ANTONIO BELLINGRERI
Tesi portanti di un’antropologia di segno sponsale
1. La relazionalità riconoscente
Dall’analisi fenomenologica delle relazioni interpersonali emerge con evidenza che tutte, quando
sono segnate da intenzionalità autentiche, possono presentare caratteri che trovano la loro radice di
senso nelle relazioni intrafamiliari: si può trovare sempre in ogni commercio tra le persone un tratto
filiale o fraterno o paterno/materno o sponsale. È un reperto fenomenologico facilmente
riscontrabile anche nelle nostre esperienze ordinarie; induce a pensare che le relazioni costitutive
della comunità coniugale e familiare possano rivelare qualcosa di non accidentale, di essenziale per
intendere adeguatamente la struttura dell’esistenza personale.
A proposito di tali relazioni intrafamiliari, la riflessione fenomenologica evidenzia anche un
altro aspetto elementare: esse sono tali che si richiamano reciprocamente e si co-implicano: ogni
categoria (ad esempio, la sponsalità) rimanda a tutte le altre (alla maternità/paternità, alla filialità,
alla fratellanza/sorellanza), al punto che l’intelligenza adeguata di ciascuna esige l’intelligenza delle
altre; in una sorta di paragone, un’interazione dialettica che ne fa emergere il significato originario
piuttosto come esito di assoluta reciprocità. Questo dato della realtà presa in esame induce però a
pensare che, con la coimplicazione semantica, debba trattarsi di una vera e propria affinità
ontologica, per così chiamarla: intendendo che tutte le categorie delle relazioni intrafamiliari
diversamente abbiano parte ad una medesima realtà, la quale in esse, in ciascuna e in tutte,
s’articola e si concreta in modo analogico.
Ora, se ci attestiamo ai dati fenomenologici e li teniamo ben fermi, possiamo vedere ed
intendere questa realtà, una e insieme analogicamente differente; e significarla in un’affermazione
che è del massimo rilievo per l’antropologia pedagogica. Quanto con il linguaggio della logica
viene chiamato analogato primo, e in buona sostanza costituisce il fondamento stesso dell’analogia,
ragione d’essere e di senso della coimplicazione semantica e della parentela ontologica, è la
relazionalità riconoscente. Possiamo chiarire questa tesi esplicitando che ogni categoria che intende
una specifica relazione della vita familiare è originale declinarsi della medesima qualità essenziale,
che vale come autentico poter essere della relazionalità stessa e dell’esistenza personale. La persona
non è, ma diviene se stessa – ecco un verità elementare ricorrente nell’antropologia pedagogica; ma
questo divenire, opera della libertà del singolo e della sua consapevolezza, è sempre l’esito di una
complessa vita relazionale di reciproco riconoscimento, che proprio la libertà e la consapevolezza
attivano e fecondano. Altrimenti non può darsi né avvenimento né edificazione dell’esistenza
personale: al di fuori, voglio dire, di una ricerca condivisa e del comune riconoscimento di un
orizzonte di senso più vasto di quello vissuto dai singoli.1
Ho proposto altrove un’antropologia pedagogica del dono originario dell’essere e
dell’esistenza2, movendosi all’interno di questo orizzonte di senso, appare chiaro che la relazionalità
riconoscente è, al fondo, riconoscimento e realizzazione dei una costitutiva relazionalità ontologica.
La persona è originariamente donata è se stessa da un ineffabile Donante, consegnata a sé per
diventare sé per quanto sia possibile diventarlo. Ed essa può realizzare questo itinerario esistenziale
riconoscendosi prima donataria del dono offerto e permanendo nella relazione costitutiva e vitale
con la fonte del dono; consapevole di una sproporzione che resta insuperabile, ma impegnata pur
sempre a traguardare il proprio autentico poter essere3.
Ora, mi pare adeguato qualificare l’antropologia pedagogica della relazionalità riconoscente
come un’antropologia di segno sponsale. Lo si è appena detto, è vero che tutte le categorie della
vita coniugale e della comunità familiare si coimplicano in un rapporto di reciprocità integrantesi;
ma è legittimo qualificare l’antropologia pedagogica e “il famigliare”4 facendo ricorso solo al un
termine: quasi, nella categoria di sponsalità, l’intero e la radice di senso si riflettessero in modo
esemplare o notevole5.
Rimando, per questa categoria, soprattutto a A. Bellingreri, Pedagogia dell’attenzione, La Scuola, Brescia 2011, pp.
17-106.
