Bioetica di inizio vita: una prospettiva liberale

RAFFAELE PRODOMO
Bioetica di inizio vita:
una prospettiva liberale
Definizioni
Per bioetica di inizio vita si devono intendere le questioni del giusto
comportamento privato e pubblico nei confronti della vita umana individuale
nelle fasi iniziali di sviluppo biologico. Non si tratta, infatti, dell’inizio della
vita in senso assoluto, domanda alla quale né la biologia né la filosofia sanno
dare una risposta certa, bensì delle fasi di sviluppo iniziale di un nuovo organismo umano.
Tradizionalmente il parto è stato considerato il momento in cui si veniva al mondo, ma fin dall’antichità ci si è posto il problema della vita intrauterina e del rispetto che si deve eventualmente attribuirle. Nell’antichissimo codice etico che va sotto il nome di giuramento di Ippocrate si
trova, ad esempio, un divieto per i medici di somministrare farmaci abortivi. In Tommaso d’Aquino, in epoca medioevale, troviamo sottili disquisizioni sul problema di quando l’anima immortale si unisca al corpo del feto
nel ventre materno.
Si tratta della cosiddetta questione dell’animazione, che secondo i filosofi medievali poteva essere o immediata, ossia al momento del concepimento, o, come voleva lo stesso Aquinate, ritardata e collocata in una fase
di sviluppo del feto più avanzata rispetto al concepimento iniziale (si deve
intendere per concepimento il momento in cui il singolo spermatozoo maschile feconda e si fonde con la cellula uovo femminile, dando luogo allo
zigote).
Come esempi di problemi direttamente generati dall’innovazione tecnologica, sono da considerare questioni bioetiche di inizio vita, soprattutto, la
fecondazione medicalmente assistita, nelle sue diverse varianti tecniche, e la
recentissima sperimentazione su cellule embrionali. A queste due nuove applicazioni della biomedicina e ai problemi etici ad esse correlati saranno dedicati i prossimi paragrafi, poi si accennerà al problema più tradizionale dell’aborto.
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La fecondazione medicalmente assistita
Ottenere la fecondazione attraverso mezzi artificiali, ossia indipendentemente dal rapporto sessuale, è stata una tecnica originariamente e tuttora in
uso in ambito veterinario. In questo modo nel campo dell’allevamento animale si potevano meglio selezionare le razze o le caratteristiche dei singoli
animali, ottenendo, ad esempio, discendenti numerosi da un singolo esemplare particolarmente dotato (si pensi, ad esempio, ai cavalli da corsa!).
In ambito umano la tecnica più semplice, ossia l’inseminazione artificiale, fu adottata dai soldati americani schierati durante la seconda guerra mondiale sul fronte europeo, alcuni dei quali spedirono campioni del proprio liquido seminale alle mogli rimaste negli Stati Uniti. In questo modo furono
ottenute, senza ovviamente alcun tipo di rapporto sessuale, molte gravidanze
transoceaniche. Si parla in questo caso di inseminazione artificiale omologa.
Questa tecnica è utilizzata ancora oggi per consentire una gravidanza a
coppie in cui l’impossibilità di avere figli è collegata a una patologia del
partner maschile (impotenza o infertilità di varia origine). In questi casi, oltre
all’inseminazione omologa classica, si può ricorrere sia a una tecnica di iniezione microscopica diretta del singolo spermatozoo funzionante del partner
sia all’aiuto di un donatore di seme esterno alla coppia stessa.
Si parla, in questo secondo caso, di inseminazione eterologa, in quanto,
diversamente dal caso precedente, il liquido seminale proviene da un donatore
anonimo attraverso la mediazione di banche del seme, che prima esaminano
da un punto di vista medico il liquido (per prevenire la trasmissione di malattie) e poi lo congelano in apposite confezioni in attesa dell’impiego futuro.
Come è comprensibile, il procedimento è complesso e richiede interventi sulla donna molto più invasivi rispetto alla inseminazione semplice. Queste tecniche sono indicate in diverse forme di sterilità e prevedono inoltre
numerose varianti che non è possibile esaminare in questa sede, dove l’interesse principale va ai risvolti di carattere etico-politico della questione.
