontologia che se ne poteva estrarre era non meno formale. In quanto formale, il residuo poteva
aprirsi a molteplici assetti, variabili nel corso del tempo e per ciò stesso non era sufficiente a selezionarne
uno particolare. Tuttavia, ripeto, anche le mediazioni necessarie a colmare questa lacuna tra formale ed
empirico erano lasciate nell’indeterminato. E siccome l’indeterminato qui faceva il paio con l’inconcluso
lì e l’inconcluso lì era astuto, la lacuna rivelava una non meno astuta omissione, che poi non riguardava
solo il Nostro. È un’omissione che non mi ha mai convinto né nel convenzionalismo DOC né in quello
rielaborato da Preti: che cosa diavolo rende possibile le convenzioni? Simmetricamente, la difficoltà al14
Siccome queste mie annotazioni non hanno lo scopo di prospettare soluzioni ai problemi descritti, non entrerò nel
merito di quale possa essere il mediatore in questione.
13
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
l’omissione si presenta quando si debbono considerare le teorie mediante “esperienze” il cui significato
è determinato dalle relazioni teoriche. Se non abbiamo titolo a credere nell’esistenza di fatti nudi, non
abbiamo neppure titolo a credere che i fatti siano prodotti da definizioni implicite.15 Hic rhodus, hic saltat!
Nell’ampliamento dell’orizzonte neoempiristico che Preti propone al fine di coprire l’ambito storico-sociale, il carnapiano Principio di Tolleranza diventa l’apertura alla dimensione storica della semantica: “non esiste nessuna forma di discorso assoluto [...] ogni analisi si muove e resta sul terreno della relatività storica”. 16 È questo il punto di convergenza che Preti riesce a individuare tra il convenzionalismo
dei neoempiristi e lo storicismo dei neokantiani. Il comune NO a ogni assoluto si anima in un senso empiricamente dialettico dato alla dissoluzione del sintetico a priori messa in atto a Vienna e Berlino nel
decennio 1921-1931. Cosa volere di più?
Il discorso finissimo che ne vien fuori è in realtà destinato a correre sul filo del rasoio. Per esempio,
ci ritroviamo subito di fronte a un dilemma: l’affermazione che “non esiste nessuna forma di discorso
assoluto [...] ogni analisi si muove e resta sul terreno della relatività storica” va presa come storicamente
relativa o come assoluta? E non lo chiedo con il sorrisino ebete di chi ama ripetere giochetti autoreferenziali arcinoti. Lo chiedo per capire come Preti potesse venirne a capo. Preti ne viene a capo con l’idea di
una metariflessione sempre pronta a slittare di metalinguaggio in metalinguaggio. Fin qui ci arrivo, ma è
una via di fuga che non aiuta a dare una concreta risposta al dilemma, informando unicamente che una
risposta è di volta in volta possibile anche se non è sempre la stessa. Come dire: la messa è finita, andate in
pace. Ho l’impressione che negli ultimi anni della sua vita non fosse più convinto di aver sistemato le
cose nel modo migliore adottando questa via di fuga. Posso sbagliarmi. Una spia rivelatrice ne è però
l’insistenza con cui torna sullo “storicismo logico” per criticarlo in modo non dissimile da come e Frege
e Husserl e Moore avevano criticato le soluzioni riduttive del valore (logico ed etico) al fatto (psicologico
e naturale). E allora la via di fuga si rivela solo una fuga dal dilemma, non la sua soluzione.
La mia proposta di un naturalismo intrecciato, a ripensarci, è solo un tentativo di non fuggire, cioè,
di venir a capo del dilemma cui andava incontro il discorso di Preti. È una proposta che ri-propone qualcosa e rinuncia a qualcos’altro di pretiano: ripropone un’analoga spirale dialettica e si sforza di evitare
l’estrema astrattezza della spirale tra fluidità della vita e rigidità delle convenzioni storicamente relative –
un’astrattezza che Preti ereditava dalla Lebensphilosohie del primo Novecento. Del resto, quel semplice
No agli assoluti non bastava neppure a Preti. Ma se quel No doveva tradursi in un Sì, in quale avrebbe
potuto tradursi restando all’interno del suo quadro d’idee?
15
Su questo punto, Popper mi sembra più coerente di Hempel, anche se le conclusioni che trae dalla natura convenzionale delle asserzioni-base sono sbagliate.
16 Da “Criticità e linguaggio perfetto”, 1953, in Saggi filosofici, vol. I, p. 122.
14
Alberto Peruzzi – 2011
Una volta che so che non c’è Il Metodo, che ci sono radici storiche (mutevoli) di ogni metodo e che
dietro alla determinazione di quale metodo adottare ci sono motivazioni soltanto pragmatiche, non posso
fermarmi a prenderne atto se voglio tener fede all’esigenza, da Preti profondamente sentita, di una saldatura tra la carne e lo spirito. Limitarsi a una saldatura astratta è come fare della praxis un supermercato.
(ognuno pesca dagli scaffali quel che gli pare, ce n’è per tutti i gusti). Del resto, basta poco a capire che la
stessa filosofia della scienza, riconosciuta come non riducibile ad analisi del linguaggio (delle teorie
scientifiche), non poteva trovare alcun appoggio effettivo in un ricorsivo slittamento dal metalinguaggio
al meta-metalinguaggio ecc.
Il Carnap degli anni Cinquanta avrebbe dunque sollecitato Preti a definire meglio la dimensione
pragmatica della metariflessione e non insistere troppo sulla sua storicità, perché in una pragmatica storicizzata avrebbe visto il pericolo di uno svuotamento del rimando a vincoli empirici come in fondo sono
e restano quelli da Carnap elencati come “pragmatici”: se non sono a loro volta passibili di test empirici,
svaporano in un comodo alibi; se sono passibili, esigono la descrizione di fatti inerenti al comportamento
umano – e il fatto che cambino storicamente è solo, appunto, un altro fatto. C’è solo da rammaricarsi che
Preti non sia entrato in contatto con Carnap! Forse Preti gli avrebbe potuto dare dei suggerimenti per
rispondere meglio alle critiche di Strawson ... così come Carnap avrebbe potuto aiutare Preti a precisare
il richiamo agli autovalori, inducendolo a a elaborarne una teoria invece di lanciare il sasso e nascondere
la mano appellandosi una volta ancora alle virtù dello slittamento. Così non è stato, lo so, e da parte dei
filosofi italiani non c’è stato un successivo contributo al superamento di queste difficoltà – cosa che sarebbe andata a maggior gloria del superato. C’è stata unicamente un’ennesima descrizione a carattere
narrativo e comparativo che, perdendosi in una foresta di rimandi, si pregiudicava la possibilità di identificare le difficoltà in esame, quindi figuriamoci se era in grado di proporne una soluzione.
3. Da studenti di Preti
Un ricordo che credo non attenga semplicemente alla sfera biografica: la frequenza ai corsi di Preti
indusse me, così come altri suoi studenti, a uscire da una data lezione e andare subito in libreria a cercare
i testi degli autori di cui Preti aveva parlato. Nel mio caso i primi acquisti andarono ai testi di Carnap e
Reichenbach. Così come indusse me e non solo me a uscire da un’altra lezione e procurarsi il classico di
Stevenson o le due raccolte di saggi di Moore disponibili in traduzione italiana. L’effetto di questa simultanea lettura fu dirompente: fra gli studenti di Preti ci fu chi diventò un neopositivista hard nel 1970
(dunque a scoppio più che ritardato) mettendo al bando le innumerevoli sottigliezze del discorso etico
come pure di quello semiotico. E ci fu chi si mise a fare ‘il Moore’ sui testi di Carnap e Reichenbach.
Per quanto mi riguarda, dalla lettura dei testi dei neoempiristi ricavai l’impressione tipica di un
apprendista che passin passino s’accorge della potenza di uno strumento: stavo imparando l’uso di
15
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
un’ascia. Quando, non metaforicamente, usavo un machete per ripulire i sentieri in disuso intorno alla
casa di campagna, pensavo a come fare l’analogo con quell’ascia, per togliere di mezzo frasche e arbusti
che interrompevano il sentiero della filosofia (sto per ripicca rovesciando una metafora contro l’idea dei
sentieri interrotti su cui qualcuno aveva giocato). Dai testi di Stevenson e Moore ricavai l’impressione
che l’ascia non bastasse: la selva era davvero oscura, ci si muoveva a tentoni e si doveva durare molta più
fatica, per ritrovarsi spesso al punto di partenza. Così, a giorni alterni, quella prima impressione si rovesciava, quasi che Carnap e soci si fossero impegnati ante litteram a mettere ordine nella vastità di sottigliezze che i secondi mettevano in campo, o meglio: a far capire che era tempo perso.