2
A. Bellingreri, La famiglia come esistenziale. Saggio di antropologia pedagogica, La Scuola, Brescia 2014.
1
3
In questo periodo, dicendo della persona e della relazionalità ontologica, intendo significare tanto che la persona è
gesto dell’essere quanto che essa è nesso costitutivo con l’essere; cfr. A. Fabris, TeorEtica. Filosofia della relazione,
Morcelliana, Brescia 2009.
4
Concetto che qui designa l’essenza stessa ( la realtà o la verità, in senso fenomenologico) della famiglia come
fenomeno originale; anche qui devo rimandare al mio La famiglia come esistenziale. Saggio di antropologia
pedagogica, cit.
5
Con quella che può esser designata, col linguaggio della logica classica, una denominatio a potiori.
Un’intelligenza carica di ammirazione e di benevolenza, capace di farci percepire aspetti del
reale umano e cosmico nella loro sovrabbondanza di significato, aiuta a vedere e ad intendere
l’esistenza, assunta responsabilmente e trasfigurata, come essa stessa sponsale. Sono consapevole
che ciò di cui sto parlando è una disposizione contemplante che in ultima istanza vive e si alimenta
per la prossimità al Mistero; si tratta dunque di una figura dell’intelligenza possibile e
comprensibile nell’orizzonte di una visione dell’essere e dell’esistenza che fa segno sulla
dimensione sacrale e misteriale di ogni realtà. Essa però non è nemica della ragione né ostile alla
sua legalità propria: per sé sola questa riesce ad intuire qualche aspetto e, argomentando, a
giustificare in qualche modo il ritmo originario dell’essere come offerta, accoglimento, riofferta –
come ritmo sponsale, così mi pare sia giusto esprimersi. Possiamo qualificarla anche dicendo di una
visione dell’essere come sovraelevarsi nell’essere; quanto, nei fenomeni fondamentali
dell’esistenza personale, può essere connotato come generosità, donare l’essere e l’essenza; e come
sponsalità, appunto: donare sé senza riserve6.
2. L’amore autentico
La tesi qualificante dell’antropologia filosofica e, nel suo ordine proprio, dell’antropologia
pedagogica, che l’esistenza è relazionalità riconoscente: essere aperta ad altro, esser per altro, puro
donarsi all’altro; questa affermazione basilare per intendere la vita personale, si presenta in tutta la
sua evidenza e nel suo rilievo oggettivo se si riflette - anche solo brevemente - sulla conoscenza di
sé. Questa implica una forma speciale di auto-oggettivazione, esige che per comprendersi e per
comunicarsi la persona si decentri, assumendo un punto di vista esterno a sé. Ora, ciò accade
quando il soggetto sceglie di vedere il proprio essere da un’altra prospettiva che possa integrare la
propria, dalla prospettiva dell’altro che sta di fronte a sé e col quale ci si coinvolge empaticamente.
Appare allora che lo sguardo d’altri modifica la propria visione di sé, del mondo e del proprio
Il termine sponsale acquista così un significato – antropologico ed ontologico, assiologico ed etico - più ampio rispetto
a quello che l’analisi fenomenologica del fenomeno amoroso giustifica; anche se, è evidente, in questo fenomeno e nei
suoi diversi livelli di realizzazione, nella relazione nel legame e nell’alleanza, il concetto ha la sua radice di senso
originario. Nella riflessione contenuta in questo paragrafo sono presenti le suggestioni di alcuni autori e di loro opere
per me particolarmente significative; voglio qui citare: H.U. von Balthasar, Homo creatus est. Saggi teologici V (1985),
trad. it. di G. Russo, Morcelliana, Brescia 1991; P. Evdokimov, Sacramento dell'amore. Il mistero coniugale secondo la
tradizione ortodossa (1962), tr. it. dal francese di N.M. Antonello, Centro Studi Ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il
Monte 19692; L. Prenna, Antropologia della coniugalità. Corpo e sentimento, Città Nuova, Roma 1979; e, da ultimo, K.
Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento della filosofia cristiana (1976), tr. it. di O. Nobile
Ventura, Città Nuova, Roma 1986. Per la mia rilettura dei due testi citati di von Balthasar e di Evdokimov, sono
debitore anche a C. Giuliodori, Intelligenza teologica del maschile e del femminile. Problemi e prospettive nella
rilettura di H.U. von Balthasar e P. Evdokimov, Città Nuova, Roma 2001².
6
rapporto col mondo; appare soprattutto che l’altro non vede solo il proprio essere, ma anche il
proprio poter essere7. Il tu allora può rivelare all’io le potenzialità inespresse del sé autentico,
divenendo riflesso della «immagine-guida», come possiamo chiamarla, apertura delle proprie
possibilità di vita sinora sconosciute8.