La procreazione tra natura e cultura
L’insieme di possibilità tecniche che sono oggi disponibili per intervenire
nell’ambito procreativo riapre la questione etica generale sulla interpretazione
della procreazione responsabile. Su questo fronte si sono contrapposte visioni
molto diverse tra loro. Schematicamente, si può dire che ci sono, da un lato, i
sostenitori di una concezione ispirata al diritto di natura di ascendenza grecocristiana, i quali ritengono intangibili gli equilibri naturali, dall’altro abbiamo
concezioni della paternità e della maternità che, al contrario, accentuano il
ruolo della interpretazione culturale del fenomeno, non caricando il dato naturale di significati morali particolari. Indubbiamente alla prima concezione
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hanno aderito più spesso alcuni tipi di pensiero religioso, segnatamente quello
cattolico, per i quali l’ordine naturale ha un valore moralmente obbligante per
l’uomo in quanto segno di una legge e di una volontà divina speciale. Mentre
è più facile aderire al secondo tipo di concezione per chi assume un punto di
vista laico e secolarizzato che esclude la presenza nella natura di un ordine
trascendente. Ma questa semplificazione vale solo in prima approssimazione
e non va presa alla lettera, in quanto le argomentazioni contro la fecondazione
assistita non vengono solo da parte di etiche ispirate a religioni rivelate, né il
mondo culturale cattolico è sempre compatto dietro le limitazioni e le proibizioni espresse dal suo magistero ecclesiastico (si pensi alla divaricazione presente tra la dottrina ufficiale e il comportamento di molti cattolici per quello
che riguarda il tema della contraccezione).
In ogni caso, dalla posizione di principio cattolica, per la quale la famiglia (composta da padre, madre e prole) è un’associazione naturale nei cui
confronti la cultura umana non può apportare modifiche ma solo agire nel
senso di salvaguardala e di conservarla così com’è, si spiegano altre obiezioni più specifiche mosse nei confronti della inseminazione eterologa e delle
forme di maternità surrogata o in affitto (ossia quelle situazioni in cui gli
ovuli fecondati di provenienza da una coppia sterile sono impiantati nell’utero di un’altra donna che assume il compito di portare avanti la gestazione del
feto per poi consegnare il bambino, alla nascita, alla coppia generatrice).
L’embrione tra etica e biologia
Il valore della vita umana nei primissimi stadi di sviluppo è da vari anni
al centro di polemiche periodicamente riaccese da eventi di cronaca. Il classico caso dell’aborto, con le sue contrapposizioni politico-religiose, è stato
per anni il problema centrale intorno al quale ruotava la discussione relativa
alla moralità degli interventi sulla vita umana ai suoi esordi da un punto di
vista biologico. L’aborto, però, come già accennato, non è più l’unica forma
di intromissione tecnico-scientifica nella vita nascente; sono state sviluppate
tecniche di fecondazione in provetta e di manipolazione germinale e embrionale che cambiano gli scenari tradizionali. Gli argomenti adoperati nelle discussioni classiche, quindi, conservano la loro plausibilità anche se non
esauriscono le questioni etiche.
La controversia morale sembrerebbe essenzialmente riconducibile a
due concezioni alternative: il considerare la vita agli stadi iniziali per il suo
significato biologico o vederla anche nel suo contesto relazionale: in altri termini, competono tra loro teorie del valore che privilegiano la vita biologica o
la vita intesa in senso biografico. La scelta della morale cattolica è stata tradizionalmente per la prima alternativa, mentre molte etiche di ispirazione laica sono più o meno orientate verso la seconda opzione.
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Queste posizioni non sono coerenti tra loro e con il valore sacrale attribuito alla vita embrionale. Se, infatti, una volta generati, gli embrioni hanno
tutti la stessa qualifica ontologica e morale e, quindi, gli stessi diritti, non si
capisce perché non si incoraggi nel primo caso quello che si consiglia nell’altro caso. In altri termini, si può portare avanti la gravidanza e salvare gli
embrioni adottando quelli congelati e abbandonati e non solo salvaguardando quelli frutto di una violenza! Questi ultimi sono invece stranamente privilegiati pur essendo frutto di un atto violento, in quanto pur essendo brutale
esso è comunque più naturale rispetto alla fecondazione in vitro che ha dato
esito agli embrioni congelati.
