AVVERBI
L’avverbio si aggiunge al verbo, all’aggettivo e ad altro avverbio
per meglio precisarne il significato.
Esso compie, in tal modo, la stessa funzione che l’aggettivo
esercita rispetto al nome:
“cadì malamènde” : cadde malamente, “màngeche assà” : mangio
molto.
L’avverbio può essere di modo, di tempo, di luogo, di quantità, di
affermazione, aggiuntivo, di dubbio, di negazione, ecc.
Avverbi di modo e maniera
Questi specificano l’azione espressa dal verbo. In dialetto sono
pochi gli avverbi di modo che si formano con il suffisso -mènde, al
femminile singolare di un aggettivo.
L’uso di tali avverbi è, per lo più, di influenza dotta:
“allegramènde”, “aspramènde”, “assolutamènde”, “chiaramènde”,
“malamènde”, probiamènde”, “oppuramènde”.
Se l’ultima sillaba degli aggettivi è costituita da ‘le’ o ‘re’ (formata
da consonante liquida e preceduta da ‘e’), si tronca la ‘e’ finale e si
aggiunge -mènde: “fagelmènde”, “regolarmènde”; “màngeche
regolarmènde”: mangio regolarmente.
Agli aggettivi che non si possono trasformare in avverbi in mènde, il dialetto preferisce, con funzione avverbiale, l’aggettivo
qualificativo: “cammenàve chiàne”: camminava piano; “stàtte sote”:
sta quieto, sta tranquillamente; “pàrle chiàre”: parla chiaramente; e
così “bbuène”, “frìscke”, “vècchie” non hanno la forma in -mènde,
come pure “bbiànghe”, “rùsse”, “vèrde”, ecc. con “bbuène”: buono,
che ha valore di ‘bene’.
“Colìne dìsse bbuène”: Nicolino disse bene – “stògghe bbuène”:
sto bene.
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Le preposizioni
La preposizione stabilisce i rapporti di connessione fra le parole.
Essa determina il rapporto del secondo termine rispetto al primo, e si
prepone al nome, al pronome e al verbo.
Le preposizioni più comuni sono: de: di – a: a – da: da – n: in –
che: con – sope: su – pe: per – ndra: tra – mbra: fra – chembòrme:
conforme:
“carghe de mìire”: carico di vino; “vattìnne a ccaste”: vattene a
casa tua.
Il dialetto barese non forma il participio con la preposizione ‘de’,
ma si esprime diversamente. Ecco qualche esempio: “uè bbène a
CCrìste? Dàdeme l’àcque (o “dàdeme iàcque”): vuoi bene a Cristo?
(per favore) datemi dell’acqua; “ggiùste la promèsse, pache”: giusta la
promessa, paga; “le scequatùre du BBare”: i giocatori del Bari; “mbra
(arc.) mmè e ttè”: fra me e te; “mìitte na pèzze a chelòre”: metti una
toppa dello stesso colore.
Per distinguere una preposizione impropria da un avverbio, si
tenga conto che la preposizione è sempre collegata a una parola che
la regge; l’avverbio si usa assolutamente e non regge alcuna parola.
Preposizione: “stà iìnd’o sckàddue”: sta (è) dentro lo scatolo.
Avverbio: “Uaddìche camìne chiàne”: Diego cammina piano.
La preposizione ‘n’ (in): quando è aferizzata è opportuno unirla
alla parola seguente con un trattino ( - ): “n-gape”: in capo; “ndrone”: in trono; “n-zalze”: in salsa (“non z’alze”: non si alza); “nguàdre”: in quadro; “n-guàrdie”: in guardia; “n-dèrre”: in terra; mentre
inutile fa enùdle (in quanto vocabolo non locuzione).
Ecco casi in cui ‘in’ rimane non aferizzato: “ce u ssòlde mì u
spàcche in dù”: se il soldo mio lo spacchi in due pezzi; “iève in use”:
era in uso; “auuì in acque”: olive in acqua; “fàsce le cose in grànne”:
fa le cose in grande.