Rispetto alle mie precedenti coordinate filosofiche (da autodidatta), che grosso modo coincidevano
con quelle degli altri studenti di Preti, era la scoperta di dimensioni che quelle coordinate non coprivano,
e di nuove domande con cui non sapevo come fare i conti. Fu proprio il fatto di leggere quei testi contemporaneamente a produrre in me un senso di incredula curiosità e di smarrimento. E, ripeto, l’effetto
non riguardò soltanto me. Non capivamo come facesse Preti a gestire il traffico di idee che la considerazione degli uni e degli altri esigeva. Però, evidentemente, c’era riuscito e allora le discussioni fra noi studenti vertevano su chi trovava prima degli altri gli indizi giusti nelle lezioni che seguivamo, in una sorta di
gara enigmistica. È un vero peccato che, dopo laureati, abbiamo perso i contatti e temo che uno dei motivi sia nella lezione ricavata da non pochi tra coloro che frequentarono i suoi ultimi corsi: una lezione amara, di resa alla complessità delle questioni, di crescente impossibilità di venirne a capo quanto più l’analisi
si faceva accurata, di bisogno di sectare il proprio personale iter di vita in tempi rapidi e con punti di riferimento meno rischiosi.
4. Spirito oggettivo e soggetto trascendentale
Se c’è un tema conduttore che attraversa tutta l’opera di Preti e non viene mai esposto prima delle
variazioni e tanto meno isolato dalla specifica tematica di volta in volta tratta è il rapporto tra spirito oggettivo e soggetto trascendentale. Pier Luigi Lecis ha scritto pagine penetranti al riguardo.
Quello tra spirito oggettivo e soggetto trascendentale non è un rapporto facile da enunciare in isolamento, a meno che si voglia fare i sacerdoti di quella roba acheo-alemanna che ha trovato in terre exborboniche gente capace di crederci e capace pure di sostituire al miracolo del sangue di San Gennaro il
miracolo dell’esegesi che si fa rivelazione. La ragione per cui non è facile sta nel fatto che lo spirito oggettivo è soggettività oggettificata e il soggetto trascendentale è oggettività soggettificata; e siccome in
entrambi i casi c’è dinamica interna, le cose si complicano ancor di più se le due dinamiche sono da raccordare con la dinamica esterna (quella inerente al rapporto).
16
Alberto Peruzzi – 2011
Mettendo da parte l’interpretazione psicologistica dei valori si riconosceva uno scarto fra il piano
empirico (contingente se non idiosincratico) dei fatti della vita mentale e il piano della validità. Preti non
si ferma a questo scarto. Ci dice che ce n’è anche un altro: fra il piano trascendentale degli stessi valori e
quello socio-storico su cui ha luogo la dinamica dello spirito oggettivo. A questo secondo scarto se ne
sovrappone un terzo, ovvero, lo scarto che sussiste tra l’universalità in potentia di un giudizio di valore e
la non-universalità in actu di un giudizio che esprima la mera conformità alle norme vigenti. Insieme, il
secondo e il terzo scarto sancivano, per qualunque soggetto giudicante in carne e ossa, la possibilità, in
linea di principio, di svincolarsi da ogni parametro socio-storico (volgarmente: “condizionamento”) –
intendo “ogni” nel senso di “ciascun dato”, perché ovviamente non ci si può svincolare da tutti i parametri insieme in un colpo solo, tirandosi su dalla palude per i capelli.
È solo grazie a questa possibilità, del resto, che si afferma l’autorità della ragione sopra ogni altra
autorità (stato, chiesa, diritto consolidato, opinione comune, convenzioni sociali, canoni della bellezza
femminile e perfino sentimenti – da apprezzare o da vincere). Ed è, kantianamente, l’autorità di una ragione che è non mia, tua o sua. È universalmente intersoggettiva e, da empiricamente vincolata. si fa libera e ideale.
Coerenza voleva che gli scarti avessero una funzione pratica e qui la filosofia metteva in gioco il suo
stesso status. Preti era disposto ad andare fino in fondo: la portata praxica della pura teoresi è un distillato dello scarto e l’utilità della filosofia sta già nel non servire a nulla. Il che non esclude che possa anche
servire a qualcosa e a qualcosa di specifico e concretissimo. Primo, in senso antikantiano la ragione pura
è pratica-in-senso-kantiano; secondo, contrariamente alle apparenze, la sua funzione “pratica” appare
tutt’altro che generica, essendo carica di un’universalità che nel momento in cui contrasta uno specifico
assetto socio-storico, acquista specificità e plasma il nostro atteggiamento nei confronti di ogni (= ciascun dato) problema “pratico” che la vita sociale pone. Dal soggetto siamo passati all’intersoggetto e
dall’empirico al trascendentale.
Il piano di una simile intersoggettività trascendentale non si lasciava cartografare. (La cartografia
dei concetti non è un concetto sulla carta.) Benché Preti non segua Scheler nel sancire uno iato ontologico tra soggetto empirico e “persona” (morale, spirituale), conserva la non-oggettivabilità dell’Io, in
quanto attività - tema tipicamente gentiliano.
Dunque quel piano non si lasciava stilare in una ben definita, ordinata e conclusa, lista di nozioni e
di principi, per il semplice motivo che restava un piano limite, punto limite di una serie di piani, e proprio
come tale svolgeva la sua funzione. In questo senso, non solo il sintetico a priori di Kant ma anche la sua
dissoluzione a opera dei neoempiristi si disponevano come tappe, diciamo pure una serie di rimbalzi, in
un percorso storico-teoretico virtuosamente conflittuale ... e attestavano un riconoscimento. Quale? Il
riconoscimento che le condizioni formali, a priori, dell’esperienza non possono prescindere dalla stessa
17
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
esperienza e tuttavia da da questa non sono desumibili. Conclusione multipla: l’esperienza è intrinsecamente aperta alla mutazione degli a priori, la concreta fenomenologia dello spirito è impredicibile a priori, quel che prende forma in un sistema di categorie e poi in un altro ancora non ha forma di sistema.
Mi spiace ma temo che in questa conclusione ci siano due elementi che ne pregiudicano un efficace
sviluppo.
Il primo è che una razionalità-limite è qualcosa di cui risulta molto problematico servirsi in un caso
concreto, proprio in ragione del suo non esser mai pienamente data, quindi ogni suo uso potrebbe anche
essere quello sbagliato, non tenendo conto delle sue risorse potenziali non ancora comprese. In ciò,
paradossalmente, Preti finisce per riproporre un esito che era già presente in Banfi e dal quale, in gioventù, si era dissociato. Dico “paradossalmente” perché ci arriva attraverso un bisogno di oggettività che
banfiano non era.
Il secondo sta nel confinare l’oggettività al piano del linguaggio e nel discuterne restando bene
all’interno di un orizzonte metalinguistico. Si può già scorgere l’effetto paralizzante di questa mossa
nella concezione reichenbachiana delle definizioni coordinative come clausole convenzionali, ove si parte dall’esigenza di ancorare il linguaggio alle concrete operazioni di misura e si finisce per vedere solo
convenzioni verbali. Quando Paolo Parrini, nel 1976, segnalò il difetto di questa deriva in rapporto allo
status del sintetico a priori, ci vidi una presa di distanza da Preti. Non ne abbiamo mai discusso ma credo
che Paolo sia di diverso avviso.
Passando dalla filosofia della scienza alla filosofia del linguaggio, si potrebbe aggiungere che, se
una teoria del significato è una teoria della comprensione-del-significato – un punto su cui tanto ha battuto Michael Dummett – e più precisamente: del significato così come si manifesta nel comportamento
verbale, allora non c’è poi una gran distanza fra Preti e Dummett. Per entrambi la sistematicità auspicata
è, nella sostanza, un’Idea della Ragione. Sotto un altro profilo, però, un certo olismo di Preti, che si fa
esplicito quando tratta con piglio strutturalista 17 le ontologie regionali, potrebbe far pensare a una convergenza con Quine, se non fosse che Quine argomentava contro la convenzionalità della “verità logica”
e, non essendoci più alcun dualismo di linguaggio ed esperienza, tutte le verità sono empiriche. Sul che
Preti non sarebbe stato d’accordo, scorgendovi non tanto il superamento di un “dogma” dell’empirismo
quanto l’azzeramento della differenza tra la funzione categoriale (costitutiva, nel senso ripreso da Husserl) e le conseguenze pratiche dell’espletamento (l’empirico decorso-dei-valori) di tale funzione. Tralascio di discutere il fatto che quel che va d’accordo con Dummett non va d’accordo con quel che va d’accordo con Quine.
17
Nello strutturalismo Preti vedeva un modo per da seguito all’esigenza antisoggettivistica che da sempre aveva
apprezzato. Si veda il già menzionato articolo “Questioni hegeliane” (Studi filosofici, III, 1942) in cui aveva scritto
che “in generale, tutta la vita dello spirito è caratterizzata dall’«opera»”. A distanza di trent’anni l’elemento poietico,
allora presente nel riferimento al soggetto che trova “espressione” nel factum, si era però dileguato.