Per meglio valutare situazioni come questa, forse, sarebbe meglio
considerare la vita umana nelle sue fasi di sviluppo intrauterino o extrauterino come un processo continuo al quale conferire un valore morale
progrediente. In questo modo non sarebbe necessario sottostare al diktat
di una scelta ‘tutto o niente’, tipica del dibattito prevalente sulla questione, nel quale ci si interroga a proposito del fatto se l’embrione sia o no
persona alla ricerca di una risposta (affermativa o negativa) certa e definitiva. E, inoltre, nel decidere tale questione dovrebbero contare anche, a
parere di molti, il contesto e le circostanze particolari in cui si colloca la
scelta. Oltre alla situazione dello stupro, già considerata, si pensi alla situazione di una gravidanza in giovanissima età o in condizioni psicologiche o economiche negative o, ancora, alla possibilità di sperimentazioni di
notevole interesse scientifico.
Per rispondere a queste domande e decidere un comportamento eticamente giustificabile occorre, quindi, elaborare una teoria che tenga conto sia
dei dati della biologia che delle riflessioni filosofiche. Prima, infatti, la biologia ci dice cosa avviene alla fecondazione, ossia che si realizza la fusione
del materiale genetico materno e paterno e che da questo momento in poi si
comincia a sviluppare un essere vivente, poi, con la riflessione filosofica, si
va oltre il dato meramente biologico e si cerca l’interpretazione eticamente
più convincente. Infatti, che valore, quanti e quali diritti attribuire all’embrione appena concepito è compito non più della biologia ma di una teoria filosofica che tenga conto anche del contesto e delle circostanze in cui è avvenuto il concepimento.
Clonazione e sperimentazione su cellule embrionali totipotenti:
alcuni equivoci riduzionistici
Il problema del più corretto trattamento degli embrioni umani precoci è
attuale non solo per le polemiche collegate alla fecondazione assistita e a tutte
le situazioni in cui l’embrione è collegato con il corpo femminile o è manipolato, comunque, per fini procreativi. Ci sono situazioni completamente nuove
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in cui lo scienziato ha a che fare con embrioni o con cellule da essi derivate in
modo del tutto svincolato dal corpo femminile e in contesti dove non si pensa
affatto di perseguire fini procreativi. Si tratta degli studi sulla clonazione e
sulle linee cellulari di derivazione embrionale. A proposito di clonazione, in
particolare, sono avvenuti alcuni fatti che gettano nuova luce sulla questione.
Dopo l’annuncio della nascita di Dolly, la pecora primo esempio di clonazione di un mammifero superiore, la preoccupazione di molti è stata quella di
immaginare come passo ulteriore e imminente la clonazione umana, con la
possibilità di riprodurre in serie individui geneticamente identici.
Chiarito il possibile uso delle tecniche di clonazione al fine di sviluppare
in laboratorio linee cellulari, tessuti o organi tridimensionali, torniamo per un
momento anche alla temuta riproduzione di un organismo individuale completo. Una discussione sulle ragioni morali pro o contro questa possibile applicazione tecnica è troppo complessa e richiederebbe un’analisi ampia e approfondita. Tuttavia è possibile, in questa sede, chiarire almeno un punto preliminare:
l’identità genetica tra due individui non è un sinonimo di identità totale; le
persone, in altri termini, sono qualcosa di più complesso dei loro geni.
In definitiva, va tenuto presente che, anche se è possibile duplicare un
genoma e clonare una cellula o un tessuto, è impossibile clonare una vita
nella sua complessità storico-biografica.
Clonazione e embrioni: il comune limite dei 14 giorni
Vediamo quali sono le ragioni pro e contro l’adozione di questo limite
cronologico come spartiacque tra una fase in cui è permessa e un’altra in cui
è proibita la ricerca con embrioni umani.
La proposta del limite di 14 giorni dalla fecondazione è nata nel contesto delle prime fecondazioni in vitro. Fu presentata dalla commissione etica
voluta dal governo inglese per stabilire le regole etico-giuridiche dopo la nascita di Louise Brown, la prima bambina nata in provetta nel 1978. Oggi, gli
scienziati che si interessano di clonazione si muovono per analogia all’interno dello stesso limite cronologico, allo scopo di avviare studi sulle prime fasi
dell’embriogenesi e cercare di ottenere non la nascita di un individuo (clonazione a fini riproduttivi), come nel caso delle fecondazioni in vitro, bensì la
produzione di tessuti e organi umani per trapianti.