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SINTASSI
La proposizione
Esprimendo con parole un pensiero compiuto, si ha una
proposizione.
La sintassi regola i rapporti che collegano i singoli elementi del
discorso siano proposizioni o parole.
Il dialetto barese, a differenza dell’italiano, nella parte sintattica, è
formato da innumerevoli costruzioni che perseguono lo stesso scopo,
ma che necessita di continui approfondimenti e aggiornamenti.
La proposizione più semplice è generalmente formata da soggetto e
predicato, e forma un nostro pensiero, “DDì prevète”: Dio provvede,
“chiòve”: piove (impersonale).
Il soggetto della proposizione è generalmente la persona, la cosa,
l’animale e qualsiasi termine usato sostantivamente.
Il predicato verbale (verbo) è ciò che si dice del soggetto: “u sole
cosce”: il sole scotta, “u ppane iè necessàrie”: il pane è necessario.
Il predicato nominale è formato da una voce del verbo èsse e da un
sostantivo o da un aggettivo, pronome e da altra parte sostantivata del
discorso.
Però se il predicato nominale è formato da un participio passato in
funzione di aggettivo, il verbo èsse viene sostituito, in prevalenza, dal
verbo stà: stare, “stà stetàte”: è spento, “stà stennùte”: è steso, “stà
cherquàte”: è coricato. Ma, se il predicato nominale è un aggettivo
non participio passato, esso vuole sempre il verbo èsse: “iè sscème”: è
scemo, “iè bbèlle”: è bello, “iè ggiòvene”: è giovane, “iè ffrate
spùrie”: è fratello naturale (“spùrie” è attributo di “frate”).
Il predicato, generalmente, si accorda al genere e al numero del
soggetto: “le male amìsce pòrtene a le male strate”: i cattivi amici
portano a cattive strade; “male”, in questo caso, è attributo perché
qualifica “amìsce”.
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L’apposizione, invece, è un sostantivo (o un’intera frase) che si
pone accanto a un altro sostantivo per mettere in risalto determinate
caratteristiche; “iè la razze de la pupe a la fenèste”: è la razza della
bambola alla finestra (si dice di chi si imbelletta e sta tutto il giorno al
balcone a far mostra di sé).
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Sintassi composta
(o del periodo)
Il Periodo
Si chiama periodo una proposizione o l’insieme di più proposizioni
che abbiano un senso compiuto e formano inoltre un’unità organica
rispettando il rapporto fra le diverse proposizioni.
Nel periodo, la proposizione principale o indipendente esprime il
pensiero più importante. Le altre, che completano la principale, si
dicono secondarie o dipendenti o subordinate:
“sanda Necòle va pe mmàre” (principale e reggente), “va vestùte a
marenàre” (dipendente).
Voler dettare regole sintattiche in dialetto è da temerari: si tenterà,
invece, di descrivere ciò che è più caratteristico, mettendo in risalto le
differenze con la lingua italiana.
Proposizioni coordinate: siano principali o secondarie non hanno
alcuna dipendenza l’una dall’altra:
“le pessciaiùule lecquèscene, mesùrene u pèssce, se fàscene pagà”:
i pescivendoli gridano, pesano il pesce, si fanno pagare.
Coordinata disgiuntiva: “o ca me le manne o ca me le vogghe a
ppìgghie”.
Le proposizioni esplicite e implicite si identificano con le
proposizioni dell’italiano, e così, dicasi, per l’infinito con valore di
sostantivo: “u ffà iè mmègghie du dìsce”: il fare è meglio del dire.
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Proposizioni oggettive: fanno l’ufficio di complemento oggetto nei
confronti della principale:
“cumbà, tu non zà ca cusse pèssce goste fatìche”: compare, tu non
sai che questo pesce costa fatica; “te crìte ca non d’auuandàve?”: credi
che non ti prendevo? (che non ti avrei preso?); “me credève ca te le
dève”: mi credevo che te le dava (le calze); “me credève ca te l’avèsse
date” (se si usa il congiuntivo al posto dell’imperfetto dell’indicativo,
è preferito più il trapassato che il tempo semplice).
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