18
Alberto Peruzzi – 2011
È fuor di dubbio che questi due elementi, il linguisticismo e l’olismo pretiani, possono e debbono
esser precisati in maniera più accurata di come qui li accenno. Il punto è che se essi sono scogli da evitare
(come credo che siano), né la prospettiva di Dummett né quella di Quine ci danno un’indicazione soddisfacente su come evitarli. 18 A tale scopo la via che ho seguito è cominciata col guardare alla questione da
un altro angolo, cioè, partendo dalle modalità di connessione fra i fondamenti della matematica e i fondamenti della cognizione (sì, ha tutto l’aspetto di una stramberia) e guardando alle ricerche di IA come a
una vera e propria epistemologia sperimentale (altra stramberia). Ma in quale cornice teorica potevano
stare insieme cose così eterogenee? Il nuovo organo non era più la logica (o l’analisi logica del linguaggio) bensì la teoria delle categorie, in cui la struttura del linguaggio è una fra altre strutture ed è allo stesso pari delle altre strutture simultaneamente considerate, tutte descrivibili e collegabili in forma matematica. Per questo le cose si fanno più complicate, intendiamoci, ma almeno si chiarisce una questione di
fondo: il doppio ruolo dei concetti, come funzioni e come oggetti trova finalmente una cornice teorica in
cui esser precisato. Mi fermo qui perché il discorso diventerebbe tecnico e porterebbe troppo lontano
dalla discussione delle idee di Preti.
5. Peccati
Se imputiamo a Preti un atteggiamento eclettico-scincretico, cosa dovremmo imputare agli altri
filosofi italiani della sua generazione? Il secondo dopoguerra fu per la cultura italiana, compresa quella
filosofica, una stagione di apertura a correnti di pensiero e a stili alternativi, o vissuti come tali, alla tradizione dominata dall’idealismo e da un’enfasi ossessiva sulla storicità. Fu un bagno di esterofilìa e c’è
semmai da restare stupefatti che ci sia stato qualcuno che, invece di importare e basta, produsse opere
che avrebbero potuto essere esportate! Per giunta, Preti era consapevole dei rischi dell’eclettismo-sincretismo e si sforzò anche di evitarli. Il fatto che non sempre ci sia riuscito con pieno successo è un altro
discorso. 19
6. Il principio d’immanenza
Ho indicato nel linguisticismo un difetto del discorso di Preti. Posso capire, però, la sua scelta: una
delle sue preoccupazioni costanti fu quella di evitare che il discorso filosofico si impegnasse in un modo
18 Cfr. A. Peruzzi, “Some Remarks on the Linguistic Turn”, Teoria, 10/2 (1990) pp. 117-130; “Holism: the Polarized
Spectrum”, Grazer Philosophische Studien, 46 (1993), pp. 231-282.
19 Su questo tema si vedano le osservazioni di P.L. Lecis che, nella sua monografia del 1989 (Filosofia, scienza, valori: il trascendentalismo critico di Giulio Preti, Morano, Napoli) tratteggia molto bene in due pagine (89-90) il clima
sincretico in cui si ritrovò immersa la filosofia italiana di quegli anni.
19
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
o nell’altro con tesi aventi portata ontologica. Un simile impegno era il vizio di fondo che vedeva sia nell’idealismo sia nel realismo e il fatto che fin dall’inizio Preti abbia cercato di prenderne le distanze è appunto testimoniato dal suo “principio d’immanenza”, con il quale si proponeva di delineare una cornice
metodologica che rendesse l’indagine filosofica più agile. Penso che dietro al principio d’immanenza ci
fosse l’influsso esercitato su di lui dalla fenomenologia di Husserl. Non da tutto Husserl, intendiamoci.
Che Preti si rifacesse esplicitamente alle Meditazioni cartesiane (non potevo crederci!) attesta quanto
non esegetiche fossero le sue preoccupazioni: prendeva quel che gli serviva. Nel 1938 si servì di Husserl
in polemica con lo storicismo di Dilthey e in quell’occasione non era certo l’Husserl della fenomenologia
“descrittiva”, bensì quello della filosofia come scienza rigorosa, in chiave anti-psicologistica. Tanto valeva che dicesse “Bolzano”, ma ricordiamoci della sua esigenza di evitare ontological commitments, o quanto meno di ridurli al minimo.
7. Vitalismo e fenomenologia del valore
Il sapore di vitalismo rispunta, nelle pagine di Preti, anche dove non te lo aspettavi: toc toc, ci sono,
quel che stai leggendo l’ha scritto un gran ballerino, assetato di nuove esperienze, ... per non metterti in
imbarazzo gli dirò che è meglio che si fermi qui. È un vitalismo misuratissimo, senza pompa, con la vena
malinconica di una canzone come Amazing Grace. Non si ci sono sbrodolamenti, non c’è quella perversa
furbizia di certa letteratura filosofica germanica nel far corto circuito tra la persona che scrive e l’Assoluto che s’invera nel Filosofo. Tanto meno c’è biografismo e neanche c’è quel tipico detto/non-detto che
serve di paravento a chi fa il commentatore quando vorrebbe fare il poeta. E il motivo è abbastanza facile
da capire: Preti intendeva recuperare la concretezza della vita umana, fatta di lavoro, beghe, emozioni e
delusioni, piccoli e grandi progetti, fatta di razionalità operosa, di ostacoli imprevisti, di colori, odori,
speranze e dubbi. È questa concretezza il suolo in cui crescono i valori e in cui le più ardite assiologie
hanno il loro definitivo banco di prova. È il terreno delle esistenze, non delle essenze. Ma l’esistenza di
ciascuno è priva di quell’universalità che compete invece ai valori. Dunque c’è un tessuto da ricostruire,
ovvero, il tessuto che fa sì che il soggetto in carne e ossa arrivi a dare un senso alla sua vita, e intendo un
senso che va oltre la sua vita, e un senso in cui rientra anche l’oggettività del mondo così come descritto
dalla scienza (vedi Fenomenologia del valore, p. 50), perché poi è questo senso a definire il soggetto in
quanto fenomeno osservabile e in quanto agente, soggetto-che-fa e, facendo, è il farsi stesso della ragione. Invece di piangere sulla Krisis, Preti si rimbocca le maniche. L’originarietà dell’esser-ci diventa quindi un postulato, analogo alla cosa-in-sé kantiana, con la differenza che invece di essere un’entità remota,
è quanto di più vicino si possa immaginare.
In questo motivo di fondo, già presente nel primo libro di Preti, c’è il seme delle difficoltà irrisolte
anche nel suo ultimo libro. Se infatti l’esistenza è il substratum da presupporre ma non è sostanza, pena
20
Alberto Peruzzi – 2011
la metabasi denunciata da Kant, la realtà che ha senso chiamare tale è una costruzione intrisa di storicità.
E coma fa questa storicità, inerente alla dimensione culturale, a restare sospesa fra un piano pre-noumenico (perché precondizione del nous) e un piano di Idee-guida che continuamente premono per rompere
le maglie dello spirito che si è fatto oggettivo? La terra promessa è avvistata e dichiarata inavvistabile.
In Fenomenologia del valore si parlava addirittura di una “logica esistenziale” (p. 54). Dunque il
substratum vitale non poteva essere del tutto noumenico o pre-noumenico – e se non lo era del tutto per
ché doveva esserlo in parte? A proposito di questo substratum, Preti nota che il bisogno, scritto nella
fisiologia umana, a partire dalla fame e dalla sete, sta alla base dell’interazione fra l’uomo e il mondo
esterno. La stessa praxis tecnico-scientifica poggia in ultima istanza sulla corporeità dell’esperienza vissuta che è guidata dal bisogno. Con ciò, la distanza di Preti dalla “filosofia dei valori” non poteva essere
maggiore.
E invece ... la distanza si azzerava non appena si consideravano i valori come oggetto di giudizio,
passando dal piano del comportamento personale guidato da valori-connessi-con-i miei-bisogni al piano
dell’universalità dei valori. È un altro punto su cui Preti si distacca decisamente da Banfi20 conservandone solo un tratto: l’idea che dal Leib al Wesen ci sono stadi intermedi, che corrispondono a “figure” dello
spirito poi declinate da Preti come strutture intermedie fra l’ordinario (comune) e l’ideale sul piano del
linguaggio. Be’, in linea di principio, invece che una serie discreta di strutture intermedie, potremmo
trovarci di fronte a un continuo o più ragionevolmente a confini fuzzy tra una struttura e l’altra, la dimensione della continuità restando poi da correggere, vista la tensione tra gli estremi – quella tensione fra
Natura e Spirito di cui Preti riconosce come interpreti Schelling e Scheler.
Perché mai tornare ancora una volta al romanzo storico, a quella morfologia della fiaba gaistica ove i
tipi-di-attante sono le figure in cui lo Spirito si manifesta? A Preti il romanzo serviva. Serviva a incrinare
la nudità e la chiusura statica in sé di ciò che è vitale e al tempo stesso serviva a mettere in dubbio il carattere asettico dell’ontologia. Si può discutere se tale motivazione sia sufficiente. Il punto centrale è comunque un altro: la rete di significati di cui è intessuta la cultura (e qui metteteci pure qualunque aggettivo vi venga in mente) è anche una rete di valori e questa rete di significati-valori si sostiene grazie alla
tensione da cui è animata, in quanto campo di forze fra i due poli: il polo della Natura, con la materia, le
cose, la “carne”, e il polo della Ragione, con il linguaggio e la logica.
