Cristo prototipo dell`essere umano: la prospettiva di Hans Urs von

Cristo prototipo dell’essere umano:
la prospettiva di Hans Urs von Balthasar
Prof. Massimo Nardello
Studio Teologico Interdiocesano
Giornata di studio – 20 marzo 2015
Con queste note vorrei presentare alcune linee dell’antropologia teologica di Hans Urs von
Balthasar (1905-1988) mettendo in evidenza il suo rapporto costitutivo con la cristologia.
Va da sé che non è possibile sintetizzare nel tempo di questo intervento la ricchezza e la
complessità del pensiero del teologo svizzero, e che quindi mi limiterò necessariamente a
cogliere solo alcuni elementi relativi al tema in esame che possano servire per la nostra
riflessione teologico-pastorale di questi giorni.1
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Gesù Cristo e il mistero dell’essere umano
Diversi filosofi che dall’evo moderno ai nostri giorni hanno fatto la storia del pensiero
occidentale, come B. Pascal, hanno messo in evidenza il carattere misterioso e problematico
dell’essere umano. Balthasar, da parte sua, coglie l’identità singolare di questa creatura in
opposizione a Cartesio e al suo principio cogito ergo sum (penso, perciò esisto), e scegliendo
invece la prospettiva indicata da Franz Baader (1765–1841), che reinterpreta il detto cartesiano
come cogitor, diligor, ergo sum (sono pensato, sono amato, perciò esisto). La ragione di tale
opzione è che secondo la visione biblica l’essere umano è colui che è interpellato dalla Parola
creatrice di Dio. Questi, mosso solo dal suo amore e in assoluta libertà, lo chiama dal non
essere all’esistenza, lo crea a sua immagine e somiglianza, lo assume come suo interlocutore e
lo pone positivamente nel mondo perché possa svolgere il suo compito.
La stessa Scrittura attesta anche che l’unico archetipo di questa creatura spirituale e
corporale, amata e voluta da Dio, è Gesù Cristo, il Figlio eterno generato dal Padre e mandato
nel mondo. La riprova di tale affermazione, secondo Balthasar, è data dal fatto che la qualità
costitutiva dell’umano consiste nell’essere con gli altri e per gli altri, e che Gesù non è soltanto
il “Dio con noi”, né solo “l’uomo in Dio”, ma è “l’uomo per gli altri uomini”. In lui, infatti,
l’identità personale e la missione salvifica coincidono, per cui nella sua proesistenza si è
realizzata nel massimo grado la caratteristica fondamentale dell’umano.
Per questo il fondamento ultimo del concetto antropologico di persona deve essere collocato
nella cristologia. Occorre insomma passare dalla filosofia alla teologia, dall’antropologia alla
cristologia. L’antico adagio philosophia ancilla theologiae (la filosofia è al servizio della teologia)
viene sostituto da anthropologia ancilla theologiae cristianae (l’antropologia è al servizio della
teologia cristiana).
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La sintesi che propongo deriva da una ripresa e da una libera rielaborazione di G. Marchesi, La cristologia
trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Queriniana, Brescia 1997, 125-148.
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2
Da un’antropologia relazionale alla cristologia
In realtà, Balthasar valorizza anche il classico punto di partenza dell’antropologia filosofica
moderna, cioè l’autocoscienza che l’essere umano ha di sé come realtà finita, limitata e mortale.
Tale tentativo di comprendersi nella sua origine e nella sua natura, però, è solo “creta nelle
mani di Dio”, cioè materiale di cui Dio si può servire e nulla di più. L’essere umano, infatti, non
è realmente come si vede con i suoi occhi, ma è piuttosto come lo vede Dio. La sua esistenza
ha il suo inizio nell’originario ed eterno sguardo di amore divino e nella sua notificazione nel
tempo, rappresentata dalla chiamata alla fede e dalla giustificazione, e si compie nell’atto
assolutamente sovrano del giudizio finale con cui Dio innalza la sua creatura dal tempo
all’eternità.