La conoscenza adeguata di sé dunque include necessariamente l’esistenza di altri; tanto da
dover affermare che la relazione è verità apriori per l’esistenza, che la relazione per il sé in qualche
modo già da sempre è data9. Ma, procedendo con l’analisi e la descrizione, ciò non significa solo
che lo sguardo d’altri è essenziale per la percezione di sé, perché contribuisce a formarla e a
potenziarla; significa, ancor di più, che l’altro col quale si vive un’intensa relazione empatica viene
in qualche modo a dimorare presso di noi. Si tratta di quel fenomeno che la psicologia delle
relazioni interpersonali definisce d’identificazione di sé e d’interiorizzazione dell’altro in sé.
L’analisi delle intenzionalità costitutive dell’amore dell’uomo e della donna permette di
comprendere un tale fenomeno su di un piano ulteriore rispetto alla psicosfera, sul piano che è
quello della libertà e della consapevolezza: l’altro, amato per l’aspetto che s’impone in ragione della
sua oggettiva significatività, può esser scelto dal soggetto per divenire interlocutore privilegiato del
proprio, ininterrotto dialogo interiore. È la realizzazione perfetta della partnership dialogica; è la
conquista di un’interiorità personale oggettiva, come ho proposto di denotarla in un’altra mia
ricerca10. Si tratta, quando l’empatia diviene reciproca, del termine intenzionale del processo
empatico, dell’empatia nei confronti di sé: vedere il proprio esser visti e apprendere a vedersi
sempre con lo sguardo del proprio interlocutore interiore11.
È evidente, l’empatia svolge un ruolo determinante nella conoscenza del sé, tutte le riflessioni
fenomenologiche su questa virtù etica dianoetica e spirituale ci orientano in questa direzione; così
come è evidente che essa, vista e compresa nell’intenzionalità che la costituisce come empatia
R. Spämann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” (1996), tr. it. di L. Allodi, Laterza, Roma-Bari
2005, pp. 14-17.
8
P. Schellenbaum, Il no in amore. Dipendenza e autonomia nella vita di coppia (1992), tr. it. di L. Rossi, Demetra,
Bussolengo 19962, pp. 168-180.
7
9
R. Spämann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, cit., pp. 35-40.
10
A. Bellingreri, La cura dell’anima. Profili di una pedagogia del sé, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 263-282.
Proprio l’empatia diviene «energia» e «azione trasmutante» del sé: essa trasforma il flusso verbale, le parole, in flusso
vitale, in emozioni (cfr. P. Schellenbaum, Le ferite dei non amati [1988], tr. it. di D. Besana, Demetra, Bussolengo
19922, pp. 128-141). Secondo von Balthasar, nella prospettiva che sceglie di sostare nella prossimità del Mistero
cristiano, «la preghiera è la realizzazione della [di questa] partnership dialogica»: per l’orante, solo Dio è «lo specchio
che rivela il sé»; inoltre, nell’esperienza dell’esser-stato-visto, «colui che vuole vedere perviene alla “visione che
ascolta” - “l’oeil qui écoute” [di pascaliana memoria]» (Cfr. H.U. von Balthasar, Homo creatus est. Saggi teologici V ,
cit., pp. 254-263 e 57-66).
11
autentica, concorre in modo notevole a definire la relazionalità riconoscente e ad evidenziarne la
essenziale reciprocità. L’altro incontrato, l’altro che per l’io è il suo tu, dall’intenzionalità vicariante
costitutiva dell’empatia autentica è tenuto innanzitutto nella sua alterità; però proprio perché la sua
irriducibilità è custodita, esso è veramente amato. In qualche modo l’amore coincide, senza residui,
con questa custodia; ed è l’amore ad aprire una forma perfetta di conoscenza, che è tale perché
riesce ad intendere il sé singolare. La conoscenza del sé singolare può avvenire in modo
conveniente solo se messa in moto dall’amore; ma, insieme, l’amore personale è possibile solo per
l’irripetibilità di un tu unico, condizione perché amare non riesca solo in un generico rispetto per la
vita, ma sia sempre amore del nome proprio12.
3. La forma più alta d’esistenza
Ora, per ogni soggetto, essere amato e conosciuto non è in suo potere, è piuttosto in potere
dell’altro, dipende da una libera iniziativa in ultima istanza insondabile. Nessuno può conoscere sé
stesso - ma si potrebbe dire senz’altro: nessuno può conoscere il proprio bene o la propria bontà sino a quando non riceve il dono dell’iniziativa di un altro che sceglie d’amare per primo. Questo
amore può essere accolto con riconoscenza e può essere riofferto, diventando regola vitale del
legame che fonda. Nessuno può conoscersi buono se non scopre di essere termine di un amore
personale: se non riconosce di essere amato liberamente da qualcuno che sceglie per primo
d’amarlo; solo una tale riconoscenza rivela e in qualche modo compie il diritto di ogni persona
all’amore per il proprio essere13.