Se la rete di significati è anche una rete di valori, sganciando la rete dal polo della ‘cosalità’ si ottiene l’equazione hegeliana reale = razionale, ovvero Minerva ripartorisce Giove nello stesso modo in cui è
nata, e sganciando la rete dall’altro polo si arriva a farsi un’immagine mitica della natura e da ultimo alla
sua deificazione. In ambedue i casi i valori si sfilacciano e cadono. È così che la dialettica appresa da Hegel è usata tanto contro Hegel quanto contro i suoi detrattori. Nelle mani di Preti la dialettica è priva di
20 Come giustamente notato da Lecis, op. cit., p. 113.
21
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
sintesi come nelle mani di Adorno. Anzi, quanto alla non-sintesi, Preti era arrivato a dire “E proprio
questa è la sintesi” già nel 1942. 21
Sul duplice requisito per la sussistenza di valori Preti torna più volte, facendolo valere già in relazione ai temi affrontati in Fenomenologia del valore e poi in relazione ai temi delle successive opere.
Ingegnoso ed equilibrato. Ma se provo a fare l’avvocato del diavolo ho paura che alla fine il diavolo sia
soddisfatto: quanto convincente è il modello del campo di forze fra poli opposti? Davvero i sostenitori
della priorità dell’uno o dell’altro polo erano così ottusi da credere di potersi dimenticare allegramente
dell’altro polo? Ogni forma di monismo che non riduca il divenire ad apparenza è tenuta a inglobare l’alterità e la loro reciproca tensione come necessaria spinta allo sviluppo. Che poi ci riesca, è un altro discorso, a partire dai guai del manicheismo, e di fatto, nel corso della storia della filosofia, non sono mancati i tentativi di trovare una via d’uscita mono-logica, il più ingegnoso dei quali resta quello leibniziano.
Se Preti voleva dirci che nessun tentativo del genere può aver successo, avrebbe dovuto produrre
argomenti in tal senso. Dovevano essere argomenti trascendentali e a Preti toccava mostrare che erano
immuni da virus metafisici. Non mi risulta che Preti abbia prodotto tali argomenti e perfino sull’astratto
piano metaculturale in cui si sentiva a casa, argomenti del genere sarebbero stati troppo astratti. Quel che
ci offre consiste piuttosto in una serie di critiche (sempre acute) ai tentativi del lontano o recente passato
che volevano riassorbire la tensione entro una ben determinata ontologia unitaria e, come abbiamo già
visto, in questo come in tanti altri casi Preti si preoccupa di sgombrare il campo da ogni impegno, in senso ontologico – o, come dicevo, di ridurlo il più possibile al minimo, ma siccome Preti non indica mai
questo minimo, suppongo che per lui il campo doveva e poteva essere completamente sgombro.
Preti ci riporta nella caverna di Platone e ci fa vedere l’ombra pericolosa che impegni del genere
proiettano sulla cultura. Lo fa attraverso una raffinata descrizione fenomenologica di come le categorie
operano nella vita concreta del nostro presente, così come nella storia del pensiero scientifico e morale,
sempre ricordandoci che è la tensione stessa, che tiene sospesa la rete, a impedire di ricadere sull’uno o
sull’altro dei suoi poli. L’unità dell’impresa filosofica si esprime allora nello sforzo di conservare questo
stato ‘sospeso’ dei valori, la cui dinamicità è al contempo motivo sufficiente per escludere ogni tipo di
unità dell’impresa che sia un’unità più che formale. Era un paradosso o la soluzione di un paradosso. Per
Preti, naturalmente, era la soluzione.
21 “Questioni hegeliane”, Studi filosofici, III,
1942, p. 58.
22
Alberto Peruzzi – 2011
8. Le figure della fenomenologia del valore
Le figure della fenomenologia del valore non sono tutte generate dal bisogno. Ce ne sono altre
due, indicate da Preti nel costo e nel godimento. Numerosi sono i temi toccati nell’analisi che egli offre di
ciascuna figura: la drammaticità delle scelte esistenziali, l’autonomia dell’individuo e le prerogative dello
stato, l’utilità (economica) dello scambio di merci, la natura del diritto, le forme dell’amore, il formalismo
borghese, la personalità creativa, l’angoscia. Sarebbe un errore rintracciare nello sguardo indagatore di
Preti su questi temi la decisione di separare, nettamente e una volta per tutte, istanze morali e metamorali. Sarebbe un errore non solo perché, nell’analisi delle figure, Preti interviene prendendo posizione e
dunque non attenendosi al modo che compete a un osservatore neutrale, distante e spassionato, ma anche e soprattutto perché Preti attribuisce valore al disincanto stesso; e siccome il disincanto è accompagnato dal senso della problematicità dei valori, il fatto di attribuire valore al disincanto identifica una specifica responsabilità morale.
L’impressione che si ricava da alcune pagine del suo primo libro è proprio che il valore del disincanto si colloca più in alto di tutti e che, andando oltre l’ideologia fanatica e il conformismo, fa tutt’uno
con il compito dell’autentico bios theoretikos: una posizione che molti, oggi come allora, possono giudicare troppo debole al fine di svolgere un efficace intervento culturale. Personalmente, trovo espressa in
tale giudizio l’incapacità di uscire da una visione parrocchiale della politica. Nel pudore delle conclusioni
di Preti c’è la fedeltà all’idea di un mestiere che è esercizio di skepsis e appello alla sophia per farne elementi di un vita pensata ... e vien da domandarsi se dalle posizioni che non si suppongono “deboli” ci si
possa aspettare maggiore fecondità e onestà intellettuale. Se ripenso alla politica culturale italiana degli
ultimi quarant’anni non sono molto incline a dare una risposta positiva alla domanda.
9. Corporeità
Nella Fenomenologia del valore la tematica del corpo vissuto e vissuto come proprio, cioè le questioni che riguardano il Leib distinto dal Körper (corpo come aggregato fisico) fa esplicito rimando a
Husserl e precisamente all’Husserl delle Meditazioni cartesiane (V, §§ 44-47).
A questo proposito, un ricordo personale: fu Preti a suggerirmi di leggere le Meditazioni cartesiane
e la cosa curiosa fu che, partendo dall’Husserl come lo aveva presentato Preti a lezione, quella prima lettura mi portò a pensare che Husserl avesse perso la bussola: proprio nel momento in cui individuava con
sagacia il piano della costituzione del mondo esterno e preparava a un ancoraggio propriocettivo di ogni
oggettività, reinterpretava il suo stesso disegno in chiave fichtiana. Avevo l’impressione che avesse aperto una breccia per entrare in un fantastico terreno d’indagine e dopo avesse deciso di murare la breccia.
Era un’impressione unilaterale, d’accordo, e andava corretta. Ma la sua correzione non sarebbe bastata a
23
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
farmi piacere quel testo, perché il suo senso è terribilmente ambiguo e di quest’ambiguità ebbi conferma
in un paio di lezioni di Enzo Paci che andai a sentire a Milano.
Per tornare a Preti, la ripresa del tema che vien fatta in Idealismo e positivismo non migliora la situazione. Per quanto suggestive, queste pagine di Preti, dopo quelle di Husserl, sulla corporeità e la propriocezione hanno solo il carattere di un segnaposto. Ciò di cui sono il segnaposto resta nel vago. Bisognerà aspettare In principio era la carne per vedere sviluppato il tema con maggior decisione ma anche
entro un quadro mutato di coordinate.
10. La storia setacciata
In Fenomenologia del valore si era annunciato con chiarezza un atteggiamento di fondo da parte di
Preti nei confronti dei numerosi autori ai quali si richiama e dai quali attinge spunti. Preti assume un tono
spregiudicato, irriguardoso, da opportunista. Ah, scusate, non dovrebbe essere questo il tono del vero
teoreta, interessato a estrarre il contributo positivo dei filosofi del passato isolandolo dall’impalcatura
sistematica, più fastidiosa che necessaria, in cui tipicamente i beneamati collocano le loro intuizioni. È
proprio così che Preti cerca di recuperare la forza di specifiche idee che giudica importanti e feconde,
liberandole dal sistema in cui sono calate. Il sistema è una volta ancora il colpevole: è una camicia di forza
che impedisce lo sviluppo delle stesse idee che contiene. Come ho scritto da qualche parte, senza saperlo
Preti faceva quel che Croce aveva fatto a Dante, estraendone i momenti lirici. Criticabile questo, criticabile quello.
Però ... La doxa è paratattica, l’episteme sintattica. In filosofia c’era e c’è tanto bisogno di sintassi!
A ulteriore difesa, non è che un simile atteggiamento preluda a una tipologia astorica delle essenze (qui,
essenze filosofiche). La ricerca delle essenze si tramuta in un’attenzione fenomenologica, ove le esperienze da cogliere nella loro originarietà sono le esperienze di pensiero nella loro dialettica storica, che si
tratta di cogliere nel processo stesso della loro distillazione. Quest’attenzione, che sempre più diventerà
un tratto caratteristico dello stile di Preti, non arriva ad avere carattere sistematico, restando legata alla
sua personale reattività nei confronti di controversie del momento – lo ammetto. Ma quel che non replicai a Migliorini quando mi rimproverò di non tener adeguatamente conto di questa reattività piccosa, è
molto semplice: la controversia di turno era l’occasione per far affiorare una mai sopita controversia interiore. Ne è esempio il fatto che, di volta in volta, l’accento cade ora sulla variabilità ora sull’invarianza di
concetti e di problemi.