In questo quadro, si comprende bene come per Balthasar le scienze umane, come la psicologia e la sociologia, e tutte le filosofie antiche e moderne abbiano dato risposte inadeguate alla
domanda sull’identità dell’essere umano. Certo, ogni individuo può rendersi conto di essere
un soggetto spirituale, quindi un essere singolare ed irripetibile, pur appartenendo ad una
realtà collettiva quale è l’umanità. Tuttavia con questa percezione egli non sa ancora quale sia
la sua identità specifica – quello che la Bibbia indica con il nome di una persona –, cioè per
quale motivo si distingua non solo quantitativamente ma anche qualitativamente dagli altri
soggetti spirituali. La via più feconda per rispondere a questa domanda sarebbe quella del
rapporto interpersonale: in fondo, il risveglio dell’autocoscienza avviene sotto la sollecitazione
di un altro, come la madre nei confronti del suo bambino. È questo fenomeno che suscita
la consapevolezza di una singolarità irripetibile. Tuttavia per Balthasar anche questa strada
è senza sbocco, perché nessun individuo, a causa dei suoi limiti creaturali, può offrire una
garanzia e un fondamento durevole dell’originalità di un altra persona.
Nella sua articolata riflessione sulla nozione di persona, in cui non manca di rimarcare i
limiti delle varie proposte filosofiche e teologiche, Balthasar trova la soluzione del problema
dell’identità individuale dell’essere umano alla luce della missione e della persona di Cristo.
Come abbiamo ricordato, egli si identifica con la missione salvifica ricevuta dal Padre e
compiuta per amore, ciè la sua identità è fondata esclusivamente nella sua relazione filiale con
il Padre. Questo fondamento è l’unico possibile: solo il tu assoluto di Dio, a differenza di quello
degli esseri umani, non viene meno, per cui può fondare stabilmente l’identità della persona.
Così Gesù Cristo diventa non solo il principio della cristologia, ma anche dell’antropologia: si
può essere uomini e donne solo a partire dallo stesso fondamento dell’identità personale di
Gesù, la sua relazione filiale con il Padre.
3
La potentia oboedientialis come dono soprannaturale
Ciò non significa che per Balthasar la filosofia sia inutile2 , ma solo che è insufficiente. Esiste
una via filosofica del tutto corretta per avvicinarsi all’enigma dell’essere umano, quella delle
filosofie dell’intersoggettività, dell’incontro e del dialogo, secondo le quali un individuo esiste
perché un altro lo riconosce (“io sono perché tu sei”). Questo, ovviamente, non significa che il
tu debba essere considerato causa o sostanza dell’io, ma solo che l’essere umano comprende se
stesso soltanto nell’incontro con un tu. Tuttavia le esperienze umane di questo tipo, a partire
dal rapporto di un bambino con la propria madre, non sono che preludi intramondani alla
relazione con Dio, cioè al passaggio dal tu umano a quello divino. Tale rapporto ha origine
2
Non abbiamo la possibilità in questa sede di presentare i fondamenti filosofici della teologia balthasariana,
come l’analogia entis. In ogni caso, non ci si dimentichi che Balthasar sviluppa la sua principale produzione
teologica, la trilogia, a partire dai trascendentali dell’essere, cioè l’uno, il bello, il buono e il vero.
2
nell’atto libero e gratuito del Dio creatore, con il quale egli pone un altro da sé, l’essere umano,
dotato di una vera libertà.3
Qui si colloca la polemica di Balthasar con il confratello K. Rahner.4 Il teologo svizzero
critica in particolare l’uso rahneriano del concetto di potentia oboedientialis, intesa come una
qualità attiva del soggetto naturale – cioè come una possibilità o capacità già data sul piano
della natura, cioè della creazione – di rispondere a Dio. Il fatto che un essere umano possa
essere interpellato da un suo simile appartiene certamente alla sua natura (è dunque una
potentia naturalis), sebbene sia una facoltà passiva e non attiva in quanto l’io non viene creato
dall’altro, ma è solo condotto ad aprirsi ad esso. Tuttavia per quanto riguarda la relazione
con Dio, l’essere umano non possiede alcuna facoltà naturale che lo renda capace di essere
chiamato. La possibilità (potentia) di tale chiamata e della corrispondente risposta non deriva
in alcun modo dall’ordine creato, cioè dal piano della natura. Soltanto la parola gratuita di
Dio conferisce all’essere umano la capacità – cioè la grazia – della risposta. Dunque la potentia
oboedientialis non fa parte del potere della creatura, ma solo di quello di Dio. Questa visione
ci fa comprendere come Balthasar sia molto attento a salvaguardare l’alterità di Dio, e come
intenda l’analogia entis sottolineando soprattutto la dissomiglianza tra l’essere divino e quello
creaturale.