Le 400 cellule dell’embrione clonato in America sono tutte raccolte in
un sacchetto (la membrana pellucida). Se si trattasse di una normale gravidanza, alcune diventerebbero cellule e tessuti di un futuro individuo umano,
altre andrebbero a formare i tessuti degli annessi fetali (placenta e cordone
ombelicale) che, come si sa, sono prodotti dallo stesso embrione per collegarsi all’utero materno e riceverne ossigeno e nutrimento durante la gravidanza. Fino a 14 giorni dalla fecondazione questo è l’assetto biologico-orga50
nizzativo dell’embrione. Ora, alcuni ritengono che questa totipotenza delle
cellule sia interpretabile nel senso di considerarle come semplice materiale
biologico senza dignità individuale umana, ossia senza personalità morale o
un’anima immortale (a seconda se si è laici o religiosi). Altri ritengono che
la totipotenza deve indurci a considerazioni opposte, e affermano che già al
momento della fecondazione lo zigote (l’ovulo fecondato) è persona umana.
Abbiamo già ricordato come tale ragionamento dicotomico non sia del tutto
convincente, proviamo a specificare meglio perché.
Una prima obiezione a questo modo di argomentare è la seguente: perché da un agglomerato indistinto di parti dovremmo assegnare il valore morale del tutto sulla base del valore di solo una delle parti? Ciò avviene sia nel
caso in cui trattiamo le 400 cellule come materiale biologico (placenta e cordone), ossia come la cosa che conta meno sul piano morale, sia nel caso in
cui lo consideriamo, invece, persona, ossia la cosa che moralmente conta di
più. Questa stessa distinzione senza alternative, tra materiale biologico o persona, sembra fuorviante. Non potremmo attribuire, invece, all’embrione precoce un valore morale intermedio tra lo status di cosa e quello di persona?
Quest’ultima tesi, forse, spiega meglio le nostre intuizioni morali, ossia il
sentimento più diffuso nei confronti dell’embrione: rispetto sì verso una forma di vita umana, ma un rispetto diverso rispetto a quello che si nutre normalmente per le persone. Guardare all’embrione come fase di passaggio dalla
materia biologica alla vita personale, ossia nella sua dimensione dinamica e
nel suo organizzarsi e svilupparsi nel tempo piuttosto che nello spazio, è un
modo per cogliere il carattere progrediente della sua natura sia in senso biologico che etico. Questo ci porta a riconsiderare in maniera pragmatica il limite
dei 14 giorni di cui si è discusso prima, valutandolo come un limite in qualche
modo convenzionale, anche se non arbitrario, fissato per consentire interventi
tecnici ritenuti importanti per il progresso e il benessere dell’umanità.
Da questa prospettiva, in conclusione, sperimentare e fare ricerche con
embrioni precoci non dovrebbe essere proibito in modo assoluto ma andrebbe consentito con molta cautela, in primo luogo, evitando di incentivare impropriamente le scelte abortive, poi, per ragioni analoghe di rispetto della vita umana nascente, evitando di produrre embrioni esclusivamente a scopo di
ricerca. A questo proposito, si dovrebbero utilizzare in laboratorio solo gli
embrioni sovrannumerari e se questi nel futuro, grazie al perfezionamento
delle tecniche di congelamento degli ovociti, dovessero ridursi di numero,
sarebbe meglio rinunciare a tali ricerche.
L’aborto tra morale e diritto
Per aborto si intende l’interruzione della gravidanza entro i primo sei mesi
dal suo inizio. Dopo tale periodo non si parla più di aborto ma di parto prematu51
ro. L’ovulo fecondato, lo zigote, si segmenta e si sviluppa in embrione fino al
terzo mese, periodo in cui si formano gli organi e gli apparati anatomico-funzionali. Dal terzo mese in poi l’embriogenesi si conclude e si parla di feto, in quanto l’organismo qualitativamente è già formato e l’ulteriore permanenza in utero
è funzionale al suo mero accrescimento dimensionale fino al parto. L’aborto
può essere spontaneo, in tal caso si verifica come conseguenza di eventi patologici a partenza dall’embrione-feto o dalla madre, e volontario, quando, invece,
è frutto della decisione della donna e viene effettuato in ambito medico.
