Atti del convegno - Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia

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 ATTI DEL CONVEGNO
L’ARTE DELLE DONNE
PORDENONE
28 SETTEMBRE 2013
Il convegno ha avuto l’adesione del
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
PRESENTAZIONE
La disparità delle donne nella rappresentanza ai livelli apicali della società dipende
non solo da ostacoli reali di carattere socio-economico-politico che ne rendono difficile l’accesso
ai ruoli direttivi e decisionali, ma anche dai condizionamenti culturali che proiettano un’immagine
della donna non rispondente alla realtà, solitamente confinata ai ruoli marginali dello stereotipo
femminile legato al mondo domestico o al ruolo seduttivo.
Se diverse sono le iniziative attivate contro l’immagine spesso mortificante della
dignità delle donne veicolata per lo più dai mass media, poco però generalmente si fa per
diffondere proiezioni differenti delle donne da parte delle donne stesse, poco si dice della
ricchezza di risorse che le donne apportano in tutti i settori con la loro creatività, e poco si sa o si
vuole sapere rispetto a quello che hanno realizzato nel passato; in particolare i simboli, i valori, le
immagini, le sensazioni, i contenuti che le donne hanno prodotto e producono attraverso l’arte
non sono abbastanza conosciuti e diffusi.
L’Arte, intesa come quell’ambito della creatività umana che usa linguaggi afferenti
al mondo dell’emozione, immediatamente percepibile, senza spiegazioni razionali, può essere
invece il veicolo privilegiato per creare un altro immaginario, volto a comprendere la visione
femminile del mondo.
E’ necessario ed urgente, dunque, favorire la diffusione dell’arte delle donne,
promuovendone la visibilità; e questo è tanto più importante per le nuove generazioni che hanno
bisogno di riflettersi in modelli reali per perseguire tutti gli obiettivi possibili, con una stima
rafforzata del sé e del proprio genere.
Il Convegno “L'Arte delle Donne”, il primo organizzato in Italia, che la Commissione
regionale per le pari opportunità del Friuli Venezia Giulia si pregia di aver promosso nel settembre
2013, si è rivelato un'ottima occasione di incontro e confronto nazionale fra artiste, poiché ha
creato conoscenze, stimolato scambi e sviluppato proposte e strategie, così da superare
l'eventuale marginalità delle donne in tutti gli ambiti dell'arte, da quello figurativo a quello
teatrale, coreutico e musicale.
Gli Atti di tale Convegno testimoniano i contributi appassionati e preziosi delle
artiste convenute, dai quali si evincono talenti, competenze e professionalità che vanno messe in
circolo, nella prospettiva di un reale cambiamento che, anche nel mondo dell'arte, riconosca l'etica
della parità.
LA PRESIDENTE DELLA
COMMISSIONE PARI OPPORTUNITÀ TRA UOMO E DONNA
DELLA REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA
Annamaria Poggioli
L’ARTE DELLE DONNE
TEATRO MUSICA ARTI FIGURATIVE
Santa ZANNIER
Presidente dimissionaria Commissione regionale pari opportunità
Buongiorno a tutti e grazie per essere intervenuti a questo convegno, a cui la
Commissione regionale pari opportunità tiene moltissimo. Vedo che la presenza è numerosa.
Passerei la parola al padrone di casa il Sindaco di Pordenone signor Pedrotti che ci
porterà il saluto suo e della città che ci ospita. Signor Sindaco Grazie.
Claudio PEDROTTI
Sindaco di Pordenone
Vi ringrazio per la gentilezza. Gli impegni che ho questa mattina sono
importantissimi e piacevoli: devo fare due matrimoni, quindi voi capite che non posso
mancare!
Certo, ho accettato l’invito e il fatto di porgervi un saluto e un benvenuto l’ho
ritenuto un privilegio, un piacere e un privilegio. Ma voglio arrivare subito al punto.
Il convegno riguarda l’arte e le donne e prima sentivo proprio i commenti, che
sottolineavano che molto spesso la presenza femminile nell’arte viene sempre vista –
chissà perché? – come un hobby, mentre quella maschile come un lavoro. In effetti, questa
è un po’l’immagine. Chissà perché c’è sempre stata questa percezione?
Questa percezione, questo spunto lo allargo alla partecipazione delle donne alla
politica, facendo un paragone di quella che, secondo me, – perché questo è il vero tema che
volevo suscitare nelle vostre discussioni – è la reale rappresentatività della politica in
questo momento. Metto insieme il tema della presenza delle donne nella politica, nell’arte,
con quello della presenza dei giovani nella politica anche perché vedo in fondo la sala una
bella rappresentanza di ragazzi.
In tutto questo vedo delle somiglianze perché la politica di oggi manca proprio di
due componenti: quella femminile in modo massiccio e sentito e quella dei giovani.
Mancano due energie fondamentali per il cambiamento di questo Paese e per
affrontare la crisi, e l’unica cosa che posso dirvi, e che dico sempre, è: fatevi avanti!
Circa un anno e mezzo fa, abbiamo fatto una delibera, che ha avuto un iter
complesso, che caldeggiava le nomine di giovani e donne.
Non vi nascondo, lo dico con una certa amarezza, che il fatto di avere delle donne
nominate nei nostri organismi è, a volte, un problema. Mi sono sentito dire un sacco di
volte: no. Ve lo dico fuori dei denti perché mi ha fatto un grande dispiacere.
3
Questo credo che sia dovuto al profondo scetticismo e a un certo cinismo che, sia i
giovani, sia le donne, hanno nei confronti degli impegni verso la politica oggi.
E’ difficile fare un’analisi e capire quali sono gli elementi da combattere per
eliminare questo cinismo e questo profondo scetticismo, una cosa è certa: è indispensabile
che questi elementi vengano rimossi. Se non ci sarà, nei prossimi mesi, una partecipazione
più decisa vostra e di giovani nella vita politica di questo Paese, noi non usciremo mai dalla
crisi, né usciremo mai dalla crisi politica.
Quindi io approfitto oggi di questo convegno proprio per lanciare un appello:
cercate di vincere questo scetticismo! Questo è un po’il messaggio che viene dato. Quindi,
per favore, fatevi avanti!
Buon lavoro per oggi. Grazie per essere qui, a Pordenone, alle persone che
vengono da fuori, ma, soprattutto portate questo messaggio con voi. Grazie.
Santa ZANNIER
Presidente dimissionaria Commissione regionale pari opportunità
Ringrazio il Sindaco, l’Assessore Moro della Commissione pari opportunità del
Comune di Pordenone, l’Assessore alla cultura Cattaruzza, con il quale abbiamo organizzato
questa giornata.
Desidero dire che sono Presidente dimissionaria della Commissione regionale pari
opportunità, e che il 26 settembre è stata nominata Presidente della Commissione la
signora Cantone, che è anche la Presidente della Commissione regionale pari opportunità
del Comune di Udine. Benvenuta! La invito più tardi a portare il Suo saluto.
La parola adesso all’assessore regionale Loredana Panariti.
Loredana PANARITI
Assessore regionale al lavoro, formazione, istruzione, pari opportunità, politiche giovanili e ricerca
Buongiorno. Oggi qui affrontiamo due temi: uno, il tema della libertà, perché
bisogna essere liberi per potersi sedere da qualunque parte per essere artisti; l’altro è il
tema del potere che diventi sia una professione, che un modo per essere e dimostrare chi si
è. Bisogna che cambi il modo di comandare, non basta dire alle donne “venite”, bisogna
trovare, e lo possono fare solo le donne, dei nuovi modi di organizzare e di comandare.
Io ricordo che, quando ero una giovane ricercatrice, lavoravo con un uomo, una
persona bravissima dalla quale ho imparato tantissimo, lui faceva esami la mattina e il
pomeriggio, con una congrua pausa; io avevo una bambina di tre mesi a casa e avrei fatto
esami dalle sette del mattino alle tre del pomeriggio per andare a casa il prima possibile,
con lo spazio di un panino o anche no. Banalità, se si vuole, ma c’è la necessità di un altro
tipo di organizzazione e dobbiamo cominciare a chiederci come comandiamo noi, qual è il
nostro modo.
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E questo vale anche per i ragazzi e le ragazze. C’è un altro modo di organizzare e di
gestire, di ragionare? Ecco, cominciamo a fare questo e andremo in una buona direzione.
Acqua ne è passata sotto i ponti e credo che vi sia la disponibilità e la forza di
andare in questa direzione e manifestazioni come queste me lo fanno capire. Grazie a tutti e
buon lavoro!
Santa ZANNIER
Saluto e ringrazio la Consigliera regionale Bagatin per la sua presenza, e passo la
parola all’onorevole Zanin.
Giorgio ZANIN
Deputato della Repubblica italiana
Buongiorno a tutti. Grazie per l’invito e grazie soprattutto a chi ha promosso
questo appuntamento, che effettivamente, come chi mi ha preceduto ha già sottolineato, è
un appuntamento che ha il pregio di porre al centro un tema, attorno a cui, in qualche
misura, possiamo tutti mettere del nostro.
Quando porto questi saluti, di solito, metto in gioco pezzi della mia vita, vedo
anche giovani e ragazzi in sala e penso sia estremamente stimolante e importante che
questo appuntamento ci aiuti anche a inquadrare, oltre che i problemi, anche le risorse.
Riflettevo in questi giorni perché le letture di questo periodo sono tutte concentrate su una
fantastica e favolosa scrittrice italiana, qual è Elsa Morante, e pensavo a quale risorsa
costituisca la capacità dell’animo femminile di descrivere e di portare la soglia della
letteratura a esplorare pezzi anche dell’interiorità in modo totalmente diverso rispetto
all’universo maschile. Pensavo anche a quale risorsa il nostro territorio pordenonese, che
ospita questo convegno, e che ha il pregio di essere anche un riferimento di carattere
nazionale, possa essere costituita da nicchie espressive, che poi tanto nicchie non sono più,
come quella che io ormai oso definire una “scuola” di illustrazione dell’infanzia che è
appannaggio prevalente proprio di illustratrici pordenonesi. Come a dire che se sappiamo
guardare, se abbiamo un occhio attento, possiamo cogliere anche quelle che sono già le
linee di un percorso che sta avanzando.
Il convegno si pone la domanda sul “perché no?”, io direi sul “perché non ancora?”
Intuendo anche da uomo di scuola, quale sono, in prestito temporaneamente in
Parlamento, penso di poter essere molto fiducioso sulle sensazioni che colgo nel contesto
scolastico – ci sono anche amici e colleghi qui presenti – è indubbiamente degne di grande
attenzione.
L’universo femminile è, direi, in “pole position”, se si può usare il termine tecnico in
Formula 1, e vincerà presto molte gare. Anche quella dell’arte, ovviamente, come le donne
nei secoli hanno saputo dimostrare, e come già dimostrato anche qui nel nostro territorio.
Quindi buona riflessione e soprattutto il convegno sia una spinta non soltanto per
fare i conti su quello che non è stato, ma per orientarci e vedere i segni di speranza perché
essere positivi e attenti aiuta. Grazie.
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Santa ZANNIER
Ringrazio per la sua presenza anche Rosella Simon, industriale, ci fa piacere che
anche questo settore sia interessato a questo tema. Farò una breve introduzione per poi
passare la parola alla commissaria Braidotti, che è stata proprio la fautrice di questa
iniziativa che si sta sviluppando bene, che ci ha portato tanti pensieri, tanto impegno ma
grande soddisfazione.
Che dire della donna nell’arte? Che non è ancora visibile come attività lavorativa, e
il problema nasce dalla difficoltà di conciliare proprio l’identità femminile con la vocazione
artistica perché sembra proprio che si dica che le donne lo fanno per hobby, come
accennato in precedenza dal Sindaco.
Credo che sia impossibile ricostruire le ragioni storiche e culturali di questa
difficoltà, ma sicuramente hanno lasciato il segno, nonostante il passare degli anni.
Dobbiamo chiederci cosa significa essere oggi una donna e, nello specifico, una donna
artista. Credo sia necessario avere una visione più chiara delle implicazioni che comporta la
differenza di genere. Siamo sempre lì, ci si ritorna sempre sopra. Riflettere come sarebbe il
mondo oggi, se le donne non fossero state discriminate nel passato e nel loro percorso di
vita; un mondo in cui ci fosse il diritto di essere ascoltate su qualsiasi argomento.
Rappresentiamo la metà della popolazione, quindi dovremmo lavorare insieme, di comune
accordo.
Sarebbe un mondo migliore, più ricco di idee, di proposte e di progetti, e il
contesto artistico sicuramente ne uscirebbe potenziato. La fantasia femminile è illimitata, e
la società non potrebbe che guadagnarci dalla presenza massiccia delle donne, senza
ostacoli e senza preconcetti. Partenza in parità e che vinca il migliore.
Le donne, quindi, con difficoltà, però senza mai demordere, sono riuscite a lottare
contro questi ostacoli. Il messaggio che si vuole lanciare, quindi, è che l’arte non ha genere, e
la tecnica non è un appannaggio maschile. Per il momento, anche se le giovani donne non
sentono pregnanti queste difficoltà, o non le individuano come ostacoli da superare, le
incontreranno però quando dovranno far conciliare la famiglia con la carriera e si
accorgeranno benissimo della situazione delle donne della nostra società.
Convivono ancora antichi pregiudizi, e risulta difficile delineare una convincente
storia artistica che comprenda l’apporto femminile, che è stato invisibile fino ad ora,
nonostante le loro competenze e capacità.
La vita delle donne non deve essere penalizzata, non ci deve essere una cultura
che le penalizza, ma deve essere il lavoro che dice se le donne sono o non sono sullo stesso
piano degli uomini, possono dare e possono dare anche di più.
Nell’arte io credo che non ci siano aspetti femminili e aspetti maschili. Le diverse
sensibilità, le passioni personali hanno entrambe il diritto di essere rappresentate.
Personalmente, ritengo che le donne abbiano più grinta, alle volte, dei loro colleghi. E qui
devo dire che sono di parte!
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C’è una differenza tra il lavoro delle artiste e degli artisti? Forse sì. Le donne sono
senz’altro più coraggiose e sperimentatrici. Amare l’arte, quindi, è una cosa importante per
tutti, maschi e femmine non si devono dividere.
Rinnovo i ringraziamenti della Commissione pari opportunità, che fin qui ho
rappresentato, e che su questo argomento, come ricordavo prima, ha lavorato molto
seriamente, soprattutto la commissaria Braidotti, a cui dopo darò la parola. Rinnovo i
ringraziamenti a chi viene da lontano, a chi per partecipare a questo convegno ha fatto
anche molta strada. Questo è un doppio ringraziamento, sicuramente.
Un particolare ringraziamento va sempre alle donne artiste che devono pensare
che anche per loro sarà un lavoro, come tutti gli altri portati a questo genere, ma che resta
comunque una scelta loro, non una scelta imposta. Quindi, sotto questo aspetto, ringrazio
nuovamente tutti e questa giornata sarà forse un po’lunga, ma si concluderà con due
ottime occasioni di sentire un po’di musica al ridotto del Verdi e poi di vedere una piccola
pièce, come da programma.
Forza, donne! Noi siamo qua e non vogliamo avere rivalità, vogliamo solo
confrontarci sempre e su tutti gli argomenti. Perché se voi pensate che in Consiglio
regionale oggi ci sono delle donne, abbiamo avuto però anni, anni ed anni di Consigli
regionali senza la presenza femminile.
In tutti questi anni, da quando esiste la Regione Friuli Venezia Giulia, c’è sempre
stata una legislazione che ha portato a non considerare che le donne potrebbero avere
avuto qualcosa da dire su alcune normative o su alcune leggi, che vengono varate dalla
Regione. Grazie.
Gradirei, ora, che la nuova Presidente della Commissione regionale pari
opportunità portasse il suo saluto.
Donata CANTONE
Presidente Commissione regionale pari opportunità
Porto i saluti della Commissione, che presiedo veramente da pochissimi giorni, un
giorno e mezzo!
Desidero ringraziare il gruppo di lavoro che ha collaborato per la realizzazione di
questa giornata dedicata all’arte femminile, e in particolare alla collega Braidotti per il suo
impegno, che devo dire è stato eccellente.
Grazie anche a tutte le Istituzioni e alle persone che in qualsiasi modo ci hanno
consentito di realizzare questo incontro.
Perché questo convegno? Da sempre la donna è stata una musa ispiratrice, in
questo caso nell’arte, in altri è stata magari una brava segretaria, ma oggi la donna, invece,
ha un ruolo importante: vive, vede, sperimenta la vita da una prospettiva diversa, con un
pathos diverso rispetto all’uomo. Ed è proprio per questo che è in grado di vivere e vedere
l’arte in un modo diverso.
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Il convegno vorrebbe essere uno stimolo per le donne ad avvicinarsi all’arte un
messaggio per il mondo istituzionale e per gli addetti ai lavori per supportare le donne nei
loro percorsi storici, premiando il lavoro aggiunto che esse sanno dare. Io mi fermo qui e
auguro buon convegno a tutte.
Santa ZANNIER
La parola alla signora Turani del Comune di Spilimbergo, per un breve saluto.
Elisabetta TURANI
Consigliere comunale di Spilimbergo.
Buongiorno a tutti e a tutte. Sono Elisabetta Turani, Consigliera di minoranza del
Comune di Spilimbergo. Sono particolarmente lieta di portarvi il saluto del Sindaco, dottor
Renzo Francesconi, e di essere qui tra voi perché sono donna, perché professionalmente
sono un’assistente sociale, sono impegnata in un settore che mi vede sempre vicina ai
problemi delle donne, alle violenze sulle donne, più o meno rese esplicite.
Non dimentichiamo gli episodi sempre più ricorrenti di femminicidio. Questa
estrema forma di violenza di genere contro le donne perché il tema di oggi, della riflessione
di questo convegno, gira appunto intorno al pianeta Donna. E vi chiederei, per cortesia, di
unirvi a me per ricordare tutte le donne uccise, riservando loro un minuto di silenzio.
(Si osserva un minuto di silenzio)
Tornando al tema di questo convegno, questo sull’arte delle donne è veramente
stimolante, perché anche nell’arte, nella storia dell’arte, emerge, purtroppo, il prevalere di
una cultura sessista, basata su forme di discriminazioni degli esseri umani.
Leggo che il programma di questo convegno prende lo spunto dalla riflessione sulla
presenza femminile nella storia dell’arte, intesa nelle sue varie manifestazioni, per analizzare
non solo le prospettive ma le azioni possibili, per valorizzare e diffondere l’immagine del
mondo che le donne producono attraverso l’arte.
Personalmente credo che l’argomento del convegno sia vasto e pregnante e non
possa prescindere da un’analisi del rovescio della medaglia, vale a dire quella dell’immagine
e della rappresentazione della donna dell’arte.
Per non andare troppo lontano, alla cinquantacinquesima Biennale di Venezia, su
14 artisti invitati a rappresentare l’Italia, nel padiglione nazionale, solo due sono donne.
Questo convegno punta anche a sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni
sull’espressione artistica femminile per un confronto fra chi produce le attività creative e
artistiche e chi le veicola e promuove.
Su questo versante ricordo che Spilimbergo è una città con una vocazione artistica
peculiare. Mi riferisco alla Scuola dei Musicisti, nata nel gennaio del 1922, erede dell’antica
tradizione musiva romana e bizantina e frequentata ormai da tantissime giovani donne
provenienti da più parti del mondo. Ricordo che la sigla “SMF”, Scuola Musicisti Friulani, è
impressa su molte opere che si trovano anche all’estero (Detroit, Los Angeles, Parigi, Tokyo
eccetera) e sta a significare tradizione, innovazione, capacità d’inventiva.
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Credo che il consorzio tra gli Enti locali per la Scuola Musicisti del Friuli debba
prefiggersi tra i suoi scopi anche quello di valorizzare e di dare visibilità al ruolo delle donne,
all’opera delle donne in un’arte millenaria, che si deve coniugare con la ricerca artistica,
tecnologica, contemporanea.
9
INTRODUZIONE
Bruna BRAIDOTTI
Commissione regionale pari opportunità - Compagnia Arti e Mestieri.
ALCUNI DATI SULLA PRESENZA ARTISTICA DELLE DONNE IN ITALIA
Benvenute a tutte e a tutti. Sono veramente molto felice che oggi si realizzi questo
sogno. Questo convegno ne segue un altro sostenuto dalla Commissione regionale pari
opportunità nel 2006: la rappresentanza e la rappresentazione delle donne, un confronto fra
operatrici del mondo teatrale e donne impegnate in politica. Dopo sette anni, dopo altri
appuntamenti su questi temi in Italia oggi riprende il confronto fra le donne artiste allargato
a tutte le arti.
Ringrazio la Commissione regionale pari opportunità e Santina Zannier, che hanno
sostenuto e accettato la mia proposta permettendo di realizzarla.
L’immagine che è stata scelta come logo è un quadro di Giosetta Fioroni,
un’artista di Roma che ci ha gentilmente concesso l’immagine dell’opera “Doppio Liberty”
come logo della manifestazione. Lo abbiamo scelto proprio perché dà l’idea dello sguardo
delle donne sul mondo.
Il cerchio in cui è inserito il volto femminile focalizza un obiettivo e lo sguardo
indica una direzione precisa, la duplicazione del volto inoltre ci suggerisce la dimensione
plurale della visione delle donne – Giosetta Fioroni non ha potuto partecipare al convegno
ma vi invita a visitare la mostra a Roma, alla Galleria nazionale di Arte moderna e
contemporanea dove dal 25 ottobre al 23 febbraio esporrà le sue opere.
Perché questo convegno?
Rileviamo che vi è una scarsa visibilità e diffusione dell’arte delle donne sia delle
artiste del passato che di quelle contemporanee, che è necessario superare per far si che
l’immaginario delle donne e il loro punto di vista facciano parte della nostra società. Di fatto
nella nostra cultura l’ordine simbolico dei segni che interpretano la realtà è misurato
prevalentemente sullo sguardo, sul pensiero e sul desiderio maschile e il fatto che le donne
non partecipino alla rappresentazione dell’identità collettiva è una delle cause degli squilibri
sociali in cui viviamo, di cui un fenomeno estremo è anche il femminicidio.
A dimostrazione della scarsa presenza dell’arte delle donne nelle manifestazioni
artistiche, abbiamo preso qualche dato, la presenza di artisti ed artiste alla Biennale di
Venezia in diversi anni: come vedete, dalla tabella la presenza delle donne è bassissima. C’è
solo un anno, il 1999, in cui erano paritari, però quell’anno gli artisti italiani erano molto
pochi.
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Rappresentazione dati di artisti e artiste Italiani/e presenti alla Biennale di Venezia
(1895–2013) settore Arti Visive
Anno
%Uomini
%Donne
1895
1897
1899
1901
1909
1910
1914
1920
1922
1932
1936
1940
1942
1948
1962
1968
1978
1982
1988
1995
1999
2001
2009
2011
2013
97
97
97
99
98
99
97
94
93
73
93
94
96
91
98
94
93
96
89
94
50
64
81
78
77
3
3
3
1
2
1
3
6
7
27
7
6
4
9
2
6
7
4
11
6
50
36
19
22
23
Ugualmente alle mostre del Macro e del Maxi di Roma, in base ai dati recenti delle
ultime esposizioni la presenza delle donne è molto bassa.
Rappresentazione di artisti e artiste presenti nelle collezioni dei musei
MACRO e MAXI di Roma.
MUSEI
%Uomini
%Donne
Collezione MACRO
72
28
Collezione MAXI
81
19
11
Fonte: archivi on-line dei musei
Nei teatri non andiamo meglio. Abbiamo valutato la presenza di drammaturghe, e
registe: nei cartelloni dell’Argentina di Roma, del Verdi di Firenze, del Verdi di Pordenone la
loro presenza è veramente scarsa, si distingue solo il Piccolo Teatro di Milano che ha una
maggiore presenza di donne autrici e direttrici.
Rappresentazione grafica dei dati presi in considerazione
Fonte: dati dai rispettivi websites
Anche i programmi del Mittelfest registrano questa minor presenza delle donne artiste.
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Rappresentazione dati relativi ad Artisti/e presenti al Mittelfest 2013 Musica/Teatro
Settore
%Uomini
%Donne
Musica
75
25
Prosa
75
25
Fonte: programma Mittelfest 2013
Nel campo della musica si rileva la stessa mancanza di presenze femminili fra le
compositrici e le direttrici d’orchestra, (abbiamo preso in considerazione le stagioni musicali
del Teatro Verdi di Pordenone e di Trieste). Chiaramente, sono dati parziali, ma danno
un’idea anche se sommaria di come effettivamente la scena artistica manchi del contributo
femminile.
Rappresentazione dati di Primi musicisti/e, direttori, direttrici e registi/e nelle stagioni
2013/2014 dei Teatri Verdi – Pordenone e Verdi – Trieste settore Musica
Teatro
Stagione
%Uomini
%Donne
Verdi
Pordenone
2013/2014
75
25
Verdi Trieste
2013/2014
80
20
Fonti: siti internet dei teatri
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Gli interventi ed i contributi di questo convegno avranno quindi l’obiettivo di far
conoscere e di individuare le realtà artistiche delle donne ed individuare strategie e modalità
per superare la situazione attuale.
Coordineremo il convegno e presenteremo le artiste qui convenute che
provengono da tutta Italia io e Luisa Sello, che presenterà prevalentemente le musiciste.
Luisa Sello è una nota flautista di livello internazionale, però di patria friulana, una
eccellenza del nostro territorio.
Stamattina inizieremo con un intervento musicale a cura di Vittoria Jedlowskij,
presentato da Luisa Sello, seguiranno le relazioni sul controverso percorso storico fra donne
ed arte sia nelle arti visive, che nel teatro che nella musica. Gli interventi successivi saranno
le testimonianze di artiste, e la mattinata si concluderà con le relazioni su quello che già si
realizza per la diffusione e valorizzazione dell’arte delle donne (festival, rassegne eventi
anche a livello internazionale).
E’ previsto anche l’intervento del pubblico, per cui chi intende intervenire potrà
dare il proprio nome ad un incaricata.
Nel pomeriggio ci sarà una tavola rotonda con diverse sezioni: una riguardante il
linguaggio e i contenuti dell’arte e le donne, una sulle difficoltà e le criticità delle donne, e
un’altra in conclusione con le proposte e i progetti e i propositi. Sarà il momento più
importante in cui chiederemo un confronto con chi promuove il mondo artistico.
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Luisa SELLO
Flautista concertista e docente
(Luisa Sello e Carla Magnan)
Vorrei brevemente presentare Bruna Braidotti, artista, attrice, drammaturga,
direttrice artistica; potremo ammirarla nella pièce in scena questa sera. E’ lei l’anima di
questo convegno insieme a tutte le collaboratrici.
Ancora prima di iniziare con le relazioni, desideriamo aprire il convegno con una
‘nota’, appunto, nel vero senso della parola, ed un sorriso. Maria Vittoria Jedlowski, infatti,
eseguirà alla chitarra due sue canzoni.
Maria Vittoria JEDLOWSKI
È docente di chitarra classica presso il Conservatorio G. Verdi di Milano e concertista di musica classica e contemporanea,
oltre che cantautrice e compositrice di improvvisazioni per la danza. Gran parte del suo repertorio è dedicato al femminile:
dei quindici cd che ha registrato cinque infatti propongono opere di sole donne, e uno presenta canzoni dedicate al
femminile nel suo album doppio “Giallo verde oro muschio”.
Io ce la farò
(Maria Vittoria Jedlowski)
E fioriscono le ginestre
Le margherite non si contano più
Sono i passi del mio cammino
Che risplendono di colori / Io ce la farò, Io
15
Ma quante volte di primavera
Ho nelle mani tutto quel che ho
Io che conosco l’albero dei sì
Che conosco l’albero dei no / Io ce la farò, Io
Nelle notti di vento forte
Nelle notti in cui siamo giù
Sentirò delle mie ossa il canto
Il richiamo che mi porta su / Io ce la farò, Io
Ora che ho scritto la carta in bella
Dei miei diritti che non soffocherò
Quando suonano le campane
È il mio trionfo che si fa sentire / Io ce la farò, Io
Ma quante volte di primavera
Ho nelle mani tutto quel che ho
Io che conosco l’albero dei sì
Che conosco l’albero dei no / Io ce la farò, Io
Meno male che so cantare
Ogni volta che lo voglio fare
E fioriscono le ginestre
Le margherite non si contano più / Io ce la farò, Io
16
(Esecuzioni musicali alla chitarra di Maria Vittoria Jedlowski)
Ti riconosco sorella
(Maria Vittoria Jedlowski)
Nello stesso mezzogiorno
Eri farfalla con me
Nella sera silenziosa
Lucciola
Raggi di una stessa luna
Argentata noi due
Primule di primavera
Caute di petali
Io ti conosco sorella / Ti ho vista già
Ti riconosco sorella / Ti ho amata già
Nella lunga camminata
Eri al fianco con me
Il mattino del risveglio
Eravamo io e te
Sulla spiaggia la mia orma
È vicina alla tua
Due ciliegie ed un picciolo
Fra le foglie
17
Io ti conosco sorella / Ti ho vista già
Ti riconosco sorella / Ti ho amata già
Con la punta delle dita
La sottile energia
Profuma l’aria della nostra
Gentile magia
Foglie di uno stesso gambo
Tulipano io e te
Benedetto il tuo sorriso
E l’incontro con te
Io ti conosco sorella / Ti ho vista già
Ti riconosco sorella / Ti ho amata già
18
L’ARTE DELLE DONNE NELLA STORIA
Bruna BRAIDOTTI
In un convegno sull’arte non si poteva iniziare se non con un intervento artistico
per dare l’avvio alle prime relazioni della mattinata sulla storia delle donne artiste.
Interverranno Elisabetta Cappugi, per l’arte figurativa, Luisa Sello, Monica
Cattarossi e Valeria Palumbo per la musica e Annamaria Cecconi per il teatro.
Elisabetta CAPPUGI
Laureata e perfezionata in Storia dell’arte presso l’Università di Firenze, attualmente lavora come perito ed esperto d’arte,
nonché come guida turistica.
Ha lavorato per le Soprintendenze di Urbino, Firenze, Prato e Pistoia e collaborato con il prof. Fabio Bisogni presso la
Harvard University Villa I Tatti. Nel 1986-87 per Alinari progetta e scrive il catalogo della mostra sull’ Olografia che si
tiene in Palazzo Rucellai a Firenze; inoltre realizza altre esposizioni per il pittore Alberto Savi e con il Tokyo Fuji Art
Museum nel 2001.
Ha recentemente pubblicato ‘Divini Giardini’, su ville e giardini privati nei dintorni di Firenze, e la storia di Villa Le Brachedi Bellagio, edificio rinascimentale attualmente sede dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai.
COM’ERA DIFFICILE PER LE DONNE AVERE VOGLIA DI DIPINGERE
Buongiorno a tutte e a tutti. Ho preparato una serie di immagini che penso che vi
possa far piacere vedere e che magari non tutti conoscete. Sarà una carrellata veloce.
Vorrei iniziare con una frase che da molti anni mi incoraggia e che leggo con voi. E’
di Daisaku Ikeda, il filosofo giapponese che seguo, e recita: “Potremmo chiederci: perché
l’arte gioca un ruolo così importante nella crescita delle persone? E perché è sempre
stato così? L’arte, degna del proprio nome, consiste nel ricercare la realtà
fondamentale che crea il legame tra persona e persona, persona e natura, persona e
universo. L’emozione generata da un’opera d’arte, sia essa poesia, pittura o musica,
può consistere in quel sentimento tangibile e indubbio dell’espansione dell’io. E’ un
sentimento di pienezza generato da un ritmo misterioso, una specie di volo verso
l’infinito, vissuto come una partecipazione, uno scambio, la cui sorgente è il nostro
mondo interiore. Questo potere di sintesi, caratteristico dell’arte, si attualizza
nell’apertura del limito all’illimitato, dell’esistenza individuale al significato
universale”. “Discorso sull’arte e la spiritualità in Oriente e in Occidente” tenuto
all’Académie Francaise des Beaux-Arts, Parigi, 14 giugno 1989
Questa frase è stata la base di tutto il mio lavoro: io faccio anche la guida turistica a Firenze
e confermo che mostrare gli oggetti d’arte alle persone e condividerne il valore crea ponti di
amicizia.
L’attuale convegno mi ha dato la possibilità di mettere ordine e approfondire
l’argomento a cui ho dato il titolo “Come era difficile per le donne avere voglia di
dipingere!”
1) Iniziamo con un’immagine che mostra una giovane monaca del XII secolo che
tiene in mano un cartiglio: come hanno detto anche le signore che hanno parlato prima di
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me, per le donne esprimersi in maniera artistica ha richiesto sempre grande sforzo e
costanza.
2) In Europa c’erano molti ordini monastici. L’immagine mostra la monaca
benedettina, pittrice e musicologa, Hildegard von Bingen (1098-1179), mentre scrive e
guarda verso alto: ha il volto ispirato, è piccolina rispetto alla grande visione che raffigura un
gran fuoco e fiamme, raffigurati in modi fantasmagorici e favolosi. La creazione e il mondo
sono il soggetto della miniatura: qui sono rappresentati anche le arti e i mestieri collegati
alle stagioni. Sulla destra infine ci sono delle letterine –le “litterae ignotae” - di cui non si è
scoperto ancora il significato.
3) Nella successiva immagine si vede l’iniziale miniata “Q” al di sotto della quale è
dipinta –quasi a mo’ di virgola della lettera Q- una figurina femminile che pare sorreggerla.
E’ la firma di Claricia, anch’essa monaca, che vive in Germania intorno alla fine del XII
secolo. “Miniato” vuol dire che veniva usato il minio, il colore rosso con cui in genere si
disegnavano le iniziali.
Claricia, Salterio, sec. XII, Baltimora, Walters Art Gallery.
Durante tutto il Trecento in Europa si sviluppa largamente la meravigliosa arte
gotica in ogni sua forma. Perché delle artiste non si sa nulla? Uno dei motivi è che non ci
sono documenti, altrimenti si saprebbe qualcosa di più: quindi la principale causa per cui le
artiste sono sconosciute è proprio per questo. A volte, ci sono solo delle iniziali puntate, ma
non si sa se di uomo o donna.
4) Questa diapositiva mostra una donna pittrice ai tempi del Boccaccio con la
tavolozza in mano mentre dipinge al cavalletto, seduta su una sedia tipo Savonarola e dietro
si intravede un aiutante che pesta il lapislazzulo per fare il colore blu. L’immagine è
splendida. Bellissimo anche pavimento a rombi in terracotta. Si studiava e dipingeva
privatamente con passione e spirito di ricerca (ma questo lo sapete perché lo sperimentate
tutte).
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5) Non solo pittura ma ho trovato anche un’immagine con una donna scultrice ed
un’altra dove si vede uno studio con i colori sul tavolo e lo specchio per l’autoritratto.
6) Queste sono bellissime e ve le dedico: due diverse miniature per illustrare La
città delle donne dove, come vedete, le donne sanno fare tutto - perfino costruire muri –
sempre, però, indossando eleganti abiti e cappelli! Guardate come sono ben definiti la
finestra col vetro piombato, la donna che scrive, i costumi e le stoffe alle pareti. (Christine de
Pizan, La cité des Dames, c. 1410-c. 1414)
7) Poi, finalmente, si ha notizia di qualcuna: si tratta di suor Plautilla Nelli,
fiorentina, 1524-1588. Questa lunetta è stata restaurata da Advancing Women Artists
Foundation di Jane Fortune che ha scritto un libro dal titolo ‘The invisible women’, Firenze
2009. Attraverso altri documenti scopriamo che è amica di un’altra sorella di nome
Petronilla, anch’essa artista, e che abitavano in un monastero vicino San Marco che non
esiste più…
8) Caterina von Hemmessen, nata a Antwerp, 1520-1587. Autoritratto a
vent’anni, graziosa e umanissima, con la piccola tavolozza e l’asta per tenere distante il
braccio mentre dipinge. Insieme alla musica, queste due arti facevano parte dell’istruzione
domestica - soprattutto se la ragazza era di buona famiglia- ma era difficilissimo
continuare. Non a caso molti dei dipinti che mostro raffigurano autoritratti. I successivi
dipinti eseguiti dalla giovane fiamminga dimostrano come il suo sguardo fosse umano e
profondo, pronto a captare l’animo delle ritrattate.
Tante e brave nel Cinque, Sei e Settecento: a volte sole, tutte coraggiose. Per
dipingere bisognava proprio volerlo, perché era così difficile, direi proibito, in quel tipo di
società. Adesso propongo alcuni nomi celebri.