La capacità di rispondere a Dio che è donata all’essere umano sul piano della grazia suppone
ovviamente la sua libertà. Il movimento di Dio verso l’umanità, iniziato con la creazione, ha il
suo centro nell’alleanza che culmina nell’incarnazione del Verbo, e proprio in vista di questo
patto l’essere umano è creato da Dio è dotato da lui stesso di libertà. Gli è dunque donata
la possibilità di un libero ascolto, di una libera risposta e di un’azione responsabile, ma
anche di un possibile rifiuto. Poiché però la libertà umana è finita, essa è possibile solo come
derivazione dalla libertà infinita di Dio – ciò che è finito, infatti, non può che derivare da ciò
che è infinito –, e non può che compiersi soltanto in essa. In altre parole, in quanto la libertà
finita viene da quella infinita, è costitutivamente orientata ad essa già nel suo sorgere. Questo
suo orientamento non gli deriva dall’esterno, ma è iscritto dentro di essa. Insomma. non esiste
una libertà umana creaturale che sia indipendente da quella di Dio.
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Dalle filosofie personaliste alla teologia
Questo rapporto tra l’io umano e il tu divino costituiscono per Balthasar il principio
dialogico, che egli ritiene essere uno dei punti di partenza più innovativi e fecondi del pensiero
cristiano. Questo principio, secondo il nostro autore, è stato purtroppo dimenticato dalla
teologia. In realtà, era presente nella riflessione medioevale, sebbene in modo rudimentale
perché comunque il tu di Dio era primariamente compreso come un oggetto astratto. Tale
principio è poi scomparso del tutto nella filosofia moderna, che ha compreso la persona come
autocoscienza soggettiva (Cartesio) o come autocoscienza assoluta (Spinoza, Hegel), cioè
come semplice riferimento dell’individuo a se stesso. Si è persa ogni traccia della relazionalità
nella nozione di persona, cioè del suo essere per l’altro (esse ad), e conseguentemente è venuta
meno ogni sua dimensione ontica. Del resto, l’intersoggettività risulta difficilmente compatibile
3
Sul tema fondamentale del rapporto tra libertà infinita (divina) e finita (umana) nella visione balthasariana,
cf. H. U. von Balthasar, Le persone del dramma. L’uomo in Dio. Teodrammatica II, Jaca Book, Milano 1992, 183-316,
specialmente 269-275. Il tema è ripreso di passaggio nel quadro della riflessione pneumatologica in Idem, Lo
Spirito della Verità. Teologica III, Jaca Book, Milano 1987, 286-287.
4
Sulla critica di Balthasar a K. Rahner, pur unita ad una profonda ammirazione nei suoi confronti, e sul
timore che la sua teologia – ma soprattutto dei suoi discepoli! – produca una riduzione antropologica (etica) del
cristianesimo, cf. H. U. von Balthasar, Cordula ovverossia il caso serio, Queriniana, Brescia 1974, 95-107, 137-148.
Si deve amettere, però, che il dialogo descritto alle pagine 120-124 è caratterizzato da un’ironia sferzante. . .
3
con ogni filosofia di tipo platonico e idealistico, come quelle che hanno segnato la storia anche
recente del pensiero occidentale.
Il principio dialogico ha però una sua recezione nel personalismo filosofico, e ad esso
Balthasar si volge con l’intento di riscoprire l’immagine relazionale della Trinità presente nella
creatura umana (nella linea di autori come R. Guardini, E. Mounier e G. Marcel). Riflettendo
però sui dati della Bibbia, egli rifiuta ancora una volta l’origine antropologica della persona,
affermando invece che solo il tu di Dio porta l’individuo alla conoscenza del suo io. Proprio
perché la domanda sull’identità dell’essere umano rinvia alla domanda su Dio, Balthasar
passa dalla filosofia personalista alla teologia. Egli ritiene che per sua essenza l’essere umano
abbia bisogno di Dio per giungere a se stesso: è un dinamismo che punta verso l’infinito, ma
tale meta gli è preclusa se essa stessa non gli viene incontro. L’essere umano è colui che è
stato creato da Dio ed è stato eletto per essere partner dell’alleanza, e quindi non può essere
compreso compiutamente a partire da nessun altro punto di vista se non da quello teologico.