Altro esempio: il nostro non è un mondo di cose-cose ma di cose-valori. Preti l’ha messo in evidenza a più riprese e ci vuole poco a capire che un’idea simile complica la vita a un “empirista”. Una bella
sfida – e Preti non si tira indietro. Si mette nei panni di un erede della tradizione che va da Brentano a
24
Alberto Peruzzi – 2011
Scheler e aggiunge spunti ricavati dal pensiero di Hartmann per arrivare a comporre il puzzle. 22 L’idea
maggioritaria (perché non è l’unica e le altre non ci vanno tanto d’accordo) che prevale in lui è che non ci
sia e/0 non ci debba essere parallelismo tra aspetti conoscitivi e axiologici, bensì sovrastrutturazione dei
secondi sui primi, anche se ci sono accenni a una dialettica tra elementi che si danno in parallelo. Così,
quando Preti si trova di fronte a posizioni filosofiche che pongono e/0 propongono la fusione tra i due
momenti, tende a salvaguardare la distinzione e, quando si trova di fronte alla loro scissione, ne lascia
intravedere una composizione.
11. Convergenza di idealismo e positivismo in “razionalismo integrale”
Questa era la tesi di Preti nel libro del ’43. Idealismo e positivismo confluivano nella cornice di un
“razionalismo integrale” e ciò era reso possibile dall’esser due vie animate da un comune intendimento:
arrivare a una razionalizzazione esaustiva dell’esperienza. L’aggettivo “integrale” per Preti voleva dire
che la razionalizzazione, oltre che completa, doveva essere anche neutrale, neutrale rispetto allo sfondo
metafisico cui l’una e l’altra via erano storicamente legate. Perciò si trattava di svincolarle da tale sfondo e
Preti si adopera a mostrare che c’era un nucleo teoretico di qua e un nucleo teoretico di là che non dipendevano affatto dallo sfondo.
Analogo intervento sarebbe poi stato eseguito su altri pazienti. Nel pensiero di Preti c’è, ricorrente, questa strategia. Svincolamento e neutralizzazione. Quasi un filo rosso che unisce il piano dei fenomeni individuato da Kant, la dinamicizzazione che Hegel ne aveva fatto, il Principio d’Immanenza e il
progetto husserliano di un’analisi non meno neutrale delle strutture noetico-noematiche. Preti vuol superare ogni ipostasi: la filosofia non è ontologia. Ed è solo togliendo di mezzo l’impegno ontologico che
si può apprezzare la fecondità, tutta empirica, dell’idealismo e del positivismo. Per riuscire nell’impresa
occorre fare un po’ di pulizia concettuale e Preti si ritrova così a fare un’analisi comparata delle accezioni
dell’uno e dell’altro ‘ismo’: è il suo modo, semantico ma teoreticamente orientato, per ripulire le due vie,
conservando solo il nucleo essenziale di ciascuna. Insomma, l’essenziale le accomuna, il non-essenziale
le divide. Non una ricostruzione storiografica, bensì un’ipotesi di lavoro, che impone l’uso di una lama
molto, forse troppo, tagliente, come ci si accorge dalle stesse definizioni che Preti dà dell’idealismo (a p.
24) e del positivismo (a p. 29).23
Hartmann è già citato in Fenomenologia del valore: a p. 18 ove Preti si richiama al testo del ’21, Grundzüge einer
Metaphysik der Erkenntnis e alle pp. 53 e 78 ove fa riferimento al grande testo del ’33, Das Problem des geistegen
Seins.
22
23 Ancora una volta, utili al riguardo sono le osservazioni di Lecis alle pp. 146-47 della sua monografia su Preti.
25
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
Ad almeno parziale compensazione della forzatura, c’è da dire che il “razionalismo integrale” restituisce sicuramente alla ragione il senso che le davano gli illuministi, i quali inneggiavano ai lumi della
ragione non erano affatto razionalisti, tant’è vero che apertamente si dichiaravano nipoti di Bacone e di
Locke, non di Descartes o Leibniz. In particolare, si recupera l’idea che la conoscenza scientifica, attraverso le sue applicazioni nelle più svariate tecniche, promuova il miglioramento delle condizioni di vita e
in tal modo favorisca l’affrancamento dalle condizioni di servitù in cui gran parte dell’umanità versava.
(Oggi il discorso avrebbe bisogno di qualche piccola aggiunta.) Era l’idea di un sapere aperto a tutti come chiave di libertà, in un nuovo umanesimo della conoscenza, tutto laico, sfrondato da nostalgie per
l’unità perduta fra uomo e natura, e ovviamente perduta per colpa della crescita ipertrofica di scienza e
tecnica a danno di noi e della natura: un umanesimo che valorizza artigiani e tecnici prima che artisti e
scrittori, che nasce dall’umiltà e dalla dedizione a compiti concreti piuttosto che da spinte utopiche,
commozioni, missionarie esaltazioni o arrovellamenti o languorini da condividere. Si richiede piena lucidità nell’affrontare i particolari, non passione per l’universale – di qui l’elogio pretiano della competenza
degli specialisti – e si richiede massima trasparenza della comunicazione verbale. Il motto è rigore e controllo, controllo e rigore, di cui il nuovo empirismo si è fatto portavoce: “si può parlare solo di ciò di cui
possiamo avere esperienza” (Idealismo e positivismo, p. 30).
Ecco dove sta la dimensione etica del positivismo di Preti. Si vuol raccogliere la lezione della modernità, baconiana e galileiana, arricchendola di una una nuova dimensione, storicistica, che si avverte
anche quando silente, a partire dal fatto che i dati dell’esperienza non sono ... “dati”, ovvero non hanno
alcunché di assoluto e inappellabile. I cosiddetti “dati” sono in realtà costruiti, nel senso che il flusso
continuo dell’Erlebnis vitale o esistenziale si discretizza in una serie di “dati” solo grazie a un intervento
dell’intelletto. La storia è il bacino di raccolta di queste costruzioni e della loro dialettica. E qui scatta
l’operazione interpretatio historiae. L’intelletto si trova nella condizione di dover riottenere per via razionale, come tessuto relazionale concettualizzato, quel continuo pre-razionale. Lo fa in vari modi, di cui
si tratta di ri-costruire la fenomenologia. Quel che ci vien prospettato è dunque un empirismo che ospita
in sé la molteplicità delle sue attualizzazioni e la loro variabilità diacronica.
Gran bella idea. Temo, però, di non poter essere d’accordo al 100%, e fondamentalmente per un
motivo: il postulato della continuità degli Erlebnisse è inteso come affermazione di assoluta plasmabilità,
dunque apertura a ogni discretizzazione possibile, dunque totalità amorfa. Con ciò siamo riportati indietro a un problema già emerso con Kant a proposito del rapporto fra cosa-in-sé e fenomeno. Questo problema, prima di riconfigurarsi in maniera molto più specifica nella riflessione di Adolf Grünbaum sul
rapporto tra topologia e metrica, aveva trovato soluzione in ambito neoempiristico ad opera di Reichenbach, con la tesi della totale convenzionalità della metrica relativamente al continuo spazio-temporale.
26
Alberto Peruzzi – 2011
Se il continuo spazio-temporale è davvero un qualcosa di prioritario, bisogna argomentare in che
consiste tale priorità, in modo da non renderla puramente nominale, un cassetto da riempire con quel
che ci pare. Analogamente nel caso del flusso degli Erlebnisse. L’idea di evitare le ipostasi metafisiche,
come quelle che vanno sotto il nome di Realtà e Soggetto, sostituendole con un medium informe che si
presta a ogni categorizzazione è solo un’apparente politica deflattiva, perché obbliga a scrivere Hic sunt
leones tutt’intorno all’isola della ragione trasparente a sé. Coerenza vorrebbe piuttosto che si ricavasse
l’apertura alla categorizzazione o, più forbitamente, l’apertura dell’Informe alle Forme, dall’interno stesso delle sistemazioni ‘formali’ (categoriali) dell’esperienza vissuta, quando però sappiamo che non c’è
alcuna garanzia che, così facendo, si possa giungere a qualcosa di in sé privo di ogni oggettivo vincolo
empirico.
A chi per disavventura sia capitato di leggere un libro intitolato Il significato inesistente sarà subito
evidente che una tale situazione aporetica è quella cui alludo nelle prime pagine come “problema fondamentale” e cui ritorno nelle pagine conclusive offrendo una soluzione che è uno sviluppo di quella pretiana, anche se, onestamente, non so quanto ne sia sviluppo coerente o incompatibile con quanto Preti
aveva in mente. A sostegno dell’ipotesi di uno sviluppo coerente c’è un passo di Idealismo e positivismo
in cui Preti accenna a un “inevitabile naturalismo” purché questo non si traduca in una riduzione ontologica che tradisce la specificità, tutta hartmanniana, degli strati superiori dell’esperienza (oggi aggiungerei: della cognizione) coestensivi con la cultura. Giusto, ma, con tutti i purché che vogliamo, non si
capisce cosa possa evitare a questo “inevitabile” naturalismo di non risolversi in un vuoto appello retorico una volta che si tenga presente l’insistenza da parte dello stesso Preti sull’irriducibilità dei reticolati
categoriali e, con essi, dei valori, a qualunque tipo di dato vitale-esistenziale.