9) Lei si chiama Sofonisba Anguissola, cremonese, 1531-1626. Si mostra
giovane, mentre dipinge al cavalletto, con la tavolozza in mano, e indossa una sopravveste
per proteggersi dai colori; l’altro bellissimo ritratto accanto raffigura l’Infanta Catalina:
sembra, addirittura, dipinto nell’Ottocento da com’è moderno, brillante e da come l’occhio
indaga sulla pelliccia, la mano…e poi guardate che viso intenso… Sembra Boldini (per non
dire Goya o Picasso)! Le donne sono sempre moderne. Altro bel dipinto che raffigura delle
ragazzine che giocano a dama: anche qui c’è la medesima acutezza e vicinanza nello
sguardo di chi dipinge.
10) Lavinia Fontana, Bologna, 1552-1614, autoritratto mentre suona. Un uomo la
voleva sposare, Paolo Zappi, e lei accetta a patto che la lasci continuare a dipingere. Non
solo Paolo acconsente, ma le farà da assistente per tutta la vita. Mi piace notare questa
cosa.
11) Marietta Robusti, Venezia 1554-1590. Più che famosa lei è il padre che è
famosissimo, il Tintoretto, tanto che viene soprannominata “la Tintoretta”. Valente
ritrattista “rifiutò” l’invito di Filippo II re di Spagna, per non allontanarsi – non ho messo le
virgolette ma ci starebbero bene – dalla casa del padre. Il suo lavoro, talvolta confuso con
quello paterno per l’alta qualità della pittura, non è sopravvissuto.
12) Ed ora la famosa Artemisia Gentileschi, Roma, 1593-1653, che tutti
conoscete, perché il suo carattere è veramente dirompente. Magnifico questo autoritratto
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in veste di Allegoria della Pittura, di sbieco e dall’alto in giù (se avete visto il film, l’attrice
Chiara Muti le assomiglia).
A. Gentileschi, Autoritratto, 1638-39, Coll. Reale Britannica
A sinistra un altro autoritratto come suonatrice di liuto. Siamo negli anni del
Caravaggio. Onestamente il padre era forse più bravo di lei come pittore, ma non importa.
Tutti voi, credo, sapete del famoso stupro nel maggio 1611 da parte di Agostino Tassi,
pittore “di prospettiva” a quel tempo in Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Ma famoso,
perché? Perché lei osa portarlo in pubblico, avere un processo. Esistono tutte le carte. E’ un
po’come oggi: invece di chiudersi nascosta, fa emergere il fatto pubblicamente. Il dipinto
mostra lo sgozzamento di Oloferne da parte di Giuditta –che si scosta per non schizzarsi(Capodimonte, Napoli) mentre, addirittura, la serva lo tiene fermo. Nell’altro analogo a
Firenze Giuditta indossa una ricca veste gialla e ha un bellissimo braccialetto di oro e
cammei. I due dipinti sono quasi identici, ma preferisco questo napoletano per la luce forte
e radente che investe il decolleté e il bellissimo vestito blu notte. Lo stesso soggetto viene
ripetuto nel dipinto della Palatina di Firenze: c’è sempre una lama di luce di tipo
caravaggesco che entra e inonda con la sua luce tutto ciò che incontra. . . Giuditta tiene la
pesante spada quasi fosse un maschiaccio con un sacco sulla spalla. La luce si appoggia
sullo scollo… la manica bianca della serva non è per nulla pulita… niente è formale, tutto è
invece sostanziale. Tipico delle donne. Altro bellissimo dipinto di Artemisia è la tela sul
soffitto di Casa Buonarroti a Firenze che rappresenta “L’inclinazione”, quella, cioè, che si ha
per l’arte, per la musica e via dicendo; in mano tiene una bussola che indica il percorso.
Mostro poi un altro suo autoritratto come martire con la palma dove indossa un turbante
blu brillante e un manto rosso annodato alla classica. E mi piace anche questo altro
particolare di altro dipinto dove si vede l’orecchino con la goccia di perla che andava molto
di moda nel ‘500-’600, e che avete visto anche in Vermeer. Artemisia, ovvero: la forza e la
passione; il talento naturale e la grazia femminile.
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13) Non so se conoscete Fede Galizia Milano, 1578-1630: presento il ritratto di
Paolo Morigi, dove il particolare con gli occhiali è raffigurato in maniera molto precisa, e
ancora una Giuditta con la testa di Oloferne, dove nel particolare con spada, rubini e
braccialetti si legge la firma della pittrice. La biblica Giuditta era spesso utilizzata come
sinonimo di libertà. Altri particolari della sua veste e dei suoi ornamenti: perle, seta, oro,
rubini; e la collana che lascia l’ombra delle perle sulla pelle.
14) Questa signora si chiama Giovanna Garzoni, Ascoli Piceno, 1600-1670, e fa
cose bellissime a tempera su pergamena. Esiste un gran numero di cose più piccole, grandi
quanto un album, che però hanno grande valore: il canino col biscotto, farfalle, carciofi, fichi,
gli asparagi, un riccio.
15) Adesso mostro un paio di donne “straniere” che ebbero un grandissimo
successo. La prima è Angelika Kauffmann, Coira, Canton Grigioni, 1741-1807, che vive in
periodo neoclassico. Molti particolari denotano acutezza, specie nei ritratti, insieme a
precisione e sentimento.
16) E la famosissima Elizabeth Louise Vigée-Le Brun, Parigi, 1755-1842, che si
autoritrae sempre giovane e graziosa. Qui a Pordenone, presso il Museo Civico c’è un
ritratto di Maria Antonietta -proprio della Vigée Le Brun- con in mano delle magnifiche rose.
Elizabeth era grande amica della corte, ma quando arriva la rivoluzione Elizabeth è costretta
a lasciare la Francia nel 1789. Dopo l’esilio Elizabeth torna a Parigi dove fonda un Salotto
letterario; guardate questa serie di ritratti: le due donne con la veste o col mantello rosso; ed
il piglio della giovane donna seduta con lo spartito che si gira indietro verso di noi, anch’essa
col completo rosso. Elizabeth: una vita lunga e avventurosa.
17) Questo autoritratto di donna mi è sembrato assolutamente geniale. Lei è
Thérese Schwartze Van Dyyl, Amsterdam, 1851-1918: con la mano sinistra impugna una
larga tavolozza rettangolare e diversi pennelli, con la destra si ripara gli occhi dal sole
mentre si guarda intensamente allo specchio per ritrarsi. Ha una vestito stretto in vita da
un’alta cintura con fibbia e una sciarpa gialla di seta annodata al collo (Uffizi)
18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30…) Il XIX secolo è per le donne
tremendo da una parte e libero dall’altra: con la sua storia politica, economica e sociale,
l’Ottocento rivela ancora di più l’unicità, la libertà, l’informalità e l’indipendenza che sono
state sempre, comunque, rappresentate nell’arte femminile. Coraggiose e temerarie, le
donne rendono evidente come ogni semplice atto della vita quotidiana sia importante e
racchiuda in sé un significato profondo e universale: ecco gli autoritratti di donne con i loro
figli nella culla, mentre fanno il bagnetto o semplicemente momenti di affetto; donne a
teatro o in giardino o nei momenti di lettura. I nomi delle donne pittrici adesso sono tanti:
Maria C. Hakewill Browne, Camille Claudel, Rosa Bonheur, Luisa G. Bartolini, Elisa
Ransonnet, Amelia Ambron, Kathe S. Kollowitz, Cecilia Beaux, Félicie de Fauveau, Eva
Gonzales, Mary Cassat, Elizabeth Chaplin, Berthe Morisot
(In questi giorni c’è un film su Berthe Morisot al festival di Torino).
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B. Morisot, La culla, 1872, Musée d’Orsay, Parigi
31, 32, 33, 34, 35) Il Novecento è il secolo dove la terribile realtà delle guerre,
come sempre, distrugge ulteriormente formalità e differenze, e la libertà di esprimersi si
manifesta anche scegliendo politicamente. Tra queste ho selezionato cinque donne molto
importanti per l’arte moderna: Natalia Goncharova, Negaevo 1881-1962; Adriana
Pincherle, Roma 1905-1996, sorella di Moravia, che usa colori brillantissimi; Carla Accardi,
Trapani 1924- 2014, pioniera dell’astrattismo, realizza anche dei meravigliosi pavimenti;
Lucia Marcucci, fiorentina 1933, è tra i creatori della “poesia visiva”; Giosetta Fioroni,
Roma 1932, è la donna che abbiamo scelto per il marchio del nostro convegno.
G. Fioroni, Doppio Liberty, 1965
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Lavora a Roma negli anni ‘50-’60, quando, nel secondo dopo guerra, stava
rinascendo tutto e anche gli uomini insieme a lei erano liberi e geniali (Festa, Schifano,
Angeli).
E poi E, per finire, presento alcune donne che sono presenti nel mondo dell’arte
oggi. Per me personalmente non esiste molta differenza tra essere artiste e vivere, perché
già vivere è una forma d’arte. Si sceglie in ogni istante. L’importante è mantenere e
sviluppare le proprie peculiarità -non essere donne che fanno finta di essere uomini- per
portare il punto di vista di una donna ovunque, in qualsiasi campo.
36, 37) Ecco quindi Ketty La Rocca, La Spezia 1938-1976, anch’essa esponente
della “poesia visiva”, con una Venere con le scritte e “Bianco napalm” che ricorda molto il
“Bianco Natal” della canzoncina, e Niki De Saint Phalle, Neuilly-sur-Seine 1930-2002, il cui
vero nome era Catherine Marie-Agnès de Saint.
38, 39, 40, 41) Francesca Woodman, Denver 1958-1981, morta giovanissima in
maniera tragica. Qui mostro alcune foto dove lei si intravede appena, la si immagina
solamente, e questo denota la forza e la fragilità della sua vita.
F. Woodman, Untitled, 1979-80, Collezione Privata, New York.
Mi piace molto anche questo lavoro di Patty Smith, Chicago 1946: “Media is not
good/God”. E poi Vanessa Beecroft, Genova 1969. Per ultima la famosa Marina
Abramovic, Belgrado 1946, di cui vorrei citare un lunghissimo video che trovate anche sulla
rai. La donna siede per ore e ore, per giorni e giorni, muta senza mostrare alcuna emozione
nella grande performance dal titolo “The Artist is present”, dove “present” significa anche
“dono”: l’artista è presente e si dona. Si offre a tutti, così com’è, con un grandissimo lavoro di
preparazione alle spalle. Le persone, all’inizio poche e incredule, piano piano crescono di
numero fino a creare code davanti al MoMA come davanti alla biglietteria per un concerto
rock. Seduto davanti a lei, in silenzio per pochi minuti, ognuno fa emergere le proprie
emozioni che possono arrivare fino alle lacrime; lo scopo ultimo di questo lavoro è
raggiungere lo stesso sentimento sia nell’artista che nel visitatore. Marina, un po’come tutte
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le donne, osa essere com’è fino in fondo, con grande tenacia e risolutezza, dimostrando alla
fine la distruzione di tutte le formalità.
Questo nostro incontro ha voluto rendere onore a quarantina di donne e fare
riaffiorare i loro nomi. Attraverso la pittura, il proprio punto di vista e la loro stessa vita
personale queste artiste hanno contribuito ad arricchire la società.
Bruna BRAIDOTTI
La storia delle donne artiste è veramente sconosciuta, credo che ci vorrebbe un
convegno solo per questo, per scoprire tutta questa ricchezza.
Ora Luisa Sello e Monica Cattarossi faranno una relazione su muse, musiciste e
compagne musicali. Da bambine prodigio a interpreti. Due secoli di musiciste e palcoscenici
di musica classica.
Luisa SELLO
Artista eclettica ed innovativa, flautista del panorama internazionale con una intensa attività solistica nel mondo, è ospite
di orchestre nazionali e internazionali. Ha lavorato con l'Orchestra del Teatro alla Scala di Milano sotto la direzione di
Riccardo Muti. Docente di flauto al Conservatorio di Trieste e Professore ospite all'Università di Vienna e di Graz, viene
regolarmente invitata presso Istituzioni Accademiche in tutto il mondo. Laureata in Lingue e Letterature Moderne, ha
pubblicato saggi comparativi su letteratura e musica ed ha vinto diversi premi letterari di poesia. Incide per 'Stradivarius',
una delle eccellenze discografiche europee. Si è perfezionata a Parigi con Raymond Guiot, primo flauto dell'Operà.
MUSE MUSICISTE E COMPAGNE MUSICALI
Benissimo, grazie, Bruna. Visto il tempo a disposizione, stringerò il mio intervento
per lasciare spazio agli altri. Parto dal legame tra la donna e la musica, che risale alle
sacerdotesse babilonesi, come l’egiziana Iti del 2500 a. C. Anche nell’antica Grecia le
musiciste, le cosiddette “musicanti”, erano tenute in grande considerazione: la donna
suonava, dipingeva, componeva opere teatrali.
Nell’epoca provenzale, l’era dei trovatori e trovieri, le donne dedicavano canzoni ai
propri cavalieri. Potremmo dire che la nostra Maria Vittoria oggi ha interpretato un
po’questo ruolo antico, riportando un attuale trovadore nel nostro convegno. Stasera poi la
ascolteremo in veste accademica, con brani contemporanei del settore della musica
classica.
Tornando al medioevo cito Hildegard von Bingen, chiamata la “Sibilla del Reno”,
proprio per la sua straordinaria cultura, la quale scrive una delle più ricche e originali
raccolte di canti che sono arrivati fino a noi, per fortuna. Poi, dai castelli e dai conventi si
passa alle grandi corti europee e al Rinascimento. Qui affiorano autrici di madrigali, cantate,
melodrammi. Tra i nomi ricordo Barbara Strozzi, Francesca Caccini; tutte suonavano,
naturalmente, e componevano. La Caccini, figlia di Giulio Caccini della Camerata de’ Bardi, è
cantante, liutista, clavicembalista e compositrice di opere teatrali, e quindi abbraccia a
trecentosessanta gradi l’arte. La sua opera affascina a tal punto il principe Ladislao
Sigismondo che egli decide di metterla in scena a Varsavia. C’è ancora la geniale Marianna
Martines, compagna di Metastasio, poi Isabella Leonarda, poi ancora giovani compositrici
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del tempo di Robert Burns, che si confrontano con gli stessi Haydn e Mozart, con Bach e i
suoi figli. Emergono i nomi di Anna Bon, musicista straordinaria che a sedici anni venne
nominata virtuosa da camera alla Corte di Brandeburgo, e poi di Maria Theresia von Paradis,
che dopo una brillante carriera a Vienna apre una scuola di musica a vantaggio delle
ragazze di talento.
Sono periodi storici in cui ancora chi componeva anche suonava e non c’era quindi
una distinzione tra esecutore e compositore. Ciò avviene solamente più tardi, alla fine
dell’800, dove il ruolo si sdoppia. Pensate anche a compositori maschili, come Chopin e
Liszt, che eseguivano le loro musiche; così faceva Clara Schumann, Fanny Mendelssohn, o la
stessa Cécile Chaminade. Poi il ruolo si sdoppia e di questo parleranno le mie colleghe.
Nel concerto serale potremo ascoltare un po’ il percorso di quanto detto,
ascoltando musiche di J. S. Bach, A. Vivaldi, Renata Zatti, e la stessa Jedlowski.
Il titolo del concerto “Muse, musiciste e compagne musicali” metterà in evidenza il
ruolo silenzioso delle compagne musicali, cioè quelle figure che hanno collaborato
fedelmente alla produzione artistica di chi era loro accanto. Cito una fra tutte: Anna
Magdalena, che aveva iniziato una carriera di cantante, e che porta il vessillo di quante
hanno operato accanto, dietro, lontano dal palcoscenico e dai riconoscimenti. Così, ad
esempio, le Putte veneziane, forse autrici di molte opere attribuite a Vivaldi, e altri talenti
femminili che non hanno lasciato segno perché la storia non è stata in grado di raccoglierlo.
Lascio la parola a Monica che proseguirà.
Monica CATTAROSSI
Diplomata al Conservatorio di Venezia, laureata all’Università di Cremona. Suona come solista in varie orchestre ed è
invitata in prestigiosi festival internazionali, da anni è presente in stagioni concertistiche in Italia ed all’estero. Oltre
all’attività concertistica, abbina l’attività di pianista accompagnatrice presso il Conservatorio della Svizzera Italiana di
Lugano. Attualmente è docente di musica da camera presso il Conservatorio Ghedini di Cuneo.
DA BAMBINE PRODIGIO A INTERPRETI: DUE SECOLI DI MUSICISTE E
PALCOSCENICI DI MUSICA CLASSICA
Proseguo l’intervento precedente, parlando delle interpreti di musica classica dal
romanticismo a oggi. La ricezione di quest’arte, rispetto al secolo precedente, lentamente
da puro intrattenimento si trasforma in esperienza totalizzante, quasi mistica: nell’estetica
romantica di “musica assoluta” l’interprete diventa una sorta di medium tra l’opera, di cui
spesso è anche compositore, e i suoi fruitori.
Nel 1840 circa, si deve a Liszt la messa a punto del concerto solistico ovvero
l’odierno recital in cui il pianista è da solo in scena. Il periodo storico preso in esame viene
anche definito il “secolo della borghesia”, dei cui salotti il principe è il pianoforte, studiato e
suonato dalle fanciulle di buona famiglia, che completavano così la propria educazione,
esibendosi per gli amici e i visitatori. In questo periodo vengono fondate alcune delle
orchestre più importanti, attive ancora oggi, tuttavia alle donne è vietato parteciparvi, tanto
che nella seconda metà dell’800 si formano alcune orchestre esclusivamente femminili,
come la Vienna Ladies Orchestra, nel 1867. L’esibizione in pubblico, al di fuori del salotto,
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per le donne era una rarità concessa soltanto alle bambine prodigio, spesso con padri al
seguito, o alle cantanti d’opera, la cui professione era tuttavia sinonimo di cattiva
reputazione. Una volta sopraggiunta la maturità e, soprattutto, il matrimonio, esse erano
obbligate a smettere, tanto più se appartenevano a famiglie nobili.
Menziono ora alcune eccezioni a questa consuetudine, la più celebre delle quali è
Clara Wieck, nata nel 1819 a Lipsia, figlia di uno dei più rinomati insegnanti di pianoforte
tedeschi (tra i cui studenti ci fu Robert Schumann, che poi lei sposò). Grazie al padre iniziò
precocemente una carriera di successo come pianista, attività che riprese ancora più
intensamente dopo la morte del marito, nonostante gli otto figli, assicurando
sostentamento economico alla sua famiglia.
Altrettanto energico fu il padre di Teresa Carreño, nata nel 1856 a Caracas, che
approfittò del suo talento di bambina prodigio per farla esibire prima in Venezuela e poi
nelle corti di tutta Europa. Tuttavia non furono né i tre mariti, né i cinque figli, a impedire in
seguito a Teresa di calcare le scene come pianista e cantante. Compositrice, inoltre, e
interprete delle proprie opere, era considerata un’autentica “Walchiria del pianoforte”.
Desidero in questo mio contributo portare esempi positivi di donne che, grazie alle
loro qualità straordinarie, non sono entrate marginalmente nella storia della musica, ma
hanno occupato da protagoniste le scene culturali del loro tempo. Soltanto verso la fine del
’800 si formò una generazione di musiciste, in grado di emergere dal circoscritto ruolo di
elemento decorativo del salotto borghese, loro assegnato. Oltre ad alcune figure
conosciute agli studiosi di settore, ho preferito concentrarmi su personalità particolarmente
innovatrici e influenti nel loro ambiente, che mi hanno ispirato.
In Italia nel 1906 la prima donna a conseguire il diploma in composizione è la
napoletana Emilia Gubitosi. Nata in una famiglia di musicisti, in una città ricca di tradizione
musicale come Napoli, si esibì come bambina prodigio in tutta Europa, tanto nelle corti
imperiali che nei teatri. In seguito al matrimonio interruppe l’attività di concertista, per
dedicarsi alla composizione e alla docenza presso il Conservatorio di Musica di Napoli.
Come animatrice culturale fondò assieme al marito la Società Musicale Alessandro
Scarlatti, creando progetti che coinvolsero non solo artisti di fama internazionale, ma anche
i suoi molteplici allievi.
Personaggio centrale per la storia dell’interpretazione musicale è Wanda
Landowska, nata nel 1879 in Polonia, primo interprete in assoluto a registrare le Variazioni
Goldberg di Bachal clavicembalo, nel 1931. Promotrice della rinascita di questo strumento,
che era ormai caduto in disuso, ispirò molti compositori a scrivere per lei nuove opere per
clavicembalo solo e con orchestra.
Una pianista fuori del comune fu la britannica Mira Hess, che durante la seconda
guerra mondiale, nella Londra bombardata dai tedeschi, riuscì a organizzare circa
millesettecento concerti presso il British Museum e fu protagonista in non meno di
trecento di questi. Divenne pertanto una figura di spicco non solo nell’ambito del mondo
musicale ma nella stampa e società inglese proprio per il suo impegno come ambasciatore
di bellezza e del valore umanizzante della musica.
Insieme a loro, non si può non nominare la russa Marija Judina. Nata da famiglia
ebraica nel 1899 in un paesino al confine con la Bielorussia, si trasferì giovanissima a San
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Pietroburgo grazie al padre che, accortosi dello straordinario talento della bambina, la fece
studiare assieme a Dmitri Šostakovič nella classe di Leonid Nikolaev. Apprese oltre al
pianoforte anche organo, percussioni e composizione; nel 1917, allo scoppio della
Rivoluzione Marija, inizialmente abbracciato il fucile e la causa rivoluzionaria, dopo aver
conosciuto il filosofo Florenskij si convertì al cristianesimo ortodosso.
Queste note biografiche vengono date allo scopo di far risaltare l’eccezionalità del
suo talento e del suo destino: infatti, come ebrea e convertita non si sarebbe salvata dalla
deportazione, se la fama leggendaria che presto si creò attorno alla sua figura di artista e
poi di insegnante non l’avesse protetta. Fu docente di pianoforte e musica da camera a
Mosca sia al Conservatorio sia all’Istituto Gnessin, riservato agli studenti di particolare
talento, incarico che poi perse a causa delle sue idee politiche e religiose. La Judina soleva
recitare, al termine dei suoi concerti, i versi di poeti messi all’indice, come Pasternak o Bloch,
o destinare i propri incassi in opere caritatevoli e per questa sua libertà di coscienza fu
punita ripetutamente, con l’interdizione dalle scene e dalle sale di registrazione.
La sua capacità di interpretare la musica con una forza in grado di commuovere e
incantare gli uditori è comprovata non solo dalle testimonianze di suoi celebri colleghi,
come Sviatoslav Richter, ma persino dalla protezione che lo stesso Stalin, suo appassionato
ammiratore, le garantì nonostante fosse, come detto, una personalità sotto molti aspetti
scomoda. Marija Judina inoltre, mantenendo un fitto contatto epistolare con compositori
europei e americani, fu inesausta scopritrice ed esecutrice di nuove partiture, che faceva poi
conoscere e registrare ai suoi allievi.
Un altro personaggio – e poi chiudo questa prima parte sulle interpreti – di cui mi
piaceva parlare è la pianista Clara Haskil. Nacque a Bucarest da una famiglia ebraica alla
fine nel 1895, con un talento raro: iniziò a suonare il pianoforte senza bisogno di lezioni,
grazie ad una memoria musicale sbalorditiva, “definitiva” come riportano le biografie, e
precocemente iniziò a esibirsi in concerto. Completato il ciclo di studi a quindici anni con
una medaglia d’oro, presso il Conservatorio di Parigi nella classe del famoso pianista Alfred
Cortot, la sua vicenda divenne drammatica poiché, a causa di una scoliosi gravemente
invalidante, dovette restare bloccata in un busto senza potersi muovere, dal 1914 al 1917.
Ripresepoi la vita concertistica nonostante il dolore e la costante fragilità della sua salute.
Una recensione de Le Figaro del 1951 riporta: “s’impone non per la forza ma per il carattere,
non brilla, irradia, diffonde la grazia stessa della musica, in due ore oscura il ricordo brillante
e vano di un’armata di virtuosi”. V’invito ad ascoltare le numerose registrazioni di Clara
Haskil, celebre in particolare per Mozart, perché trasportano in una dimensione dello spirito
in cui i suoni diffondono assoluta e sublime bellezza.
Nella gamma di giudizio delle esecuzioni musicali, che spaziano dal normale allo
straordinario, le interpreti di cui ho fatto cenno appartengono certamente alla categoria
delle luminose eccezioni.
Il talento, in ogni caso, non basta per formare un musicista professionista: il
mestiere richiede un’elevatissima specializzazione, oltre che una dura disciplina. In
particolare, per imparare l’artigianato dell’arte sono necessari molti anni di studi con ottimi
insegnanti e una disponibilità a viaggiare molto. Questo presuppone una forte
determinazione personale, unita a condizioni economiche e familiari favorevoli: ciò spiega
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come la presenza delle donne sui palcoscenici e anche nelle orchestre sia in netta crescita
solamente dalla seconda metà del ’900. Eppure ancora nel 1982 esistevano orchestre
esclusivamente maschili, ad esempio i Berliner Philharmoniker, che in quell’anno assunsero
la prima violinista donna. Nel 1984 tuttavia il leggendario Herbert von Karajan perse il
braccio di ferro ingaggiato con gli orchestrali, per imporre come primo clarinetto la solista
Sabine Meyer, e nonostante fosse loro direttore principale dal 1954, con un contratto a vita
e una fortunata collaborazione, venne sostituito.
Mi avvicino cronologicamente ai nostri giorni, basandomi su una ricerca di Cristina
Pierattini per l’Università di Firenze del 2009, che monitora la presenza femminile nelle
principali orchestre italiane ovvero le orchestre lirico-sinfoniche. La nostra percezione è che
la mescolanza dei due sessi in questo campo sia paritaria e tuttavia le donne rappresentano
solo il ventidue per cento del totale; nel caso di alcuni strumenti, tuttora poco amati dal
sesso femminile, solo l’uno per cento. Per quanto riguarda le prime parti dell’orchestra, la
percentuale si riduce ulteriormente, arrivando a essere circa il dieci per cento: la punta
massima è di sei prime parti al Teatro Verdi di Trieste e la punta minima è di una prima arpa
al Teatro Massimo di Palermo.
L’ultima frontiera, infine, è quella rappresentata dalla professione del direttore
d’orchestra donna, tuttora una novità sulle scene, anche perché vi è uno stereotipo
culturale molto forte da superare, visto che è un ruolo strettamente collegato al potere. Nel
2011, per la prima volta dopo 232 anni dalla sua fondazione, la finlandese Susanna Mälkki è
stata invitata a dirigere l’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano.
L’americana Marin Alsop, ora a guida dell’Orchestra di San Paolo in Brasile e prima
donna chiamata a dirigere una grande orchestra come la Baltimora Symphony Orchestra,
racconta che per superare i veti e gli ostacoli incontrati, anche solo per apprendere il
mestiere di direttrice, non le restò che crearsi la propria orchestra. In Italia il numero delle
donne direttrici si conta sulle dita di una mano e la situazione appare di grave ritardo,
tuttavia con incoraggianti segnali di evoluzione.
Luisa SELLO
Grazie, Monica. Tornando alla “donna delle pulizie” da te citata, ruolo
fondamentale per un’artista donna, tra l’altro, scherzando sul ruolo della citazione, mi
piacerebbe che tutti i miei allievi pulissero le note inutili e gli errori delle loro esecuzioni.
Adesso darei la parola a Valeria Palumbo.
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Valeria PALUMBO
Giornalista e storica delle donne. Tra i suoi ultimi incarichi è stata caporedattore centrale di Global Foreign Policy e de
L'Europeo. Collabora con l'Ispi e il Touring Club e scrive per vari giornali e siti Internet. Insegna presso associazioni private
e al Master per i professionisti dell'informazione culturale dell'Università di Urbino. Autrice di oltre 12 saggi sulla storia
delle donne, organizza eventi culturali, scrive e porta in scena testi teatrali, collabora con diverse associazioni che si
battono per i diritti umani.
LA SINDROME DEL NONETTO: PERCHÉ LE DONNE NON HANNO SCRITTO MUSICA
SINFONICA
In polemica con le affermazioni sulla "specificità" del genio femminile, volevo
ricordarvi una frase di una grandissima direttrice d’orchestra e compositrice, che era Nadia
Boulanger, che disse: “dimentichiamoci che sono donna e parliamo di musica”. Dimenticare i
limiti imposti al proprio sesso e concentrarsi sulla propria professione o arte è stato,
appunto, quasi sempre vietato alle donne.
Il titolo del mio intervento era “perché le donne non hanno scritto musica
sinfonica”. Non è vero, evidentemente le donne hanno scritto musica sinfonica, ma i
problemi per le donne, come già è emerso, sono stati sostanzialmente tre: la formazione, la
scrittura della musica e poi l’esecuzione.
La formazione perché? Qualcuno ha già fatto cenno alle Putte del Vivaldi. Come si
formavano le musiciste? Le musiciste, nel passato, si formavano come si formavano i
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musicisti, cioè in genere era una tradizione di famiglia. Quindi per un lungo periodo hanno
avuto l'opportunità di studiare. In particolare a Venezia, c’erano quattro ospedali, che erano
gli Incurabili, l’Ospedaletto, la Pietà e i Miserabili, in cui sono state istruite circa ottocento
musiciste nel corso di due secoli. Venivano chiamati anche “conservatori”, che cos’erano in
realtà? In partenza erano orfanotrofi, o, almeno, erano posti dove venivano lasciate le
bambine che non venivano allevate. A queste bambine veniva data anche una formazione
musicale. Con il tempo, di fatto, i conservatori si sono trasformati in vere scuole di musica
per ragazze, con due limiti fondamentali: il primo è che le allieve poi venivano date in moglie
a qualcuno e i mariti erano obbligati a non sfruttare commercialmente le loro qualità
musicali. Il secondo è che la Controriforma impose limiti serratissimi alla scrittura musicale,
quindi anche se queste artiste componevano, noi non lo sappiamo perché diverse loro
composizioni sono passate sotto nomi di altri musicisti. O sono state dimenticate.
Questo è il secondo passaggio, cioè quello della scrittura. Le donne hanno scritto
sempre musica. Noi però abbiamo pochissima musica femminile.
Un esempio lampante è quello del Concerto delle donne. Il Concerto delle Donne è
stata un’orchestra, tutta femminile, che si è formata a Ferrara alla fine del Cinquecento. Era
un’orchestra di corte: talmente di corte che la musica eseguita da queste donne era
segreta, vietata. Poteva cioè essere eseguita solo nell'ambito della corte. A scrivere la
musica per queste ragazze, per queste professioniste, erano donne. La più famosa è stata
Tarquinia Molza. C'erano però anche uomini tra i compositori del Concerto. Il problema è
che la segretezza ha impedito la trasmissione e la diffusione dei brani. Noi, di fatto, non li
conosciamo, benché i Concerti delle donne si siano poi diffusi anche a Firenze e a Roma.
Questo fenomeno è legato anche al fatto che la scrittura era meno importante nel
Seicento. Conosciamo diversi nomi di compositrici seicentesche. Le più celebri sono
Francesca Caccini e Barbara Strozzi. Meglio: Barbara Strozzi è in assoluto il compositore – e
uso il termine maschile – che ha pubblicato più cantate in vita durante il Seicento.
Ci tengo a sottolinearlo perché si è parlato tanto di dilettantismo: si è detto che le
donne facessero musica per hobby, anche se a livello virtuosistico. Mentre gli uomini
componevano e suonavano per professione. Questa divisione è ottocentesca. Sotto questo
punto di vista l'Ottocento è stato il secolo più critico per le donne. E per varie ragioni.
Di musiciste professioniste invece ce ne sono state moltissime. In Italia, fra il
Cinquecento e il Settecento, ben 23 musiciste pubblicarono le loro opere. Ricordiamo i
nomi di Anna Bon e di Maddalena Lombardini Sirmen, che è una delle più grandi violiniste
del Settecento, allieva del Tartini. Dunque, per tutto il Settecento, per quanto a noi siano
giunti pochi nomi di compositrici, e per quanto di certo sono state meno degli uomini, non
c’è una forma esplicita di discriminazione ai danni delle queste donne. Con l’Ottocento sono
arrivati i guai.
Il primo guaio è stata la non ammissione nei conservatori. Abbiamo visto che
prima, in qualche modo, le donne riuscivano a ricevere una formazione musicale, anche
perché non era così strutturata. Invece, con l'organizzazione dei conservatori musicali, le
donne furono escluse. Si è trattato di un fenomeno parallelo a quello delle accademie
d’arte. Le donne non sono state ammesse nelle accademie d’arte. Nelle accademie d’arte
veniva accampata la scusa che si dipingeva il nudo dal vero, o comunque si disegnano le
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persone dal vero. E poiché già vedere il braccio nudo di un uomo era considerato
scandaloso, le ragazze non dovevano metterci piede. Nei conservatori non si capisce dove
fosse il problema. Si è trattato semplicemente dell'ennesima esclusione delle donne da uno
spazio pubblico di formazione.
Vorrei sottolineare che in precedenza, sia le compositrici sia le cantatrici, cioè le
cantanti, fino al ‘700, sono state spesso più pagate degli uomini: erano numerose e
onoratissime nelle corti d'Europa. Conosciamo esempi di cantatrici, come Caterina Gabrielli,
che era romana, ma si è esibita anche a Venezia, che riuscivano a strappare contratti ‘alla
Maria Callas’, per tutto il Settecento.
Il problema di queste artiste è che erano sì professioniste ma godevano di una
fama che oscillava pericolosamente verso quella delle cortigiane. Barbara Strozzi, che è la
nostra più importante compositrice del Seicento, è stata considerata per molti secoli anche
una cortigiana. Il motivo, devo dire, è legato anche a un dipinto, un ritratto di Bernardo
Strozzi (che si chiamava come lei ma non era un suo parente), che la raffigurò in maniera
piuttosto discinta. Su questo quadro sono stati fatti parecchi studi. In realtà, al di là di
questa specifica circostanza, è vero che le donne che si dedicavano alla musica, al teatro, a
molte forme d'arte, pensiamo alla stessa Artemisia Gentileschi, godevano di una pessima
fama. In questo senso il puritano e bigotto Ottocento ha cercato di "fare ordine", cacciando
le donne dagli ambiti e dagli spazi in cui ci si esibisce in pubblico. E si viene pagati per
questo.
L’Ottocento ha imposto alle donne un concetto di purezza, compostezza,
comportamento, che le chiude in casa come forse non era mai accaduto in precedenza. Il
pianoforte ci offre un esempio lampante. Quando nasce viene subito giudicato uno
strumento femminile, per due ragioni: il primo, perché si suona in maniera composta, cioè si
sta seduti. Sembra una banalità, ma contava anche questo: il violoncello era vietato alle
donne perché per suonarlo bisognava aprire le gambe. I fiati erano vietati perché bisogna
gonfiare le gote e ciò, in una donna, appariva osceno. Esisteva addirittura una Klavier
Etikette, le Buone maniere del pianoforte, secondo la quale alle donne erano concesso
suonare il pianoforte, purché non si agitassero troppo nell'esecuzione. Le esecuzioni
particolarmente animate venivano considerate poco consone a una donna.
C'è una seconda ragione del successo del pianoforte tra le ragazze. Il pianoforte,
almeno all’inizio, si suonava in salotto. Anche Franz Liszt, evidentemente, suonava in
salotto. Però poteva esibirsi anche nelle sale da concerto. Certo, Chopin e Liszt hanno fatto,
praticamente, tutta la loro carriera nei salotti. Ma non poterne uscire è un’altra limitazione
fondamentale. Andava bene che le ragazze suonassero, ma solo in ambienti protetti. Tant’è
che Fanny Mendelssohn, che è stata una grande compositrice, finì con il finanziarsi la
propria orchestra e a farla esibire in casa: era l'unico modo per far eseguire le sue musiche.
E questo, tornando al problema della sinfonia, fa sì che non si possa avere una vera
orchestra dentro casa, ma un ensemble limitato.
Un altro elemento: Fanny era la sorella di Felix Mendelssohn. Bene, la sua musica,
soprattutto quella più giovanile, è conosciuta sotto il nome del fratello. Non si trattava solo
di prepotenza maschile: nello stesso periodo molte scrittrici, pur di riuscire a pubblicare, si
sceglievano pseudonimi maschili. I pregiudizi investivano sia gli editori sia il pubblico.