Del resto, solo nel nome con cui Dio si rivolge alla singola persona questa è definitivamente
costituita come diversa da ogni altra, cioè non è più un individuo generico ma irripetibile.
Parimenti, pur senza identificare Dio con l’intersoggettività, Balthasar ritiene che un incontro
autentico tra persone umane non possa aver luogo se non in Dio e alla sua presenza, cioè
laddove esse partecipano all’originalità unica della sua libertà mediante la loro comune
apertura a lui.
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Una sola via
La collocazione cristologica dell’antropologia di Balthasar pone il problema di interpretare
la tensione antropologica verso l’assoluto costantemente attestata da ampia parte della riflessione filosofica e teologica. Si tratta di quella dinamica a cui fa riferimento lo stesso Agostino
quando scrive “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”
(Confessioni, 1, 1, 1). Come comporre questa prospettiva ascendente con quella discendente,
che cioè si fonda sulla libera azione di Dio e che per Balthasar appartiene all’ordine della
grazia? In realtà, per il nostro autore queste due impostazioni non sono affatto contrapposte:
nei grandi filosofi e teologi dell’antichità la prima prospettiva non è mai stata pensata come
autonoma rispetto alla seconda. Queste due vie sono implicate l’una nell’altra e si integrano a
vicenda.
Tale integrazione è colta da Balthasar riflettendo sull’autoalienazione di Dio che avviene
nel movimento discendente della creazione e della salvezza. Il desiderio umano di raggiungere
Dio non è affatto in conflitto con questo amore agapico di Dio, perché non si configura come
un eros che vuole conquistare il divino. Al contrario, questo desiderio ha in se stesso il segno
della kenosi divina, del suo amore agapico. Si tratta infatti di un amore nostalgico, che secondo
la sua essenza più intima non è volontà di possesso, ma di autoalienazione. In caso contrario,
l’essere umano non sarebbe immagine e somiglianza di Dio. Tale nostalgia del divino è presente
anche in coloro che non conoscono Gesù Cristo, ma che cercano l’assoluto nella via dell’amore
agapico. Si noti però che questo amore nostalgico non rappresenta alcuna capacità di risposta a
Dio che possa prescindere dalla sua grazia, ma solo il segno della somiglianza divina impressa
nel cuore umano.
Tale necessità dell’azione divina e la radicale inadeguatezza di cià che è donato
all’essere umano sul piano creaturale è messa in luce considerando che il punto più alto
dell’autoalienazione di Dio è costituito dalla sua rivelazione come Dio d’amore, la cui somma
espressione è l’evento della croce. Se la persona esiste in quanto Dio si relazione a lei e tale
relazione ha il suo culmine nell’evento della croce, allora questa croce è l’inizio e il compimento
4
dell’antropologia specificamente cristiana, cioè della comprensione dell’essere uomo sul piano
della fede.
Più chiaramente, alla luce della croce la domanda “chi sono io” non viene messa in luce
da un invito generico a conoscere se stessi, ma dal “contraccolpo” rappresentato dall’atto
donativo di Cristo. Egli mi dice quanto io sia prezioso per Dio e quanto mi sia allontanato
da lui. Il fatto che un uomo simile a me si sia impegnato fino alla morte per me e mi abbia
redento mi fa comprendere sia il mio io che il tu di Dio: anzi, che ci può essere il mio io solo
perché Dio vuole farsi il mio tu.
Tutto questo apre alla comprensione trinitaria di Dio. Se la logica dialogica è il senso
originario dell’essere e dunque anche di Dio, e se nessuna creatura può costituire il tu che lo
fa esistere, allora è inevitabile che Dio sia in se stesso plurale (trinitario): egli è nello stesso
tempo l’eterno Io (il Padre), l’eterno Tu (il Figlio) e l’unità di Amore di entrambi (lo Spirito). Il
mistero della Trinità diviene presupposto indispensabile dell’identità dialogica di Dio e quindi
dell’esistenza stessa di un mondo che sussiste nella stessa logica.