Ora, in Idealismo e positivismo Preti identifica, oltre che un senso particolare da dare ai due termini
menzionati nel titolo, anche diverse accezioni del concetto di “natura” e soprattutto dilata questo concetto fino a coprire tutto ciò che è oggettività, dato, factum, intesi come pensati. Anche negli ultimi anni
Preti insisterà su questo “momento” del pensiero richiamandosi a Frege per l’irriducibilità del Gedanke
al Denken. Ecco il guaio: mettendo insieme direttamente dilatazione e richiamo si produce subito un
corto circuito. D’accordo, bisogna considerare che nel ’43 l’irriducibilità ha come bersaglio lo psicologismo trasposto in metafisica dello Spirito: vedasi l’Atto gentiliano e, in relazione all’estetica, il poiein crociano, mentre altri sono i bersagli polemici del richiamo fatto negli ultimi anni. Ma una volta considerato
il considerando, il guaio è sempre lì. Infine, c’è anche un’altra accezione di “natura” che emerge in Idealismo e positivismo, ovvero quella che associa natura ad esistenza, quale residuo non suscettibile di assorbimento nel pensiero. E anche a questo proposito ci sarebbe da precisare un bel numero di cose.
Perché dico “il guaio”? E dove sta esattamente? Be’ forse di guai ce n’è più d’uno ma quello che mi
preme mettere ora in evidenza sta nel fatto che le diverse accezioni di “natura” non convergono; anzi,
hanno poco in comune, a meno che si trovi un modo per trasporre la datità fenomenologica dal piano
27
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
degli oggetti della percezione a quello delle più astratte obiettivazioni culturali, e senza ricadere in qualche forma di essenzialismo. Trovare questo modo significa mostrare che la naturalità è ‘sollevabile’ al
dominio dei significati. Se questo modo non si trova, ci ritroviamo con uno iato. Se siamo dell’idea che
non lo si possa trovare, per coerenza dovremmo trattare lo iato come irrazionale (perché non razionalizzabile) e allora chi pensa che natura e cultura vengano a esistere in parallelo – “Ma mi faccia il piacere!”
Totò a questo punto direbbe – abbia almeno la grazia di dirci apertamente qual è la sua fede, perché sta
gridando al miracolo.
12. Da fatti a significati, da significati a valori non est inferentia
Ovvero, la genesi di x non fonda il valore di x. È qui che il discorso si arresta. Salvo sporadici tentativi presto lasciati cadere, Preti non trova un meccanismo (in senso lato quanto si voglia) capace di spiegare come mai riconosciamo certi valori e non altri. Lascia piuttosto intendere che ha ha seri dubbi sulla
possibilità di trovarlo e sono dubbi che riguardano anche i tentativi che aveva fatto in tal senso, come
quando si era proposto di “derivare” i valori etici “da un mondo di valori egoistici e connessi con la vita
corporea”. Non si può certo contestare la concezione idealistica dei valori come entità create ex nihilo
dallo spirito, dicendo che bisogna ripercorrere all’indietro la genesi dei valori fino agli impulsi più elementari, e poi denunciare, senza se e senza ma, la fallacia naturalistica.
Se siamo d’accordo che il criterio per giudicare la validità di un principio o di un intero sistema
etico non può esser trascendente (perché sarebbe un criterio che sfugge al controllo della ragione), allora il criterio non può epochizzare integralmente la natura, compresa la nostra, mentre le critiche alla
fallacia naturalistica la epochizzano.
La questione si pone già per i significati, prima ancora che per i valori. Così mi sono chiesto più
volte se Preti avrebbe apprezzato o no la via d’uscita che ne ho proposto con il PIRP (Principle of Invariance for Referential Potential)24 per esprimere che il significato è irriducibile localmente (piecewise) ma
non globalmente al riferimento? E me lo sono chiesto proprio nella convinzione che la stessa proposta è
applicabile ai valori. Con un po’ di generosità, posso solo sfogliare la margherita. Ma se avesse apprezzato tale via d’uscita nel caso della semantica, avrebbe potuto scorgervi subito una via d’uscita anche in
merito all’analoga questione concernente i valori. La via d’uscita non funziona? Va bene, mi pento. Però
chi dice che non funziona è pregato di essere onesto: deve avere il coraggio di dire che l’alternativa al mio
errore è sostituire il dualismo ontologico di Natura e Spirito con uno non meno ontologico tra sentimenti
vitali, i quali ospitano il contenuto del valore (anche se non il contenuto ultimo) e una rete tutta razionale
di forme.
24 In From Kant to Entwined Naturalism.
28
Alberto Peruzzi – 2011
In altri termini, nel momento in cui si sottoscriva una tesi di simmetria fra esperienza semanticoconoscitiva e ed esperienza morale i casi sono due: o la Grande Divisione si ripropone anche all’interno
dell’epistemologia e della semantica oppure la soluzione che punta sull’irriducibilità distributiva ma non
cumulativa25 si traspone al caso etico. La convinzione che ci sia simmetria è 1) da giustificare e 2) da precisare meglio di quanto io abbia fatto, perché anch’essa si presta a essere affermata/negata a due livelli
distinti – quello locale e quello globale – e per ulteriore cautela non suppongo neppure che sia completa26 anche se il requisito di comunicabilità intersoggettiva delle ragioni per le quali giudichiamo e valutiamo così invece che cosà opera in entrambi i casi come filtro. Comunque, anche nel caso in cui Preti
non avesse apprezzato la via d’uscita, il punto in cui si arresta 27 il suo discorso non è per forza la fine di
ogni possibile discorso e nella fattispecie non impedisce di sviluppare quel che per me ne è un tratto caratterizzante: l’analisi della gerarchia di strutture mediatrici fra percezioni/emozioni e principi/norme
generali.
Preti finisce per collocare la materia ultima della sensibilità e dell’emozione nel registro dell’informe e dell’incomunicabile. Ma fermandosi qui il suo “inevitabile naturalismo” è quello di un dimidiatus
Menander, ovvero, è solo la metà di quel che altri avevano già fatto. 28 Tra l’altro, non si capisce perché
mai una simile ganga limacciosa dovrebbe essere la stessa in soggetti diversi: anche se fosse in atto un
processo di order from noise, non ci sarebbe ragione di supporre che il noise sia lo stesso da te a me, a
meno di ipotesi inevitabilmente naturalistiche; né si spiega come da un noise tanto variopinto venga fuori
un order condiviso, a meno di ipotesi non meno inevitabilmente naturalistiche. È pur vero che tale variabilità sta per Preti alla radice della molteplicità dei sistemi etici; al contempo, è chiaro che una totale variabilità dovrebbe portare a una molteplicità illimitata di sistemi – il che non è. Qui il pattern argomentativo reso famoso da Chomsky (giusta o sbagliata che poi sia ‘la’ sua specifica teoria grammaticale) sarebbe servito a Preti, ma Preti non ebbe tempo per accorgersene.
Un altro tema che rivela gli inconvenienti di questo naturalismo arenato e dimezzato è quello che
riguarda il principio di verificazione, così come sfruttato da Preti da Fenomenologia del valore a Praxis
ed empirismo. Infatti, applicato all’etica, il principio si prestava a esser letto come vettore puntato in direzione dell’edonismo. Prendendo questo termine in senso lato, c’è del vero in una simile lettura. Non è
forse Preti stesso a indicare che le esigenze vitali della carne sono il giudice ultimo? Ma ... Ed è un grosso
25 I sofisticati potranno notare che il principio in questione ammette anche una lettura duale.
26
Ogni pensiero in cui si manifesta un atteggiamento valutativo, per quanto da bar cavernicolo, presuppone
un‘esperienza vissuta (cfr. Idealismo e positivismo, p. 65); ogni valutazione, in quanto verte su X, presuppone una
rappresentazione di X, come già Brentano e Husserl avevano colto, individuando nel giudizio di valore un’intenzionalità non di primo ma di secondo grado. Si tenga presente anche p. 184 dello stesso testo.
27
Mi spiace dirlo perché dà l’impressione che io voglia passar sopra alla varietà di motivi, nobilissimi, che si sovrappongono nel discorso di Preti, come nitidamente Pier Luigi Lecis ha messo in evidenza a p. 162 della sua monografia.
28 A scanso di equivoci: non sono d’accordo sull’opinione che Cesare espresse su Terenzio.
29
Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
ma: anche mettendo da parte i dubbi su come si faccia allora a evitare un esito egoistico, se affianchiamo
una simile indicazione alla tesi dell’autonomia delle strutture axiologiche, i problemi restano lì dove erano, cioè, restano insoluti. Se poi sono di per sé, e in generale, insolubili, i problemi che restano non possono essere addotti come prova a carico di Preti. Chi sia convinto di tale insolubilità è, tuttavia, tenuto a
produrre un argomento ... e questo vale anche per Preti: se arrivò a pensare che i problemi fossero insolubili, non doveva limitarsi a prendere atto delle difficoltà incontrate dalle varie teorie etiche. Ce lo doveva dire papale papale.