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Pensiamo anche ai tour. Robert Schumann, apparentemente, sosteneva l’attività
di compositrice della moglie, anche se, come Felix Mendelssohn con la sorella, le creava un
bel po’di problemi. Il primo: se suonava lui il pianoforte, la moglie non poteva metterci le
mani sopra. Ma perché Robert Schumann, sotto sotto, incoraggiò l’attività di compositrice
di Clara? Perché così lei non andava in giro per il mondo a dare concerti e stava in casa a
lavorare. Tant’è che, dopo la morte di Robert Schumann (che morì in manicomio nel 1856),
Clara Schumann, che aveva avuto otto figli e dieci parti, riprese i suoi tour. Lasciò i bambini
e, in barba a tutta la retorica ancora così drammaticamente attuale sulla maternità
eternamente vigilante, se ne andò in giro per il mondo. Clara Schumann andava in tournée
per sei mesi all’anno: credo che l’ultimo concerto lo abbia fatto a sessant’anni suonati.
Nel periodo del matrimonio di Robert invece la sua attività era stata limitata
moltissimo.
L’altro punto è quello della professionalizzazione. Nell’Ottocento crebbe la
difficoltà per le donne di mantenersi come musiciste professioniste.
Un esempio lampante è quello di Louise Farrenc. Louise Farrenc era una pianista,
un’ottima pianista e compositrice. Poté continuare a suonare perché aveva sposato un
flautista, Aristide Farrenc. Fra l'altro il marito ha avuto un ruolo fondamentale perché è
diventato un editore musicale: ha riscoperto il clavicembalo e le musiche d’epoca. Si tratta
in realtà di un lavoro di ricerca che la coppia ha condotto insieme e che lei ha portato a
termine. Louise Farrenc, in più, vinse la cattedra di pianoforte principale al Conservatorio di
Parigi. Quindi ruppe il tabù della docenza femminile nei conservatori. Louise resse la
cattedra per più di trent’anni, dal 1842 al 1873.
Nonostante avesse vinto molti più concorsi, e sicuramente fosse più nota dei suoi
colleghi, perché era una concertista famosa, scoprì di essere pagata meno. Per moltissimi
anni dovette quindi condurre una battaglia per la parità salariale all’interno del
conservatorio.
Fu la prima donna a ingaggiare una lotta di questo genere.
Aveva la cattedra del pianoforte principale e guadagnava meno dell’ultima
cattedra di ottavino. Alla fine, però, vinse la sua battaglia.
L'ossessione di tenere a casa le donne, fra l’altro, è legata all’importanza crescente
dei mariti, che prendono il sopravvento anche sui padri. Mentre nel Cinquecento, Seicento e
Settecento, un ruolo fondamentale per le artiste è svolto dai padri, nell’Ottocento
diventano determinanti i mariti. Trasformandosi spesso in veri carcerieri del talento
femminile. Se non in ladri di opere.
Un esempio clamoroso è quello di Alma Mahler. Alma, prima di sposare Mahler,
era una compositrice. Lui le impose di smettere al momento delle nozze. Quando poi si
accorse che il matrimonio andava in frantumi, cercò di riconquistarla concedendole di dare
libero sfogo al suo talento. Troppo tardi, come sappiamo.
Vorrei tornare anche sul problema del pubblico. Fanny Mendelssohn, che è una
delle intellettuali più lucide nell’esaminare i problemi delle donne compositrici, aveva scritto
a suo fratello: “Ma perché dovrei scrivere un brano? Nessuna gallina vi starnazza dietro e
nessuno danza al mio piffero”. Voleva dire: è difficile comporre, se la composizione rimane
all’interno di un salotto. Eppure i Mendelssohn avevano il più importante salotto berlinese.
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Meglio: il salotto culturale dei Mendelssohn è stato un punto fondamentale della diffusione
della nuova musica del pianoforte per tutto l’Ottocento tedesco. Ma era pur sempre un
ambito ristretto, per le donne, a cui non era concessa la circolazione esterna delle opere.
Fanny, così come Clara Wieck, doveva battersi contro una serie di trattati che
mettevano genitori e pedagoghi in allarme contro i "pericoli" dell'educazione femminile.
Praticamente sono trattati solo ottocenteschi, perché quelli di pedagogia dell’illuminismo
sostengono l’educazione musicale delle ragazze. Nell'Ottocento invece si prese a dire che
uomini e donne sono diversi e diversamente vanno educati. In sostanza, ciò si traduceva nel
suggerimento di non educare affatto le ragazze. Non solo: si arrivò a dire che la creatività è
solo maschile. Quindi: se una donna creava, allora era un maschio, o meglio una femmina
mancata. Ossia, un mostro. Per questo sarebbe il caso di bandire l'espressione "doti
femminili": da troppo tempo richiama stridori di catene.
Questo leit-motiv della specificità femminile è stato ripetuto per tutto
l’Ottocento. Ha provocato anche suicidi. Pensiamo solo a quello, nel 1806, di Karoline von
Günderrode, una straordinaria poetessa che scrisse: io sono scissa perché sono una donna,
ma sento dentro di me la voglia di creare che è tipica di un uomo. . . Non riusciva a colmare
questo abisso. Tutto mentale, ovviamente, e tutto culturale.
Vorrei aprire un breve capitolo sulla composizione delle opere: perché le donne
non hanno composto opere liriche? Il problema evidentemente è lo stesso delle sinfonie.
Per inciso, la prima grande sinfonia composta da una donna è del 1901: è la sinfonia gaelica
di Amy Beach, che era un’americana. Non a caso perché, in America, le orchestre
accettarono per prime di eseguire musica femminile e accogliere musiciste donne in
organico. Il primo direttore donna di un’orchestra importante era statunitense. Certo Nadia
Boulanger era europea e dirigeva. Ma fu soprattutto un'insegnante e anche in quest'attività
si scontrò con notevoli pregiudizi.
Diciamo subito però che le donne hanno composto anche opere. Tanto per fare un
nome, citerei Pauline Viardot Garcia, che ha musicato, fra l’altro, testi di Turgenev. Stiamo
dunque parlando di un alto livello di composizione, su libretti di altissimo livello.
Volevo chiudere accennando di nuovo al rapporto con gli uomini. Il padre di Clara
Wieck Schumann è stato un grande pedagogo, oltre che un grande insegnante di
pianoforte, ed è stato, direi, il primo fan e sponsor della figlia, tanto che si oppose al
matrimonio con Robert Schumann, intravedendo gli ostacoli che lui avrebbe posto alla
carriera della moglie. Clara Wieck riuscì a sposare Robert Schumann solo dopo aver fatto
causa al padre. Quando lei aveva quindici anni, nel 1833, Wieck le aveva scritto una lettera,
dicendole: “Figlia mia, è arrivato per te il momento di diventare indipendente, cosa che mi
appare di una estrema importanza. Ho consacrato alla tua istruzione e a te stessa dieci anni
della mia vita. Riconosci, dunque, le tue obbligazioni nei miei confronti. Cerca di indirizzare il
tuo spirito verso azioni nobili e disinteressate. Acquista la massima umanità possibile e non
perdere alcuna occasione di praticare la virtù. Questa è la sola vera religione; è poco
importante che tu sia misconosciuta, calunniata, invidiata, l’importante è che tu non ti lasci
distrarre dai tuoi principi. Là fuori ti attende una lotta molto dura, ma da questa stessa lotta
nasce la vera virtù. Io resto il tuo consigliere e il tuo amico, che non chiede altro di poterti
aiutare. Wieck”.
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Raramente un padre ha spedito una lettera così densa e intensa a una figlia e
questo spiega anche perché Clara Wieck sia riuscita, nonostante tutte le difficoltà, sino alla
fine della sua vita, a essere una grande compositrice e una grande promotrice della musica.
Viceversa, Fanny Mendelssohn ebbe contro, prima di tutto, il padre. Abraham
Mendelssohn aveva tentato già di ostacolare Felix, poi a un certo punto cedette alle
pressioni di Felix di diventare musicista. Ma scrisse alla figlia: "forse la musica sarà la
professione di Felix, laddove per te non deve essere nient’altro che un ornamento e mai la
base su cui poggia la tua esistenza e la tua attività".
Fanny Mendelssohn riuscì a sottrarsi a questo controllo paterno sposando Wilhem
Hensel, che era un artista e che ha sempre sostenuto la sua attività. Però ebbe contro
anche il fratello, lo stesso che si era impossessato delle sue musiche. Solo un esempio:
quando Felix andò a suonare davanti alla regina Vittoria, la sovrana lodò in particolare un
brano. Alla fine lui dovette ammettere che non era suo, ma di Fanny.
Anni dopo, la madre di Felix e Fanny, Lea Salomon, che si era opposta all’inizio alla
volontà di Fanny di pubblicare, passò dall’altra parte e chiese a Felix di aiutare la sorella a
trovare un editore. Felix si oppose con scuse abbastanza surreali. Ma Fanny, alla fine, che
pure era stata sempre molto fedele ai consigli del fratello, si ribellò.
Vorrei chiudere proprio con la lettera che Fanny Mendelssohn, il 9 luglio del 1846,
un anno prima di morire (morì giovanissima, a 42 anni), scrisse a Felix: “per quarant’anni ho
avuto paura di mio fratello, come a quattordici anni ne avevo di mio padre, o, meglio, ‘paura’
non è la parola giusta, direi piuttosto il ‘desiderio’ durante tutta la mia vita di compiacere te
e tutte le persone che amo. Se so in anticipo che non ci riuscirò, mi sento subito a disagio. In
una parola, Felix: ho cominciato a pubblicare. Ho ricevuto un’ottima offerta da Herr Bock per
i miei Lieder e ho finalmente prestato orecchio alle sue allettanti condizioni. Spero di non
dispiacerti, visto che non sono una vera femme libre. Spero che tu non ti senta offeso in
nessun modo, visto che ho agito, come puoi vedere, in modo completamente indipendente
e in modo da risparmiarti ogni momento spiacevole. Se l’impresa riuscirà, se al pubblico
piaceranno le mie composizioni, sarà un grande incoraggiamento per me. Ed è questo che
ho sempre desiderato avere”. Grazie.
Luisa SELLO
Grazie, Valeria, per la tua testimonianza. Ricordo poi che l’ultima parte dell’800 è
stata un cammino speciale per la donna perché il ruolo si divide e nasce un ruolo
insostituibile, quello della ‘prima donna’; una volta terminato il fenomeno dei ‘sopranisti’, la
donna diventa veramente ruolo di sé stessa, e, come fece Adelina Patti, se ne gira per
l’America con un treno personale, i suoi otto figli e grandissimi cachet. Ma di questo ce ne
parlerà adesso Annamaria Cecconi.
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Annamaria CECCONI
Insegna Poesia per Musica e Drammaturgia Musicale al Conservatorio “A. Pedrollo” di Vicenza. E’ membro della Società
Italiana delle Storiche. Le sue pubblicazioni scientifiche adottano la prospettiva di genere nello studio della storia delle
artiste di palcoscenico e della rappresentazione del maschile e femminile nell’opera lirica. Dal 2010 al 2013 ha ideato e
condotto per il Teatro Giovanni da Udine il progetto Oradi Teatro dedicato alle scuole superiori.
LA STORIA DI GENERE E LE ARTISTE DELLA SCENA: UN AGGIORNAMENTO
Lo scopo del mio intervento è raccontare cosa fanno oggi le storiche di genere che
si occupano delle arti performative, ovvero di teatro, di danza, di opera lirica, per dare valore
alla presenza artistica delle donne nella storia. Vorrei far conoscere molto sinteticamente
l’esperienza di una rete informale di studiose – dove “informale” è un understatement che
significa “a spese nostre”, senza finanziamenti pubblici – una rete costituita nel 2005 che
coinvolge per la maggior parte ricercatrici delle università italiane. E’ stato costruito un
ponte con le musicologhe degli Stati Uniti e con le studiose di danza in Francia e non
mancano, ovviamente, tra di noi studiose indipendenti dalla struttura accademica.
La rete si chiama “Teatro e gender”. Occasioni logistiche e d’incontro le hanno
fornite i congressi della Società delle Storiche, in cui abbiamo presentato panel tematici,
ma si sono anche organizzati seminari di studio all’Università di Parma e – ricordo con
grande soddisfazione – alla Biblioteca Nazionale delle Donne a Bologna. Abbiamo anche
pubblicato, curato da Roberta Gandolfi e dalla sottoscritta, un dossier Teatro e Gender.
L’approccio biografico nel 2007 per la rivista “Teatro e Storia”
Qual è l’ambito del gruppo di ricerca? Un territorio in cui vogliamo intrecciare
interdisciplinarmente gli studi teatrali, musicologici, coreutici con la teoria femminista e con
le storie delle donne. Un’area aperta in cui parole chiave come “corpo”, “voce”, “sguardo”,
“rappresentazione” siano trasversali a tutte le forme e i linguaggi delle arti performative,
maggiori e minori. Ci siamo infatti occupate anche di soubrette e di cantanti di café
chantant.
Le domande che attraversano un simile territorio sono cambiate, ovviamente, nel
corso degli anni, ma una resta fondamentale: come si studia la storia delle donne di
palcoscenico, siano esse attrici, danzatrici, cantanti, registe? Quali i prestiti, i legami con la
storia delle donne, con le storie di vita, la storia delle arti della scena? Per questa rete di
studiose, dal punto di vista di una strategia politica per aprire spazi agli studi delle donne,
un aspetto ineludibile della ricerca è la proposta e il radicamento di nuove metodologie di
indagine. Produrre strumenti che siano capaci di far entrare la prospettiva di genere, oggi e
nel futuro, a pieno titolo negli studi di storia delle discipline dello spettacolo in quanto tali.
Sembrerebbe importante una precisazione preliminare: “Teatro e gender” non
pone la questione di una storia da ‘riscrivere’ al femminile. Non siamo interessate a lavorare
a una revisione storica dalla parte delle donne. Al contrario, è necessario porre con forza
l’evidenza del contributo delle donne di palcoscenico – questa è la definizione che abbiamo
adottato – che ribalti le conoscenze attuali su chi e come ha fatto la Storia (con la “S”
maiuscola) delle arti performative. Le donne che abbiamo scelto come oggetto di ricerca
sono protagoniste di questa Storia: Edith Craig, perché il suo teatro delle suffragette ne
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fece la prima regista, creatrice di quella pratica che Roberta Gandolfi ha chiamato la “regia
estesa”; Francesca Caccini, per il suo fondamentale contributo alla nascita dell’opera in
musica, un contributo che strategicamente voleva dare valore alla soggettività femminile.
Martha Graham, che tra le prime usò la possibilità di esprimere, attraverso la danza,
concetti e idee legati all’orizzonte psicanalitico.
Vale a dire: il cambiamento nella storia delle arti della scena è legato, in alcuni
passaggi, al genere femminile, alla capacità creativa delle donne di compiere nuove scelte di
linguaggio, di farsi protagoniste in quanto mediatrici culturali tra le nuove estetiche teatrali
e musicali e il pubblico. La prima mossa del gruppo è stata restringere il campo del nostro
sguardo sul passato, tagliando fuori una definizione di arti della scena troppo legata alla
letteratura teatrale, al testo e al suo significato. Abbiamo accolto, al contrario, un’idea di
teatro, opera, danza, come un ‘essere per la scena’, che ci porta a considerare la
performance, lo spettacolo, come oggetto principale d’indagine.
E’ un’angolatura significativa perché permette un sostanziale distacco dall’idea
che il punto di vista di genere sia un semplice rovesciamento e – cosa ancora più
importante – offre la possibilità di operare una saldatura tra il fare ricerca storica o
teatrologica, musicologica, insomma, tutti i logica di prammatica, e l’evoluzione delle
filosofie femministe a noi contemporanee. Ci interessa il campo delle alti performative, non
solo perché ereditiamo i risultati raggiunti dal pensiero critico a noi contemporaneo, la
semiotica del teatro e dello spettacolo, ma anche perché le connessioni, le interdipendenze
tra pensiero semiotico e gender studies –in quella convalida reciproca che è uno degli
obiettivi della nostra pratica di ricerca – interferiscono con l’opera teorica di grandi
pensatrici che hanno decostruito e messo in crisi la rappresentazione del femminile. Mi
riferisco, tra molte filosofe, al pensiero di Jean Riviére, alla sua idea di femminilità come
travestimento, mascherata; al concetto di “gender” come performance attraverso la
ripetizione di un costrutto culturale elaborato da Judith Butler, al pensiero della differenza
sessuale di Adriana Cavarero e del gruppo di Diotima.
La prima ipotesi di ricerca da cui siamo partite – un’interferenza da quanto fatto
dalle angliste americane – è stata affrontare la questione di come scrivere la vita di una
donna di palcoscenico, per cui ci siamo occupati, inizialmente, delle biografie delle artiste. Ci
siamo chieste: chi sono le donne di palcoscenico? La loro identità, o, meglio, soggettività
femminile, si studia allo stesso modo della biografia delle altre donne? L’esperienza di vita
delle artiste si colloca in un rapporto complesso di condivisione e, parallelamente, di
superamento delle storiche condizioni delle donne che vivono nel loro stesso tempo. Nel
procedere della ricerca siamo giunte ad interrogarci su una questione fondamentale:
quanto nella storia la oggettiva maggiore libertà di movimento, di costumi, l’indipendenza
economica, abbia reso le donne di spettacolo un esempio trascinante e propulsore per le
altre donne.
Se riflettiamo, in fondo, nel lungo arco della storia, solo le attrici, le prostitute, le
serve sono state le donne che si sono guadagnate l’autonomia economica al di fuori della
famiglia. Ma, d’altra parte, non potevamo evitare la dura complessità del dato storico e
domandarci: quanto la storia di vita delle donne artiste ha sofferto degli stessi vincoli delle
donne a loro contemporanee?
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Vi faccio alcuni esempi storici, a mio parere, significativi. Nella Pisa del secondo
‘800 Giuseppina Strepponi, celebre cantante di per sé, prima di divenire Madame Verdi,
poteva liberamente andare a teatro da sola ad assistere a un’opera, anzi, per una piccola
città italiana la sua presenza creava un evento mondano. Ma, una volta entrati nei ranghi
delle dame dell’alta borghesia, tale libertà di movimento non le viene più concessa. Non è
onorevole, ha bisogno di un accompagnatore per non dare adito a pettegolezzi e
maldicenze. Di conseguenza, scrive a Verdi rifiutando la missione affidatale di andare a
valutare la qualità vocale di un soprano che si esibiva nel teatro pisano.
Marina Nordera ci ha mostrato come Marie-Madeleine Guimard, celebre
danzatrice del XVIII secolo, amante di cardinali, nobili, finanzieri, tutti strumenti di una sua
autopromozione politica e sociale, lanciava nuove mode nel vestire, teneva e un salon, e si
dedicava, probabilmente, a organizzare anche cene eleganti del tipo di quelle riprese nel XXI
secolo ad Arcore. Tuttavia la Guimard si faceva anche immortalare nelle stampe come
dama di carità, che assiste i bisognosi, per riabilitare e diffondere una sua immagine
pubblica onorevole; contraddicendo così gli stereotipi allora correnti sulla scarsa virtù delle
danzatrici.
In sintesi, le donne di scena avanzano nella storia seguendo un doppio percorso di
movimento, tra diversi modelli di soggettività femminile, che oscillano tra spinte in avanti,
pratiche di libertà e condizionamenti, vincoli dettati dagli stereotipi della società patriarcale.
Pensate, ad esempio, all’incessante impegno nei secoli delle attrici per affermare la loro
rispettabilità, per liberare la loro arte dall’accusa di meretricio, o, al pari delle loro
contemporanee donne comuni, alla lotta per fare uscire loro stesse e i loro figli dalla
condizione giuridica di illegittimità. Le donne di scena percorrono i luoghi della
rappresentazione, assumono identità significanti in pubblico, costruiscono spesso
attraverso la ripetizione di un ruolo, di una tipologia di un personaggio, una identità scenica,
ma anche una identità extra scenica, una vera e propria icona per la stampa, i fan, la critica,
la società nel suo complesso. Esse hanno incarnato e prodotto un simbolico importante per
le altre donne.
I piani, però, per noi storiche, sono diversi. Un conto è la storia di vita. Basti citare
l’impatto conflagrante della maternità extra coniugale di una diva come Mina
sull’immaginario cattolico italiano. Su un altro piano sta la costruzione di una soggettività
rappresentata. Ricordiamo lo scandalo della finta gravidanza di Loredana Bertè a Sanremo.
La cantante è stata una maestra della provocazione al femminile su cui non abbiamo
abbastanza riflettuto. Dalla consapevolezza della non linearità di tali percorsi, davanti alla
complessità dei dati storici, ci siamo trovate a formulare due categorie di analisi, che
abbiamo chiamato: soggettività biografica e soggettività rappresentata.
Ci sono, ad esempio, due Billy Holiday: la ragazza povera che condivide le difficili
condizioni con le altre donne nere del suo tempo (prostituzioni, violenza sessuale, miseria) e
il soggetto donna, vittima delle questioni del cuore, di uomini maneschi, cronicamente
infedeli e alfabeti emotivi, che emerge come protagonista delle sue canzoni. Per dare valore
e riconoscere l’arte di Holiday dobbiamo mettere in discussione lo stereotipo creato a uso e
consumo dello show business degli anni ‘50, smentendo un legame diretto tra le sue
dolorose esperienze di vita e la donna cantata, che incarnò consapevolmente sul
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palcoscenico la sua soggettività rappresentata.
Per concludere, alla questione che il nostro lavoro di ricerca ha affrontato in tempi
recenti, un tema che ritengo tra le indagini più innovative e portatrici di germi interessanti
per il futuro, ovvero quello che potrebbe essere un interrogativo per tutte le donne di
spettacolo. L’abbiamo chiamata la “questione del genere del pubblico”, con l’intenzione di
rompere l’idea di una ricezione neutra, indifferenziata, tra il modo di fruire di uno spettacolo
delle donne o quello degli uomini.
Si può studiare il pubblico femminile nella storia? Vale a dire: è esistita una
modalità particolare, una relazione tra donne, con cui le donne sul palcoscenico e le donne
in sala si sono relazionate tra loro? E in un percorso di direzione contraria, in che modo la
risposta dalla sala - perché i documenti storici di questa risposta ci sono, basta saperli
cercare con sufficiente spregiudicatezza – ha influenzato attrici, cantanti, danzatrici nel
tempo? Citiamo lo speciale legame che si stabilì tra la Duse e il pubblico femminile, delle
vere e proprie fan, o al teatro femminista romano degli anni ‘70, pensato, creato per una
costituenda spettatrice femminista critica.
Andare a teatro è stato nei secoli per le donne una forma di azione affermativa, di
conquista di uno spazio pubblico, contrapposto alla chiusura della sfera domestica, ma
anche uno spazio di rivendicazione e legittimazione al piacere, al godimento della
sollecitazione erotica, prodotto dall’intrattenimento spettacolare. Dalle nostre ricerche è
sorprendentemente emersa quella che oggi definiamo una “agency”, ovvero come la stessa
partecipazione all’evento spettacolare, l’esserci, abbia provocato nelle spettatrici un
desiderio di azione, una spinta a manifestarsi pubblicamente come soggetti fruitori
consapevoli. Mi sembra che studiare la storia della risposta del pubblico femminile, in bilico
tra processi di identificazione e straniamento sia un tema importante per chi sul
palcoscenico produce rappresentazione, racconta le donne attraverso il proprio corpo. Le
cantanti, le attrici, le danzatrici hanno il potere di mettere in crisi, decostruire, mutare quella
identità femminile impersonata che mostrano le spettatrici, portando alla luce l’ambiguità
di un’identità mascherata. Una domanda: se la femminilità è una recita dettata da codici
sociali e nella recita si costruisce socialmente tale femminilità, potremmo leggere la
relazione teatrale come un rapporto dinamico tra due female impersonators? Ovvero: tra le
donne del pubblico che mettono in scena la femminilità nella vita reale e le donne che
mettono in scena la femminilità sul palcoscenico?
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INTERVENTI DELLE ARTISTE
Grazia SCUCCIMARRA
Inizia la sua carriera a Roma, nel 1979 affittò il teatro Leopardo a Trastevere e cominciò a esibirsi con il suo primo lavoro
teatrale "Successo", un testo che ironizzava sulla smania di successo nel mondo dello spettacolo. Fu una conferma che la
carriera intrapresa era corretta. Per quello spettacolo aveva scritto il testo, curato la regia e la scenografia, scelto le
musiche e naturalmente ne era stata l'interprete principale. I sacrifici iniziali erano stati ripagati. Da quel momento portò
in scena nuovi spettacoli da lei scritti e interpretati tutti ampiamenti apprezzati dalla critica e dal pubblico. Nel 2005 ha
ricevuto il premio della Società dante Alighieri per la cultura. L'attrice è stata insignita del premio per la legalità "Paolo
Borsellino".
‘CHIEDO I DANNI’
Sono Grazia Scuccimarra.
Sto affogando nella cultura questa mattina, veramente mi avete fatto fare un
bagno meraviglioso nella cultura, mi avete aperto porte incredibili.
Ma non si sente? No. E’ acceso, è che stare curva così non è comodo. Non mi piace
stare seduta. Qui sono troppo alta io, là sono troppo bassa! Come al solito, questo fa parte
della difficoltà delle donne, tanto per dimostrare che la difficoltà c’è sempre in qualsiasi
momento.
Quando sono stata invitata a questa manifestazione, ho subito pensato
maliziosamente: l’arte delle donne, quale? Quale arte? Perché oggi ci riferiamo molto più
semplicemente a un’antichissima arte delle donne, che oggi viene esercitata in una maniera
veramente brillante. Anzi, pare che oggi alle donne si chieda di mostrare solo questa arte.
Io, a questo punto, ho deciso di chiedere i danni. Innanzitutto allo Stato che ci ha
ridotto in questa maniera, alla politica che ha mortificato e sta mortificando la donna in una
maniera storicamente inaccettabile.
La cosa strana è che abbiamo realizzato molto più in passato, in un periodo in cui
la donna non poteva fare niente in libertà, mentre oggi, periodo in cui la donna ha le porte,
teoricamente, aperte, e dice che non ha tanta voglia di fare……osservo spesso le
ragazze…… la cosa più interessante che fanno è guardarsi le unghie, e questo mi fa
veramente sentire una pena dentro.
Allora chiedo i danni. Cominciando da lontano. Chiedo i danni alla famiglia, che ci
ha reso insicure. A nove mesi avevo realizzato da pochissimo tempo di chiamarmi Grazia e
avevo una marea di adulti che mi chiedeva: dov’è Grazia? Chi è Grazia? E papà? Dov’è papà?
Ma come, non sono io Grazia? Verso i due anni cominciavano a dirti: che brava donnina! Fai
vedere come sei una brava donnina! In adolescenza chiedevo a mia madre: posso uscire?
No. Perché? Perché no. E allora ho detto: ma è talmente chiaro che è giusto che non esca, è
chiarissimo!
E così eravamo avviate al raziocinio, alla riflessione e soprattutto all’acquisizione
della tanta sicurezza. E tanta è stata questa sicurezza che ci hanno infuso che ancora
adesso – ancora adesso che sono vecchia – quando squilla il telefono a casa mia e qualcuno
sbaglia numero e chiede: pronto, c’è Barbara? Io mica dico: no, non c’è Barbara. Dico:
chissà?! Può comunque esserci Barbara, alla fine, se telefonate fra tre mesi chissà che non
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vi risponda Barbara?!
E questa cosa ce la portiamo, ovviamente, nel tempo e ci moriremo con questa
sensazione di insicurezza, alla quale ha contribuito fortissimamente l’uomo, al quale chiedo
danni, ma proprio tanti danni, ma proprio tanti!
Avete visto, avete notato come siano scomparsi i pochi uomini che c’erano! Se
qualcuno porta ricchi premi e cotillons al signore che è rimasto e ha resistito, tra l’altro, agli
interventi……. .
Bruna BRAIDOTTI
Perché è Assessore alle Pari Opportunità.
Grazia SCUCCIMARRA
Quindi è costretto! Sennò se ne sarebbe andato.
A proposito della Commissione Pari Opportunità, anche se non sono “pari”,
pazienza, anche “dispari” va bene lo stesso, purché ce ne sia almeno una qui, almeno una, di
opportunità!
E volevo velocemente dire a tutti che chiedo i danni agli uomini per quello che
hanno fatto alle donne, anche solo cantando certe canzoni. Noi siamo cresciute e ci siamo
fatte romantiche alla musica, per esempio, di Little Tony, che cantava “era la donna mia, ora
non c’è più, io l’ho mandata via, poi l’hai presa tu”. Cioè tu la metti sul comò, poi la sposti,
per spolverare. Poi la riprendi, poi la poggi sul divano, insomma la metti dove pare a te.
Alan Sorrenti, rincarando la dose, ci diceva: “dammi il tuo amore, non chiedermi
niente, dimmi che hai bisogno di me, tu sei sempre mia anche quando vado via”. Cioè ti lego
alla gamba nel tavolo e ti voglio ritrovare nella stessa posizione in cui ti ho lasciato! In
queste condizioni ci facevamo ridurre. Ed eravamo anche contente di cantare simili canzoni.
L’uomo, invece, molto più furbo, da sempre, ha pensato: io nasco piccolo, uno non
capisce niente da piccolo, poi cresce, capisce qualcosa, poi diventa adulto, capisce sempre
di più, poi diventa vecchio e non capisce più niente, oggi poi con l’Alzheimer, figurati, non
capisce più niente, e ridiventa un’altra volta piccolo……. e allora l’uomo, che è veramente
lucido e razionale e soprattutto lineare, pensa: chi me lo fa fare a fare tutti questi passaggi
che mi fanno perdere tanto tempo? Io rimango direttamente piccolo! e infatti gli
psicanalisti dicono sempre: bisogna che l’uomo vinca il complesso di Peter Pan, bisogna
fare uscire il bambino che c’è in lui.
Fare uscire il bambino?! Ma il bambino sta fuori da secoli! Anzi bisognerebbe
incatenarlo il bambino! Si dovrebbe far uscire l’adulto, che forse c’è in lui, ma mica è detto
che ci sia, per carità!
Vi ricordate la canzone “Io per lei” dei Camaleonti? Questa canzone comincia con
una serie di elencazioni di tutto quello che la donna fa per lui, lei si sveglia al mattino e mi
porta la colazione a letto, “Io per lei, io per lei morirei”. Questa canzone comincia con una
serie di idee, elencazioni di tutto quello che la donna fa per lui, lei si sveglia al mattino e mi
porta la colazione a letto, poi mi gratta la pianta dei piedi, e mi lava la schiena e il resto……. .
e io che faccio per lei? Io per lei, io per lei morirei!
Ecco la differenza tra uomo e donna: lei fa, lui farebbe!
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Puramente grammaticale. Lei usa il presente indicativo, lui il condizionale. E la
storia dei rapporti uomo-donna è tutta qui in questo presente indicativo e in questo
condizionale.
Grazie.
Bruna BRAIDOTTI
Grazia Scuccimarra è stata ospite con i suoi spettacoli nella scena delle donne
nelle scorse edizioni, e il prossimo spettacolo che farà si intitolerà proprio “Chiedo i danni”.
Speriamo quindi di riuscire ad averla con noi la prossima edizione.
Interrompiamo la sequenza degli interventi del nostro programma con due
interventi del pubblico, anche perché è stata chiamata in causa la politica. Lasciamo la
parola quindi alla consigliera regionale Renata Bagatin e dopo abbiamo un intervento di
Renato Manzoni, direttore dell’Ente regionale teatrale, che cura le rassegne di teatro in
Friuli Venezia Giulia
Renata BAGATIN
Consigliere regionale della Regione Friuli Venezia Giulia
Vi ringrazio per l’invito, vi porto il saluto del Presidente del Consiglio regionale.
Vorrei entrare subito nel merito dei problemi posti cercando di essere concreta.
Ho partecipato come neo eletta in Consiglio regionale alla prima riunione della
Commissione regionale per le pari opportunità. Lì, Santina, ma anche tutte le altre, ha
esposto un problema forte, che era quello della mancata possibilità nelle ultime elezioni
regionali di votare ponendo sulla scheda la doppia preferenza di genere. Qui in Regione
abbiamo raccolto firme, la Commissione Pari Opportunità ha lavorato tantissimo, poi però a
livello di Consiglio regionale la proposta di legge non è passata.
Quindi noi siamo andati al voto a livello regionale con un’unica preferenza. Dopo la
riunione della Commissione a cui ho partecipato, il primo atto che ho fatto in aula è stato
quello di presentare immediatamente una proposta di legge – io sono la prima firmataria –
sulla doppia preferenza di genere. Quindi questo è un atto concreto perché le cose bisogna
non dirle ma farle. Ora bisogna lavorare per trovare tutte le possibili convergenze e votarla il
prima possibile per non trovarci a fine legislatura senza una legge concreta.
L’altra questione che vorrei informarvi e quella che ieri, sempre a livello regionale,
la Giunta ha deciso che per le prossime elezioni comunali del 2014 dove si andrà al voto in
tantissimi Comuni della nostra regione, entro la fine del mese di ottobre, i primi di
novembre, porteremo in aula per votare una nostra proposta sulla doppia preferenza di
genere. Sarebbe questo un primo importante risultato negli Enti locali. A seguire faremo la
legge per il voto in Regione.
Come dire, bisogna stare nel concreto, bisogna dare la opportunità alle persone di
contare.
Questa mattina l’Assessore parlava di essere libere e di potere, si parlava di
iniziative e altro, è chiaro che non è più possibile pensare di parlare in generale, dobbiamo
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stare nel concreto e fare delle cose concrete, affinché le donne assumano maggior
responsabilità e siano nei luoghi di maggior importanza nella direzione del nostre istituzioni.
Io sono perfettamente d’accordo con quello che è stato detto, che non è possibile che le
questioni che riguardano le donne siano trattate dai soli uomini. Dobbiamo essere presenti,
dire la nostra e lavorare per modificare e migliorare le cose, essendo noi protagoniste.
Concludo ringraziandovi per il grande lavoro che avete fatto per far riuscire così
bene una giornata di altissimo livello. Noi tutte siamo qui a vedere ad ascoltare, ma dietro le
quinte solo voi sapete quanto impegno e fatica avete messo.
Penso che tutte noi dovremo valutare anche questo. Nessuno ti dice quanto fai e
com’è stato il tuo lavoro per preparare iniziative così importanti. Bisogna crederci nelle cose,
tutte dobbiamo crederci, crederci un po’di più, metterci tanta passione, perché è quella che
ti coinvolge.
Una di voi prima ha detto: io ce la farò, e allora, io insieme a tutte voi dico: “Ce la
faremo!” Grazie.
Bruna BRAIDOTTI
Siamo veramente felici della legge che si farà per la doppia preferenza di genere,
per la quale la Commissione regionale pari opportunità si è battuta per tutto l’anno.
Adesso do la parola a Renato Manzoni, uno dei pochi, uomini qui presenti, che ha
un ruolo importante per noi, perché è Direttore dell’Ente regionale teatrale. Quindi abbiamo
già un primo confronto con un interlocutore di questa platea.
Renato MANZONI
Direttore dell’Ente teatrale della Regione Friuli Venezia Giulia
Buongiorno a tutti. Sono qui dall’inizio, quindi auguro buon lavoro, ma ho già
seguito gran parte del lavoro, tranne l’intervento del Sindaco, che è l’unico che ho perso, e
ho imparato tante cose su mondi diversi, da quello della pittura a quello del teatro, che un
po’più conosco, e alcune sono amiche, credo, anche in sala.
Impressionante il dato che si citava prima, anche in teatro rispetto alla parte
creativa, cioè autrici e registe, attrici ne abbiamo tante, ma devo dire di grande valore, cioè
assolutamente non riconducibili a degli stereotipi, come quelli ultimi, perché pensiamo alle
nostre, dalla Lella Costa alla Finocchiaro, alla stessa Scuccimarra, con cui siamo cresciuti
assieme e abbiamo fatto tante battaglie.
Quest’anno, nelle stagioni dell’Ente regionale teatrale, mi fa molto piacere che lo
spettacolo più rappresentato sarà di un’attrice come Giuliana Musso con la Fabbrica dei
Preti, però bisogna sicuramente proseguire su questa strada, in campo organizzativo ci
sono già molte donne come la direttrice del Verdi di Pordenone e il responsabile del
Giovanni da Udine.
Forse un altro dato da rilevare è che è carente la presenza delle donne anche nella
Presidenza degli organismi teatrali, organi molto importanti, dove si registra la stessa
carenza di presenze, come fra le registe e le autrici.