Sulla pratica dell’aborto volontario si sono avute da sempre molte polemiche sia in ambito deontologico-professionale (basti pensare al classico divieto di aborto presente nell’antichissimo codice ippocratico), sia in ambito
etico-filosofico e giuridico.
Le polemiche politiche contemporanee
Negli anni settanta si è accesa e sviluppata una lunga polemica scatenata
dalle politiche avviate in molti paesi di legalizzazione delle procedure mediche di interruzione della gravidanza. Con una famosa sentenza del 1973, la
Corte Suprema degli Stati Uniti d’America dichiarò, ad esempio, l’incostituzionalità di qualsiasi legge che limitasse la scelta della donna di abortire nei
primi mesi di gravidanza. Più o meno nello stesso periodo, nel nostro paese,
fu prima votata una legge che consentiva l’interruzione della gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche e su decisione della donna (L.194/1978) e poi
indetto e celebrato un referendum abrogativo della stessa nel quale, tuttavia,
prevalsero i voti contrari all’abrogazione.
La questione politico-giuridica è stata, comunque, al centro di un dibattito particolarmente vivace e complesso e paesi vicini tra loro geograficamente e culturalmente hanno adottato soluzioni legislative molto diverse.
Basti pensare alla stridente contraddizione tra un’Inghilterra dove è consentita l’interruzione anche dopo il terzo mese di gravidanza e l’Irlanda dove l’aborto è ancora un reato; oppure alla situazione tedesca dove, dopo la caduta
del muro di Berlino e la riunificazione nel 1989, si sono trovate a coesistere
due legislazioni, con quella della Germania orientale notevolmente più permissiva dell’altra vigente nella Germania federale.
La controversia politico-giuridica ha generato due movimenti che, sebbene nati negli Stati Uniti, si sono poi diffusi a livello internazionale: il movimento cosiddetto pro-life, anti-abortista, e il movimento cosiddetto pro-choice,
favorevole alla libertà decisionale della donna. In questi ampi schieramenti si
sono collocate posizioni religiose e culturali molto diverse (associazioni di
ispirazione cattolica, gruppi impegnati nel movimento di emancipazione femminile etc. etc.) che a volte hanno assunto posizioni di principio fortemente
ideologizzate che non favoriscono certo una discussione pubblica serena.
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I problemi etici dell’aborto
Un primo problema è quello relativo al valore da attribuire alla vita
umana nelle fasi iniziali. Il dibattito sul cosiddetto statuto etico-ontologico
dell’embrione non è, infatti, privo di conseguenze sulla questione dell’interruzione di gravidanza (anche se ormai questa non è più l’unica questione
morale da discutere). L’atto di interrompere la gravidanza, con la conseguente morte del feto, ha valenze e significati etici diversi se si parte dal presupposto che il feto sia persona morale a tutti gli effetti oppure no. Purtroppo, il
termine persona in queste discussioni filosofiche è usato con significati diversi. Per alcuni pensatori ispirati dalla metafisica tomistica è persona, o almeno va trattato come se lo fosse, anche l’ovulo appena fecondato, mentre
per altri pensatori di matrice utilitaristica si è persona solo in quanto in grado
di provare sensazioni e in possesso di un minimo di capacità razionali (sulla
base di quest’ultimo parametro non solo la maggior parte degli animali, gli
embrioni e i feti non sarebbero persone ma anche i bambini appena nati). A
tali concezioni che tentano di definire la personalità individuale sulla base di
caratteristiche sostanziali rigidamente determinate sfuggono, fondamentalmente, due cose essenziali.
La prima è data dal carattere storico-contingente del processo di crescita
biologica, un processo che va dall’ovulo fecondato fino al bambino appena
nato dove, tuttavia, il codice genetico non è il padrone assoluto. Il patrimonio genetico detta sì delle informazioni fondamentali ma è solo dopo il concreto impatto con l’ambiente esterno che esse realizzano in maniera non deterministica il fenotipo biologico, ossia il concreto organismo vivente. In
questo processo dinamico privo di soluzioni di continuo l’evoluzione avviene lungo percorsi ricchi di deviazioni e biforcazioni che portano a esiti diversi e imprevedibili.