Proverò ora a uscire dal vago con un esempio. Uno di questi problemi consiste nel fatto che ogni
sistema etico che si rispetti, d’ispirazione laica o religiosa, comporta rischi d’errore nelle decisioni da
prendere, perché implica rinunce a cose che apprezziamo, dis-piaceri, che possono arrivare fino al sacrificio della propria vita per l’individuo che intenda vivere ottemperando ai principi di un dato sistema. E
allora le esigenze della carne dove vanno a finire? Non basta dire: “Ecco la conferma che i valori culturali
non sono completamente derivabili da esigenze vitali-esistenziali”. Bisogna anche spiegare come fanno a
esserci nel mondo non-noumenico valori più-che-animaleschi. O gli esseri umani sono davvero stupidi nel
non attenersi a un anarchico edonismo o sono al pari di animali sociali come vespe e formiche (che si
sacrificano per la comunità in virtù del loro codice genetico) o sono più intelligenti (almeno in qualche
caso) di quanto la nostra filosofia riesca a immaginare.
Prima che questa tematica ci arrivasse infiocchettata da filosofi analitici di lingua inglese dagli anni
Ottanta in poi, Preti l’aveva già affrontata qui dalle nostre parti senza che le sue osservazioni al riguardo
fossero minimamente considerate. In effetti, Preti torna a più riprese sulla drammaticità delle scelte morali, ma il punto, ripeto, è che tali situazioni non provano l’irriducibilità. La rinuncia a un valore in nome
di un altro sarà pragmatica quanto vogliamo (contro l’assolutezza della gerarchia scheleriana) e, come
tale, sarà pure inspiegabile sotto il profilo della pura ragione pratica, tuttavia non basta prenderne atto
come di una questione fattuale (pur di evitare soluzioni metafisiche, alla Scheler o alla non-Scheler).
Dunque non ci si può fermare al punto in cui il discorso pretiano si ferma perché, ogni volta che qualcuno rinuncia alla propria vita in nome di un valore più alto, il “punto di vista empiristico” è chiamato in
causa.
13. Differenze tra neokantiani
Dopo Banfi, se c’è stato qualcuno che in Italia ha avuto ben chiaro in testa il significato della Kulturphilosophie, è stato Preti. Da Natorp a Cassirer, in questo significato rientrava l’esigenza di evitare il
dualismo ontologico e metodologico tra Geisteswissenchaften e Naturwissenschften – un’esigenza che
credo Preti avesse particolarmente presente alla luce delle osservazioni di Rickert. Fra i neokantiani
c’erano differenze profonde, e non mi riferisco a quelle che qualunque bravo storico della filosofia sa-
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Alberto Peruzzi – 2011
prebbe elencare: erano differenze su come si fa filosofia e su dove si vuole arrivare facendo filosofia. Del
resto, la colpa era di Kant e della sua ambivalente lezione.
Al riguardo, Preti si tiene più che può in bilico. La scientificità della filosofia sta in cosa? Nel suo
muoversi verso una comprensione il più possibile razionale, e il più possibile unitaria, del senso delle
scienze naturali e del senso delle varie assiologie. Sotto il profilo metodologico, questa scientificità doveva riuscire a tenere insieme il momento tassonomico e l’importanza da lui attribuita al ricercare-linee-pure
nella teoresi, pur senza ignorarne il mutevole colorarsi, di contingenza in contingenza, come era già nitidamente affermato nell’articolo del 1938 “Tipologia e sviluppo ...” e ripetuto a p. 122 di Idealismo e positivismo.
Si veniva delineando un ideale di unificazione del sapere e dell’esperienza che solo in parte era
riconducibile all’eredità di Kant. Nel ‘43 Preti ne parlava come dell’ideale della “Metafisica”. Poi, per
riproporre lo stesso ideale, parlerà della filosofia come sistematica metariflessione, in modo da preservarne la libertà, contro la minima sudditanza verso ogni teoria specifica, formale o empirica, che la filosofia prende come oggetto d’analisi. La filosofia non può avere assiomi e principi e teoremi, né più né meno di come aveva scritto Kant nella Dottrina del Metodo. La dilatazione dell’indagine trascendentale
effettuata dai neocriticisti, andando oltre il mondo della natura in direzione delle scienze della cultura,
riduceva la scissione tra sfera della ragione pura e della ragione pratica, pur mantenendo una distinzione
sul piano metodologico. Tale dilatazione viene raccolta da Preti ma subisce una trasformazione: è tradotta in praxis analitica, cioè come esercizio attivo di riflessione metaculturale, mentre viene meno l’assolutezza degli a priori.
Che ai nipoti di Kant la traduzione sarebbe parsa un’eccessiva limitazione, ci vuol poco a capirlo.
Come Hume svegliò Kant dal sogno dogmatico, Russell & soci svegliarono Preti dal sogno di una Metafisica dei Costumi (storico-culturali). Lo spazio che Preti attribuisce alla filosofia così intesa è invece più
ampio, non meno ampio, perché si è raggiunta la consapevolezza che tutto ciò che funge da sintetico a
priori non è destinato a conservare eternamente tale funzione. Con questa consapevolezza persiste la
plurivocità di ruoli che il discorso filosofico riveste nei confronti sia delle scienze sia dei sistemi assiologici, per come entrambi si danno storicamente. Alla filosofia spetta analizzarne la fenomenologia, dunque descriverne al meglio i tratti così come di fatto si presentano, e al tempo stesso spetta integrare, spetta criticare, spetta ricordare la possibilità di qualcosa di diverso, anche se non anticipare possibili cambiamenti in spirito positivo.
Il più delle volte, reagendo a contingenze culturali del momento, Preti accentua uno di questi compiti rispetto a un altro, senza negare mai la compresenza di quelli che restano in sottordine. In qualche
occasione il sentimento, meditato e rimeditato, dell’unicità della filosofia si fa esplicito: non ci sono altri
piani di riflessione in cui si accetti un vincolo così esigente come quello di non potersi liberare degli
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Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
aspetti non focalizzati e nello stesso tempo di dover seguire Galileo nel “diffalcare gli impedimenti”
nell’analisi della cultura. La filosofia si propone come meno-che-scienza e come più-che-scienza, in una
situazione di estrema e costitutiva instabilità. Non so se interessi ancora a qualcuno. Credo che solo a
loro o a chi si sia interessato a loro che un discorso del genere sarebbe interessato, invece di vedervi subito una pia dichiarazione d’intenti o un’astratta elucubrazione da parte di qualcuno che non voleva sporcarsi le mani e per questo evitava impegni teorici e pratici. Queste ultime parole sono destinata anche a
me.
14. Fallacia naturalistica e fallacia normativistica
Già in Idealismo e positivismo la posizione di Preti al riguardo è inequivocabile: “non si può in alcun modo dedurre il Valore dall’Essere” (p. 242) e simmetricamente: “né l’Essere dal Valore”. Quest’aggiunta decisiva significa la denuncia della fallacia normativistica. Eppure una qualche connessione
tra Essere e Valore ci dovrà essere. Dialettica quanto volete, bisognava poi analizzare questa connessione
e comprendere ciò che la rende possibile in un verso e nell’altro. Non solo il suo apprezzamento per
l’eredità hegeliana ma anche un più coerente naturalismo avrebbe potuto/dovuto indurlo a prender atto
che non c’è modo di mantenere separati Essere e Valore.
A una conclusione in questo senso Preti si avvicina più volte, come quando ci dice che il mondo non
è fatto di cose-cose ma di cose-valori. Altre volte se ne allontana nel rivendicare la Wertfreheit della scienza. Ci si avvicina notando che la verità è un valore e che la verità che possiamo legittimamente considerare tale è una cosa umana. Se ne allontana quando evita d’interrogarsi, per timore di ricadere in una qualche ontologia, sullo status del tessuto di strutture cognitive ed emotive che definiscono il nostro stare-almondo all’interno di un ambiente in cui interagiamo non solo gli uni con gli altri ma anche con altri esseri che hanno modi di selezionare le affordances agendo e di agire servendosene in vista di scopi ugualmente vitali: prede e predatori, parassiti e simbiotici, migratori e stanziali ... Anche se non possiamo
criticare Preti per quel che non dice, possiamo e dobbiamo cercar di capire le lacune che restano nel suo
discorso, invece di far finta di non vederle. La comodità esegetica è antifilosofia.
Se una cosa non vale per il semplice fatto di esserci e di essere quel che è, non è lecito inferire che,
allora, nell’esserci e nell’esser quel che è non ci sia un, quanto meno potenziale, valore. Se poi tutti i
valori hanno le loro radici nella Vita, allora non ci si può esimere dal tematizzare il piano dei bisogni, dei
piaceri o dispiaceri, delle spinte egoistiche e altruistiche, per capire come la realtà effettiva individui certi
assi comportamentali, o meglio: certi pattern d’azione, in modo da ridurre la gamma delle possibili gerarchie di valori. Lo so: salvo il momento ‘lockiano’ a metà anni Cinquanta, Preti avrebbe visto in un discorso come questo il pericolo di un nuovo realismo assiologico e dunque di una nuova fallacia naturalistica.