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Quindi buon lavoro, proseguite così. Un grazie a tutto il pubblico, anche perché se
non ci fosse il pubblico femminile chiuderemmo tutti i teatri. Lì la percentuale è del 90%!
Cioè in tutti i teatri con i generi più diversi, senza il pubblico femminile andremmo tutti a
casa. Quindi doppio grazie!
Annamaria IODICE
Nata a Napoli nel 1949, diplomata all'Accademia di belle Arti, ha lavorato negli anni settanta come performer nel
territorio con gli Ambulanti in numerosi interventi poetici aperti alla comunicazione con i cittadini. Ha partecipato alla
Quadriennale di Roma nel 75 e alla Biennale di Venezia 76 “arte come sociale” alla Biennale di Gubbio nel 77. Dagli anni
ottanta ha curato la dimensione pittorica sviluppando una propria ricerca tra arte, cultura e natura maturando un
linguaggio basico composto di elementi sintetici tratti dall'empatia con la tradizione pittorica italiana.
L'interesse per l'antropologia culturale e l'ambiente la spingono negli ultimi anni alla rivalutazione del mito come fonte di
conoscenza da approfondire. Le ultime personali al Museo Malandra di Vespolate nel 2010 e a Palazzo Costanzi a Trieste
nel 2011, Studio Tommaseo, Trieste 2013. Ultime collettive Hyperhorganic ambiente emergente Triennale, Milano nel
2008 e con gli Ambulanti all'itinerante “Performing in the City“ dal Stadtische kunsthalle di Monaco a Napoli, Parigi, Tokio
ecc nel 2009 a “Futuro Arcaico “ al “Sal8” Bologna 2011 “Avanscena “ Treviso 2013.
L’INTRECCIO NON LINEARE DELLA RICERCA NELL’ARTE
Ho portato delle diapositive. Intanto, voglio dire che il mio amore per l’arte e i miei
studi nell’ambito dell’arte sono iniziati nei lontani anni ‘60, esattamente nel ’63. Mi sono
iscritta al Liceo artistico perché ero innamorata del lavoro di un autore di arte
contemporanea che abitava nel mio palazzo. Un artista dalla visione piuttosto informale,
con una notevole serietà, particolarmente affascinante sia come persona che come autore.
Ero affascinata dal suo lavoro che utilizzava sabbie, elementi di motori, terre, elementi
sconosciuti per me allora quattordicenne, che composti insieme, creavano realtà
inaspettate e avvincenti.
Al Liceo artistico c’era una didattica tradizionale, ma nella strada sulla quale si
affacciava questo bellissimo istituto vi era una libreria che in quegli anni ‘60 proponeva le
cose più interessanti che accadevano nell’arte e nella cultura.
Inoltre, proprio nel ’63, ho visto quasi sul nascere l’interesse per la pop-art che
approdava in Italia alla Biennale di Venezia e anche i lavori di artisti originali di questa
espressione, che rivoluzionavano notevolmente l’ambito dell’arte. Da quel momento in poi
per me tutto era possibile: Rivolgermi alla pittura tradizionale, e confrontarla
contemporaneamente con tutto quello che si prospettava così notevolmente affascinante
e diverso sulla scena artistica. Mentre a scuola si seguivano le tecniche tradizionali di
rappresentazione, che è giusto imparare perché alla base della pittura, scultura e
architettura, c’era un altro mondo legato alla cultura, alla crescita personale, al sentirsi
partecipe come spettatrice, alla poesia visiva ed alle numerose espressioni che si sono
affermate dal ’63 al ’66: la GestArt, l’arte programmata, l’arte povera, la Laborart.
Nel giro di pochissimi anni c’è stata un’accelerazione spaventosa nell’evoluzione
dell’arte, affascinante e coinvolgente, ma anche annientante. Chi voleva comunque
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effettuare un percorso in questo ambito, così rutilante di luci e di emozioni, era costretto a
cambiare in modo accelerato i linguaggi, strettamente legati ai contenuti e alla tecnica. La
tecnica è al servizio dell’arte, non ha nessuna dignità in sé che non sia quella di essere
tramite per l’espressione dell’autore. Questa servitù della tecnica non ha una connotazione
negativa, ma di non autonomia perché, preciso, spesso si confonde la tecnica con l’arte e
con i contenuti. Però, lo studio sul linguaggio è molto importante, perché non si può usare
lo stesso linguaggio che è stato inventato da un autore per una sua espressione artistica
per un altro contenuto. Quindi in un certo senso, linguaggio e contenuto possono
coincidere.
E’ stato un lavoro notevole e affascinante perché mi ha permesso molte
sperimentazioni. Ad un certo punto ho preso coscienza di me, e ho dovuto scardinare tutte
le mie conoscenze e partire da zero. Ho cercato di conservare gli elementi minimi delle mie
conoscenze, non dimenticando me stessa, perché fare arte è un’attività che tiene conto del
sé, della persona artista che fa trapelare ciò che pensa e ciò che è attraverso la sua opera.
Che cosa mi era accaduto? Durante i miei studi, anche di architettura, ho fatto
un’indagine in un quartiere in demolizione, dove erano stati evacuati gli abitanti. Le macerie
erano veramente impressionanti e spaventose, come se dalla fine della guerra non fossero
passati vent’anni. Fotografando per un esame di composizione architettonica questo
quartiere, ad un certo punto vedo un gruppo di bambini che, pur trovandosi in una
situazione di profondo degrado, conservavano una bellezza, una vivacità e una poeticità che
invece di fotografare le rovine della zona, ho fotografato loro tenendo per me queste foto.
Ecco perché apro questa serie di diapositive.
Dopo una serie di vicissitudini, all’Accademia di Belle Arti mi sentivo a disagio, fuori
luogo, perché la ricerca sull’arte non mi corrispondeva, c’era molta polemica politica, molta
demagogia, vi erano dei comportamenti né utili né vitali. Allora, insieme a una mia amica,
decidiamo di fare, nel 1974, un’azione di tipo poetico in cui ci allontaniamo totalmente dalla
pittura e parliamo di noi, due donne che parlano delle loro cose. L’attività artigianale è
legata a mestieri che non sono meno creativi di quelli dell’arte, per me avevano
un’importanza e una validità che doveva essere recuperata, al di là di ogni convinzione.
Organizziamo una breve performance in io portavo su di me i segni del mio pensiero
attraverso qualcosa di fatto manualmente, per esempio i sandali che erano stati fatti a
mano da alcuni ragazzi che cercavano di recuperare la cultura artigianale, un vestito
comprato a un mercatino dell’usato, che era tutto di filo d’oro, che veniva chissà da dove, e
che mi piaceva tanto. Lo volevo mettere lì all’Accademia sopra i jeans, per dimostrare che le
varie epoche vivono insieme in noi, anche se viviamo un momento presente, tutto ciò che ci
ha attraversato comunque è sempre con noi, a volte mortificato, perché non farlo rivivere?
Insomma, tutti segnali che non erano tanto pertinenti, infatti i ragazzi della scuola
di pittura erano lì un po’perplessi, ma il linguaggio poteva sembrare poetico, a volte poteva
ricordare l’infanzia. L’infanzia siamo noi, anche da vecchi, lo posso dire ormai, e quindi la
volevo portare con me.
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Da questa esperienza, proprio in quel giorno, ho potuto fare amicizia con degli
artisti giovani come me che avevano fatto anche delle esperienze nel campo
dell’animazione, sempre legati comunque all’architettura, o con altre esperienze artistiche.
Questa mia performance mi ha permesso di conoscere delle persone a me affini, magari
camminavano a pochi metri di distanza da me o occupavano gli stessi banchi, ma non ci si
parlava, e così siamo entrati in relazione. Insieme abbiamo lavorato e abbiamo organizzato
delle cose, scegliendo di lavorare nel territorio, nelle strade, per incontrare le persone.
Talvolta attraverso piccole azioni, azioni poetiche o di tipo estetico, potevano nascere degli
incontri che avrebbero fatto in modo che le nostre coscienze fossero ancora più attente alla
vita della città, che a quell’epoca viveva un momento di grande difficoltà. Dal‘68 in poi, tutte
le strutture sentivano la necessità di trasformarsi, di diventare uno specchio più utile per la
società di quel momento.
In quegli anni abbiamo formato un gruppo, il gruppo degli Ambulanti, ho fatto un
lavoro nella città in cui chiedevo l’elemosina, un’elemosina culturale. Volevo far capire ai
molti studenti che non avevano trovato una relazione fra il mondo degli studi e la realtà, che
bisognava costruire il mondo in prima persona.
In seguito ci hanno invitato alla Quadriennale dei giovani del ‘75, dove abbiamo
allestito uno spazio in maniera veramente alternativa, dove addirittura vendevamo delle
cose, però con degli scambi di manufatti realizzati al momento.
In questa immagine si vede il momento di un evento organizzato al di fuori
dell’accademia: cento manifesti di carta velina dipinti, che simulavano il volo di uccelli e che
avevo realizzato insieme ad altri che mi avevano aiutato: Ognuno ci aveva messo il suo
contributo. Alcuni poi li hanno strappati, creando un conflitto. In quel periodo c’erano
sempre conflitti.
Questa è un’altra operazione di tipo poetico. Sono andata in un quartiere della
città con dei fogli, dove ho fatto questo intervento pittorico, e alcuni operai, mi hanno
aiutata a mettere questi teloni. Dei bambini del posto si sono fermati a guardare, si trattava
della domanda ‘Il cielo di chi è?’ Dopo di che ce lo siamo preso a pezzi tutti quanti. Era
chiaramente un’azione simbolica.
Ancora un intervento fatto per strada. Questo è proprio il centro di uno svincolo
stradale, dove ci siamo fermati con questo banchetto e dove vendevamo, o regalavamo
manufatti. Pretestuosamente facevamo degli interventi che attraevano le persone di
passaggio e che si fermavano con noi. E’ una fortuna avere una documentazione fotografica
così ricca che all’epoca non era molto facile realizzare.
In quel periodo nel ‘75, vendevo dei diplomi. Mi sono messa con il banchetto,
cercando di attrarre le persone spiegandogli il senso del rapporto tra scuola e lavoro, e
anche sul fatto che c’era gente che non poteva permettersi di studiare. Un ragazzo è venuto
accanto a me, e mi ha chiesto che cosa facessi, al che ho risposto che vendevo diplomi, e lui
mi ha chiesto un diploma di capitano di lungo corso, perché era il suo sogno. Non lo avrebbe
mai fatto, probabilmente, ma intanto gliel’ho dato. Magari poteva conquistarselo in futuro,
non lo so. E così tante altre cose.
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E poi ancora per strada. Esistono sogni nei quali si può credere e per i quali si può
lottare, oppure sono delle illusioni, e allora bisogna fare qualcosa affinché non restino tali.
Questo invece era il mio banchetto del paradiso, dove rilasciavo certificati di
bontà. Con questi banchetti insieme ad altri componenti del gruppo, abbiamo realizzato
altri lavori. Il nostro era un lavoro collettivo, che aveva un segno poetico. Non si volevano
ferire le persone, ma attrarre stabilendo un dialogo. Ognuno di noi elaborava il proprio
lavoro, la propria strategia per non perdere la propria individualità. All’epoca infatti a volte si
pensava che nel mondo dell’arte bisognasse annientare le proprie individualità. All’interno di
una stessa area politica c’era qualcuno che credeva che l’artista dovesse annientarsi, e che
gli artisti di uno stesso gruppo dovessero la stessa cosa. Ad esempio, il gruppo della pop-art
aveva la stanza accanto alla nostra e proponeva la realizzazione di uno spazio tutto di
manifesti uguali, dove ogni artista aveva il suo, ma senza individualità. Per non confonderla
con l’egoismo e l’individualismo. Ma questo modo di pensare era ciò che noi contestavamo:
se non si ha coscienza di sé, non si può comunicare e non si può essere creativi, si diventa
aridi, non sai più chi sei, è come morire.
Questa è la Biennale di Venezia dove siamo stati invitati. C’era Enrico Crispolti, un
critico dell’arte, che allora curava la sezione “Arte come sociale”, che ci aveva invitati in
quanto il nostro lavoro sul territorio era stato riconosciuto.
Dopodiché, la necessità di lavorare mi ha costretto a trasferirmi dalla mia città e
ho fatto degli striscioni in cui esprimevo il mio rammarico per essere dovuta andare via.
Certo, era una mia scelta. Però. . . Ciao a tutti. E’ stato terribile. Ho chiesto ai miei amici
artisti di portare questo striscione per la città, per dimostrare come un messaggio che fa
parte di un’individualità, può essere condiviso e qualcuno se ne può fare carico.
Questo è un intervento che ho fatto su questo muro enorme di contenimento, che
divideva la città di Napoli dalla città di Pozzuoli, prospiciente una strada. Ma io non mi
potevo rassegnare al pensiero che c’era una bellezza nascosta là dietro, una natura
prorompente, che io avevo visto mortificata, chiusa e bloccata. Quindi ho creato un giardino
su questo muro che evocasse questa natura umiliata. Contemporaneamente avevo dipinto
una scritta che era rivolta a chi passava di là, che diceva: “Passante, il tuo cuore è
meravigliosamente fiammeggiante”, che stava a indicare l’indifferenza, la vita che inaridisce,
specialmente quando si è chiusi in un’automobile. Così come la montagna è coperta dal
muro, anche la persona coperta dalle difficoltà della vita inaridisce, non consapevole di
avere delle grandi bellezze dentro di sé e ne è escluso. Ogni tanto qualcuno si fermava a
guardare.
Questo lavoro rappresenta il giardino di Mariangela, una mia amica artista che
purtroppo è dovuta uscire dal gruppo presto, perché ha avuto una bambina e le difficoltà
della vita l’hanno allontanata. Noi abbiamo creato un giardino per lei insieme a tutte le
persone, sotto la Nato, e prospiciente l’Italsider, che di questo quartiere di Bagnoli avevano
fatto uno scempio. Un vero e proprio Inferno dantesco. Di sera quando si accendevano le
fiamme nei camini, se ti affacciavi dalla finestra di una casa di un amico che abitava lì ti
rendevi conto di vivere in un inferno: bagliori rossastri ad altezza d’uomo, tutto nero, nero,
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nero, e un’aria irrespirabile. Abbiamo anche fatto diverse operazioni per la sensibilizzazione
di chi poteva intraprendere delle azioni. Negli anni l’Italsider è stata spostata, non si trova
più lì, la zona è stata bonificata, però ci sono state altre tragedie come l’incendio della Città
della scienza che è stata bruciata. L’importante era è andarsene via.
Per non dimenticare il nostro sentire abbiamo fatto una copertina che era il nostro
lavoro d’arte per lei, con tanti semplici contributi, i cuoricini di tutti noi.
Questo lavoro si chiama “Trist Tropit”, ed è un lavoro che ho fatto perché a un
certo punto ho cominciato ad essere pendolare. Sono rimasta sola, ho perso la famiglia, mi
è morta la mamma, mio padre è andato via, mia sorella è andata a lavorare in un’altra città,
e io per una serie di eventi mi ero trovata con una bambina e col marito lontano che
lavorava a ottocento chilometri di distanza. Ero costretta a fare la pendolare, e non avevo
un asilo per la mia figlioletta perché avevo il treno alle sette del mattino, quando l’asilo era
ancora chiuso. E quindi facevo il giro, andavo da mia nonna una sera, da un’amica un’altra
sera, da mia suocera un’altra sera e affidavo a loro questa bambina. Per fortuna perché non
potevo permettermi una babysitter. Tutto questo mi comportava una grande fatica e
pensando alle varie problematiche che una persona incontra nel corso della sua vita ho
fatto delle considerazioni: pensavo a Levi Strauss, che ha fatto tutti quegli studi così belli e
interessanti sui comportamenti delle tribù. Cercavo di trovare un nesso fra gli intrecci delle
varie vite che ognuno di noi è costretto a vivere ogni giorno.
Questo rappresentava per me la bambina che esce dalla scultura, dalle foglie e poi
il dipingere la mia cucina, e il preparare il latte.
L’arte nel quotidiano. I giardini di casa mia, in quel periodo mi sono costruita le
“figure di compagnia”, mi sono sgorgate naturalmente, erano molto grandi. Gigantesche.
Bruna BRAIDOTTI
Grazie.
Noi avremo piacere di sentirti magari nel corso del pomeriggio. E’ veramente molto originale
e innovativa la tua proposta. Ci piacerebbe anche vedere una tua mostra. Adesso passo la
parola a Luisa Sello.
Luisa SELLO
DIETRO IL LEGGIO
Dovrebbe esserci ora un mio intervento, ma preferisco recuperare sul ritardo
accumulato. Vorrei comunque esporre brevemente due riflessioni, anche in funzione di ciò
che è stato detto da Manzoni, prima, e dall’assessore regionale Panariti. Prima riflessione:
che cosa c’è dietro il leggio, quando ci si presenta sul palcoscenico? C’è una donna, che ha
fatto la madre, come nel mio caso, e che ha lasciato dodici anni la professione per seguire la
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maternità, con gioia, naturalmente; ma per dodici anni sono un tempo considerevole per un
artista, dodici anni è un periodo lunghissimo. Concordo quindi con la riflessione
dell’assessore Panariti che stamane ha segnalato l’esigenza di imporre i tempi delle donne,
con bambini, famiglie eccetera; è ingiusto ed impari, infatti, che sia sempre la nostra attività
a venire sacrificata dai tempi familiari.
La seconda riflessione è più che altro un’autoanalisi e riguarda la donna sempre
dietro al leggio, ma che organizza. Qui mi rifaccio a ciò che ha detto Manzoni, perché,
ovviamente, gli spettacoli, i concerti vanno organizzati, quindi lì bisogna arrivare, cioè al
vertice dell’organizzazione. Quello è il momento importante per definire i ruoli delle donne,
nello spettacolo e nei concerti. Mi sono quindi interrogata sul mio ruolo di Presidente della
più antica società dei concerti del Friuli Venezia Giulia, gli “Gli amici della musica” di Udine,
accorgendomi che, pur senza strategia, ho dato un nome che è per antonomasia di parità di
genere, l’ho chiamata infatti “Grandi interpreti”. Poi ho osservato che – ripeto, non l’ho fatto
con strategia –la percentuale delle donne presenti in cartellone è del 70%. Ho recuperato,
quindi, ho “chiesto i danni” (per dirla con Grazia Scuccimarra), riscattando un pochino il gap
impari, e arricchendo sicuramente la diffusione e la conoscenza delle interpreti e delle
compositrici.
Questo mi spinge a concludere che il fatto di essere donna mi abbia portato
spontaneamente verso scelte paritarie. Non è una questione di lobby, è proprio il fatto
naturale di seguire la propria identità femminile. Concludo affermando che bisogna trovare
il coraggio di esserci, come diceva stamattina il Sindaco, stimolando la presenza delle
donne e dei giovani, soprattutto delle giovani donne, nei vertici della politica e
dell’organizzazione, perché è solo in questo modo che noi possiamo portare un contributo
bilanciato.
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TESTIMONIANZA DI MANIFESTAZIONI ARTISTICHE, CONCORSI E FESTIVAL
DEDICATI ALLE DONNE ESISTENTI IN ITALIA ED IN EUROPA
Bruna BRAIDOTTI
Grazie. Ora procediamo con la nuova sessione del convegno.
Chiamo qui Beatrice Campodonico, Rosalba Montrucchio, Alina Narciso, Valentina
Rapetti e Silvia Scotto d’Antuono, Annamaria Tallone, Valentina Tibaldi, Maria Assunta
Calvisi e Serena Grandicelli perché parleremo di testimonianze di manifestazioni artistiche,
concorsi e festival, cioè di ciò che già le donne fanno.
Beatrice CAMPODONICO
Diplomata in Composizione e Musica Corale e Direzione di Coro. Ha diretto per un decennio il gruppo vocale Harmoniae
Mundi e attualmente affianca all’attività di Compositrice quella di promotrice della musica contemporanea in particolare
rivolta alle compositrici italiane. E’ docente presso il Conservatorio di Milano. Come compositrice ha ottenuto molti
riconoscimenti sia in Italia che all’estero, diverse sue musiche sono pubblicate (Edizione Agenda Carrara,Casa Musicale
Eco,Rugginenti, Sconfinarte). E’ Vicepresidente dell’Associazione Suonodonne Italia.
SUONODONNEITALIA
Innanzitutto ringrazio le organizzatrici per l’invito a questo convegno che ci
permette di fare il punto della situazione e di far conoscere quanto si sta facendo.
Sono Beatrice Campodonico, Vicepresidente della associazione “Suonodonne
Italia”, fondata nel 1994 da Esther Flückiger -pianista, compositrice svizzera- L’anno
prossimo festeggeremo il ventennale dell’associazione, sorta per necessità, perché le
compositrici, forse più delle interpreti, hanno una grandissima difficoltà ad essere
rappresentate, ad essere eseguite. Quindi la necessità è stata quella di fare gruppo, di unirsi
per potersi affermare, per poter soprattutto avere occasioni dove eseguire le proprie
musiche.
Suonodonne Italia, in questo ventennio, è stata un punto di riferimento per molte
compositrici; fra le associate ci sono e ci sono state i nomi più importanti fra le compositrici,
principalmente italiane. Faccio riferimento ad Ada Gentile, Silvia Bianchera, Biancamaria
Furgeri, Renata Zatti, Sonia Bo, e poi le presenti qua in sala, Carla Magnan, Carla Rebora, la
sottoscritta; un elenco che arriva a circa 83 nomi, oggi siamo un po’meno, ma sicuramente e
praticamente ha accolto negli anni, tutte le compositrici attive in Italia.
PROFILO DELL’ASSOCIAZIONE SUONODONNE ITALIA
Associazione culturale senza fini di lucro sorta nel 1994 per diffondere, sostenere e
promuovere la musica delle musiciste interpreti e in particolare compositrici, del presente e
del passato - ritenendo assolutamente prioritaria la conquista delle pari dignità e
opportunità anche nel settore della creatività musicale.
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L’Associazione organizza concerti e Festival e si dichiara disponibile ad organizzare
anche in futuro Festival con musica di alto livello ad opera di donne e uomini.
L’Associazione ha sede legale in Lombardia, in Milano (Via Accademia 58). Il Direttivo risiede
in Lombardia: Esther Flückiger, Presidente, residente in Milano, Beatrice Campodonico,
Vicepresidente, residente in Vedano al Lambro(MB); anche l’attività culturale si svolge
prevalentemente dal 1997 in Lombardia. Nel 2011 sono state iscritte 38 Socie
(Beatrice Campodonico ed Esther Flückiger)
Obiettivi
a) promuove le musiche di compositrici e compositori contemporanei.
b) promuove e sostiene il talento musicale delle donne in Italia e nella Svizzera Italiana,
migliorandone la posizione nell’ambito della loro attività musicale.
Attività
L’associazione organizza festival, concerti e spettacoli multimediali non solo di musica
contemporanea, ma anche di musica Jazz, di musica del passato e di musica sperimentale.
Appoggia le attività dei suoi membri offrendo consulenza sull’organizzazione di progetti e
programmi. Difende la dignità della donna nel mondo della musica, impegnandosi sul
fronte della politica culturale. Nel 2010 viene definito un nuovo progetto Suonodonne in
progress che prevede il coinvolgimento, nelle produzioni dell’associazione, di giovani
studenti, con il duplice scopo :in primo luogo di far conoscere la musica delle compositrici
alle nuove generazioni di musicisti/ste ritenendo che la conoscenza debba avvenire nella
formazione, secondariamente aprire a collaborazioni più ampie e a largo raggio . In
particolare nell’agosto 2012 presso il Conservatorio di Milano è stato realizzato un concerto
che ha visto coinvolti studenti appartenenti ai corsi di alta formazione del Conservatorio di
Milano e alcuni/ne musicisti e musiciste dell’Ensemble Suonodonne.
Il concerto ha avuto luogo, presso la Sala Puccini del Conservatorio di Milano, all’interno
della prestigiosa rassegna Suono Immagine. I concerti del Chiostro.
Suonodonne Italia è anche munita di un proprio ensemble; musiciste e musicisti di alta
professionalità e specializzazione per il repertorio contemporaneo, di cui hanno fatto parte
e fanno parte, le musiciste che suoneranno questa sera: Luisa Sello Rose Marie Soncini,
Maria Vittoria Jedlowski, Esther Flückiger. L’organico si è poi allargato con l’apporto di altre
collaborazioni che di volta in volta si sono definite in base alle produzioni.
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Infrastrutture
L’associazione possiede un archivio di spartiti e di documentazione di musiche di
compositrici italiane depositato presso la Biblioteca del Conservatorio “G. Cantelli” di
Novara e accessibile al pubblico; questo archivio possiede circa quattrocento spartiti e
musiche.
Nell’A. A. 2009/10 è stata prodotta una tesi da due studentesse - Lara Daccò e Serena
Milani- di Biennio e Triennio del Conservatorio G. Cantelli di Novara con la supervisione
della musicologa Anelide Nascimbene, che ha avuto come oggetto l’archivio di
Suonodonne. Questo lavoro di tesi sarà reso pubblico sul nuovo sito di Suonodonne Italia
www. suonodonneitalia. it è molto interessante perché documenta in modo esaustivo le
presenze delle compositrici italiane d’oggi.
Collaborazioni e contatti
Suonodonne Italia è stata affiliata sino al 2007 al FrauenMusikForum Schweiz, una grande
organizzazione svizzera che possiede un archivio a Berna, molto ricco di musiche di
compositrici. Fintanto che siamo state associate abbiamo contribuito scrivendo articoli
sulla rivista cling Klong, prodotta sempre da questa associazione.
Attualmente siamo associati alla International Alliance for Women in Music -IAWM- che è
una grande organizzazione americana, rappresentante le compositrici del mondo e che ogni
anno organizza convegni e festival in varie parti del mondo.
Siamo anche associate all’associazione tedesca l’Internationaler Arbeitskreis Frau und Musik,
storica associazione tedesca che ha anch’essa un grandissimo archivio di musiche di
compositrici a Francoforte.
Dal 2000 si sono realizzate varie collaborazioni con l’Istituto Superiore di Studi Musicali
“Conservatorio Guido Cantelli” di Novara all’interno del progetto In-audita musica. Le
compositrici nella storia, ideato da Antonietta Berretta nel 1998 per promuovere lo studio e
l’esecuzione di musica composta da donne. L’iniziativa, divenuta nel tempo una delle linee
guida dell’attività artistica e di ricerca del Conservatorio Guido Cantelli, ha riscosso vasti
interessi e ha condotto all’ideazione e all’allestimento di due mostre (In-audita musica. Le
compositrici del ‘600 in Europa, In-audita musica. Le compositrici del Settecento in Europa),
alla realizzazione del compact disc Donne Barocche, di conferenze e concerti e al Primo
Convegno di studi In-audita musica. Intrecci femminili tra armonia e melodia.
La valorizzazione della produzione delle donne di tutte le epoche viene attuata in sinergia
con tutte le scuole del Conservatorio; le musiche vengono selezionate secondo criteri di
eccellenza, studiate ed eseguite nel corso dell’attività didattica e artistica dell’Istituto.
L’orientamento principale di In-audita musica è volto a creare all’interno della cultura
musicale una visione del mondo che si richiami alla sapienza e alla creatività femminile.
Dal 2003 al 2008 la Presidente di Suonodonne, Esther Flückiger, ha fatto parte della
International Alliance for Women in Music come rappresentante per l’Europa.
Suonodonne Italia quindi tiene contatti con numerose organizzazioni dalle stesse finalità in
Italia e all’estero, collaborando con consolidate istituzioni e organizzazioni concertistiche ed
è lieta di accogliere anche uomini come soci.
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Pubblicazioni
Recentemente abbiamo pubblicato le Newsletter trimestrali, con informazioni aggiornate
sulla nostra attività e quella di tutte le associate. Abbiamo pubblicato per la rivista Svizzera
Cling Klong articoli in italiano, in tedesco con la rivista tedesca Vivavoce e in inglese con la
rivista IAWM Journal In Italia abbiamo collaborato con la rivista Leggere donna e Noidonne.
Nel 2000 è stato pubblicato il CD Fra nord e sud, le musiche delle donne nel 2000. Ed. Map
Milano
Produzioni
Per quanto riguarda l’attività svolta, agli esordi e sino al 2007 Suonodonne Italia ha tenuto
un’intensa collaborazione con la FMF Svizzera presentando a Roma e a Berna con successo
di pubblico e di critica il primo Festival Fra Nord e Sud nel 1994, divenuto poi un
appuntamento costante. Il Festival Fra Nord e Sud si è ripetuto con temi sempre diversi:
Giugno 1997 “L’attrazione del suono” a Milano
Giugno 1998 “Il presente incontra il passato” a Milano
Ottobre e novembre 1998 “Adolf Wölfli in musica e mostra” con opere di Regina Irman a
Roma e Milano
Nell’ottobre 2000 si attua il progetto “Le musiche delle donne nel duemila”; con questo
quinto progetto di Suonodonne è stato pubblicato nel gennaio 2002 il CD “Fra Nord e Sud Le musiche delle donne nel duemila”.
Gennaio 2003 vede la realizzazione dell’opera di teatro musicale Sogni più belli della realtà
svelata Lindenrot libretto liberamente tratto dal romanzo La donna dalle ali di cera di Eveline
Hasler con repliche a Milano Roma e Basilea nel 2005
Altre attività negli ultimi cinque anni sono state: nel 2007 un happening intitolato Non del
tutto tradizionale presso il Centro culturale Svizzero di Milano, dove è stato presentato un
programma che spaziava in più generi musicali, interpretato dall’ensemble Suonodonne con
Giovanna Barbati al violoncello, Esther Flückiger al pianoforte, Maria Vittoria Jedlowski alla
chitarra, Candy Smith alla voce, Rose Marie Soncini al flauto e Luisa Sello al flauto.
Nel 2009 abbiamo collaborato per tre edizioni consecutive, con produzioni nostre, con il
festival Cinque giornate di Milano; un grande festival di musica contemporanea che si svolge
in concomitanza con l’anniversario delle Cinque giornate di Milano, cioè dal 18 al 22 marzo
di ogni anno
Nel futuro immediato, dato che il prossimo anno festeggeremo il ventennale, vorremmo
rendere pubblico il lavoro di Laura Daccò e Serena Milani sull’archivio Suonodonne.
Per avere altre notizie e approfondimenti, potete visitare il nostro sito, www.
suonodonnetalia. it Grazie per l’attenzione e buongiorno a tutti.
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Rosalba MONTRUCCHIO
Diplomata in flauto al Conservatorio di Milano. Ha collaborato con molti direttori e partecipato a vari spettacoli nei più
importanti teatri italiani. E’ presidente dell’Associazione Culturale Magistrae Musicae nata per diffondere e sostenere la
creatività delle donne artiste. Docente di lauto è ideatrice e responsabile del Festival Fiati di Novara.
L’ESPERIENZA DI IN - AUDITA MUSICA AL CONSERVATORIO “GUIDO CANTELLI” DI
NOVARA E L’ASSOCIAZIONE MAGISTRAE MUSICAE
È un piacere portare in questa sede la mia testimonianza riguardante il progetto
In-audita musica, nato nel 1998 nel Conservatorio di Novara e volto alla ricerca e alla
riproposta di composizioni scritte da donne nel corso dei secoli, attraverso le significative
attività didattiche e artistiche che caratterizzano questo particolare e ricchissimo settore
con la speranza che questa esperienza stimoli altre/altri a intraprendere lo stesso nostro
percorso. Ringrazio vivamente Santa Zannier, Bruna Braidotti e Luisa Sello per avermi dato
la possibilità di manifestare questa nostra esperienza che ha visto coinvolte inizialmente
alcune colleghe, tra la quali l’ideatrice Antonietta Berretta e, oltre me, la bibliotecaria
Annamaria Colturato, Wally Salio, Marcella Ferraresi. L’allieva Paola Manara e altre, in un
lavoro costante di sensibilizzazione che si è svolto all’interno dell’istituto. Il piccolo gruppo
costituitosi è riuscito a insinuare qualche dubbio sui pregiudizi relativi alla figura della
compositrice, pregiudizi radicati fortissimamente sia all’interno del Conservatorio di Novara
che all’esterno, nella società. Quando incominciammo a studiare la storia delle donne, e
specificamente delle compositrici, scoprimmo figure affascinanti, ardite, trasgressive che
erano vissute in ambienti particolarmente favorevoli alla fioritura musicale, dove le relazioni
si sviluppavano soprattutto con altre donne.
Mi vengono in mente i monasteri e la leggendaria Hildegarda di Bingen, vissuta
nell’anno mille; le Cours d’amour del XII secolo, luoghi dove le Troviere e le Trovatore
cantavano e incantavano con la loro poesia e la loro musica; le corti del Quattrocento,
illuminate da donne istruite e colte quali Elisabetta Gonzaga, Eleonora d’Aragona; i conventi
secenteschi, dove Caterina Assandra, Isabella Leonarda, Maria Saveria Peruchona, Chiara
Margherita Cozzolani, Rosa Maria Badalla, Lucrezia Orsina Vizana, filavano preghiere e
tessevano inni, ricamavano stoffe e composizioni musicali (come argomenta sul Filo della
musica la filosofa Francesca Rigotti); la corte femminile (come è stata denominata dalla
ricercatrice Suzanne Cusik) dei Medici dove Francesca Caccini (ca1550-1618) compose una
delle prime opere scritte da una donna, La liberazione di Ruggiero dall’Isola di Alcina; le corti
settecentesche di Berlino, Monaco, Dresda e Weimar, animate da principesse come Anna
Amalia di Prussia, Maria Antonia Walpurgis, Anna Amalia di Sassonia-Weimar che
suonavano e componevano; la corte francese di Luigi XIV dove brillò Élisabeth-Claude
Jaquet de La Guerre, (1665-1729) una delle poche donne dell’epoca ad avere riconoscimenti
come compositrice.
Non posso dimenticare gli ospedali della Venezia settecentesca, dove le putte coi
loro concerti richiamavano turisti e visitatori provenienti da tutta l’Europa e dove si
formarono Maddalena Laura Lombardini Syrmen, violinista e compositrice, dell’ospedale
della Pietà e Anna Bon, compositrice e flautista, ricoverata come “figlia in educazione”
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all’ospedale dei Mendicanti. Anche i salotti, devo menzionare. Creati dalla fantasia delle
Preziose del XVII secolo in Francia e divulgatisi nei secoli successivi in tutta Europa,
divennero luoghi prestigiosi gestiti dalle donne dove, oltre ai personaggi illustri nel campo
politico, musicale, artistico, filosofico venivano ospitate musiciste e compositrici. Famoso fu
nel Settecento, il salotto francese di Madame Brillon, compositrice ella stessa.
L’occasione per introdurre nel conservatorio di Novara questo filone è scaturita da
un episodio fortuito. Nel 1998, il professor Pier Giuseppe Gillio, in occasione
dell’intitolazione del Conservatorio di Novara, divenuto autonomo dalla sede di Alessandria,
propose il nome di Isabella Leonarda (1620- 1704) che il Collegio docenti scartò (prevalse la
candidatura di Cantelli) per diversi motivi, uno dei quali, sicuramente, era da attribuirsi alla
totale non conoscenza di questa compositrice, anche se Lazzaro Agostino Cotta nel suo
libro Museo Novarese, del 1701, colloca Isabella Leonarda accanto agli uomini illustri e alle
donne virtuose di Novara con l’appellativo Musa novarese. Questa compositrice non è citata
nei manuali di storia della musica abitualmente usati nei conservatori. Essi elencano solo
quattro nomi di donne: Francesca Caccini, Barbara Strozzi, Antonia Padovani Bembo, e
celata nel Gruppo dei Sei, G. Tailleferre, dove la G puntata stava per Germaine. (Molte di noi
hanno saputo che la G col punto si riferiva a una donna, quando questa morì!) A Guido
Cantelli, dunque, fu intestato il Conservatorio ma da quell’episodio nacque l’idea di
indagare sull’esistenza delle compositrici con un progetto denominato In-audita Musica.
In-audita, nel senso letterale di non ascoltata e in quello più comune di assurda,
perché composta da donne che non contente di interpretare, talora divinamente, la musica
degli altri avevano osato scriverla in prima persona.