La seconda cosa che sfugge al dibattito tradizionale sull’embrione è l’ineliminabile pluralismo delle concezioni metafisico-ontologiche sulla vita
umana. In altri termini, da parte di alcuni protagonisti di tale dibattito si pretende, a volte ingenuamente a volte con arroganza illiberale, di definire una
volta per tutte che cosa sia la vita individuale e quali caratteristiche le conferiscano un valore intrinseco e quasi sacrale.
Un altro problema morale importante è quello di un equo bilanciamento
tra interessi della donna e doveri di tutela verso il feto. Una pensatrice americana, Judith Jarvis Thomson, ha sostenuto che la vera questione da discutere
è la seguente: non importa se il feto sia o no persona, anzi, anche se lo fosse
a pieno titolo sia moralmente che giuridicamente ci sarebbero comunque circostanze in cui la donna potrebbe avere ottime ragioni per decidere di interrompere la gravidanza. A favore di questa scelta ci sarebbero ragioni relative
ai danni che la donna potrebbe subire in seguito alla prosecuzione della gravidanza. In altri termini, se la gravidanza non è stata voluta ma imposta con
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la violenza, oppure, se essa può avere ripercussioni più o meno gravi sulla
salute della donna, allora è nel suo pieno diritto non portarla avanti. Questo
ragionamento mostra l’inammissibilità almeno delle forme più estreme di
opposizione all’aborto, quali quelle espresse, ad esempio, da Pio XI, il quale
sosteneva che l’aborto, in quanto uccisione deliberata di un innocente, non
poteva essere mai giustificabile, nemmeno se si trattava di salvare la vita della donna.
In definitiva, si può tentare di riassumere in due punti essenziali quanto
finora è stato esposto a favore dell’opzione liberale favorevole alla legalizzazione dell’interruzione della gravidanza.
In primo luogo, nelle nostre società occidentali è presente una pluralità
di concezioni più o meno plausibili sul valore della vita umana nelle fasi iniziali dello sviluppo biologico. A partire da questo pluralismo di fatto non
sembra perciò realistico pensare a una teoria filosofico-metafisica, per quanto autorevole, in grado di risolvere in unità questa pluralità di idee e sarebbe
illiberale l’imposizione legale di una teoria morale controversa.
In secondo luogo, il legame donna-feto va interpretato e letto caso per
caso alla luce degli interessi, a volte inconciliabili, in gioco. Per questi
motivi una legge non può prevedere l’infinita varietà di situazioni conflittuali in cui una donna decide di interrompere una gravidanza non desiderata né può affidare ad autorità esterne una scelta le cui conseguenze immediate ricadono in primo luogo sulla donna.
La conclusione sul piano filosofico è che alcune scelte abortive sono
senz’altro moralmente giustificabili, almeno nelle circostanze prima ricordate o in altre analoghe. A questo punto la discussione filosofica generale si
ferma perché, così come il diritto, la filosofia morale non può prevedere e
fornire prescrizioni adeguate per tutte le possibili situazioni. Il vincolo giuridico che, in quasi tutte le legislazioni, consegna alla donna il potere di decidere senza interferenze esterne è, in fondo, frutto di questa considerazione filosofica e rappresenta la presa d’atto di una situazione priva di alternative
praticabili. Certo così sono possibili abusi, nessuno potrà impedire che in
qualche caso ci siano donne che decidano di interrompere la gravidanza per
motivi futili. Pur non sottovalutando o disconoscendo queste evenienze, si
tratta di capire che la legge dello Stato consegna alla donna una libertà non
arbitraria e capricciosa ma carica di responsabilità. Si tratta di discernere le
reali circostanze in cui è vissuta la gravidanza, e di emettere un giudizio ponderato sui fatti, assumendo una decisione coerente con i propri valori e della
quale si può dare pubblicamente conto.
Una legge che incrementi questo tipo di libertà-responsabilità della donna è possibile e auspicabile da un punto di vista liberale. Un mero ritorno al
passato è francamente inaccettabile.
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