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Alberto Peruzzi – 2011
Auto-imporsi il silenzio sullo status di ciò che appartiene a questo piano è l’unica possibile salvezza? Ricordiamoci che uno dei suoi punti di partenza fu la critica all’assurdo matrimonio d’interesse (postConcordato) fra idealisti e neoscolastici. Per converso possiamo quindi capire che ai suoi occhi il termine “realismo” avesse un connotato spiritualistico, responsabile della disastrosa confusione tra giudizi di
fatto e giudizi di valore. Ma una volta che ce lo siamo ricordati, non abbiamo risolto nulla. Solo l’ultimo
Preti si azzarderà a togliere di mezzo questo connotato, lasciando comunque ai posteri il compito di elaborare un’analisi sistematica delle connessioni tra Essere e Valore.
D’altra parte, anche lo spiritualismo – un altro dei bersagli ricorrenti di Preti – aveva caratteri non
facilmente definibili, perché si presentava in forme molto diverse le une dalle altre. Per come ne parla
Preti, lo spiritualismo si sovrappone, anche se non in toto, con la fusione “moralistica” di teologia ed
etica che aveva trovato la sua realizzazione nella dottrina della Chiesa (cattolica). 29 Senonché Preti ne
vede le origini in un atteggiamento platonistico che progressivamente, nei secoli recenti, si è soggettivizzato, e di pari passo in uno stile di pensiero nel quale la speculazione rinuncia al rigore per farsi cassa di
risonanza di sentimenti che sono poi sovraccaricati di valenza metafisica. I nomi che Preti fa a tal proposito sono quelli di Bergson, Simmel e Scheler. A questa deriva della ragione, che finisce in sfoghi appassionati, Preti contrappone il distacco del discorso scientifico.
Pur di difficile definizione e con percorsi tutt’altro che assimilabili, l’esito dello spiritualismo è
qualcosa di aborrito da Preti: il moralismo. Contro il moralismo, la posizione che Preti assume è però una
delizia per chi avesse voluto accusarlo di fare di tutte le erbe un fascio, perché ha i caratteri di un esistenzialismo scientista, i caratteri di un edonismo razionale e i caratteri di un neocriticismo empirista. Triplice ossimoro.
La sua iniziale difesa del principio d’immanenza stava a significare che i tentativi di fondare ontologicamente i valori erano cattiva assiologia. Il Preti verificazionista, anche in campo morale, del ’57 non
smentiva quella sentenza, perché la partita era giocata tutta sul piano fenomenico. Come già notato, quella difesa aveva anche un significato duale: i tentativi di fondare su valori la realtà peccavano di moralismo
(come inteso da Preti) e scadevano in cattiva teoresi.
Che dire? Non sono mai mancati i filosofi che si deliziano degli ossimori. È un vezzo che posso
capire. La plumbea accademia italiana dei tempi di Preti non si sarebbe azzardata. Era in tutt’altre faccende affaccendata. Fini diatribe intra moenia, spartizione delle cattedre, tutela dei beni culturali – l’Italia è un paese votato al passato, e non al futuro, giusto?
Una benedetta volta qualcuno più diligente di me dovrebbe stilare l’elenco dei tenutari di cattedre
di filosofia nelle università italiane tra il ’50 e il ’70 per saper chi ringraziare del silenzio che seppero fare
29 Cfr. “Lo spiritualismo cattolico”, Studi filosofici, 1, 1946.
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Memo n° 5 sulla filosofia di Giulio Preti
intorno a Preti. Quei signori avranno avuto pure degli allievi, poi andati in cattedra a loro volta, ci mancherebbe altro. Che Dio ci aiuti a non pensare che il discredito sia ereditario. Onde evitare comodi equivoci, non dico che c’è stata una congiura architettata a tavolino e neanche penso che tutti quanti, dal primo all’ultimo, fossero filosofi scadenti.
E torno finalmente all’argomento in discussione: anche chi aveva il vezzo degli ossimori avrebbe
fatto meglio a pensare alla dualità su menzionata e a come svilupparla. Questo l’avrebbe aiutato a preoccuparsi di essere moralmente più generoso nei confronti di un discorso in cui la compresenza di elementi
diversi non è automaticamente una contraddizione. Che se c’è, va argomentata. Citazioni, rimandi bibliografici, commenti sopraffini non sono ancora un’argomentazione filosofica. Per non dire di coloro
che sanno solo obiettare “Ah sì, c’è X, ma non c’è Y”: che imparino a discutere di quel che c’è o a provare
che l’assenza di quel che non c’è vizia il ragionamento su quel che c’è. Brutto segno se quei signori avevano una cattedra di filosofia e la lasciavano in eredità ai loro portaborse.
E poi: anche chi si avventura sui lastroni di ghiaccio non necessariamente li scambia per la terraferma. La metafisica può anche essere seria. Condizione necessaria ma non sufficiente di serietà è che i
principi siano resi espliciti e ci si preoccupi di dedurre correttamente a partire da essi. In tal caso la metafisica offre una prospettiva unitaria sul mondo, una prospettiva fortemente personalizzata: la filosofia non
essendo scienza, gli osservatori non sono tutti reciprocamente equivalenti. Se questo è un malus, c’era
anche il bonus: la prospettiva proposta è così ricca da includere tutte le prospettive possibili grazie all’esistenza di un punto di fuga privilegiato, guarda caso quello di un singolo filosofo, che è una persona
con le sue concrete esperienze, le sue preferenze, le sue scelte, le sue idiosincrasie. Il fascino che la metafisica esercita è in buona parte dovuto a questo trucco: ci vien presentato un sinolo di Universale e Individuale, un sinolo che non è mai definitivo e che, sebbene restìo a calarsi nella spiegazione specifica di
fatti specifici, svolge funzione di guida euristica nei confronti anche dei temi propri delle scienze dando
l’idea che ci sia sempre dell’altro, scientificamente inattingibile.
Quest’ultimo punto ha ovviamente a che fare con il senso dato da Kant alle Idee, ma qui mi preme
metterne in risalto soprattutto il carattere non dogmatico e non reificante. Un filosofo degno di entrare
nei libri di storia della filosofia dev’essere per forza un signore che si è fatto un serioso sistema di metafisica e se l’è fatto da un inequivocabile punto di fuga?
È vano aspettarsi che Preti ci spiattelli davanti la sua metafisica. Altra era la preoccupazione ricorrente dai primi agli ultimi scritti: inquadrare in una prospettiva il più possibile ampia le metafisiche, non
sue, per coglierne i rispettivi noccioli in movimento, a cominciare dalla sua denuncia dell’errore commesso da idealisti e positivisti, ma non loro esclusivo: l’ipostatizzazione di un ruolo funzionale in un’essenza sostanziale. Se non era farina nuovissima, tanto meglio, perché significa che anche in filosofia
qualcosa s’accumula.
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Alberto Peruzzi – 2011
Non vado avanti per un motivo: tutto questo suona benissimo ... fino a un certo punto. Preti, a
differenza di Kant, non mi sembra che abbia ammesso la funzione unificante ed euristica della stessa trascendenza, mentre per coerenza avrebbe dovuto farlo. Una volta fatta quest’ammissione, poteva anche
arrivare a cogliere nelle stesse ipostasi della Materia (vedi fisicalismo e darwinismo) e dello Spirito l’astuzia del logos che sfrutta la reificazione ontologica delle categorie per promuovere altri fini. ABC hegeliano.
Sia chiaro: sono lungi dal supporre che Preti avrebbe mai assentito a una simile ‘coda’ perché l’assenso voleva dire togliere al punto di vista empiristico un’autonoma funzione di guida assiologica (e se
non togliere, ridurre notevolmente) almeno a scala locale, che intendo come situazione esistenziale e
storica in cui si tratta di rispondere alla domanda Che fare? – mentre una tale coda lascerebbe solo una
‘presa visione’ a scala globale, ove ogni cosa ha un valore, ogni cosa ha un senso. No grazie, l’Universale
è formale. Tutto il contenuto è negli individui concreti. In questo, Preti resta un inguaribile nominalista e
come tale non poteva venire a patti con Hegel. E invece ...
A questo punto non posso fare a meno di tornare su un punto già accennato. Quando in tempi più
recenti si è fatto un gran parlare intorno al recupero della metafisica da parte dei filosofi della scienza,
conveniva andarsi a rileggere le parole che si trovano alle pagine 120-121 di Idealismo e positivismo. Chi
se le fosse lette non dico subito ma almeno negli anni Cinquanta avrebbe capito che non c’era da puntare
su Preti come propagandista in Italia delle idee del neoempirismo. Se proprio ci si voleva puntare, allora
diventava molto più problematico accusare di ottusità e d’ignoranza storico-filosofica i cultori di filosofia
della scienza. Reagendo a Praxis ed empirismo non si tenne minimo conto delle basi gettate da Preti nei
vent’anni precedenti. Anche per questo le reazioni suscitate, di cui sono venuto a conoscenza dopo la sua
morte, mi hanno lasciato inebetito.
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