L’incredulità, a parte le risatine di alcuni, suscitata dalla proposta di intitolare il
conservatorio a Isabella Leonarda fu tale che un collega, quando Antonietta Berretta, gli
esternò il desiderio di voler fare una ricerca sulle compositrici, liquidò l’argomento e
ironicamente, paragonando il numero delle compositrici alle cinque dita di una mano,
predisse che la ricerca sarebbe stata rapida. Da qui, sia per dare visibilità e onore a Isabella
Leonarda sia per riportare alla luce le compositrici del passato sia per creare una genealogia
femminile cui rispecchiarsi, nacque la prima mostra In-audita musica. Le compositrici del
Seicento in Europa. Nel corso degli anni l’errore di valutazione fu chiaro e lo stesso collega,
divenuto nel frattempo direttore dell’Istituto si fece sostenitore e promotore del progetto,
proponendo la musica delle compositrici alla propria classe e l’inserimento di In-audita
musica tra le linee guida del Conservatorio.
Nel 2009, il progetto venne selezionato come “buona pratica” per illustrare l’Anno
Europeo della Creatività e dell’Innovazione dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e
della Ricerca. Man mano che il gruppo di In-audita cresceva, proponendo saggi, incontri con
le compositrici contemporanee, acquisti di CD e spartiti che hanno arricchito la biblioteca
del conservatorio, anche le tesi di ricerca furono incentrate su figure femminili. Introdotti
nella didattica strumentale, i repertori delle compositrici furono accolti in tutte le attività
del conservatorio, come ad es. nella Settimana delle arti, nel Festival Fiati, ne Il mondo della
chitarra.
L’interesse suscitato dalla prima mostra In-audita musica. Le compositrici del ‘600
in Europa, curata da Antonietta Berretta e accompagnata dal CD Donne Barocche dell’Opus
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111, inciso dal gruppo strumentale Bizzarrie armoniche con la voce di Roberta Invernizzi,
richiesta da diverse associazioni e conservatori e esposta in molte città italiane, ci diede la
baldanza per realizzarne un’altra, In-audita musica. Le compositrici del Settecento in Europa,
curata da Antonietta Berretta, Patrizia Florio e Pier Giuseppe Gillio.
Intanto alle colleghe promotrici si affiancò la docente e compositrice Beatrice
Campodonico che portò in Conservatorio non solo la musica delle donne ma le compositrici
stesse che presentavano i loro lavori alla classe studentesca, attenta e curiosa di incontrare
delle donne vive, di cui non si era mai sentito parlare, provenienti dall’Italia e dall’estero. Il
repertorio di In-audita musica si è così ampliato comprendendo non solo le musiche del
passato, ma anche la musica dei nostri giorni.
L’arrivo nella classe docente di Anelide Nascimbene, insegnante di storia della
musica, ha inoltre grandemente contribuito all’approfondimento storiografico.
Nel 2008 si è tenuto presso l’Istituto di Novara il Primo Convegno di studi, Intrecci
femminili tra armonia e melodia e nello stesso anno è stato acquisito in comodato d’uso
l’archivio dell’Associazione Suonodonne, contenente 362 composizioni autografe di
compositrici del ‘900.
Il Festival Fiati, altro fiore all’occhiello del Cantelli, dal 2005 ha dedicato
ininterrottamente fino a oggi una giornata di studio invitando compositrici italiane e
straniere. Introdotto l’argomento con la conferenza, nel 2004, I fiati delle donne, tenuta da
Antonietta Berretta abbiamo ospitato nel 2005 la flautista e compositrice americana Janice
Misurell Mitchell; nel 2006 Luisa Sello ha presentato Il volto femminile della musica; nel 2010
è stata ospite la pianista e compositrice tedesca Barbara Heller; nel 2011 è stato dedicato
uno spazio alla produzione di Sofia Gubajdulina; nella decima edizione del 2012 abbiamo
presentato la produzione di Louise Dumont Farrenc; nell’edizione del 2013 è stata invitata
l’italiana Ada Gentile.
Le compositrici Violeta Dinescu, Bianca Maria Furgeri, Matilde Capuis, Silvia
Bianchera Bettinelli, Claudia Ulla Binder e tante altre sono state ospiti di In-audita musica;
infine i Ritratti d’autrice hanno visto protagoniste Renata Zatti nel libro Musica e famiglia, di
Laura Zattra e Donna Teresa Agnesi, compositrice illustre nel libro di Pinuccia Carrer e
Barbara Petrucci.
A coronamento delle molteplice attività concertistiche abbiamo organizzato
conferenze, tra cui La musica nei monasteri femminili italiani durante il periodo barocco
tenuta da Robert Kendrick, e Le commediante virtuose: momenti della vita teatrale
napoletana tra Sei e Settecento, con Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione;
presentazioni di libri, tra cui Fanny Mendelsshon. Note a margine di Adriana Mascoli e
Marcella Papeschi, lezioni concerto tra cui quella tenuta da Mariateresa Lietti su Maddalena
Laura Lombardini Sirmen e da Alfonso Cipolla su Eleonora Duse, Sarah Bernhardt, Nadia
Boulanger e il sogno de La ville morte di Gabriele D’Annunzio.
Per fare questo è stato necessario il coinvolgimento di tutto il conservatorio e il
sostegno del primo direttore Vincenzo Cerutti e del successivo Ettore Borri, (convinti
assertori della musica delle donne) oltre che del consiglio accademico e del consiglio di
amministrazione. I risultati conseguiti sono stati molto entusiasmanti se pensiamo alla
trasformazione che i colleghi e le colleghe hanno avuto passando dalla diffidenza e
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dall’ironia alla promozione e alla collaborazione con le nostre iniziative. Il clima, come si può
capire, al Conservatorio di Novara è ormai favorevole, non solo per la nostra tematica ma
anche per le tante realtà artistiche e didattiche che ci caratterizzano. Con le colleghe e con i
colleghi lavoriamo con determinazione, sicure che ciò che facciamo sia giusto e alla lunga
(le rivoluzioni culturali sono le più lente), finisca per trasformare il modo di guardare la
realtà. Pur non essendo delle storiche, immettiamo nella memoria collettiva le compositrici
e la loro musica avvalendoci delle ricerche fatte da uomini e donne come Graig Monson,
Steward Carter, Robert Kendrick, Suzanne Cuzik, Marinella Laini, Claire Fontjin, ecc.
Nel 2001 abbiamo fondato (io con Antonietta Berretta, Beatrice Campodonico,
Wally Salio e Elena Russo, cui si è aggiunta successivamente Maria Ripamonti)
l’Associazione Magistrae Musicae, senza scopo di lucro, per diffondere all’esterno del
Conservatorio la musica composta dalle donne. Oltre alle conferenze sulle compositrici del
passato e del presente, Magistrae Musicae svolge la sua attività nell’organizzare concerti e
presentare nuovi Cd (ultimo, I suoni Bianchi della notte, con musiche di compositrici che
fanno parte di Suonodonne, tra cui Beatrice Campodonico); propone le mostre del
conservatorio e partecipa a eventi e meeting, in uno dei quali, tenutosi all’Istituto Superiore
di studi Musicali di Pavia, Sorelle d’Italia, sulla figura delle donne nella storia e nella musica
del Risorgimento italiano, Antonietta Berretta, nel 2011, ha presentato Carlotta Ferrari da
Lodi, patriota e compositrice.
L’obbiettivo di In-audita musica e di Magistrae Musicae è quello di adoperarsi
affinché la produzione musicale femminile, selezionata secondo criteri didattico-artistici,
possa essere introdotta nella normale attività musicale accanto alla produzione dei
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compositori, nella programmazione dei mezzi di diffusione (radio, teatri, sale da concerto).
L’associazione lavora nel territorio in modo che nei grandi come nei piccoli comuni la musica
delle compositrici sia conosciuta. Nel comune di Pessano con Bornago, dove l’Assessora alla
cultura, prof. ssa Monica Meroni dimostra sensibilità verso questo filone, da quattro
edizioni partecipiamo alla stagione concertistica Autunno classico in cui si esibiscono
giovani talenti con le musiche delle compositrici.
Per l’Otto marzo 2014 stiamo organizzando con il Comune di Pavia, con l’Istituto di
Studi Superiori Musicali, Vittadini e I Musei Civici di Pavia un Meeting dove due compositrici,
Carla Rebora e Carla Magnan, la direttrice d’orchestra Luisa Russo, Marta Brambati, esperta
in mediazioni culturali e responsabile dei Servizi Educativi dei Musei Civici di Pavia, la
musicologa e storica Pinuccia Carrer, la pianista, compositrice e presidente di Suonodonne
Esther Flückiger, coordinate da Beatrice Campodonico, si confronteranno su Le sensibilità
ignorate. L’universo femminile nella musica e la sua relazione con le altre arti.
Concludo augurando a tutte noi di trovare delle pratiche vincenti per l’affermazione di
questo mondo così affascinante.
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Bruna BRAIDOTTI
Uno degli obiettivi di questo convegno è anche quello di far conoscere già le
iniziative che le donne realizzano, per creare e moltiplicare le reti, e le occasione di contatto
e collaborazione, per questo sono molto importanti queste comunicazioni.
Adesso io proseguirei con le prossime relazioni che riguardano il teatro:
organizzazioni di donne per il teatro, e pensavo, visto che i tempi si sono purtroppo
protratti, di spostare alcune relazioni al pomeriggio.
La parola a Serena Grandicelli, che ci parlerà di “Scena sensibile”, e poi a Maria
Assunta Calvisi, che ci parlerà della sua rassegna e realtà teatrale in Sardegna.
Serena GRANDICELLI
Da circa vent’anni è presidente e direttrice artistica della rassegna la scena sensibile (Teatro e letteratura al femminile) che
si svolge a Roma in genere nel mese di marzo, se possibile, con sovvenzioni e contributi, di vari Enti (Comune, Regione,
Provincia). Svolge attività di Pubbliche Relazioni con la Stampa, per Teatri: Argot, Italia, Arcobaleno e Ostia Antica.
STUDI NEL FEMMINILE A TEATRO E IN LETTERATURA
Organizzo da vent’anni la “La Scena sensibile”, che è una rassegna di teatro e
letteratura al femminile all’interno di un teatro a Roma, il Teatro Argot. Nasce proprio con
l’intento di focalizzare l’attenzione sulla drammaturgia delle donne, ma soprattutto sulla
riscrittura, da parte di donne autrici e drammaturghe, del teatro classico. E’ importante la
rivisitazione fatta da molte autrici rispetto alle opere classiche a quelle che sono state
tramandate come opere classiche, parlo di Medea, Antigone, Fedra, le Troiane.
Le donne drammaturghe hanno sviluppato uno studio particolare sul punto di
vista degli autori classici e sulla necessità di rivisitarli, uno studio anche filosofico che vuole
focalizzare quello che è arrivato a noi attraverso questi autori. E’ stato necessario un
confronto con gli autori greci, gli autori che ci hanno tramandato un certo tipo di racconto, e
quella che oggi, nella nostra realtà attuale, è la visione da un punto di vista delle donne. Era
necessario mettere a fuoco il pensiero delle donne, rispetto a quello che ci è stato
tramandato, cioè. . . cosa ci è stato raccontato di Medea, cosa ci è stato raccontato di
Antigone, cosa ci è stato detto, quello che hanno scritto gli uomini di allora, e quello che le
donne di oggi ribaltano in qualche modo, volendo trasmettere una visione anche diversa…
non perché sia diverso il racconto, ma perché è diverso il punto di vista della donna. . . mi
riferisco a drammaturghe e autrici importanti, come la Spaziani, Maria Zambrano! Nella
visione di alcune donne attrici e drammaturghe Medea è una ribelle, Antigone è
assolutamente un personaggio rivoluzionario. Quindi non le leggiamo più come delle
vittime, non le leggiamo più come delle donne negative, ma cominciamo a leggerle con una
visione positiva di quello che loro sono state, del loro coraggio, della loro ribellione!
La “Scena sensibile” nasce proprio con l’idea di attirare l'attenzione, di mostrare e
di fare emergere queste riscritture. Hanno partecipato nel corso degli anni moltissime
attrici e autrici che si sono concentrate su questo pensiero. Poi è diventato anche un luogo
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di scrittura del contemporaneo, quindi di autrici che hanno cominciato a mettere a fuoco
anche tutte le tragedie del contemporaneo, ma non solo le tragedie!
Oggi abbiamo parlato della violenza sulle donne, dei mille casi in cui le donne
vengono comunque rese vittime, l’intento di Scena sensibile è quello di raccontare e di fare
emergere queste storie di violenza, ma anche, laddove è possibile, di ribaltare e di
trasformare questa visione della donna “vittima”. Quindi, le artiste che portano un racconto,
una narrazione o un dialogo su queste vicende di donne tragiche di oggi, portano anche una
forza e una necessità di ribaltare questa cosa, nella scrittura drammaturgica.
La scena sensibile pertanto è proprio un luogo dove abbiamo detto: "noi vediamo,
abbiamo questo specchio, queste realtà, queste storie, e le raccontiamo, ma le raccontiamo
anche come le vediamo noi, andando ad indagare spesso le origini di queste violenze,
ribaltando il punto di vista per dare un segno diverso a queste storie". Con questo volevo
chiarire un po’l’intento del pensiero che c’è dietro “Scena sensibile”. . .
Che è… “basta con le lamentele, torniamo ad essere forti, a raccontare le donne nella loro
forza e visione di donne capaci di opporsi, anche con atti estremi, a intenti di sottomissione,
schiavitù, persecuzione del maschile… del pensiero maschile, anche nel denunciare. . . ma
anche nei nostri sogni!”
Ciò non toglie che anche molti comportamenti persecutori delle donne possano
essere indagati, anzi l'attenzione di molte autrici e drammaturghe oggi è proprio sul
rapporto madre figlia!
La Rassegna ha vent’anni di storia, nasce a Roma, ha immediatamente
un’accoglienza benevola da parte del Comune di Roma. In quel periodo c’era Gianni Bornia,
come Assessore alla Cultura e Giovanna Marinelli che lo affiancava e appena nasce La
scena sensibile, viene subito sostenuta e caldeggiata, per diversi anni diventa un centro, un
fulcro e un punto di attrazione e attenzione per molti operatori e molte artiste, che creano
spettacoli anche appositamente per la Rassegna! Diventa un luogo di studio e di ricerca.
Insomma lascia un segno forte, fa pensare e riflettere, proprio perché si muove su terreni di
indagine e di riscrittura del classico! Assume un'importanza che travalica la città. Purtroppo
quello che è successo politicamente a Roma, che tutti sappiamo, solo chi non ci vive non se
ne rende conto, ma chi ci vive lo sa… a Roma, negli ultimi cinque anni, è stato azzerato tutto
il lavoro di vent’anni, sono stati tolti i fondi a chi aveva agito fino a quel momento per fare di
Roma un polo culturale importante!
Mi ricordo solo una cosa del programma di Alemanno… che era “Roma pulita”, e
Roma oggi è una fogna vera e propria! Quindi io porto questa testimonianza, la
testimonianza di chi ha vissuto questa débâcle… tutti i nostri sforzi, il nostro lavoro è stato
annullato in un anno, negata la possibilità di creare, ed era stato fatto tantissimo, e come
diceva la signora prima, bastano delle persone che non hanno quel tipo di sensibilità, e si
torna indietro di vent’anni.
Quindi noi, oggi, stiamo vivendo questa realtà drammatica. “Scena sensibile” ha
perso completamente i fondi! Ora le cose stanno un po’cambiando, ma temo che
pagheremo la pessima amministrazione di Alemanno per i prossimi anni, tuttavia ci si è
riaperto il cuore e speriamo di riuscire a riprendere un po’di respiro e anche un po’di energia
economica. L’unico aiuto che mi è arrivato negli ultimi anni è stato quello della Provincia di
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Roma, dalla Presidente della Provincia, Giuseppina Maturani, che mi ha dato un piccolo
contributo rispetto a quello che del Comune, ma ci ha permesso di andare avanti. Negli
ultimi due anni non c’è stato neanche quello, sono andata alla ricerca di sponsor per
mantenere questa cosa bellissima che avevamo creato insieme, però più di tanto non si
riesce, è dura, è veramente molto dura!
Detto questo, io continuo, cioè continuiamo, anche perché siamo tante, abbiamo
anche creato un gruppo di scrittura di donne, di scrittura collettiva, cosa difficile e rara, di
cui fa parte anche Laura De Marchi, che è qui presente, abbiamo lavorato su argomenti
importanti. Il primo lavoro, dal titolo Rifrazioni, il diritto di esistere, (scritto per
l'inaugurazione della Casa Internazionale delle donne) racconta storie di donne disagiate e
violentate nel mondo, cioè non solo visualizzate nella nostra realtà, ma anche in una realtà
più ampia, in continenti diversi. Ci ha guidato in questo lavoro un bravissimo drammaturgo
spagnolo José Sanchiz Sinisterra.
Il secondo lavoro, dal titolo Eclisse, parte da una vera e propria ricerca sulle
filosofe, con uno studio particolareggiato sul pensiero filosofico delle donne, poi a seguire 8
storie di donne sui linguaggi comici delle donne, per questo lavoro avevamo a nostra
disposizione anche delle persone preparate, come Giovanna Mori che ci ha seguito in
questa avventura, Laura De Marchi, che è una comica, appunto. Insomma abbiamo
approfondito per tematiche: un’altra scrittura collettiva è stata Se tu avessi parlato a
Desdemona, tutto quello che molte donne protagoniste di testi teatrali o romanzi famosi
non hanno detto o hanno taciuto.
Tutto questo è “La scena sensibile”!
Maria Assunta CALVISI
Regista e direttrice artistica della Compagnia Teatrale L’Effimero Meraviglioso che ha fondato e sempre diretto, con la
quale ha realizzato 26 regie. Ha partecipato a molti festival sia in Italia che all’estero. È anche Direttrice artistica del
Teatro Civico di Sinnai (Cagliari) che gestisce dal 2004. Organizza la stagione teatrale, la rassegna per le scuole "La scuola
va a teatro", la rassegna per le famiglie "A teatro con mamma e papà", la scuola di teatro, e organizza un importante
festival al femminile "Il colore rosa".
ESPERIENZE DI UNA GIOVANE ATTRICE E REGISTA TEATRALE.
DIFFICOLTÀ E SODDISFAZIONI NEL MIO LAVORO QUANDO HO DECISO DI FONDARE LA
MIA COMPAGNIA TEATRALE.
Io sono una regista, dirigo una compagnia teatrale, L’Effimero meraviglioso, dal
1991. Abbiamo prodotto moltissimi spettacoli al femminile non perché li scelga a tavolino
ma perché, essendo donna, sento nel profondo queste tematiche. Sono una direttrice
artistica di un teatro, forse tra le poche in Italia. Vi racconto un episodio curioso: qualche
anno fa la Commissione Pari Opportunità della Regione Lucania è venuta a Sinnai, dove si
trova il teatro, vicino a Cagliari, per conoscermi. Io mi sentivo un animale raro, molto a
disagio e molto ridicola.
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Erano accompagnate da alcune dirigenti della Regione Sardegna. Che cosa avevo
fatto per dirigere questo teatro? Quali opere ardue avevo superato? Non potevo credere
alle mie orecchie. Sarei curiosa di sapere quante siamo le direttrici artistiche di un teatro
pubblico in Italia. Non parlo di un teatro privato che è una cosa diversa. Il nostro teatro,
qualche anno fa, dalla Regione sarda ha ricevuto il titolo di “Best practice”. Ci siamo in realtà
ritagliati uno spazio molto importante. Siamo a 12 km da Cagliari, quindi molto vicini al
capoluogo e, nonostante questo, per la stagione teatrale, (il nostro teatro ha 380 posti),
abbiamo ogni anno circa 250 abbonati. Il pubblico lo abbiamo conquistato con una
strategia che credo sia del tutto femminile: l’accoglienza, il far sentire il pubblico a casa. Ad
esempio prima degli spettacoli parlo sempre con il pubblico, presento lo spettacolo della
sera e la compagnia, ricordo gli appuntamenti successivi, e regaliamo ogni volta 2 libri a due
spettatori presi a caso. Siamo molto legati al pubblico, lo coccoliamo. L’idea è quella di
contribuire a far crescere il territorio, culturalmente e socialmente.
Una stagione teatrale deve avere un intento anche educativo. Mettiamo dentro
degli spettacoli che siano vari: di prosa tradizionale, ma anche contemporaneo, di musica, di
danza, insomma una stagione teatrale ad ampio raggio. Il pubblico cresce di
consapevolezza e guarda tutto con estrema attenzione e anche con occhio molto, molto
critico. Sono convinta che noi donne abbiamo una capacità particolare nel fare cose, anche
a livello “dirigenziale”. Non è una questione di potere, ma di sacrificio e passione. Io per fare
tutto questo ho una vita privata molto, molto sacrificata. Non riesco quasi a fare altro.
In compenso il nostro teatro è vivo e lavora tutto l’anno. Abbiamo una scuola di
teatro, proponiamo una rassegna per le scuole, una rassegna per le famiglie, una stagione
teatrale dove io do molto spazio alle donne. Grazia Scuccimarra, che è qui davanti a me, è
molto presente nelle nostre stagioni e molto amata e attesa. Come do molto spazio a
un’altra attrice, che forse conoscete: Lucilla Giagnoni; straordinaria anche lei e molto amata
dal nostro pubblico. Le sue proposte sono molto diverse da quelle di Grazia: Grazia con
intelligenza fa ridere, Lucilla con intelligenza e sensibilità fa riflettere (anche con te Grazia si
riflette ma ci sganasciamo dalle risate!).
Dal 2006 organizziamo un festival al femminile, “Il Colore rosa”, dove è stata ospite
anche Bruna Braidotti, con lo spettacolo Luisa. Il festival ha l'intento di ampliare la
riflessione su quanto le donne siano creative: abbiamo uno spazio riservato alle donne
scrittrici, di cultura, amministratrici, ecc. e un altro spazio dedicato al “Teatro delle donne”.
Iniziamo prima con gli incontri, poi presentiamo gli spettacoli “delle donne” che vuol dire che
o sono stati scritti da drammaturghe o sono interpretati da un’attrice oppure c’è la regia di
una donna. In ogni caso c’è una creatività al femminile. Poi ci sono le degustazioni cucinate
da donne locali e da donne extracomunitarie, cibi diversi messi assieme. Mangiare è anche
un modo per stare assieme e riflettere su quello che si è visto. E’ molto importante la
comunicazione di quello che si vede e si vive. Dopo gli spettacoli presentiamo ancora delle
performances, insomma si inizia alle diciannove e trenta e si finisce oltre la mezzanotte. E’
un festival a cui tengo molto perché mi piace organizzarlo e mi diverto molto a viverlo.
Un’altra esperienza: noi siamo stati, per fortuna ma per altri versi sfortuna, vincitori
di un progetto europeo, La casa di Bernarda Alba, nel 2009. Io ho partecipato ma non
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speravo proprio di vincere e invece è risultato non solo vincitore ma anche pubblicato tra i
migliori progetti arrivati a Bruxelles.
Il progetto consisteva nel mettere in scena il testo di Garcia Lorca nelle varie
nazioni europee dei partner con le peculiarità culturali e sociali del posto dove veniva
realizzato. Noi abbiamo calato il testo di Garcia Lorca, che è secondo me universale, in
Sardegna, i rumeni in Romania, i polacchi in Polonia. Gli spagnoli hanno partecipato come
coordinamento della rete di comunicazione. Nel progetto si prevedevano i linguaggi
innovativi. Noi abbiamo creato un connubio tra cinema e teatro. I polacchi hanno utilizzato il
teatro danza e i rumeni un teatro più rigoroso legato alla tradizione del teatro dell’est.
E’ stata un'esperienza straordinaria. Abbiamo rappresentato gli spettacoli a Sinnai,
in Polonia, poi in Romania. Ogni volta abbiamo rappresentato le tre versioni.
Lo spettacolo, devo dire, ancora oggi è ritenuto uno spettacolo cult in Sardegna. Qual è il
problema? Che non riusciamo a circuitarlo. Intanto, perché noi della Sardegna siamo
penalizzati per i viaggi, nell’uscire che nell’ospitare, poi perché nei teatri della Penisola
obiettavano che non c'era nel cast un nome di richiamo. Aprirei tutto un dibattito su questo
tema perché veramente indigna. Se avessi messo Manuela Arcuri ne La casa di Bernarda
Alba, probabilmente, avremmo avuto tutte le piazze italiane con il pubblico a frotte!
E questo è un problema grande perché noi donne possiamo anche esprimere delle
eccellenze, però se non siamo famose a livello popolare, perché abbiamo fatto qualcosa in
televisione, troviamo grandissima difficoltà nella circuitazione.
Sono veramente felice di essere venuta a questo convegno, perché avevo
tantissimi problemi in questi giorni. Mi ripetevo: “Ci vado o no?”, poi ho detto a me stessa: ci
vado perché è un modo per incontrarsi e per condividere delle esperienze. Bruna, grazie
veramente per avermi invitato perché mi ha fatto risentire un po’dell'energia che avevo
perso negli ultimi anni. A volte mi sento molto isolata nel mio lavoro, e invece credo che se
ricominciamo, noi donne, a comunicare, intanto a conoscerci, a sapere quello che c’è nelle
altre parti d'Italia, poi riusciremo a fare rete. Lasciamoci dopo gli indirizzi, i nomi, le e-mail, i
telefoni. Insieme forse riusciremo a trovare nuove soluzioni per continuare il nostro lavoro
che spesso è una lotta, una lotta quotidiana.
E poi dobbiamo riuscire a creare una cultura alternativa perché ne siamo capaci. Lo
facciamo già nelle nostre piccole realtà, o grandi realtà. Dobbiamo far conoscere il nostro
lavoro anche alle grandi circuitazioni.
Perché i teatri stabili devono ospitare solo i teatri stabili, e i grandi teatri solo le produzioni
che fanno botteghino?
Vogliamo sovvertire questa logica? Se veramente siamo forti, se siamo assieme,
forse, ci riusciamo. Grazie, Bruna, e grazie a tutte voi. Spero di poter andare via da qua e
tornare in Sardegna con una forza e un’energia rinnovata. Veramente grazie.
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Luisa SELLO
Abbiamo il piacere di sentire delle comunicazioni da parte della Dottoressa Ornella Urpis,
sociologa e ricercatrice presso l'Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia e di Alda
Radetti, che ci presentano un progetto sull’arte.
Ornella URPIS
Buongiorno a tutti. Grazie per questo fuori programma. Siamo venute qua, Alda
Radetti ed io, per presentare un progetto che stiamo cercando di portare avanti a Trieste, e
cioè la Prima Biennale Europea di Arti Applicate Femminili.
Dovrebbe essere organizzata all’interno del Polo Museale di Trieste, con la
presenza di alcuni partner istituzionali e con la collaborazione di quattro Paesi europei.
Dovrebbe essere la prima mostra internazionale che riguarda non solo le arti
figurative, ma proprio le arti applicate delle donne, quindi all’interno della cantieristica, della
falegnameria, dell’uncinetto, tutti i lavori antichi delle donne.
E qui con me la coordinatrice del progetto, responsabile del progetto, Alda Radetti,
a cui lascerò la parola.
Alda RADETTI
Il mio intervento ha lo scopo di invitare tutte le artiste del Friuli Venezia Giulia e del
resto d'Italia alla Biennale Europea d'Arte femminile, che aprirà il 1° maggio 2015 ospite
dell'Istituto di Cultura Marittimo Portuale in Porto Vecchio a Trieste.
Il contesto del progetto è dare continuità alla Biennale Diffusa 2011 ed a
Espansioni 2012 inoltre sostenere la creatività e la progettualità femminile, e valorizzare
l'interscambio artistico e culturale con i Paesi europei partecipanti.
Gli obiettivi del progetto sono molteplici:
appropriarsi ed affollare uno spazio culturale europeo condiviso al
femminile,
promuovere una nazionalità europea partecipata,
pratiche di pace attraverso l'espressione artistica femminile,
cooperazione tra operatori pubblici, privati e istituzioni dei Paesi aderenti.
Nella realizzazione del progetto s'incontra l'opportunità di aprire il Porto Vecchio di Trieste a
tutta l'Europa e al resto del mondo.
La mostra si dividerà in più sezioni:
arti moderne (pittura, scultura, mosaico, fotografia,)
arti applicate (moda, arte su vetro, oreficeria)
arti applicate moderne (digital art, cortometraggi)
performances (musica, canto, danza, poesia)
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Sono previste anche le degustazioni e la vendita dei prodotti tipici dei Paesi
partecipanti.
I risultati attesi sono: valorizzare le capacità femminili in tutti i settori coinvolti con
forte ricaduta per rapporti culturali, economici e turistici e con il raggiungimento di una più
forte nazionalità europea partecipata.
Questa è una bozza del progetto, che va perfezionato in corso d'opera.
Le mie referenti sono Santa Zannier e Bruna Braidotti che mi hanno gentilmente invitata e
che desidero ringraziare.
Luisa SELLO
Bene, allora adesso proseguiamo, è il momento di Bruna Braidotti, anima di
questo convegno, e quindi è doveroso che io la presenti nel dovuto modo, perché sono
stata testimone degli ostacoli che ha incontrato in questo percorso e della tenacia con cui è
riuscita ad andare avanti ed arrivare fino a questa giornata. Quindi un vero applauso di
cuore.
Attrice, regista e drammaturga, è direttrice artistica della Compagnia di Arti e
Mestieri di Pordenone, compagnia con la quale la vedremo questa sera in scena allo
spettacolo delle 21. 30.
E’ anche autrice di diversi testi teatrali, vince vari premi e fa parte della
Commissione pari opportunità della Regione Friuli Venezia Giulia.
Ci auguriamo che questo convegno sia l’inizio di una rete di repliche, che prendono
spunto da questo esempio in tutta Italia, e che quindi mettono in rete proprio le sinergie
delle persone che sono state qui presenti.
Da parte mia posso già dire che due associazioni no profit, Associazione Amici
della Musica e Compagnia di Arti e Mestieri, potranno sicuramente collaborare nel
cartellone del prossimo anno.
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Bruna BRAIDOTTI
Attrice, regista e drammaturga, dirige la scuola popolare di teatro ed è direttrice artistica della Compagnia di Arti e
Mestieri di Pordenone. E’ autrice di diversi testi teatrali di carattere storico, ambientale e sulle donne che rappresenta in
tutta Italia. Come drammaturga vince vari premi nazionali ed internazionali. E’ anche attiva per la valorizzazione della
creatività artistica delle donne. Fa parte del Women Playwrights International come delegata italiana.
FESTIVAL LA SCENA DELLE DONNE E L’ESPERIENZA DEL COORDINAMENTO DONNE DEL
TEATRO
Il mio interesse a sostenere il teatro delle donne e l’impegno che in questi decenni
ho profuso per creare condizioni di emersione della creatività artistica femminile nasce dalla
mia esperienza di attrice al TAG Teatro, una compagnia di Mestre, negli anni ’80 e ’90.
Constatavo come molte donne aspirassero a diventare attrici e nello stesso tempo quanto
pochi fossero i ruoli in teatro per loro.
Contemporaneamente mi sono avvicinata ai saperi delle donne in filosofia e
psicoanalisi ed alla copiosa elaborazione intellettuale, semisconosciuta tutt’ora, delle
donne. Dal raffronto fra ciò che andavo maturando con queste letture e la realtà delle
donne in teatro è nato un percorso che mi ha portato a creare occasioni di incontro e
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discussione fra attrici ed autrici in Italia, per avviare un confronto fra il pensiero ed il teatro
delle donne.
Dopo diverse iniziative realizzate nei decenni ’90 e 2000, nel 2006 ho organizzato a
Pordenone la rassegna “La scena delle donne”, che nasce anche dall’incontro con Alina
Narciso, che ci racconterà la sua storia a Napoli dove organizzava un concorso di
drammaturgia, riservata alle donne, “La scrittura delle differenza”.
“La scena delle donne” quell’anno fu sostenuta dalla Regione Friuli Venezia Giulia
in modo abbastanza consistente, per cui c’è stato un buon avvio di una manifestazione che
è durata per tutti questi anni e continua ancora.
L’idea era quella di realizzare una rassegna dedicata alla creatività femminile,
proprio perché, come abbiamo visto oggi, le donne scrivono, fanno, compongono ma non
compaiono. Riservare una scena esclusivamente per le donne non sarebbe stata una sorta
di ghettizzazione ma l’occasione per creare la possibilità di far vedere e conoscere gli
spettacoli delle donne. Il Festival viene realizzato nel mese di marzo, che solitamente è
dedicato alle donne.
Quell’anno il 30 maggio 2006 è stato realizzato anche il convegno “La
rappresentazione delle donne a sostegno della rappresentanza”, sostenuto dalla
Commissione regionale pari opportunità di quell’epoca, dov’era Vicepresidente Santa
Zannier. Il fatto che oggi nuovamente la Commissione regionale pari opportunità abbia
sostenuto questo convegno è segno di una sensibilità di questa regione verso questi temi
che credo importante rilevare e sottolineare.
Fu un incontro fra teatranti e politiche, fra coloro che rappresentano il mondo per
raccontarlo e coloro che lo rappresentano per governarlo in quanto la rappresentazione sta
alla base della rappresentanza: se le donne si riconoscono in altre donne e vedono riflesse
se stesse in altre donne nel teatro, probabilmente questo favorirà anche da parte delle
donne la fiducia nelle donne che si propongono di rappresentarle a livello politico.
Fra le donne impegnate in politica era intervenuta all’epoca anche Annamaria
Poggioli che oggi è qui presente per la Commissione regionale pari opportunità.
Da quel convegno nacque un coordinamento di donne attrici, registe, operatrici di
teatro, che dal 2006 fino al 2010 ha percorso l’Italia, con incontri e convegni creando una
sinergia fra diverse manifestazioni di teatro e donne: La scrittura della differenza” a Napoli
diretta da Alina Narciso, “Scena sensibile” a Roma, con Serena Grandicelli, poi “Il teatro blu”
di Silvia Priori a Varese, il “teatro delle donne” a Calenzano diretto da Cristina Ghelli.
Abbiamo avuto un’attività veramente intensa. Dal 2006 ci siamo ritrovate quasi ogni sei
mesi in convegni a Firenze, a Napoli, a Roma, con l’obiettivo di creare qualcosa di concreto
per favorire la nostra arte, il nostro teatro.
Abbiamo elaborato diversi progetti e cercavamo anche il sostegno politico, perché
tutta la nostra progettualità era possibile solo se sostenuta finanziariamente. Facevamo
tutto questo a spese nostre, girando per l’Italia, per incontrarci, ma l’obiettivo era quello di
poter accedere al livello politico e cercammo allora un contatto anche con il Ministero della
Cultura, che poi non ebbe seguito perché nel frattempo cadde il governo e il panorama
politico era cambiato e in pratica bisognava ricominciare tutto da capo. L’ultimo intervento
si tenne al convegno su “Le buone pratiche del teatro” alla scuola Paolo Grassi di Milano, in
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cui avevamo redatto il patto teatrale di genere. Cioè un manifesto con dei propositi pratici
ben precisi, chiedendo a tutti gli interlocutori del teatro, Istituzioni ed artisti di sottoscrivere
l’impegno a far sì che metà delle programmazioni nei teatri fossero riservate alle
drammaturghe e alle registe; e che negli organismi di direzione dei teatri e delle
manifestazioni ci fosse la parità di genere. Una specie di manifesto politico per rivendicare
le pari opportunità nel teatro.
Volevamo a quell’epoca far sottoscrivere quel documento come impegno morale
affinché si traducesse poi in impegno reale.
In realtà. . . hanno firmato sì, ma in effetti. . . non è che alla firma sia seguito
l’impegno reale.
Questo è stato l’ultimo atto del coordinamento che ha operato dal 2006 al 2010.
In realtà è continuato ad esistere nei rapporti fra di noi, per cui ci siamo contattate,
abbiamo fatto iniziative, magari non tutte insieme, ma scambi o ospitalità di spettacoli, e
quindi siamo rimaste in collegamento. Poi ogni realtà ha fatto il suo percorso, stamattina
avete sentito per esempio quello della manifestazione “La Scena sensibile”, io ho
continuato a realizzare, “La scena delle donne”, qua a Pordenone, che nel 2013 ha raggiunto
già l’ottava edizione, con programmazioni differenti, spettacoli teatrali, ma anche cinema,
incontri, conferenze. La rete non si è persa anche se c’è stato un momento di arresto delle
attività comuni anche per la fatica che comportava incontrarsi e spostarsi.
Poi un altro fatto determinante, è stata la migrazione del concorso “La scrittura
delle differenze” di Alina Narciso da Napoli a Cuba, per cui veniva a mancare una partner ed
una manifestazione importante.