Per questo secondo Balthasar il cristianesimo ha in se stesso la propria giustificazione, e
non la deve cercare nella via cosmologica (il cristianesimo come interpretazione del mondo) o
antropologica (il cristianesimo come interpretazione dell’essere umano). Al contrario, la via
nativamente cristiana è quella dell’amore5 , che rappresenta pure il compimento della visione
antica del mondo. Dio in Cristo si autopresenta nella gloria del suo amore assoluto, e questo
amore è percepibile in se stesso come bellezza6 , senza aver bisogno di essere argomentato né a
partire dal piano cosmologico né da quello antropologico. La teologia balthasariana si attiene
fenomenologicamente a questa forma propria della rivelazione, senza cercare giustificazioni
esterne ad essa.7
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Osservazioni
L’antropologia balthasariana è strutturalmente cristologica non solo nel senso che Gesù
Cristo è il modello dell’umano, ma soprattutto in quanto l’essere umano è costituito come
soggetto dall’appello che Dio gli rivolge in Gesù Cristo ad entrare in relazione con lui, o più
precisamente a trovare la propria identità nella relazione filiale con il Padre ad immagine di
quanto è avvenuto in Gesù e per suo dono. Anche se un’eventuale risposta negativa a tale
appello non lo renderebbe vano, per cui l’identità personale non verrebbe comunque annullata,
tuttavia tale opzione risulterebbe essere disumanizzante, perché alienerebbe l’essere umano
dal fondamento della sua identità creaturale, e non solo soprannaturale.
Il problema fondamentale che in tale prospettiva resta insoluto è il modo in cui si possono
salvare coloro che non hanno fede e che non appartengono alla Chiesa senza colpa personale,
come affermato dalla dottrina cattolica (cf. LG 16). Come si è detto, per Balthasar il desiderio
nostalgico di assoluto che è presente nel cuore umano è conseguenza della somiglianza a
sé che Dio ha impresso nella sua creatura, ma non costituisce una condizione naturale della
risposta alla sua chiamata, né qualcosa che possa sostituire una fede esplicita.
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Cf. H.U. von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Borla 1991, 53-62.
L’estetica teologica, che è di capitale importanza nella riflessione balthasariana ma su cui non possiamo
soffermarci, deve essere ben distinta dalla teologia estetica. Indica infatti la bellezza di Dio stesso che si manifesta
in particolare nella figura storica di Gesù, e non la bellezza di un arte favorita nel sentimento e nella sua forza
immaginativa dal cristianesimo. L’estetica teologica rappresenta il tema principale della prima parte della trilogia
balthasariana, che porta proprio questo nome; cf. però anche H.U. von Balthasar, Verbum Caro. Saggi Teologici I,
Morcelliana, Brescia 1985, 105-140.
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Una sintesi del pensiero balthasariano su questi e altri aspetti è quella di R. Gibellini, La teologia del XX
secolo, Queriniana, Brescia 1992, 253-270.
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Un secondo problema è dato non dalla visione balthasariana in se stessa, ma da una
sua possibile semplificazione. In Balthasar non vi è alcuna svalutazione dell’umano, tanto
meno dell’uso della ragione e di ciò che essa ha prodotto (filosofia, arte, ecc.). Tuttavia la sua
impostazione teologica nelle mani di semplificatori incompetenti può facilmente trasformarsi
in un’affermazione unilaterale del soprannaturale (quindi della grazia, della salvezza, ecc.)
che finisce per annullare il valore della creazione, e quindi dell’umano (la ragione, i sentimenti,
la vita psichica, ecc.). Questo determina poi sul piano ecclesiologico una visione di Chiesa
incapace di dialogare con il mondo e di cogliere in esso la presenza della grazia, ma capace
solo tenerlo sotto il suo giudizio. La convinzione del valore dell’analogia entis che permea
la teologia di Balthasar e che è fondata sulla sua pur originale recezione della tradizionale
metafisica dell’essere rende impossibile fondare approcci del genere nel pensiero balthasariano.
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Domanda
Come annunciare il vangelo oggi? Semplificando ed estremizzando le cose, si potrebbe
dire che esistono due posizioni.
1. Invitare le persone a riflettere sulla loro esistenza, a scoprire ciò che è autenticamente
umano e che li realizza sul piano antropologico, e quindi ad identificarlo con la chiamata
di Dio nei loro confronti (cristianesimo come compimento dell’antropologia)
2. Annunciando il Vangelo in modo autentico, nella convinzione che Dio è capace di
autopresentarsi e che solo davanti a questo annuncio le persone potranno accogliere il
dono di rispondere alla sua chiamata, e quindi di realizzarsi anche come esseri umani
(cristianesimo come eccedente l’antropologia).
Quali problemi pongono queste due vie sul piano pastorale? È possibile pensare ad una
loro integrazione?
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