Essa, inoltre, è alla radice della propria originale capacità d’amare: la consapevolezza
dell’originario esser conosciuto e voluto, dell’originario esser costituito come donatario, è l’atto
creativo per eccellenza della vita personale. Non solo nel senso, ancora generico, che la
relazionalità riconoscente apre la possibilità per l’io di diventare persona; ma soprattutto perché
conquistando l’amore come modo d’essere, divenendo capace d’amore personale, s’apre per il
soggetto la forma più alta d’esistenza: esistere portando l’amore ad un essere che, in ragione della
sua singolarità, ha un valore infinito. Non risulta fuori luogo, a mio modo di vedere, aggiungere,
con un richiamo all’universo di senso proprio del Mistero cristiano, che la forma più alta d’esistenza
J.-L. Marion, Il fenomeno erotico. Sei meditazioni (2003), tr. it. di L. Tasso – D. Citi, Cantagalli, Siena 2007, pp. 124129. Cfr inoltre, H.U. von Balthasar, Solo l'amore è credibile (1963), tr. it. di M. Rettori, Borla, Torino 1982; e Id.,
Homo creatus est. Saggi teologici V , cit., pp. 111-130.
12
13
M. Scheler, Amore e conoscenza (1915), tr. it. di E. Simonotti, Morcelliana, Brescia 2009, pp 56 ss.
personale è una sorta di (umanamente paradossale) partecipazione al modo stesso con cui Dio
ama14.
È del massimo interesse per l’antropologia pedagogica mettere in evidenza, conclusivamente e
quasi a suggello di quanto detto, che l’esistenza segnata dall’amore nel modo ora evocato libera in
primo luogo la libertà della persona, quasi conferendole un nuovo statuto. È una forma speciale di
educazione della libertà, che può realizzarsi in ragione di un bene e dell’attrazione unitiva che la
sua desiderabilità esercita sul soggetto. Attratta oltre di sé, la libertà è nella condizione di liberarsi
da sé: dispone ad accogliere l’altro che si dona, l’altro che ama per primo e che sempre viene da
altrove; dispone a offrire se stessa a sua volta, in perfetta reciprocità. La libertà infine può ricevere
se stessa, la parte veramente libera di sé viene liberata; è la parte sacra o divina di sé perché di essa
persona umana non dispone15.
Giustifica un significato veramente originario della responsabilità, che è in primo luogo di se
stessi/per se stessi, responsabilità di fronte a chi ha donato a me me stesso. E fonda il senso della
vita come offerta della vita, atto umano per eccellenza che esprime un puro accordo con l’essere e
con l’esistenza16; vera espressione di un reale possesso della vita, di quanto si è accolto lietamente
senza averlo richiesto.
14
Dio infatti: ama infinitamente; per primo; ogni persona conosciuta e amata per sé; nella sua singolarità (cfr. J.-L.
Marion, Il fenomeno erotico. Sei meditazioni, cit., pp. 281-283). È agape, l’amore divino o soprannaturale, il solo a
«permettere di far luce adeguata sul fenomeno dell’amore», ben più di eros, l’amore solamente umano o puramente
naturale (Ibidem).
15
H.U. von Balthasar, Epilogo (1990), in Id., La mia opera ed epilogo (1990), tr. it. di G. Sommavilla, Jaca Book,
Milano 1994, pp. 143-167; inoltre, R. Spämann, Felicità e benevolenza (1989), tr. it. di M. Amori, Vita e Pensiero,
Milano 1998, pp. 252-253.
R. Spämann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, cit., pp. 110-119 Von Balthasar scrive che lo
stesso spirito appartiene all’amore, alla morte e alla fanciullezza: il loro cuore è infatti «rimettere interamente se stessi»;
quanto è particolarmente evidente e dotato di senso nell’universo di pensiero e di vita del Mistero cristiano, dove
soprattutto vivere la morte è «esplicito lasciar prendere se stessi», e «abbandonarsi inermi al Signore dell’essere» che
av-viene; e dove «lo spirito dell’infanzia spirituale» è lieto assenso all’essere, libero disporsi – se disposer o anche
Gelassenheit (Cfr. H.U. von Balthasar, Homo creatus est. Saggi teologici V , cit., pp. 177-188).
16