“La scena delle donne” ha continuato anno dopo anno ad essere organizzata con
difficoltà finanziarie, perché il primo anno è stata finanziata ma poi non più, anche se
abbiamo avuto quasi sempre un aiuto anche dall’ERT, ringrazio a tal proposito Renato
Manzoni a cui siamo ricorse diverse volte per poter ospitare qualche spettacolo che non
avevamo la forza economica di sostenere.
Insomma, in qualche modo, tirando la cinghia siamo riuscite ad andare avanti.
Certo che però non si può continuare contando solo sul volontariato e la
determinazione. Il senso di questo convegno è anche questo, far capire come tutte queste
energie che noi stiamo prodigando vadano sostenute.
Passerei la parola adesso ad Alina Narciso, con la quale ho condiviso questo
percorso che vi ho raccontato. La sua attività ci proietta ora sulla scena internazionale, dove
ci sposteremo con i prossimi interventi. Infatti interessante è anche creare reti
internazionali perché i collegamenti ormai sono a livello globale.
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Alina NARCISO
Drammaturga, regista e organizzatrice. Attualmente dirige la compagnia teatrale Métec Alégre di Napoli ed è fondatrice e
direttrice artistica de “La scrittura della differenza” è una Biennale Internazionale della Drammaturgia Femminile.
Nel 1997 a Barcellona dà il via alla manifestazione “La scrittura della differenza” – e nel 2000 vince il premio Girulà come
migliore drammaturgia. Nella stagione teatrale, nel 2003 organizza il Festival “Napoli - Buenos Aires andata e ritorno”, da
cui nasce lo spettacolo “Volver”, vincitore del premio Girulà Teatro a Napoli. Nel corso della sua carriera ha allestito in
Italia e all’estero più di 20 messe in scena
RETI DI DONNE DEL TEATRO IN ITALIA ED ALL’ESTERO
Io cercherò di parlare molto brevemente della mia iniziativa “La scrittura della
differenza”, perché voglio innanzitutto condividere con voi alcune riflessioni; credo, difatti,
che lo sforzo, grandissimo sforzo fatto da Bruna, sostenuta dalla Commissione regionale
pari opportunità tra uomo e donna del Friuli Venezia Giulia, di creare questa bella occasione
per farci incontrare - che, detto per inciso, non credo si ripeterà a breve, meriti che facciamo
anche noi uno sforzo per andare oltre la semplice “presentazione” delle nostre attività e per
cercare di parlare di futuro, di strategie future.
Bruna, prima, raccontava i nostri tentativi di creare una Rete di teatro delle
donne a livello nazionale e di come poi questo tentativo si sia arenato e di come questo
dimostri, io credo, che abbiamo bisogno di pensare insieme a delle strategie.
Cercherò quindi di raccontare il più brevemente possibile che cos’è “La scrittura
della differenza”, che è il tema previsto del mio intervento: una Biennale Internazionale
di Drammaturgia Femminile, che inizia con un Concorso internazionale indirizzato
prevalentemente a Paesi di area spagnola, con l’unica eccezione dell’Italia, che ne è però il
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paese organizzatore. I testi vincitori del concorso, uno per ogni Paese partecipante, vengono
poi messi in scena e rappresentati. La manifestazione è nata con l’intenzione di dare
visibilità al lavoro delle donne del teatro, non solo drammaturghe, ma anche registe.
Questa manifestazione ha avuto una vicenda molto particolare, molto curiosa.
Quattro anni fa – eravamo in procinto di organizzare la quinta edizione – quando non ho più
trovato fondi in Italia per realizzarla. Ho, quindi, scritto a tutti i paesi che avevano
partecipato alle varie edizioni per avvisarli che noi non eravamo più in grado di sostenere la
manifestazione. Cuba, che era uno dei paesi che storicamente aveva partecipato all’evento
e che inoltre conosceva molto bene il mio lavoro perché avevo già allestito uno spettacolo a
Santiago de Cuba, insomma incredibilmente Cuba… o per meglio dire il Governo Cubano mi
ha immediatamente risposto invitandomi ad andare lì per discutere del budget e
dell’organizzazione dell’evento, perché si offrivano di assumere la manifestazione e di
sostenerla interamente. Incredibile, no?! Credo che questo la dica tutta sulle condizioni in
cui versa nel nostro paese – del cosiddetto “primo mondo” – la produzione culturale.
Si, difatti c’è poco da aggiungere a questa storia.
Quindi negli ultimi quattro anni ho lavorato prevalentemente lì, a Cuba, la
manifestazione è cresciuta moltissimo, è diventata un festival di piccolo formato, dura 10
giorni, e all’ultima edizione hanno partecipato 9 paesi. . .
I paesi partecipanti sono stati tutti della zona del Latino America, tranne l’Italia, il
cui testo viene tradotto in spagnolo. La manifestazione si è dotata di una pagina web,
strumento importantissimo allo scopo di costruire una Rete internazionale. Stiamo
sperimentando una gestione collettiva della pagina web, ma ci sono molti problemi tecnici
come ad esempio il problema degli hacker che ci costringono a mettere molti filtri etc. La
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pagina è in spagnolo, perché gestire in doppia lingua una pagina web, diventa
estremamente complicato. Ad ogni modo quel che stiamo costruendo, facendo perno sul
lavoro delle coordinatrici nazionali e delle vincitrici delle varie edizioni, e che dà forza anche
al lavoro che facciamo in Italia, è la costruzione di una Rete internazionale di donne del
teatro.
Abbiamo creato anche una Casa Editrice online – www. metecalegre. com dedicata alla drammaturgia femminile con la quale abbiamo pubblicato i testi vincitori
delle ultime edizioni. Pensiamo anche di ampliare a proposte non strettamente collegate
alla manifestazione, ma stiamo andando avanti con i piedi di piombo perché è molto difficile
capire come possa funzionare, a livello economico, l’editoria online. Ma non voglio
dilungarmi ulteriormente, tutte le notizie sulla manifestazione le trovate sui siti – www.
laescrituradeladiferencia. org e www. alinanarciso. it - e voglio tornare al tema che mi
sta più a cuore e che sento come più urgente in questo momento.
Penso che la cosa importante sia cominciare a creare delle pratiche diverse già a
partire da noi e andare oltre il desiderio, pur importante, di far conoscere i nostri relativi
percorsi. Difatti quando Bruna mi ha invitato ho scelto di non scrivere il mio intervento, per
evitare di cadere nella trappola di restare “ingabbiata” in quel che avevo scritto e, come
spesso succede, finire per non “ascoltare” veramente le altre, non “farsi attraversare” o
“rispondere” alle sollecitazioni provenienti dal dibattito… e alla fine privarsi dell’opportunità
di avviare un momento di riflessione vero che mi sembra sia oggi la cosa più urgente da fare
soprattutto se si tiene conto che in questi anni la situazione è peggiorata, e di molto!
Per esempio e ritornando alla Rete di cui parlava Bruna, a suo tempo noi abbiamo
tentato, in maniera anche molto… come dire … sostenute dall’entusiasmo, di crearla. Ma
poi le cose sono andate via, via peggiorando: soprattutto è intervenuta la crisi che ha
ulteriormente ridotto gli spazi “praticabili”. Tutte, difatti, lamentiamo una difficoltà enorme a
mantenere in piedi le nostre attività “storiche” e mi sono convinta, sia per l’esperienza fatta
con la scrittura della differenza, sia per l’esperienza che abbiamo fatto assieme, sia per
quello che ho visto in Italia quando sono ritornata, che il sistema teatrale italiano è
particolarmente impermeabile e la crisi ha ulteriormente rafforzato la sua “tradizionale”
chiusura.
Dicevo che noi, se veramente vogliamo visibilità come donne-creatrici, dobbiamo
avere la capacità di fare fronte comune, che non significa solo richiedere una nostra
maggiore visibilità e presenza, perché questo se era certamente valido fino a quattro anni fa
quando effettivamente c’erano ancora degli spazi, oggi non basta più. Quel che dobbiamo
chiedere è, come dire, una “trasformazione radicale” del sistema teatrale italiano, perché
così com’è. . . Forse io ho il vantaggio di vederlo con un occhio un po’esterno, essendo stata
per tanto tempo fuori, ma quando sono rientrata in Italia sono rimasta semplicemente,
come dire, “shockata”.
Quando sono rientrata a Napoli, guardavo i manifesti teatrali della mia città,
perché volevo capire che cosa si stava facendo in quel momento, cos’era cambiato, quali
erano le nuove proposte … e la sensazione chiara e precisa che ho avuto è stata di aver
fatto un viaggio nel passato, di essere tornata agli anni ’80! Con una gran differenza, però! E
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cioè che negli anni ’80 eravamo più giovani, più forti, ma soprattutto convinte di andare
verso un futuro migliore!
Quel che respiro in Italia, oggi, è una grande rassegnazione e una grande
delusione. Inoltre alcuni meccanismi hanno ulteriormente aggravato la situazione:
prendiamo ad esempio la regionalizzazione dei fondi dello spettacolo che, salutata come
una grande svolta di democratizzazione, ha fatto sì che per esempio io, vivendo a Napoli,
vale a dire a un’ora di treno da Roma, non so più cosa succeda lì! Figuriamoci poi se parliamo
di Pordenone, impossibile saperne qualcosa! Quel che so è solo perché conosco Bruna.
Questa regionalizzazione ha completamente destrutturato, distrutto una
possibile circuitazione nazionale, perché ci rinchiude tutte in un recinto, quello della
Regione, dove poi prevalgono le spinte locali. In questo quadro il massimo a cui possiamo
aspirare è avere una visibilità regionale, il che, oltre ad impedirci di crescere, se ne avessimo
la possibilità, rappresenta la distruzione di un teatro nazionale, fatta la dovuta eccezione per
i grandi circuiti, che però, come si sa, non brillano certo per l’accoglienza delle proposte più
innovative!
Per fare un esempio in questo momento a Napoli i cartelloni sono pieni di
“tradizione napoletana”: dove c’è una tradizione teatrale forte, come quella napoletana, la
tradizione la fa da padrone! Questo non sarebbe un male se si trattasse di tradizione
“rivisitata” con occhio contemporaneo, il problema si pone quando questo avviene
cancellando assolutamente tutta la sperimentazione che si è fatta sulla stessa tradizione
negli anni ’80 e ’90.
E’ lo stesso problema di cui parlava Maria Assunta: la questione della circuitazione.
Lei raccontava questa vicenda molto interessante de “La casa di Bernarda Alda”, lo
spettacolo che non è riuscita a far girare. Ma diciamoci la verità, nessuna di noi riesce a far
girare i propri spettacoli.
Quindi nessuna di noi riesce a far circuitare i propri spettacoli, quelle più fortunate
riescono a farli circuitare nella propria Regione e a seconda delle modalità di produzione che
riusciamo a inventarci per renderli più “appetibili”; ma resta il fatto che questa difficoltà di
circuitazione ce l’abbiamo tutte, aggravata dalla prevalenza, nelle programmazioni degli
stabili, dei teatri pubblici e in generale dei teatri più grandi, del teatro commerciale.
Giustamente qualcuno diceva. . . la stessa Maria Assunta diceva: se non c’è il “nome” lo
spettacolo non va! Ma il “nome” non è quello della grande attrice di teatro che ha dato prova
del suo grande talento, no, il “nome” è quello televisivo! Che è tutt’altra cosa!
Insomma questo, a grandi linee, il panorama in cui operiamo e che tutte noi
conosciamo molto bene perché lo soffriamo quotidianamente sulla nostra pelle. Pur
tuttavia credo sia importante parlarne, tirarlo fuori, prima di tutto per non sentirci sole nella
difficoltà e poi perché da questa difficoltà, se siamo brave, ne possiamo uscire in avanti.
A questo proposito mi venivano in mente un paio di proposte, e ve le dico così come mi son
venute ….
Il minimo che possiamo fare è pensare di fare una sorta di mappatura e
pubblicarla, farla girare, di tutte le attività che noi rappresentiamo nelle varie realtà, e
questo, diciamo, sarebbe la cosa più semplice da fare. Mi è però venuta un’altra idea, forse
un poco folle, e ve la comunico così come si è affacciata nella mia mente, ancora tutta da
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definire…… poi magari avremo tempo di parlarne: perché non pensiamo, approfittando
anche del fatto bellissimo che qui ci sono anche le altre arti, ad un festival della creatività
femminile?
Per questo festival della creatività femminile. . . dovremmo evidentemente come
prima cosa pensare ad una sede. Potrebbe anche essere Pordenone, perché no?! Ma
soprattutto dovremmo trovare dei fondi e tutto quello che è necessario per organizzare un
festival … ma potremmo pensare di fare, per una volta, un’eccezione e fare uno sforzo,
contribuendo ognuna di noi, individualmente. Voglio dire che, considerato che stiamo
cercando di “rompere”, come dire, il cosiddetto “tetto di cristallo”, potremmo pensare di
partecipare, ognuna di noi, riducendo i costi al minimo, magari alla sola copertura delle
spese …. Insomma, unite da un obiettivo che ci accomuna, potremmo provare a fare dei
ragionamenti anche economici e vedere se mettendo insieme tutte le nostre risorse
artistiche e organizzative. . . insomma, voglio dire che se ci mettiamo tutte a lavorarci su,
credo che ce la possiamo fare! Siamo tutte donne che, se siamo arrivate fin qui, è
innanzitutto perché siamo delle gran lottatrici! Abbiamo grandi capacità organizzative,
sappiamo bene come fare promozione, sappiamo bene che se non ci inventiamo cose
nuove, se non forziamo. . . la nostra attività sarebbe già finita!
Abbiamo rapporti e collegamenti.
Se noi tutto questo lo facciamo diventare “massa critica” – come si diceva una
volta – e ci mettiamo a lavorare tutte assieme a un progetto, mantenendo ovviamente le
differenze, nel rispetto delle differenze del lavoro di ognuna, forse riusciamo a costruire
qualcosa che richiami veramente l’attenzione e ci permetta di “rompere”, almeno un poco,
quello che qualcuno. . . una ragazza prima definiva “un muro di gomma” sul quale tutte
abbiamo la sensazione di rimbalzare!
Evidentemente dovremmo avere la capacità di unire lo sforzo organizzativo allo
sforzo culturale e artistico. Avere la capacità di mettere in evidenza come il punto di vista
delle donne non è, in questa fase, un punto di vista parziale, di cui si può fare anche a meno,
ma che ha … che noi abbiamo la forza, la capacità e la voglia di esprimere il nostro punto di
vista sulla produzione culturale e creativa nel suo complesso. Io ho finito.
Bruna BRAIDOTTI
Grazie, perché hai già incominciato a lanciare quello che poi avevamo riservato
all’ultima parte della giornata, e cioè le proposte, ma è giusto anticipare, così nel frattempo
ci pensiamo, e poi magari articoliamo delle cose concrete, quindi grazie di questa proposta.
Allora, adesso passiamo ad un’altra organizzazione internazionale di donne di
teatro, che è il Magdalena Project, rappresentato qui da Annamaria Talone e Valentina
Tibaldi e Gabriella Sacco.
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Annamaria TALONE
Laureata all’Università Cà Foscari di Venezia si forma alla regia teatrale e collabora con registi e compagnie sia nazionali
che internazionali. Cura la regia di diversi spettacoli. Dal 2009 è direttrice artistica di ‘Magfest festival di donne nel teatro
contemporaneo’ in collaborazione con la rete internazionale del Magdalena Project. Come formatrice tiene lezioni presso
Università e centri culturali sul teatro al femminile.
MAGFEST LA RETE THE MAGDALENA PROJECT IN ITALIA
Buonasera a tutte e a tutti, ringrazio Bruna Braidotti per la possibilità che ha dato
al Magdalena Project, al nostro progetto italiano di avere una visibilità, e quindi di poter
parlare di questo progetto.
Noi innanzitutto siamo un collettivo, il Magdalena Italia, che è coordinato da me,
da Gabriella Sacco e da Valentina Tibaldi e da Francesca Romana Rietti, è un collettivo di
donne che si occupano di vari aspetti dello spettacolo dal vivo e che, per una strana ragione,
ad un certo punto della loro vita hanno deciso di occuparsi di questo progetto.
Spendo giusto due parole per dire che cos’è il Magdalena Project, per chi non ha
avuto modo di incontrarlo nella sua esperienza.
Allora, il Magdalena Project è una rete internazionale di donne nel teatro. Nasce
26 anni fa, infatti nel 2012 è stato l’anniversario di 25 anni, è stato festeggiato a Cardiff,
appunto, che è il luogo dove questo festival ha avuto inizio, questo progetto.
Perché nasce il Magdalena Project? Nasce proprio per molti motivi che sono stati
detti in maniera molto articolata questa mattina, cioè per la mancanza di cui si sono rese
conto le fondatrici negli anni ’80, della presenza di donne in ruoli decisionali, quali direttrici
artistiche di festival, registe, ma anche attrici che hanno la libertà di essere autrici di loro
stesse e critiche di teatro.
Quindi le fondatrici si sono rese conto che – perché si erano conosciute, tra l’altro,
in festival diretti da uomini e, tra l’altro, facevano quasi tutte parte di compagnie storiche,
quindi compagnie anche con registi molto importanti, si sono rese conto che c’era bisogno
di uno spazio per loro, uno spazio riservato nel quale ripensare questa dimensione di
genere.
Quindi l’intento era quello proprio di dare visibilità alle donne che lavoravano nel
teatro, ma anche migliorare quello che loro facevano, che loro fanno attraverso scambi di
pratiche teatrali e – come diceva giustamente questa mattina Annamaria Cecconi –
ripensare anche la riflessione sul teatro, la scrittura del teatro, la critica, cioè tutta quella
che è la teoria della pratica teatrale, ma anche teatrale intesa in senso molto performativo,
perché le fondatrici venivano tutte da esperienze proprio di teatro “sperimentale”, quindi
molto vicino proprio alla performance.
Com’è che si partecipa al Magdalena? Non esiste una scheda da mandare, non è
una rete istituzionale, e non è una rete che ha una struttura rigida, Magdalena è veramente
un’esperienza fluida, un’esperienza proprio di. . . secondo me io la direi proprio “economia
della conoscenza”, quindi è una rete che nasce dalla passione, dal desiderio di alcune donne,
professioniste, e poi si sviluppa in un modo molto fluido, oggi è presente in oltre 50 Paesi
nel mondo, quindi non è europeo come progetto, ma è un progetto mondiale, e in particolar
modo è molto presente in sud America, in Nuova Zelanda, ma anche in Giappone. Le
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esperienze europee del Magdalena sono, diciamo, le più antiche perché, appunto, le
fondatrici sono tutte europee.
Quindi com’è che si entra a far parte del Magdalena? In realtà si entra a far parte
del Magdalena se il Magdalena innanzitutto ti piace, ti tocca, perché credo che nell’arte sia
necessaria quell’aderenza oppure quel desiderio di differenza che ti fa aderire o meno ad un
progetto.
Noi abbiamo iniziato a conoscere il Magdalena, io e Gabriella Sacco, perché
eravamo a fare un’esperienza all’Odin Teatret, io facevo l’assistente alla regia e Gabriella era
attrice di uno spettacolo con la regia di Julia Varley, che è una delle attrici storiche dell’Odin
Teatret, e ci siamo trovate lì proprio in un festival del Magdalena, e devo dire proprio con
molta sincerità, che noi i primi giorni del festival eravamo molto critiche, diciamo “oddio,
tutte queste donne insieme. . . no, ma che vogliono fare, la riserva dei panda?”, perché non
capivamo proprio l’esigenza di avere un luogo dove tutte le donne che fanno teatro si
trovano in maniera in qualche modo dedicata.
Però, poi, partecipando a questo festival in realtà ci siamo così appassionate che,
addirittura, alla fine del festival abbiamo deciso di aprire un’esperienza italiana del
Magdalena.
Quindi, ecco, com’è che si entra a far parte del Magdalena? Innanzitutto per
conoscenza diretta di questo festival, per esperienza e per, comunque, una passione, cioè ci
deve essere una passione per questo progetto.
Abbiamo deciso, quindi, di sviluppare questo progetto in Italia – io sono a Pescara
e Gabriella allora era a Torino – e il Magdalena, però, in Italia ha avuto dei semini importanti.
Innanzitutto ci sono state delle attrici italiane, come Claudia Contin – che è qui –
che hanno partecipato ai festival del Magdalena che si sono svolti in altre parti del mondo.
Claudia Contin, ma anche Cora del Teatro Nucleo, la stessa Ermanna Montanari, Sista
Bramini del Teatro Natura, se qualcuno la conosce, una bellissima compagnia di Roma.
Quindi ci sono state delle partecipazioni di attrici e studiose, nel corso di questi 25
anni, italiane, che hanno partecipato a dei festival fuori.
E poi c’è stato un festival, nell’86, organizzato da Silvia Ricciardelli, del Teatro
Koreja, che tra l’altro aveva un tema molto bello, proprio bambini e teatro, adesso il titolo
preciso non me lo ricordo, comunque era il rapporto tra la maternità, i bambini e la
creatività.
Quindi noi nel 2009 abbiamo riiniziato quest’avventura, dopo tanti anni, cioè c’era
stato solo un festival in Italia, e abbiamo deciso, però, che questo festival dovesse avere una
continuità.
Infatti il nostro festival si chiama Magfest, ma il nostro progetto di chiama
Magdalena Italia, cioè noi abbiamo dato poi a questo progetto una continuità. Abbiamo
fatto quattro edizioni del festival, due a Pescara e due a Torino, molto diverse l’uno
dall’altro.
Come in tutti i progetti c’è una continuità con la tradizione, che è una continuità
più di pratica e di sensibilità, ma non di ideologia, ma c’è anche una discontinuità tra noi e le
fondatrici. Tra noi e loro ci sono almeno tre generazioni di differenza, e qual è la differenza?
Innanzitutto noi non veniamo da compagnie, ma siamo tutte freelance, cioè la nostra
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generazione è una generazione di donne sole, o uomini soli che. . . quindi non vengono
dall’esperienza del collettivo.
Quindi per noi il Magdalena è stata l’opportunità di avere anche una dimensione di
collettivo, ovviamente collettivo contemporaneo.
Un’altra cosa a cui noi ci tenevamo molto era quella di aprire, nei nostri festival, il
Magdalena alla presenza di attrici o registe o studiose italiane che non facevano già parte
della rete. Cioè noi abbiamo voluto creare un legame, un ponte con la realtà italiana, con
quello che è il nostro contesto, con quelle che sono le nostre difficoltà di giovani o meno
giovani, registe, intellettuali artiste.
Mentre in molti festival internazionali ci sono molte donne della rete
internazionale, ma magari ci sono meno presenze nazionali, nei nostri festival, e in
particolare in quelli di Pescara, abbiamo invitato ogni volta almeno un’attrice nazionale. Ad
esempio, Ermanna Montanari è stata presente in due festival.
Ma un’altra cosa che volevo sottolineare, prima di stringere, stringere, stringere, è
questa, che mi sembra importante, cioè qual è il legame con il contesto? Il nostro primo
festival è stato nel 2009, e per me non è un caso che in Italia abbiamo riiniziato a parlare del
progetto Magdalena in un momento in cui in Italia, ad esempio, sono nate anche altre
esperienze politiche delle donne, mi riferisco ad esempio al “Se non ora quando”, a un
problema proprio sul corpo femminile.
Io sono stata anche attivista in “Se non ora quando”, ovviamente sono due
percorsi molto diversi, però per me il fatto che il Magfest sia nato in questo periodo ha un
senso, cioè il fatto che io sono dovuta tornare in piazza, così come ha fatto mia madre
tantissimo tempo fa.
C’è un problema di genere, di stereotipo, che va anche fuori dall’ambito teatrale, e
in questo senso noi, anche soprattutto a Pescara, ci siamo occupate anche di progetti con
lo Sportello Antiviolenza, che in qualche modo declinassero fuori dal festival un’attenzione
al genere attraverso proprio i linguaggi del teatro e dell’arte.
Chiudo dicendo questo: che nel 2013 non abbiamo trovato i finanziamenti per fare
il festival, che spero rifaremo nel 2014, e quindi abbiamo girato l’Italia presentando il nostro
libro.
Di solito si fanno i libri alla fine di un’esperienza, invece noi l’abbiamo fatto
all’inizio, invitando le studiose in particolare che hanno partecipato finora ai festival, quindi
anche Laura Mariani, Valentina Valentini e soprattutto una giovane studiosa che è stata la
testimone di questo festival, che purtroppo è dovuta andare fuori Italia per lavorare, che si
chiama Giulia Palladini, a creare un altro luogo, che è quello del libro, dove parlare del
festival, ma anche parlare di altro, quindi del teatro al femminile in Italia, infatti ci sono
anche altre esperienze.
E quindi con questo passo la parola a Gabriella Sacco. Grazie.
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Gabriella SACCO
Attrice, drammaterapeuta e traduttrice. Come performer ha messo in scena numerosi spettacoli basati sulla mistica
indiana, e nel 2005 'Il Gusto delle Arance' con la regia di Julia Varley (Odin Teatret). Da allora collabora con la rete di
donne nel teatro contemporaneo The Magdalena Project, ed è promotrice del Magfest, polo italiano della rete.
SCAMBI E PROGRESSO CREATIVO NEL MAGFEST
Grazie. Partendo dal libro, ve ne leggerò un passo.
Questo è il libro, che Annamaria vi ha fatto vedere velocemente. Si intitola “Dal
Magdalena Project al Magfest: un percorso sul teatro al femminile in Italia”, un libro che
raccoglie vari saggi di studiose, attrici e registe sia presenti al festival, sia non partecipanti
al festival ma coinvolte in seguito in base ai contatti che sono sorti per la scrittura del libro,
che quindi diventava, come diceva Annamaria un altro luogo di riflessione.
Una delle collaboratrici di Annamaria nell’organizzazione di Pescara è stata una
scrittrice, Maristella Lippolis, che è anche Consigliera di Pari Opportunità, che in reazione
alla sua partecipazione al festival ha scritto questo testo, che si chiama “Con quella voce”, di
cui io vi leggo solo un ultimo passaggio.
“Subito dopo è iniziato un nuovo spettacolo e sulla scena c’era un’altra ragazza;
aveva un foulard bianco e scuoteva la terra con il ritmo dei piedi ma la sua non era una
marcia di guerra, batteva forte sulle assi di legno come se volesse risvegliarci tutti quanti
dal sonno, sollevando polvere e pensieri. Il foulard bianco era per ricordare le madri di Plaza
de Majo, ho letto nel dépliant; ma quel suo battere ritmico dei piedi era come una corrente
di forza, un cerchio di energia che mi trascinava in alto, e quel ritmo sembrava essere la mia
voce che diceva: io ci sono, io ci sono, io ci sono.
Così, mentre alla fine applaudivo, era come se battessi le mani per tutti quelli che
si erano risvegliati, per i ricordi assopiti, le madri che non dimenticano e i figli che vivono
nella memoria; e anche per me stessa che ero lì insieme a tanti, felice di esserci e nello
stesso tempo infelice per quelli che erano infelici. Però viva. Una cosa da togliere il respiro.
L’ultima sera mi sentivo ormai a mio agio. Dai commenti che coglievo prima
dell’inizio capivo che c’era molta attesa per l’attrice con un nome famoso, che tutti
conoscevano tranne me. E quando è apparsa sulla scena è stato emozionante come le altre
volte, ma in modo diverso, così come tutte diverse le une dalle altre erano le emozioni
provate nelle serate precedenti.
Sulla scena è comparsa dal buio una donna alta che mi è sembrata molto bella,
vestita di bianco, con i capelli lunghi sciolti sulle spalle e un portamento da regina. Teneva
tra le braccia un manichino con la testa di teschio e ballava ondeggiando piano, e intanto
parlava raccontando di un bambino annegato e di una ragazza scivolata nell’acqua mentre
raccoglieva fiori.
La sua voce alternava toni bassi e urla, come se dentro avesse gioia e dolore che
dovevano per forza venire fuori insieme. Perché nella vita la forza e la debolezza sono
mescolate e fanno parte di noi, così come il dolore e la gioia. Questo ero sicura di saperlo
già, ma capirlo lì, dentro quel vortice di emozioni, era come sentirlo nella profondità del
corpo, in un modo forse più doloroso ma così definitivo che alla fine mi sembrava di essere
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sempre io, la stessa di prima, però con un’anima nuova. E mentre me ne tornavo a casa
sentivo un piccolo dolore perché tutto era finito; ma mi sentivo anche molto felice.
Il giorno dopo ho telefonato alla mia amica – lei aveva invitato un’amica a
partecipare a questo festival, ma l’amica diceva ‘il teatro? Non è interessante per me’. Alla
fine del festival telefonai all’amica. – mi dispiaceva che ci fossimo lasciate così male e avrei
voluto dirglielo. Il tempo era buono e le ho proposto una passeggiata sul lungo mare. Ha
accettato e si sentiva che era contenta. Mi ha chiesto del teatro e io avrei voluto raccontare,
ma ho capito che non avevo le parole giuste e che quelle sensazioni le avevo vissute e me le
tenevo dentro, ma ci sarebbe voluto del tempo per farle maturare e tirarle fuori. Comunque
quando si vuole fare un dolce e si mettono in fila tutti gli ingredienti, poi si mescola tutto,
ma prima di metterlo a cuocere l’impasto deve lievitare. Così le ho detto solo che era stato
tutto bello, e che mi sentivo più leggera. Non so se ha capito, ma per non farla sentire
esclusa ho aggiunto: che peccato che non ci sei venuta anche tu”.
Io volevo dire ancora due cose in aggiunta a quello che ha raccontato Annamaria,
una riguarda la motivazione di questo nome, noi abbiamo chiamato il nostro festival
Magfest – anche se forse non è la parola giusta –, per il nostro rapporto e collegamento con
il Magdalena Project, che ha scelto di chiamarsi Magdalena per dei motivi che, se volete,
potete chiederci, o trovare consultando nelle pubblicazioni del Magdalena. Ma l’idea di
chiamarlo Magfest è nata dal fatto che noi, non provenendo dalla situazione culturale degli
anni ’80, in cui c’erano le grandi compagnie, ma provenendo dalla situazione che ha ben
descritto Annamaria prima, dove molti della nostra generazione sono freelancer o “cani
sciolti”, noi abbiamo voluto riferirci all’esperienza dei festival più comuni nell’ ambito della
musica dei giovani, della di musica rock, della musica pop-rock o musica pop rock punk, che
si chiamano in genere “Fest”. Poi abbiamo scoperto che questo “fest” è una parola che
proviene dall’antico inglese e che si contrapponeva a “Fast”, “to fast” in inglese vuol dire
“digiunare”. Si digiunava in momenti dettati dalla chiesa, e alla fine del “fast” c’era il “fest”,
cioè la celebrazione.
Allora quest’assenza della presenza femminile, o del contesto femminile, che è
quello che succede generalmente nella cultura, noi abbiamo cercato di romperlo con un
“fest” che si chiamasse Magfest.
Un altro punto caratterizzante, che per me è stato molto importante nella pratica
del festival – stamattina abbiamo molto parlato di organizzazione, che cos’è il ruolo della
donna nell’organizzazione – per me è stata una scoperta personale scoprire che il ruolo
organizzativo poteva concedermi degli spazi creativi e che, anzi, il ruolo organizzativo aveva
la sua forza nel momento in cui io, come performer, lei come regista e Valentina come
donna di teatro potevamo partecipare al piano organizzativo in maniera creativa.
Cioè non pensarlo come “ah, poi c’è l’organizzazione, che si occuperà di farmi
venire come artista”, ma pensare tutto il percorso del festival come un’opera d’arte, come
forse si può pensare tutto il percorso di un convegno o di una giornata di studi insieme.
Quindi l’aspetto creativo fondamentale.
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L’ultima cosa di cui volevo parlare, rispetto al Magfest e al Magdalena, è quella di
un’esperienza molto centrale della rete del Magdalena, cioè quella delle relazioni tra
generazioni.
Annamaria ha parlato delle fondatrici, come donne che appartengono a tre
generazioni fa prima della nostra, questo, delle relazioni tra. . . è brutto chiamarle quelle più
vecchie, le mamme, le nonne, … non si sa mai come chiamarle. . . “Le precedenti” e le
successive è sempre stata una pratica centrale nel Magdalena.
Nel momento in cui ho cominciato a collaborare con il Magdalena, per lo
spettacolo “Il gusto della arance”, diretto da Julia Varley, che citava prima Annamaria, mi è
stato anche proposto di partecipare a un percorso di processo creativo, chiamato “Women
with big eyes”, che era proprio un progetto in cui si mettevano insieme in una stanza per
una settimana, alcune tra le fondatrici, quindi donne di teatro precedenti, con delle donne di
teatro successive, da loro scelte, per una creazione, che non partiva dal nulla, da nessuna
decisione precedente, al di fuori di quella sala, se non dalla scelta di un titolo, che al tempo
era stato scelto da Julia Varley, e cioè “Women with big eyes”.
Questo progetto è andato avanti per tre festival, di cui due in Danimarca e uno a
Cuba, a Santa Clara, e per me rappresenta uno degli aspetti centrali del Magdalena, cioè
queste donne di teatro che sentono la necessità di una pedagogia pratica, che si fondi sulla
pratica del teatro, ma che includa anche una riflessione di genere e una riflessione sulle
proprie scelte di vita, perché spesso nella vita dell’artista le scelte professionali e le scelte di
vita vanno di pari passo, cosa ancora più vera per le donne.
Lancio un’ultima provocazione, lasciando la parola a Valentina, che ci parla della
scelta, difficile ma stimolante, di una posizione centrale o periferica.
Come donne, come teatranti, per la storia abbiamo una posizione periferica,
questa può essere subita o può essere una scelta, la scelta non vuol dire non avere le risorse
per andare avanti, ma la scelta vuol dire forse anche cercare di mantenere il privilegio di uno
sguardo periferico che dà tanta più libertà di uno sguardo centrale.
E’ un discorso che se facciamo mi fa molto piacere.
Vi ringrazio.
Valentina TIBALDI
Project Manager per gli OTA – Odin Teatret Archives, ha iniziato a lavorare con Annamaria Talone e Gabriella Sacco
nell’Hagfest nel 2010. Organizzatrice teatrale, esperta in comunicazione e web, assistente alla regia, dal 2010 “Web
Princesse” per il sito “The Magdalena Project”.
CONNESSIONE TRA LA RETE INTERNAZIONALE THE MAGDALENA PROJECT E LA RETE
NAZIONALE MAGFEST
Analizziamo due argomenti: internet e gli uomini in un contesto femminile come
quello del Magfest e del Magdalena Project.
Internet. Due anni dopo il 1986, Cardiff, l’ufficio del Magdalena. Una tavola, neanche un
computer, credo, un telefono, forse ancora quelli con i numeri che girano.
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Bene. Il fax, probabilmente, tante lettere, scritte a mano. Cardiff chiude i contributi
economici al Magdalena Project. Jill Greenhalgh, fondatrice della rete Magdalena Project
racconta e dice: vado a letto pestando un fungo, il mattino dopo mi sveglio e questi funghi
sono diventati centomila.
“Che cosa succede in questa notte?”. Succede che nasce internet, e siamo alla fine
degli anni ’80, internet inizia a diventare (all’inizio con quei computeroni giganti che ci si
metteva tre ore a comunicare) la risposta concreta, positiva a un momento di crisi, al primo
vero momento di crisi del Magdalena Project. Cioè l’ufficio si perde, il Magdalena perde la
sua centralità a Cardiff, ma grazie a questa perdita nascono 800. 000 piccoli uffici che
diventano centrali in ogni città.
Ci si smette di scrivere a penna su carta, dietro le cartoline, eccetera, e si iniziano a mandare
e-mail.
Che cosa succede, però? Perdiamo. . . perdono – perché ancora io facevo l’asilo –
l’ufficio centrale a Cardiff, ma otteniamo un ufficio, che è quello di tutto il mondo, cioè
otteniamo un dominio internet, che si chiama themagdalenaproject. org.
Questo diventa, ed è tuttora, il nostro ufficio, è il posto in cui ci scambiamo
comunicazioni, è il posto in cui scriviamo, in cui si mettono in comunicazione diverse attività
che capitano in tutto il mondo, veramente in tutto il mondo, come diceva prima Annamaria,
e non solo, e lì iniziamo a costruire il nostro archivio, che mi è piaciuto molto, perché lavoro
come archivista sei mesi l’anno della mia vita. Alle donne questo è mancato, è mancato un
pezzo di carta, ecco perché il nostro libro, benché la nostra esperienza sia limitata, per dire:
noi siamo esistite, noi abbiamo firmato questo quadro, anche se in un angoletto
microscopico.
Quindi il sito del Magdalena Project, che trovate online, è questo, il nostro archivio
vivente, e il nostro ufficio vivente.
Gli uomini: noi siamo la terza generazione, siamo le successive e successive bis, e
ci siamo dette: ma per noi la rivoluzione sessuale, in un certo senso, è finita, perché ci sono
state le antecedenti che l’hanno fatta e l’hanno combattuta per noi. Per me non è un
problema, o non sarebbe un problema, in teoria, vivere in certi ruoli con il mio compagno o la
mia compagna, spesso non si parla neanche più di “lui”, “lei”, ma si parla di “lei-lei”, “lui-lui”,
“lei-lei-lui-lui. . . ”, per cui ci siamo chieste: perché chiudere quest’esperienza agli uomini?
Perché togliere quest’opportunità di vedere il mondo al contrario?
Ora, in sala ci sono tre uomini, questa è l’esperienza che noi viviamo in politica,
viviamo negli ospedali, dove per esempio c’è una donna che fa il primario, che neanche ce la
fa e magari decide di non avere figli per fare il suo lavoro, quindi noi abbiamo detto:
perfetto, invitiamo gli uomini, invitiamoli a partecipare sia come teatranti, sia come esperti e
come spettatori, e aiutiamoli a fare la rivoluzione copernicana dei generi sessuali, perché
educando lo spettatore, anche uomo, non solo donna, in sala, veramente si crea una società
in cui non è più il caso di parlare, o non sarebbe più il caso di parlare dei generi sessuali o
generi psicosessuali o quanti ce ne sono adesso.
Per cui questa è, come Magfest e non come Magdalena Project, ma come
Magdalena Italia, una delle cose che vogliamo proseguire, favorire questo scambio, perché
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le donne hanno tantissime cose da dire, ed è interessante il modo in cui diciamo queste le
dicono se, ed è importante che ci siano orecchie maschili in sala ad ascoltare.
Valentina RAPETTI
Dottoranda presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università degli Studi Roma Tre. Si
occupa della scoperta, della traduzione e della diffusione teatrale e editoriale di testi di drammaturgia contemporanea
anglofona. Tra gli autori tradotti: Marina Carr (Gremese, 2010; Editoria & Spettacolo, 2011), Morris Panych (Gremese,
2010), Anne Enright, Netta Syrett. Lavora come interprete per la Fondazione Romaeuropa nell’ambito del progetto
Appena Fatto! Le sue sessioni di interpretariato con Bill T. Jones, William Kentridge, Thomas Ostermeier e altri sono state
trasmesse su Rai Radio Tre in programmi dedicati al teatro. Ha tradotto serie televisive, cortometraggi e documentari
destinati al doppiaggio. Nel 2013 ha vinto il Premio DARTS per una nuova drammaturgia – sezione traduttori, con la
traduzione di East of Berlin (A est di Berlino) di Hannah Moscovitch.
WOMEN PLAYWRIGHTS INTERNATIONAL E DONNE FUORI SCENA: IL TEATRO
DECLINATO AL FEMMINILE
Nella Grecia del V secolo a. C. , culla spazio-temporale delle pratiche e dei generi
propri della tradizione teatrale occidentale, l’autorialità era una prerogativa esclusivamente
maschile, direttamente proporzionale all’autorità patriarcale operante sul piano economico,
politico e sociale. Da allora, il canone della “nostra” letteratura drammatica è stato
dominato da modelli prevalentemente androcentrici. Da Euripide, Eschilo e Sofocle fino a
Mamet, passando per Shakespeare, Racine, Goldoni, Ibsen, Cechov e Brecht, il genio e la
creatività sono stati diffusamente associati, in modo spontaneo e automatico, al genere
maschile; ciò vale tanto per la scrittura drammaturgica quanto per altre forme espressive
che hanno plasmato la storia del teatro nel corso del XX secolo: la regia, la recitazione, la
performance.
L’esclusione e la marginalizzazione delle donne nell’ambito delle arti sceniche
derivano in parte dagli stessi fattori culturali che per secoli hanno determinato la
sostanziale estromissione del genere femminile dai processi decisionali e dai centri di
potere di altre sfere fondamentali dell’agire umano e sociale, come la religione, la politica e
l’economia. Tuttavia, è importante rilevare che il teatro, a differenza della prosa, della poesia,
della pittura o della musica, forme artistiche ontologicamente più intime, meditative e
solitarie, implica momenti di collaborazione collettiva e di esposizione pubblica che per
lungo tempo hanno rappresentato impedimenti oggettivi pressoché insormontabili per
molte donne che desideravano cimentarsi con la scrittura drammaturgica o con la pratica
scenica. Questa lunga e consolidata tradizione fondata su paradigmi esclusivamente
maschili ha determinato una sostanziale impermeabilità dei circuiti teatrali ufficiali, rimasti
ostili, refrattari e spesso inaccessibili alle donne anche dopo la rivoluzione sessuale e la
seconda ondata di femminismo degli anni Settanta. Ancora oggi, le artiste che scrivono e
dirigono per il teatro vivono una condizione di subordinazione e di ridotta visibilità rispetto
ai colleghi uomini, i quali continuano a essere più o meno consapevolmente percepiti come
legittimi eredi dei propri illustri predecessori, e in quanto tali maggiormente legittimati a
rivestire ruoli e posizioni predominanti, se non addirittura egemonici, all’interno dei sistemi
teatrali.
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A partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, questa rigidità endemica ha
determinato un bisogno diffuso tra le donne di teatro di organizzarsi in gruppi informali
dove poter ipotizzare soluzioni per contrastare una condizione di marginalità e
subordinazione basata su antichi retaggi e pregiudizi e dove poter dare spazio e visibilità a
pensieri creativi e pratiche artistiche.
Nel 1983, mentre in un bar di Trevignano germinava l’idea del Magdalena Project,
l’attrice e drammaturga statunitense Kathleen Betsko Yale lesse sul New York Times una
recensione dello spettacolo Top Girls firmata dallo scrittore e critico teatrale Walter Kerr, il
quale metteva in dubbio le credenziali femministe dell’autrice, l’inglese Caryl Churchill,
etichettando il suo dramma come spietato e irriguardoso nei confronti delle donne. Poco
dopo, il cinico Glengarry Glan Ross di David Mamet si aggiudicò il Premio Pulitzer. La
sproporzione tra i metri di giudizio applicati alle due opere suscitò l’indignazione di Betsko
Yale la quale, assieme ad altre colleghe, tra cui la drammaturga e docente universitaria Anna
Kay France, decise di iniziare a diffondere testi teatrali scritti da donne in un ambito più
vasto; nacque così l’idea di istituire Women Playwrights International, un luogo virtuale in
cui le drammaturghe potessero incontrarsi, sostenersi, incoraggiarsi vicendevolmente e
promuovere il proprio lavoro. La prima conferenza si tenne nel 1988 a Buffalo, e da allora,
una volta ogni tre anni, le associate si sono riunite in un punto diverso del pianeta: Toronto,
Adelaide, Galway, Atene, Manila, Giacarta, Mumbai e, nell’agosto del 2012, a Stoccolma, in
Svezia.
Women Playwrights International è un’organizzazione internazionale che, come
sottolineato dalla vice-presidente Marcia Jhonson, senza una sede fissa, un ufficio, un conto
corrente e grazie soltanto al volontariato, dal 1983 si occupa di monitorare, incentivare e
diffondere la drammaturgia scritta da donne, promuovendo occasioni di contatto, incontro
e contaminazione tra drammaturghe e operatrici teatrali di tutto il mondo attraverso una
fitta serie di incontri, dibattiti, letture di testi, lezioni, laboratori e spettacoli.
Il luogo che ha ospitato l’ultima conferenza, svoltasi a Stoccolma dal 15 al 20
agosto del 2012, è stato il Södra Teatern, un elegante edificio di sette piani sulla collina di
Södermalm dotato di un lussuoso teatro con palco all’italiana di circa quattrocento posti,
un’ampia sala con platea a gradoni e palco rialzato, uno spazio polifunzionale allestito con
praticabili, fondale e quinte nere e infine un bar dalla cui terrazza si gode la vista più
onnicomprensiva di Stoccolma, che abbraccia l’intera città partendo dal vecchio borgo di
Gamla Stan fino alla distesa sconfinata di Djurgården. La struttura è gestita dal Riksteatern,
ovvero il National Touring Theatre di Svezia, ospite della conferenza insieme al Al Madina
Theatre (Libano) e all’ Al-Harah Theatre (Palestina). Il programma era talmente fitto e
variegato da imporre alle duecentosessanta partecipanti scelte e rinunce. Seminari,
conferenze e laboratori si svolgevano di mattina, spettacoli e performance di sera. I
pomeriggi erano interamente dedicati alle letture degli ottantotto testi scelti dal comitato
di lettura dell’organizzazione, che ha lavorato nei due anni precedenti per selezionare le
migliori proposte drammaturgiche giunte da tutto il mondo. Il tema del 2012, da cui la
conferenza ha preso il titolo, è stato The Democratic Stage. A ogni testo era concessa
mezz’ora, durante la quale una moderatrice introduceva brevemente la drammaturga per
poi passare il testimone agli attori, che leggevano un estratto dall’opera di circa un quarto
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d’ora. Seguiva uno spazio di cinque minuti in cui il pubblico poteva porre delle domande
all’autrice, ricevere risposte e fare osservazioni, per poi scorrere in tutta fretta il programma
e decidere in quale sala spostarsi, quale lettura prediligere, in quale paese e universo
dell’immaginazione perdersi per i successivi trenta minuti.
Al convegno erano presenti delegate da cinque continenti e cinquanta Paesi
diversi; il Medio Oriente era ben rappresentato con partecipanti provenienti da Egitto,
Turchia, Afghanistan, Libano, Palestina, Kurdistan e Giordania. Oltre a loro, drammaturghe e
operatrici teatrali provenienti da ogni angolo del pianeta: India, Africa, Europa, Australia,
Indonesia, Nuova Zelanda, Giappone, Stati Uniti, Cina, Cuba, Argentina, Russia, Canada. Tra
le europee, spiccava la totale assenza delle francesi, delle tedesche e delle greche, nonché la
sparuta presenza delle italiane.
Vale la pena notare che drammaturghe italiane esperte e talentuose come
Patrizia Monaco e Ana Candida de Carvalho Carneiro, entrambe presenti al convegno, sono
scarsamente note al pubblico italiano. Ad esempio, viene da chiedersi come mai Babele di
de Carvalho Carneiro, un dramma ben scritto e ritenuto valido e convincente a livello
internazionale, non sia ancora stato prodotto in Italia, nonostante si sia aggiudicato la
vittoria del premio Hystrio «Scritture di Scena». Qualche ipotesi l’ha formulata Bruna
Braidotti, che da quasi trent’anni si prodiga per attivare una rete di teatri, compagnie,
artiste, che pongono al centro della propria attività creativa la donna, il femminile e
soprattutto la loro rappresentazione: sforzo non solo utile, ma necessario, considerata la
scarsa visibilità delle donne nel panorama artistico nazionale e la loro ridotta o inadeguata
rappresentanza sul versante politico.
Basta infatti scorrere uno dei tanti cartelloni dei Teatri Stabili (e non solo) italiani
per rendersi conto che i nomi femminili in corrispondenza delle diciture «scritto da» e
«diretto da» appaiono solo occasionalmente. Ma la questione è anche e forse soprattutto
politica. Come sottolineato da Bruna Braidotti, in Italia ad avere scarsa visibilità e influenza
non sono infatti soltanto le donne che rappresentano il mondo per raccontarlo e
interpretarlo (le artiste), ma anche coloro che lo rappresentano per governarlo (politiche,
dirigenti). Basta dare una seconda rapida scorsa ai cartelloni di cui sopra per rendersi conto
che gli spazi teatrali gestiti, diretti e amministrati da donne nel nostro Paese sono delle vere
e proprie rarità; ma se il teatro è specchio dell’umano e della società, che conclusione se ne
trae? Una società, un mondo, un’umanità filtrati prevalentemente da occhi maschili non
rischiano forse di apparirci distorti, sfocati o quantomeno parziali? Una delle lacune che
stanno alla base del non riconoscimento delle donne è anche la mancanza di Maestre a cui
far risalire la propria tradizione culturale, elemento dell’appartenenza sociale e fonte di
identità. A quale artista, infatti, è stato universalmente e unanimemente attribuito il titolo di
Maestra in Italia? Chi viene riconosciuta e salutata con questo appellativo, proponendosi
come variante femminile dei numerosi e noti Maestri maschi? Quante sono, in Italia, le
donne che scrivono per il teatro? Pare sia piuttosto difficile scoprirlo, dato che un
funzionario della SIAE, su richiesta di Braidotti, si rifiutò di fornire i dati quantitativi ufficiali
degli iscritti e delle iscritte alla sezione DOR adducendo la necessità di tutelarne la privacy.
Di tutto questo si è discusso a Stoccolma, dove nell’ambito di un incontro sul
tema dell’uguaglianza di genere, la delegata inglese Sam Hall ha spiegato come la partita
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delle pari opportunità sia ancora tutta da giocare anche nel democraticissimo e politically
correct Regno Unito. Sam Hall si è laureata in drammaturgia e all’università il 90% dei suoi
compagni del corso di studi erano donne. Una volta entrata nel mondo del lavoro, si è resa
conto che la proporzione era esattamente invertita e ha iniziato a chiedersi il perché. La
risposta è molto complessa e va ricercata in ambiti diversi, ma riassumendo si può dire che
gli uomini sono universalmente accettati in quanto creatori d’arte da molto più tempo,
hanno una lunghissima tradizione a cui fare riferimento, quindi ogni donna che raggiunge
un certo successo in ambito artistico viene percepita come una donna in un mondo di
uomini. Solo il 17% delle novità teatrali che ogni anno vengono rappresentate sui
palcoscenici britannici sono scritte da donne, tuttavia il 52% delle popolazione e il 65% del
pubblico teatrale è composto da donne, un’incongruenza che fa riflettere. È stato così che
nel 2009 Sam Hall ha deciso di dare vita a17% campaign, un’organizzazione volta a
promuovere il lavoro delle drammaturghe che operano sul territorio britannico.
Le cose non vanno meglio in Svezia, nazione notoriamente progressista e
all’avanguardia in tema di pari opportunità; qui, una proposta di legge che obbligava i teatri
a produrre almeno il 10% di novità scritte da donne è stata bocciata, invocando una tesi che
si regge su un’argomentazione piuttosto discutibile: per assicurare l’eccellenza della
programmazione artistica bisogna appellarsi a criteri che abbiano a che vedere solo ed
esclusivamente con l’arte, non si può tenere in considerazione la razza, l’orientamento
sessuale e tanto meno il genere dell’artista. L’arte è quindi totalmente distinta dalla
politica? Ne è estranea? O non è forse un modo e un luogo privilegiato dove riflettere le
diversità, dove potersi specchiare e riconoscere, dove tenere conto dell’altro e poter
abbracciare prospettive inedite? Cosa significa, e che ripercussioni ha a livello sociale,
politico e artistico, escludere lo sguardo femminile dal teatro? E le scelte vengono davvero
sempre operate in virtù di criteri qualitativi? La Dottoressa Yael Feiler ha cercato la risposta
a queste domande nell’ambito del progetto di ricerca “Choosing and Excluding” (Scegliere
ed escludere), dal quale è emerso che in Svezia le reticenze e le difficoltà nell’applicare le
leggi sulle pari opportunità in ambito teatrale sono legate al fatto che i politici sono restii a
immischiarsi in decisioni di natura artistica; temono quella che percepiscono come una
pericolosa invasione di campo in un ambito che, affermano, non è di loro competenza, e
stentano a includere nella nozione di «qualità» il concetto di «uguaglianza».
Ma al di là di ogni differenza culturale, cosa accomuna le associate di Women
Playwrights International sul piano umano, artistico e professionale? Senza dubbio i desideri
e le aspirazioni, che non sono poi così dissimili da quelli dei colleghi maschi. In tutto il
mondo, le drammaturghe vogliono avere tempo per scrivere, vogliono che i loro testi
vengano rappresentati, visti e apprezzati dal pubblico. Vogliono essere retribuite per il
proprio lavoro e che questo venga recepito, accolto e rispettato. La maggior parte delle
autrici presenti alla conferenza è animata da sentimenti politici e desidera scrivere testi che
travalichino i confini dell’intrattenimento e che lascino un segno, per quanto marginale, nel
mondo. Un segno che racconti di una diversità, di uno scarto dalla norma, di una specificità,
perché tante sono le sfumature che colorano una cultura, una tradizione, un momento
storico.
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Nel 2012 a Stoccolma c’erano soltanto sei delegate italiane, di cui quattro
drammaturghe, ma in Italia ci sono moltissime donne che scrivono per il teatro e che
operano nel campo della drammaturgia. Spesso queste artiste, oltre a scrivere i propri testi,
li recitano e ne curano la regia, gestiscono spazi teatrali e sono impegnate come operatrici
culturali nel territorio in cui risiedono e creano.
In qualità di referenti italiane di Women Playwrights International, io e Bruna
Braidotti ci auguriamo che il numero delle delegate italiane aumenti considerevolmente alla
prossima conferenza, che si terrà a Città del Capo, in Sudafrica, a luglio 2015. Per avere
informazioni su come poter partecipare vi invitiamo a contattarci personalmente, a scrivere
all’indirizzo wpic2015@gmail. com o a navigare sul sito www. wpinternational. net,
ricordandovi che la scadenza per presentare le proposte è fissata al primo dicembre 2013.
In attesa di incontrarvi a Città del Capo 2015, colgo l’occasione per invitarvi il 27 e
il 28 marzo 2014 a Roma per celebrare la 53ma Giornata mondiale del Teatro indetta
dall’UNESCO; le drammaturghe Marina Carr (Irlanda),Erin Shields(Canada), Carolyn Gage e
Raquel Almazan(Stati Uniti), Van Badham(Australia), Lucilla Lupaioli, Tamara Bartolini, Betta
Cianchini e Fausta Squatriti (Italia), si confronteranno nell’ambito del convegno “Performing
Gender and Violence in Contemporary National and Transnational Contexts”, organizzato in
collaborazione con il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università
degli Studi Roma Tre nell’ambito del progetto “Donne Fuori Scena”, ideato da me e Silvia
Scotto D’Antuono per contrastare il fenomeno della violenza di genere attraverso la
drammaturgia femminile e il teatro.
Nel maggio del 2013, “Donne Fuori Scena” ha vinto il contest nazionale
#NoViolenza #Donne – Idee per fermare la violenza, indetto da AIED (Associazione Italiana
per l’Educazione Demografica) e Cocoon Projects. Il progetto prevede una serie di azioni
rivolte a varie fasce della popolazione: laboratori di traduzione di drammaturgia
contemporanea, laboratori e spettacoli teatrali nelle scuole e il convegno di marzo 2014,
nell’ambito del quale verranno proposte anche delle letture sceniche dei testi stranieri
tradotti. Il primo laboratorio di traduzione si è svolto nell’estate del 2013 e ha visto coinvolti
sette traduttrici e un traduttore, tutti giovani e più o meno alle prime armi, che si sono
cimentati nella traduzione in lingua italiana di tre testi di drammaturgia contemporanea
provenienti dal Canada anglofono: ThinIcedi Beverley Cooper e Canuta Rubess, Those Wh
oCan’t Do… di Erin Fleck e The Shape of a Girl di Joan MacLeod. I temi affrontati nei tre
drammi sono, rispettivamente, quello della coercizione sessuale, dell’educazione sessuale e
del bullismo femminile. Il laboratorio successivo, che inizierà a dicembre 2013 per
concludersi nel febbraio dell’anno successivo, rappresenterà un momento di preparazione
all’evento di marzo: i testi tradotti saranno infatti quelli di alcune tra le drammaturghe ospiti
alla conferenza: Patricide e The Rules of the Playground della statunitense Carolyn Gage,
Kitchen e The Bull, the Moon and the Coronet of Stars dell’australiana Van Badham, If We
Were Birds della canadese Erin Shields e Hopefulness della statunitense di origini spagnole e
costaricane Raquel Almazan.
Ci auguriamo che iniziative di questo tipo possano ingenerare un ciclo virtuoso
che da una parte incentivi la diffusione della drammaturgia contemporanea scritta da
donne sul territorio italiano e dall’altra sensibilizzi giovani studenti in formazione alle
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tematiche di genere e al rispetto delle diversità, per creare i presupposti affinché la
prospettiva femminile sia maggiormente visibile, accolta e tenuta in considerazione tanto
nel teatro quanto nella società.
Bruna BRAIDOTTI
Cerchiamo di essere in tante a Città del Capo. Noi siamo referenti per il WPI e vi
manderemo le informazioni. Adesso la parola a Silvia Scotto d’Antuono.
Silvia SCOTTO D’ANTUONO
Diplomata in recitazione, specializzata nell’insegnamento per la voce, l’articolazione e la dizione per attori. Formatrice
teatrale con bambini e ragazzi. Partecipa a produzioni e festival come il Magna Grecia Festival nel 2011. Usa particolare
attenzione sul ruolo della donna nella società. Nel 2011 riceve la menzione speciale per il ruolo in “Confessione” al festival
romano “Schegge d’autore”.
DONNE SU UN PALCO CHE SCOTTA
Cercherò di essere il più breve possibile.
“Donne fuori scena” è un progetto teatrale sulla violenza di genere ed è un
progetto al femminile, ideato e condotto da tre donne: la dott. ssa Valentina Rapetti e me,
che ci occupiamo della parte drammaturgica e teatrale e la dott. ssa Fabia Eleonora Banella,
che purtroppo non è potuta essere qui, e come psicoterapeuta si occupa della parte di
supporto e assistenza psicologica.
Un progetto al femminile che lavora sul femminile, quindi.
Ma voglio farvi capire da dove è nata l’esigenza di fare questo progetto, di parlare
di questo tema. Per fare questo voglio riportarvi dei dati schiaccianti sul fenomeno della
violenza di genere, delle percentuali matematiche che danno però la misura della gravità di
questo fenomeno.
Sono dati dall’O. N. Da, che è l’Organizzazione Nazionale sulla Salute della Donna.
Stamattina abbiamo fatto un minuto di silenzio per le donne vittime del femminicidio e
anche per questo credo sia giusto riportarli. Sono dei dati che fanno impressione: il 35%
delle violenze avvenute nell'ultimo anno sono su donne, il 38% di queste violenze vengono
operate dagli uomini, dai partner, quindi da coloro che hanno la piena fiducia della vittima, e
il 23% avviene nelle classi sociali medio alte, inoltre il 30% di queste violenze iniziano in
gravidanza, sì, questo è un inciso terrificante, però è vero, è documentato, e sono dati della
primavera scorsa, quindi nel frattempo le percentuali saranno aumentate, perché ci
rendiamo conto ogni giorno di come l’incidenza di questo fenomeno stia aumentando.
E noi ci siamo poste la domanda, abbiamo detto: con questi dati alla mano è
evidente che c’è qualcosa che non va ma da dove parte? E la risposta che ci siamo date è
che la causa di tutto questo sta proprio quello di cui stiamo parlando oggi, negli stereotipi di
genere, stereotipi che purtroppo incarniamo noi stesse, senza neanche rendercene conto.
Quindi il problema che ci siamo poste, con il progetto “Donne fuori scena”, è quello di
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spezzare questa catena di stereotipi e fare delle azioni diversificate su varie fasce della
popolazione e soprattutto sui giovani.
Cerco di non dilungarmi, spiegandovi in che modo.
Ovviamente laboratori teatrali, spettacoli, per coinvolgere e portare nelle scuole
un nuovo messaggio, una nuova idea di femminile, una donna che non sia più la vittima, che
non sia più quella dei cartelloni con l’occhio nero, ma che sia una donna che parla dal suo
punto di vista e da qui la scelta della drammaturgia internazionale.
Quindi varie donne che parlano di questo argomento secondo il loro punto di
vista, per dare ai giovani, e non solo alle donne, non solo alle ragazze, ma soprattutto ai
ragazzi, che saranno gli uomini di domani, la sensazione che anche le donne parlano, che
anche le donne hanno un loro peso nella società e nell’arte, quindi insegnare e lavorare con i
giovani di domani, nella speranza di non trovarci più qui a dover parlare di differenze di
genere.
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LINGUAGGI E CONTENUTI DELL’ARTE DELLE DONNE
Bruna BRAIDOTTI
Passiamo subito, ad un’altra sessione del convegno, che è “Linguaggi e contenuti
dell’arte delle donne”, e quindi lasciamo il posto ad un’altra serie di convegniste, che sono
Paola Bristot, Cristina Calì, Antonia Lucchese, Silvia Zoffoli, Marina Toffolo, Carla Magnan e
Carla Rebora, e dopo le altre. La parola a Paola Bristot.
Paola BRISTOT
Docente di linguaggi dell’Arte Contemporanea e Teoria e Tecnica degli Audiovisivi presso l’Accademia di Belle Arti di
Bologna. Precedentemente è stata docente presso l’Accademia di Torino e professoressa di Storia dell’Arte al Liceo
Classico di Pordenone dal 1986Si occupa di attività editoriali e cura mostre ed esposizioni. Collabora con gli istituti di
cultura Italiani. Autrice di saggi e fumetti sul Fumetto, Illustrazione e Cinema di Animazione e curatrice di due Antologie di
Cinema d’Animazione. E’ presidente dell’Associazione Viva Comix di Pordenone.
FILM D’ANIMAZIONE D’AUTRICI. ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI E PRESENTAZIONI DI
FILM CONTEMPORANEI
C’è una grande effervescenza nel cinema d’animazione contemporaneo. Mi
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riferisco in particolare ai cortometraggi d’animazione realizzati con una produzione
autoriale. Si tratta di opere filmiche molto originali, prodotte spesso da scuole di
animazione, da strutture non industriali che privilegiano la visione appunto poetica del
regista/autore.
In uno scenario quanto mai brillante, molto diversificato per l’utilizzo di tecniche e
per la scelta delle tematiche, si sono evidenziate numerose autrici, quanto mai
rappresentative.
Non occorre dire che già storicamente ci sono state delle presenze importanti in questo
settore, cito solo la grande Lotte Reininger (1899-1961), una pioniera dell’animazione con
le silhouette, ma esplorando più da vicino la situazione attuale scopriamo veramente molte
autrici riconosciute internazionalmente per la loro ben definita personalità e espressione
artistica.
Per restare in Italia, dove la situazione è difficile in questo momento,
nell’animazione, come in ogni altro settore, troviamo autrici che hanno attestato da anni
una posizione di riferimento a livello internazionale, come Ursula Ferrara, che esplora il
mondo femminile servendosi di tecniche artistiche pittoriche, con un procedimento molto
complesso per la realizzazione di film.
Molte delle più giovani autrici si sono diplomate presso l’Istituto del Libro di
Urbino, dove è attiva la sezione dedicata al Cinema d’Animazione. La Scuola urbinate
compie quest’anno 60 anni di attività e annovera tra i suoi docenti Gianluigi Toccafondo,
Simone Massi, Roberto Catani. Con una tendenza molto legata al disegno animato, cioè
proprio al disegno classico che viene elaborato in movimento, 24 scatti al secondo, si sono
perfezionate in questi ultimi anni Virginia Mori, Magda Guidi, Alessia Travaglini, Mara
Cerri… a loro aggiungiamo la figura di Beatrice Pucci, che predilige piuttosto forme
tridimensionali, piccole sculture, puppets protagoniste di storie molto introspettive. Le
accomuna, a parte la medesima provenienza formativa, anche una sensibilità appunto
intimista, che tende a guardare da vicino, ad esplorare nelle minime pieghe dell’intimità, il
pensiero femminile. Una scelta che le porta a fissare molto i primi piani e i dettagli, a ‘girare
intorno’ alla figura.
(Funerals, illustrazione, Virginia Mori)
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Un altro elemento stilistico che possiamo rintracciare nel loro linguaggio artistico,
è l’uso delle metamorfosi, cioè delle trasformazioni delle forme, che proprio grazie al
disegno in movimento, raggiungono potenzialità metaforiche notevolissime. Naturalmente
questo elemento linguistico è utilizzato anche da molti autori che usano questa medesima
tecnica, certo che la lente femminile ha certamente una sensibilità originalmente
riconoscibile.
Anche se ho evidenziato le radici comuni, tutte le autrice menzionate si esprimono
con la loro visione estetica individuale, per cui il tratto fine, del disegno a china di Virginia
Mori, con la sua propensione all’inquietudine, è molto diverso dal tratto più fluido, a
pennello e dalla gamma cromatica intensa di Magda Guidi. Così come le superfici piatte,
molto grafiche di Alessia Travaglini, si differenziano appunto dalle sculture polimateriche di
Beatrice Pucci.
Insieme ad Andrea Martignoni, ho curato due antologie di cortometraggi di
animazione, Animazioni (2010) e Animazioni 2, (ed. Associazione OTTOmani, Associazione
Viva Comix, 2012), che raccolgono appunto alcuni dei loro film, ed è in programmazione
Animazioni 3, per l’autunno di quest’anno. Queste antologie sono state un ottimo supporto
al lavoro di queste autrici, come anche degli autori di animazioni in Italia, prime
pubblicazioni in DVD, che hanno fatto il punto su di una situazione poco conosciuta nel
nostro Paese e poco visibile fino a quel momento, anche nei grandi circuiti di Festival di
Cinema d’Animazione Internazionali. Il lavoro è stato gratificato perché molti di questi
autori, pur continuando a lavorare spesso individualmente, autoproducendosi, o con
produzioni veramente piccole alle spalle, si sono visti presentare e anche selezionare I film
nei più prestigiosi festival del mondo.
La difficoltà è ancora molto alta e segnalo come il nuovo film di Virginia Mori,
come quelli di molti altri autori italiani, siano supportati da studi di produzione in Francia,
una situazione che la dice lunga sulla miopia degli investimenti nel settore artistico, della
ricerca, della cultura in generale in Italia.
Tornando al panorama femminile nel cinema d’animazione, vorrei segnalarvi
anche altre giovani autrici italiane, come Alice Tambellini, che lavora spesso in coppia con il
fratello Stefano e realizza film con puppets, dallo stile molto ironico e ricco di gag.
Interessante e ricercato stilisticamente anche il recente film di diploma di Dalila Rovazzani,
Arithmétique (Italia, 2010), realizzato con Giovanni Munari, basato sulla colonna sonora
tratta dall’opera musicale del 1925 di Maurice Ravel, L’enfant et les sortilèges, (libretto di
Colette), film questo prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia del Piemonte. Per
quanto riguarda più espressamente le animazioni dedicate al mondo dell’infanzia, vorrei
citare il cortometraggio Il bruco e la gallina (Italia, 2013), di Katya Rinaldi e Michela Donini,
che hanno utilizzano la tecnica del cut out con un materiale insolito, la lana cotta.
Queste esperienze si innestano, come dicevo in un clima internazionalmente vivo
e aperto e curioso alle sperimentazioni e alle ricerche che predilige senz’altro la qualità del
lavoro su tutto.
Vorrei solo fare qualche esempio di autrici molto giovani, ma già affermate, che
stanno veramente dando prova di una grande solidità interpretativa come registe e autrici
in toto. Sono solo degli esempi di come il lavoro cinematografico trovi delle espressioni di
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punta non confinate in un isolato territorio, ma che spaziano a livello mondiale. Špela
Čadež sta mietendo successi, tra cui anche qui in regione, vincendo a sorpresa il Trieste Film
Festival, proprio quest’anno, con il suo film Boles, (Slovenia/Germania, 2013).
(Boles, frame, Spela Cadez)
Il film è realizzato con puppets in lattice, e dettagli scenografici che mostrano una
cura minuziosa quanto mai funzionale al suo modo di raccontare soggetti e una narrazione
articolata sui elementi anche apparentemente minimali. Il set è una ricostruzione
tridimensionale di scene su cui questi puppets, dell’altezza di 30 cm, circa si muovono
esattamente come fossero degli attori. In un adattamento realistico di personaggi e scene,
con storie che hanno riferimenti molto stretti con la vita quotidiana, scatta la fantasia e il
colpo di genio di Špela che riesce a stupirci e a dimostrarci che basta veramente spostare il
punto di vista e possiamo viaggiare con l’immaginazione! Così la storia non è per niente
banale, racconta il rapporto tra Filip e Tereza, lui un giovane scrittore, lei una donna più
vecchia di lui, eccentrica ed espansiva. Si instaura una strana combinazione che porta
dapprima Filip ad allontanare Tereza e poi a cercarla. Grazie a lei è riuscito infatti a sbloccare
il suo impasse creativo, le scrive allora una lettera che tenta invano di recapitarle. Non la
troverà più. Tutto si svolge in un condominio, tra due appartamenti attigui, con elementi
fantasticamente comunicanti, ma questo si può fare con l’animazione! E la giovane autrice
slovena, riesce a raccontare come si svolga, tra questi due personaggi, divisi da una parete e
due porte, una relazione complessa. Indaga sentimenti, per niente facili da spiegare, ma
semplicemente da far ‘sentire’ e intuire.
Farò un altro esempio di film d’animazione, questa volta di un’autrice portoghese,
Regina Pessoa, Kalì the little vampire, (Francia, Portogallo, Canada, Svizzera, 2012). La
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tecnica è quella del disegno a scratching, da un fondo nero viene tolta la superficie di
inchiostro nero, raschiandolo, un po’ come si farebbe con una incisione. I contrasti sono
molto netti, il segno è molto preciso, con un effetto xilografico. La storia ha come tema, la
diversità, ma vissuta non in termini retorici, piuttosto come contrasto rispetto agli stereotipi
degli inquadramenti sociali che siamo soliti stabilire anche da bambini.
Sia Špela Čadež che Regina Pessoa sono sostenute rispettivamente dal Ministero
della Cultura e dal National Film Board del Canada. Una modalità che consente una
concentrazione sul lavoro molto diversa dal caso delle autrici italiane. Sottolineo questi
aspetti perché la mancanza di strutture e supporti in Italia sono penalizzanti e paralizzanti la
ricerca e la produzione in uno dei settori, quello artistico, in cui l’Italia ha delle risorse su cui
scommettere per lo sviluppo anche economico del suo futuro.
Se devo fare un’ultima considerazione di carattere generale, ma dal punto di vista
tematico, trovo che in molti film delle autrici più giovani sono analizzati, se pure in termini
poetici, aspetti e situazioni che hanno a che fare con l’ecologia o comunque con una
attenzione alla relazione con l’ambiente, con la natura. In questo senso trovo bellissimi i film
di Jadwiga Kowalska, Tôt ou Tard (Svizzera, 2007) o di Marina Rosset, La fille aux feuilles
(Svizzera, 2013), e ancora il singolare, Kärbeste veski (tr. int. Fly Mill, Estonia, 2012) di AnuLaura Tuttelberg.
I film che vi ho presentato sono parte frutto del lavoro che sto conducendo nel
settore artistico in generale da anni e più strettamente nel settore del cinema d’animazione,
come direttrice artistica del Piccolo Festival dell’Animazione. Il festival si svolge a
Pordenone, Udine, Trieste e Gorizia e ha come partner Animateka Film Festival di Ljubljana e
in Italia Cinemazero (Pordenone) La Cappella Underground, La Casa del Cinema, Trieste
Contemporanea (Trieste), Kinoateljer, Palazzo del Cinema (Gorizia), Centro Espressioni
Cinematografiche, Visionario, Centro per le Arti Visive (Udine).
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Cristina CALÌ
Laureata in Lettere moderne e specializzatasi con una scuola triennale teatrale, fonda nel 1997 l’associazione
ArtEventualeTeatro con sede a Brugherio (MB). Organizzatrice teatrale per dieci anni, da più di quindici conduce laboratori
teatrali e corsi, e produzioni teatrali per bambini e adulti. Da otto anni dipinge con gli acquerelli e porta il colore dal vivo in
scena in suoi diversi spettacoli. Lavora a due nuovi progetti che indagano il rapporto tra maschile e femminile, uno su
alcune donne dei primi secoli cristiani, uno sulla storia della gonna.
L'ARTE COME STRUMENTO DI INDAGINE PERSONALE, L'IDENTITÀ DI GENERE COME
STRUMENTO
Un giorno ero a Milano, in anticipo all’appuntamento con il pediatra: io ho due
bambini. Era un pomeriggio del 2007. Guardavo svogliatamente una bancarella con dei libri
usati, che io adoro. Mi cade l’occhio su un libro che si intitola “Libere donne di Dio”, scritto
da Mariella Carpinello (una grande esperta di monachesimo femminile). Io, che ho
frequentato per tanti anni l’oratorio, penso: mah, “libere” e “di Dio”. Lo compro (costava
anche poco).
Era un libro storico, filologico, con tutta una serie di documentazioni e fonti
autorevoli, e trattava la storia di molte donne dei primi secoli cristiani e del loro percorso di
fede. Ma era anche avvincente come un romanzo.
Arrivata a pagina 100 avevo già deciso che avrei assolutamente dovuto farci uno
spettacolo sopra, perché in ogni storia ritrovavo qualcosa di contemporaneo, anzi di più.
E mi sembrava, andando avanti nella lettura, di compiere un vero e proprio
percorso di conoscenza di me, del mio rapporto con il maschile e il femminile, con la mia
ricerca spirituale ed esistenziale.
Mi hanno colpito, e ho poi scelto, in particolare alcune donne, molto diverse tra
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loro: dalla ricca nobildonna romana, Marcella - c’è una via dedicata a lei a Roma - che
rimasta vedova rifiuta le nuove nozze ma fonda un centro di studi biblici e intreccia un fitto
scambio con San Girolamo, fino alla prostituta Margherita che si converte attraverso quello
che si potrebbe chiamare un “colpo di fulmine” con un vescovo. Un’altra donna, Tecla, viene
condannata a morte perché non vuole sposarsi (allora era obbligatorio per legge), e la
madre testimonia per far sì che lei venga condannata, perché si è anche opposta ai voleri
familiari.
Insomma, mi sono innamorata di queste storie.
Mio padre dice che i progetti valgono dieci anni, e io l’ho preso un po’ alla lettera.
Continuavo a lavorare nella nostra compagnia teatrale – ArtEventualeTeatro di Brugherio
(MB) – allestendo spettacoli originali, scritti da noi, per bambini e per adulti, con la pittura
dal vivo eccetera, certamente più realizzabili. Ma nello stesso tempo iniziavo a coltivare
questo progetto, molto più complesso.
Nel 2008 ho iniziato a pensare a come si potesse allestire, e ho deciso che ci
sarebbe stata un’attrice-pittrice in scena, io, e un musicista-cantante, perché tutte queste
donne – e qua mi ricollego al nostro convegno – hanno avuto al loro fianco un uomo, che
per loro è stato determinante. Una ascoltando la voce di San Paolo si è
innamorata/convertita (ma non l’aveva visto in faccia - era bruttissimo - se no forse non
sarebbe accaduto!); un’altra ha incontrato un sant’uomo alla fine della sua vita scegliendolo
come depositario del miracolo da lei vissuto. Insomma “dietro una grande donna c’è sempre
un grande uomo” - e viceversa.
(Interventi fuori microfono. Diverse convegniste non concordano…)
Accolgo l’obiezione. Dite che è una speranza, più che una realtà?
(Interventi fuori microfono: qualcuno sostiene che le due cose non sono collegate)
Dite che è indifferente? Ecco, questo dubbio lo accolgo. Per me è scontato il
contrario ma in effetti, queste riflessioni entreranno nello spettacolo, e faranno parte di
questa ricerca.
Comunque questo libro - incontrato “per caso” - è diventato per me un prezioso
strumento per approfondire il tema del maschile e del femminile, anche dentro di me, il
tema dell’essere complementari, della funzione che ha chi ti accompagna per una vita intera
o per un tratto del cammino. E questo percorso si è attuato grazie al teatro, che sa essere
strumento privilegiato di ricerca su di se e sul mondo.
Ho iniziato a mappare tutti i musicisti che conoscevo, e ne ho scelto uno – che non
vedevo da molte tempo – perché suona la chitarra, l’organetto, la tastiera e canta
benissimo, quindi ho detto: gli faccio fare anche un po’ di recitazione, e siamo a posto! Nel
progetto di spettacolo infatti si intrecciavano un po’ i ruoli: io cantavo in alcune parti, lui
recitava in altre. Come se le caratteristiche anche artistiche di ciascuno potessero
sconfinare, a fondersi un po’, pur mantenendo ciascuno le proprie peculiarità. Così dentro
una donna convive un po’ di maschile e viceversa il femminile è presente nell’uomo. Anche
quando non lo accettiamo o la società lo giudica male.
Tra l’altro queste donne spesso si sono dovute travestire da uomo per poter
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realizzare i loro percorsi: per fare un viaggio indisturbate, per vivere da sole in un eremo,
cosa che una donna nei primi secoli sicuramente non poteva fare. Nelle storie è molto
presente il tema dello scambio di abito e di identità, al fine di conquistare una maggiore
parità, o di potersi scegliere in libertà il proprio destino.
Lo spettacolo poi si è strutturato così. Dopo aver individuato questo musicista, (e
ho aspettato più di un anno a dirglielo, perché abitava a Lugano, dovevo capire se era
proprio la persona giusta) gli ho fatto la proposta e lui, stranamente, perché appartengo ad
una realtà teatrale piccola, ha accettato.
Dai primi incontri di lavoro è nata l’idea che lui avrebbe composto delle canzoni
apposta per lo spettacolo basandosi su testi tratti dal Cantico dei Cantici, in una traduzione
che gli ho proposto perché più poetica di altre.
Quindi abbiamo iniziato a preparare questo spettacolo con una giornata di prove
al mese (costava molto pagargli il viaggio ed era difficile immaginarle più frequenti). La
drammaturgia dello spettacolo si costruiva lentamente e con risultati interessantissimi,
lavorando di intreccio tra canzoni e musiche, narrazione teatrale, azioni sceniche e pittura
dal vivo con gli acquerelli.
Dopo ogni giornata di lavoro condiviso, la sera facevamo una prova aperta ad un
pubblico interessato a vedere il work in progress dello spettacolo. Questo permetteva alle
spettatrici e agli spettatori di esprimere il loro parere su quello che vedevano costruirsi e di
lasciarci commenti, suggerimenti, note di regia.
E lì, a proposito di pubblico femminile o maschile, è interessante, perché le donne
dicevano tutta una serie di cose, gli uomini guardavano aspetti completamente differenti e
anche qui potremmo aprire tante ricchissime parentesi!
Siamo andati avanti fino a maggio dell’anno scorso poi - per problemi
organizzativi ed economici - abbiamo sospeso per alcuni mesi le prove (era molto oneroso
l’impegno economico e il tempo necessario per costruire lo spettacolo con queste
modalità).
Quando ho ricontattato il musicista, a gennaio del 2013 per concordare le ultime
prove e finire lo spettacolo entro giugno, è emerso che si era talmente innamorato di queste
musiche – d’altra parte sue – da farle diventare protagoniste di un concerto con altri
musicisti. A questo punto però faceva fatica a pensarsi di nuovo in scena con me nello
spettacolo, eseguendo i suoi brani solo con canto e uno strumento per volta. Sarebbe stato
un tornare indietro e quindi, con grande dispiacere, non se la sentiva di continuare la
collaborazione, e mi proponeva però di utilizzare comunque le sue musiche ma registrate.
In quel momento la mia fiducia nel genere maschile ha avuto un grosso
cedimento, e anche quella sulla collaborazione con altri professionisti. Dopo tre anni di
investimento e uno spettacolo che si era costruito su misura con lui in scena…. . .
Però, ovviamente, si è chiusa una porta e se ne riaprirà un’altra. Ci vorrà tempo per
riprogettare tutto, capire se - e come - sostituirlo, oppure se revisionare tutta la
drammaturgia per procedere da sola. Dal mio punto di vista c’era un equilibrio scenico e di
significati fondato e costruito sulle nostre due presenze, sui ruoli, su ciò che avevamo
incrociato (canzoni anche in duetto e scene, movimenti e musiche, pittura dal vivo e danze,
ecc. ).
97
Ma ammetto che anche le donne di cui si racconta, hanno avuto al loro fianco un
uomo solo per una parte della loro vita, più o meno ampia. Poi hanno proseguito il loro
viaggio semplicemente “libere e di Dio”.
Oggi qui con voi ho fatto davvero un pieno di riflessioni culturali, organizzative,
gestionali e anche un pieno di emozioni non indifferente. Vi ho portato questa piccola
esperienza perché nell’arte ogni persona ha la possibilità di compiere un percorso di
conoscenza di sé e di comunicazione profonda, con se stesso e con l’altro. Attraverso
l’espressione artistica – per me principalmente il teatro - ogni donna, anche grazie alla sua
particolare sensibilità, può indagare le sue “parti maschili e femminili”, può scoprire il suo
potenziale in diversi ambiti, e nello stesso tempo divenire prezioso e forse necessario
strumento di realizzazione della complementarietà con il maschile. Dobbiamo essere noi per
prime le artefici del ri-equilibrio, della “parità”, prima dentro di noi e poi fuori. Uomo e donna:
siamo forse semplici ma preziosi strumenti l’uno per l’altro, per aiutarci a vicenda a
conoscerci, ad accoglierci, a crescere e a dare il meglio di sé.
Il linguaggio artistico, alimentando un aspetto imprescindibile della persona
umana - quello dell’essere creatura e nello stesso tempo creatrice - permette di indagarne e
viverne la più vera e misteriosa natura. In questo senso, nonostante tutte le difficoltà, è un
dono potersene occupare ancora.
Il mio intervento è stato molto diverso da quello preparato a casa, ma è anche
naturale che alla fine prevalga il “qui ed ora”.
La parola chiave però era e rimane “grazie”, perché penso che se si riescono a
costruire dei fili - che già in parte ci sono, si vedono i rapporti anche tra di voi - magari
possiamo, fra un anno o due, ritrovarci e intanto tessere trame. . . (io vi dirò anche com’è
andata a finire la storia di questo spettacolo teatrale, che ha qualcosa del romanzo a
puntate). Si può costruire davvero qualcosa. Senza grandi ambizioni, si sa che poi, dopo un
convegno, spesso finisce tutto e via. Però il fatto di essersi incontrati, essersi conosciuti un
po’, scambiati tante informazioni e riflessioni può ridare anche solo – come diceva qualcuno
stamattina – la fiducia che “ce la posso fare e che insieme ce la possiamo fare”. Grazie.
Antonia LUCCHESE
Nata a Padova e laureata a Bologna vi risiede e lavora, dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti, dove ha studiato
l’acquerello, che è il suo principale mezzo espressivo. Dagli anni Novanta espone in mostre personali e collettive a
Bologna, Modena, Milano, Venezia. Nel 2008 pubblica “Bologna da scoprire”, testo e 25 tavole ad acquerello, per le
edizioni Bononia University Press e nel 2012 “Bologna in piazza “, città in acquerelli e poesie, per le edizioni Perdisa.
ESISTE UN’ARTE AL FEMMINILE O DONNE CHE FANNO ARTE?
Se esiste una specificità femminile, essa è probabilmente relativa alla storia delle
donne, alla posizione che hanno via via ricoperto nello sviluppo storico della società.
Virginia Woolf scrive nel saggio del 1928 Una stanza tutta per sé “… l’idea di quell’ unico
talento, la cui soppressione è come la morte - piccolo, ma così caro a chi lo possiede -, il quale
languiva e con esso la mia persona, la mia anima; tutto questo era come una ruggine, una
peste che divorasse i fiori della primavera, che distruggesse il cuore stesso della pianta. ”
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Sono passati quasi cent’anni, quante donne si sentono ancora così?
La notizia di questo convegno è arrivata proprio mentre pensavo di organizzarne
uno simile a Bologna. Ho colto al volo l’occasione per avere suggerimenti. Sono qui
soprattutto per ascoltarvi, per raccogliere le vostre esperienze e i vostri suggerimenti.
La mia storia artistica non è una storia lineare. Ho cominciato tardi a praticare
questa attività. Pur amando disegnare non ho percorso studi artistici, ma un’altra strada che
mi era comunque congeniale e che mi ha portato all’università e all’insegnamento. Poi
improvvisamente e con grande energia una quindicina di anni fa la passione per la pittura è
riemersa. Forse avevo trovato finalmente, come dice Virginia Woolf, una stanza tutta per
me.
Nonostante insegnassi ancora, ho cominciato a frequentare l’accademia di belle
arti e lì ho praticato varie tecniche. Quella dell’acquerello è prevalsa sulle altre e ho
continuato ad usarla quasi esclusivamente nella mia sperimentazione. Da allora non ho più
smesso e questa attività ha dato dei frutti: mostre, pubblicazioni, interventi. (Ho dipinto
all’acquerello una grande parete in una casa veneziana al modo dell’affresco. )
Durante questo periodo devo ammettere di non aver mai avuto l’impressione di
essere trattata in modo particolare, perché donna; mi sembra che le critiche e gli
apprezzamenti siano sempre stati diretti solo alla qualità del mio lavoro.
Ciò non toglie che io abbia fatto delle riflessioni e che mi sia posta delle domande
sulla questione che riguarda la presenza delle donne nell’arte, tentando anche di dare delle
risposte. Non a caso ho sentito la necessità di organizzare un convegno che chiamerò
esplorativo su questi temi.
Proverò ad esporvi il mio pensiero.
Mi sono domandata per esempio se il nostro lavoro veicola qualcosa di
particolare, se c’è, pur nelle tante differenze, un nucleo, un comune denominatore
nell’espressione artistica delle donne? E cioè se “Esiste un’arte al femminile o donne che
fanno arte?“
Tenterò di rispondere premettendo che secondo me esiste un’arte al femminile, in quanto ci
sono donne che fanno arte.
Se intendiamo infatti l’aggettivo femminile non in senso deteriore, ma quale
tratto di specificità, con tutto il bagaglio storico e culturale che questa specificità si porta
dietro, e se pensiamo che le donne siano portatrici di quel grande patrimonio quasi genetico
che è il risultato della particolare prospettiva da cui hanno guardato il mondo, esse lo
manifestano più o meno consciamente nella loro arte. Hanno fatto irruzione nell’arte come
una cosa nuova, estremamente interessante e addirittura necessaria, hanno riempito un
buco storico. Nel passato ci sono state molte meno donne artiste di quante avrebbero
potuto essercene e questa carenza è stata una grande perdita. Riemerge così una storia che
non ha avuto voce, che si è manifestata con grande difficoltà, una storia di “lacrime e
sangue”. Questa forte presenza ricompone finalmente il quadro della realtà.
(Tutto questo va superato? Lo è già? Ci si deve chiamare solo artiste?)
L’altra domanda scaturisce da quello che diceva Virginia Woolf nel suo saggio
“Una stanza tutta per sé” “L’idea di quell’unico talento, la cui soppressione è come la
morte…” esprimendo tutta la mortificazione di coloro, il cui diritto a manifestarsi è negato, il
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dolore, la frustrazione, la follia di coloro che sentono in sé un’aspirazione, un desiderio senza
diritto di cittadinanza. Alle donne questo è successo da sempre. Lei ne parlava nel 1928.
Sono passati quasi cent’anni, ma quante donne si sentono ancora così?
Oggi sono cambiate molte cose, le donne non sono più escluse dalla vita sociale e
istituzionale come a quei tempi, sono molto presenti ovunque e anche nel mondo dell’arte,
c’è più consapevolezza, autostima e stima, ma le donne non hanno ancora quella visibilità
che il loro valore e la loro presenza comporterebbero.
Evidentemente c’è ancora molto da fare, non a caso nasce l’esigenza di un
confronto, dove si esprimano le esperienze che denunciano gli ostacoli ancora esistenti sul
nostro cammino, le tante frustrazioni, i trabocchetti interni ed esterni che tante difficoltà
ancora creano, le esigenze di luoghi o situazioni in cui avere la possibilità di parlare anche
del proprio lavoro.
Il problema della visibilità delle donne, purtroppo, investe tutti gli aspetti sociali e
istituzionali, in particolare in Italia, e, probabilmente, gli ostacoli non sono solo esterni, ma
anche interni, di interiorizzazione nostra, forse esistono carenze nella nostra autostima, non
precise consapevolezze di ciò che vogliamo, che ci rendono fragili nei confronti di un mondo
ancora tutto al maschile. Vi chiedo lumi a tale proposito.
Tornando a me direi che la mia storia non è stata così tragica, sono vissuta in un
periodo meno restrittivo nei confronti delle donne rispetto al passato, per certi versi ho
avuto dei privilegi, ma se rifletto devo dire che la scomparsa di quella antica passione era
dovuta probabilmente a un blocco interno che mi ha fatto prendere altre strade più
conformi alle aspettative che sentivo intorno. Non a caso solo quando si è creato un certo
spazio mentale quell’antico modo, quel piccolo talento ha potuto di nuovo farsi strada.
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Lea MONETTI
Pittrice, scultrice, ritrattista, esperta in tecniche antiche e affresco. Ha completato i suoi studi artistici con l'adesione alla
"Scuola della Realtà" di P. Annigoni e successivamente come assistente di B. Saetti. Ha eseguito opere in chiese e luoghi
pubblici. Patrocinata dal Ministero degli Esteri, ha esposto i suoi affreschi staccati al Cairo (Egitto) così come a Wolfsburg
e Bad Harzburg. Ha lavorato con: 900 Arte Italiana, Art Club 2 di Roma, Gall. Cour du Cigne Ginevra, Fluxus Stoccarda,
Taube Berlino e, in esclusiva, con R. G. Battista Bianco dello Studio R. G. B Arte Capital Brescia. Attualmente lavora per la
Gall. Laocoonte di Roma e si dedica alla scultura in bronzo con tema "La Condizione Femminile".
IN PRINCIPIO FU EVA
Io vengo da un’esperienza completamente diversa anche perché, contrariamente
alla mia collega, ho iniziato molto presto a muovermi nel mondo dell'arte. Devo dire che
sono nata pittore e questo ha condizionato tutta la mia vita ed i miei studi. Infatti ho
prediletto l’esperienza presso i grandi maestri del tempo, anche più della frequentazione
dell'accademia che ho cominciato a frequentare a più riprese e sempre sospeso poiché
trovavo più interessante e proficuo andare a imparare il mestiere ‘a bottega’… dove era un
maestro della disciplina che a me interessava. Non posso dire che sia stata facile la mia vita
di donna nell'ambiente artistico, assolutamente no. Posso dire che far prendere in
considerazione il proprio lavoro ed essere ascoltati dagli addetti ai lavori impegnati è molto
difficile.
Gli uomini, più o meno esplicitamente, ci hanno "provato" tutti ed hanno trovato,
naturalmente, una donna non disponibile. Devo riconoscere che questo ha creato una
selezione nei rapporti ma non mi ha causato inimicizie. Sono convintissima che se non fossi
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stata così rigida, la disponibilità verso di loro mi avrebbe tagliato le gambe in partenza.
Forse è divertente ma, poiché si incontrano sempre le stesse persone negli Expo come negli
eventi importanti, succede di ricevere inviti al ristorante oppure al caffè; ebbene, io ho
pagato sempre il conto agli uomini, proprio per sentirmi, e far loro sentire, che mi
consideravo “alla pari” (Interventi fuori microfono) Confermo: io ho sempre pagato e continuo
a farlo. Se vado a cena con un collaboratore o addetto stampa, pago io. E’ un punto
importante nei miei rapporti di lavoro (Interventi fuori microfono).
Ho avuto vari mercanti e un manager ritenuto fra i più importanti dell’arte
contemporanea; ebbene, l’ho visto battere i pugni sulla scrivania dicendo: “Sai la fatica che
io faccio? Non puoi immaginare la fatica che faccio perché tu sei una donna!” Io gli risposi:
“di’ che sono una transessuale“. Mi pento di questo perché avrei dovuto avere l’orgoglio
della mia femminilità, però, di fronte a un tale manager e a tanta difficoltà, sono arrivata
perfino a suggerire una cosa non vera.
Sorvolo sulla difficoltà ad avere un riconoscimento economico poiché credo che
questo ci accomuni tutte. I mercanti speculano sul fatto che la passione rende l’artista
capace di pagare per lavorare. Più di qualità è il rapporto con i mercanti e più è difficile avere
il compenso pattuito. Che devo dire? L’impegno premia; le soddisfazioni infine non
mancano. Ho raccolto soddisfazioni, realizzato mostre in luoghi prestigiosi, sono molto
stimata, ho commissioni importanti. In questo periodo lavoro volentieri sul tema della
Donna, quindi di” Eva”. Mi chiedo:” perché si dice che Eva è nata dalla costola di Adamo? La
maternità è donna! Desidero scolpire un Adamo che nasce dalla costola di Eva! Il tema della
mia recente esposizione di sculture in bronzo in Firenze, a Palazzo Medici Riccardi era: “In
principio fu Eva”. L’argomento che è stato dibattuto sui giornali in occasione di questa
esposizione è stato proprio: “… Innocente o colpevole la Eva della Monetti?” Io rispondo che
la “EVA E’ INNOCENTE”.
Grazie. Chiudo e vi proietto un Video: “El Suegno de la Amapola”. Questo non è
pittura né scultura: è una Poesia Visiva. Ho giurato a un papavero di non farlo morire e
questa è sua la storia! Lea Monetti.
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Silvia ZOFFOLI
Formatasi come attrice teatrale, specializzandosi con Cathy Marchand, Bruce Myers e Gennady Bogdanov, ha recitato in
diversi spettacoli. Laureata con il massimo dei voti al Dams di Roma 3, con una tesi sulla direzione degli attori e un
documentario video sul confronto fra le metodologie dei registi Marco Bellocchio, Giuseppe Bertolucci ed Ermanno Olmi,
si è specializzata in Studi Storici Critici e Teorici sul cinema e gli Audiovisivi, approfondendo il rapporto fra
documentazione e finzione nel cinema italiano. Ha studiato sceneggiatura e montaggio cinematografico. Come
drammaturga e regista, dopo aver portato in scena due suoi testi brevi ("E io spazzo" e "Giovane Donna"), ha debuttato
nel 2009 con "Hannah e Mary, un'amicizia ordinaria fra due donne straordinarie", con il patrocinio dell’Associazione
Donne Ebree d’Italia. Nel 2011, dopo un approfondito percorso di ricerca sulla sordità, ha scritto il monologo "Amalia e
basta" con cui ha vinto, nello stesso anno, il 2°premio di drammaturgia "Teatro e disabilità", mentre nel 2012 il 1° premio
nella sezione Testo Teatrale del concorso "InediTO Colline di Torino" e il 1° premio Monologhi "Sipario Autori Italiani". Nel
2013 è stata selezionata per partecipare al workshop con Wajdi Mouwad alla Biennale Teatro di Venezia.
Silvia Zoffoli nello spettacolo “Amalia e basta”, foto di Simona Fossi
LA QUESTIONE DEL “PUNTO DI VISTA AL FEMMINILE” A TEATRO
Quando si scrive o si mette in scena un’opera si può parlare di “punto di vista al
femminile”? Il punto di vista è una questione di genere nell’approcciarsi al processo
creativo? Nel teatro, in particolare, si può parlare di un punto di vista al femminile? Lascio
questi punti interrogativi perché, in realtà, non so se ci siano delle risposte a queste
domande e neanche se siano le giuste domande da porsi. Posso parlare della mia
esperienza personale, di una giovane donna che ha iniziato un percorso autonomo nel fare
teatro: da qualche anno, infatti, oltre a recitare, scrivo e curo la regia degli spettacoli che
porto in scena. Ho scritto e diretto, ad esempio, uno spettacolo ispirato all’amicizia fra
Hannah Arendt e Mary Mccarthy, che ha avuto il patrocinio dell’Adei Wizo- Associazione
Donne Ebree Italiane, dove ho raccontato il rapporto di amicizia fra due donne, due grandi
intellettuali, straordinarie nell’ “ordinarietà” di questo sentimento che le ha legate per tutta
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la vita, al pari di molte donne comuni. Adesso, invece, sto portando in scena, in vari teatri
italiani, un monologo dal titolo “Amalia e basta” che racconta la storia di una ragazza con
sordità.
Lo spettacolo, vincitore di alcuni importanti premi drammaturgici, affronta la
disabilità come occasione per un percorso di accettazione di sé, affermando il valore della
persona al di là degli aggettivi. Tematiche femminili? Protagoniste donne? Del resto io sono
una donna, non sarei potuta partire da qualcosa che non faceva parte di me, se non altro
perché sono anche in scena come attrice. In realtà un punto di vista al femminile potrebbe
essere affrontato anche da un drammaturgo di sesso maschile no? Magari io stessa in
futuro tratterò altre tematiche, scriverò su altri tipi di protagonisti, racconterò altre storie,
chissà. Tuttavia quando ho iniziato il mio percorso teatrale da autrice e regista mi è stata
posta la questione, se il mio teatro fosse “al femminile” o se io volessi fare teatro “al
femminile” e quindi ho iniziato a riflettere su questa domanda.
Nel corso dei secoli passati negli spettacoli teatrali i ruoli di donne erano
impersonati da uomini e, in seguito, anche quando le attrici hanno iniziato a calcare le
scene, erano considerate donne dal basso valore morale. Anche sul fronte della scrittura per
il teatro c’è sempre stata poca drammaturgia femminile (o meglio, come qualcuno specifica
dalla platea, è ancora poco conosciuta perché più invisibile e meno diffusa di quella
maschile).
A livello di fruizione, a mio parere, il teatro si caratterizza per una forte
componente di “democraticità”: lo spettatore, infatti, può scegliere di guardare sulla scena
quello che desidera, con estrema libertà, cosa che, invece, nel cinema non accade perché là il
pubblico vede attraverso lo sguardo del regista, attraverso “l’occhio” della macchina da
presa. Se quindi si parla di punto di vista femminile del pubblico, come stamattina si diceva
rispetto alla grande quantità di donne che vanno a teatro, allora le donne dovrebbero
raccontare storie femminili per spettatrici femminili?
Ricordo che nel libro “Tu che mi guardi, tu che mi racconti” di Adriana Cavarero1, ad
un certo punto, si parla di come le donne che si avvicinano alla narrazione abbiano l’esigenza
di raccontare (o leggere) biografie, cioè “storie di donne per donne”.
Non so se questa sia la necessità, più o meno conscia, di qualsiasi donna che si
approcci anche alla scrittura drammaturgica o se forse fosse legata ad un certo periodo
storico oramai superato nei fatti (ormai ci sono donne che scrivono e mettono in scena
spettacoli, a prescindere da tematiche per così dire “femminili”), tuttavia, se penso al teatro,
penso all’urgenza di raccontare delle cose e l’urgenza nasce spesso dalla mancanza.
Le donne certamente ne hanno molta, viste le condizioni di poca libertà di
espressione e accesso alla cultura nelle quali fino a non molto tempo fa hanno vissuto. Il
teatro, inoltre, è comunicazione tra un io e un tu, è un dialogo costante, è un generatore di
empatia: una caratteristica molto sviluppata nelle donne. Mi viene in mente un episodio che
mi è capitato recentemente incontrando una giovane artista francese che mi ha detto:
1
Adriana Cavarero, “Tu che mi guardi, tu che mi racconti”, ed. Feltrinelli, 1997. E’ un testo che
affronta la filosofia della narrazione, a partire dal pensiero arendtiano, in particolare dal concetto di
“unicità”.
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<<Ma che bello in Italia nonostante la crisi, e la mancanza di mezzi, voi italiani avete cose da
dire, più creatività di noi francesi che abbiamo la vita artistica più facile grazie a
finanziamenti etc. >>
Affermazione discutibile, ma certamente la mancanza crea urgenza e l’urgenza
crea teatro e il teatro, per me, ha un profondo valore civile e anche politico, nel senso più
ampio del termine. Lo era nell’Antica Grecia, quando si sospendevano le normali attività
della polis, lo è tutt’ora quando uno spettatore fa un atto di scelta nel comprare un biglietto,
nel recarsi a teatro, nel condividere uno spettacolo fisicamente con altri esseri umani,
cittadini con i quali potenzialmente può poi interagire, discutere: il teatro è rito ed
espressione di democrazia. Ha però bisogno di un luogo fisico e di un pubblico, cioè per far
sì che uno spettacolo esista deve essere inserito in una programmazione. Il teatro è quindi
un mezzo di comunicazione molto potente.
Mi piace ricordare un film, “Le vite degli altri”2, che racconta del ruolo di un
drammaturgo nella Berlino est nel periodo delle DDR, e lì si vede come, in una situazione
estrema, cioè in un regime dittatoriale, il valore politico della drammaturgia e del teatro sia
ancora più forte e ‘temibile’.
Io non so se esista un punto di vista al femminile a teatro, nello scriverlo e nel
farlo: pur partecipando a questo convegno, pur avendo fatto parte, con i miei spettacoli, a
rassegne di teatro “al femminile”, non ho ancora una risposta. Non so se il mio teatro sia “al
femminile”, non so se il teatro possa essere “al femminile”, per ora l’unica risposta che mi
sono data io è che semplicemente faccio teatro e che sì sono una donna.
Tutto qui. Oggi la questione sulle difficoltà, in quanto donne, nel fare circuitare i
propri spettacoli non è solo un problema di genere, purtroppo esiste un sistema - quel
“muro di gomma” di cui si parlava oggi- che respinge nuovi linguaggi, nuovi contenuti, nuovi
soggetti. Ci sono tutta una serie di qualità che le donne hanno sviluppato nel tempo, ho
citato l’urgenza, l’empatia, oppure la capacità organizzativa che è venuta fuori anche
durante questo convegno, e allora forse le donne, con la loro forza e le loro attitudini,
potrebbero arricchire (e magari migliorare) il teatro e la cultura in Italia.
Marina TOFFOLO
Insegna stilismo di moda, storia del costume e pittura in istituti professionali della regione. È attiva con mostre Personali
in regione. Sperimenta molteplici materiali, anche di recupero e tecniche pittoriche, mantenendo sempre l’amore per il
disegno.
AGANE
Eccomi, presente, brevissima! Risparmio le slide, risparmio i libri, gli album dei
lavori a cui sto dedicando gran parte della mia vita e sono 53 anni a figurare le agane.
2
“Le vite degli altri”, scritto e diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, Premio Oscar come
miglior film straniero nel 2007
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L’agana è una figura mitologica del nostro nord-est, importante in quanto ben
rappresenta la Donna e come poter descrivere le agane meglio dello specchio che ho visto
riflettere tutte Voi oggi in quest’incontro!
Ciò che ho sentito nei Vostri interventi ben descrive l’agana, quella fata/ strega a
cui corrisponde la donna moderna che riesce a coniugare i due lati umani, quello femminile
con quello maschile, in piena libertà, esprimendone le qualità, capacità e caratteristiche
della sensibilità della Persona con la P maiuscola.
Nel mio lavoro, nelle diverse discipline d’arte quali la ceramica, l’incisione, e la
lavorazione di diversi materiali anche di riciclo, sono figurativa e spesso scelgo la figura
dell’agana in qualità di Donna elevata, vicina alla deità; l’essere donna con tutti i significati
della Grande Dea venerata come Dea della Natura, della Vita in generale, che un tempo
racchiudeva tutte le caratteristiche che in seguito sono state sminuite nelle diverse deità
femminili.
Credo che oggi ci sia l’urgenza assoluta di occuparsi dell’ambiente e dare risposte
alle tematiche ecologiche che sono priorità di tutti.
Ascoltando i Vostri interventi che mi hanno preceduta, mi sento sicura di aver
colto in tutte Voi corrispondenza in quello che personalmente vivo come motivazione,
premura ed impegno; credo che l’unione delle forze dia buoni frutti; la collaborazione,
soprattutto nel mondo femminile, è auspicabile e porta conquiste, soprattutto contro
l’isolamento a cui è stato indotto l’essere umano nella nostra epoca più che mai prima.
Auspico un proseguimento di questi incontri di scambio e progettualità forieri di
crescita e possibilità.
Ringrazio Tutte di cuore.
Bruna BRAIDOTTI
Non so se sapete tutti cosa sono le Agane sono donne metà donne e metà
serpente, o biscia, presenti nelle storie popolari friulane e venete risalgono a figure mitiche
indoeuropee antichissime, che raccontano la nostra natura femminile.
Ora intervengono Carla Rebora e Carla Magnan, di cui ascolterete alcuni brani
anche stasera al concerto. Scrivere musica per una donna è raro, ancora più raro scriverlo a
quattro mani.
Carla MAGNAN
Compositore e didatta, si è diplomata in composizione, pianoforte e clavicembalo nel conservatorio di Genova. Nel 2003
ha ottenuto il diploma di perfezionamento in composizione all’Accademia Nazionale di S. Cecilia in Roma, all'Accademia
Chigiana di Siena e alla Fondazione Romanini di Brescia, studiando con Azio Corghi. Vincitrice di diversi concorsi di
composizione nazionali ed internazionali e spesso segnalata per merito artistico delle sue composizioni, accompagna
all’attività musicale quella di drammaturgo e compositore di opere di teatro musicale, rappresentate in Italia che
all’estero. E’ condirettrice della rivista SuonoSonda ed è docente al Conservatorio di Como.
Carla REBORA
Si è diplomata in Pianoforte e in Composizione al Conservatorio di Alessandria. Ha ottenuto il Diploma di Merito
all’Accademia Musicale Chigiana e il Diploma di Alto Perfezionamento all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma.
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Nel 2006 ha terminato il Biennio di Secondo Livello in Composizione. Ha vinto vari Premi di Composizione a vari concorsi
nazionali e internazionali. Ha ricevuto numerose menzioni d’onore. I suoi lavori sono stati eseguiti in importanti sale in
Italia e all’estero. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio Play It! È docente di Armonia Complementare presso il
Conservatorio di Castelfranco Veneto.
PRIME DONNE COMPOSITRICI A SCRIVERE A 4 MANI
Carla MAGNAN
Buon pomeriggio a tutti. Innanzitutto mi ricollegherei, brevemente, a quanto è
stato detto stamattina da Monica Cattarossi e da Bruna Braidotti sulla percentuale di
donne presenti in orchestra o di artiste nei teatri, dove abbiamo ben capito che siamo in
netta minoranza. Se noi pensiamo, poi, alle compositrici, questa percentuale si abbatte in
maniera importante, avvicinandosi percentualmente allo zero.
Pensate solamente alla presenza della musica contemporanea nelle stagioni
teatrali di tradizione musicale. In esse, la presenze di un compositore contemporaneo, uomo
o donna che sia, è già bassissima e se all’interno di “questi contenitori” vogliamo cercarvi il
nome di una donna, si evidenzia come noi qui presenti (rappresentanti del nostro settore)
siamo, in Italia, veramente una minoranza assoluta. Possiamo definirci dei “Panda albini” per
quanto siamo poche, e come tali da difendere.
Questo per anticiparvi la realtà del sistema musicale nel nostro paese.
Un sistema in cui, in stagioni tradizionali ed importantissimi del settore come
Milano Musica, nobilissima associazione per la musica d’oggi che esiste da più vent’anni, su
279 compositori eseguiti, le donne compositrici sono poco più di una decina (11 credo) di
cui la metà straniere.
Questi dati sono facilmente reperibili dal sito www. milanomusica. org.
E non è ovviamente l’unica realtà.
Eppure non mancano nomi prestigiosi, italiane e straniere, e seguitissime
all’estero: Kaija Saariaho, Lucia Ronchetti, Sofia Gubaidulina, Olga Neuwirth, Liza Lim,
Roberta Vacca, Silvia Colasanti, Ada Gentile. Per citarne solo una piccolissima parte.
Ma cosa possiamo fare nel concreto per riuscire ugualmente a fare il lavoro che
amiamo in Italia e con queste difficoltà?
La risposta che ci siamo date io e Carla Rebora, è la nostra collaborazione a
quattro mani.
Giustamente si diceva: come mai le donne non hanno scritto, nel passato, pezzi
per grande orchestra? Perché era difficile sostenere l’organizzazione del tutto, familiare in
primis, e la gestione dell’esecuzione.
Entrambe abbiamo un’attività intensa per quanto riguarda la scrittura di musica
da camera, ma per noi, la vera sfida è la scrittura per il teatro musicale.
E scrivere opere per il teatro musicale richiede moltissimo tempo, non solo per la
produzione in sé, ma anche per la promozione e la sponsorizzazione dei progetti.
Questa forma di collaborazione, che abbiamo strutturato e maturato nel tempo ci
porta ad avere dei risultati notevoli considerando l’esiguità della possibilità che offre il
sistema italiano.
108
Voi pensate che compositrici di teatro musicale in Italia siamo forse una decina, e
non so nemmeno quanti qui in sala effettivamente sappiano che cos’è il teatro musicale
contemporaneo, quindi. . . potete immaginare il resto!
La nostra collaborazione nasce casualmente, siamo state colleghe all’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia, per darvi dei riferimenti, io sono stata la quinta donna ad entrare
come compositore.
Carla REBORA
Ed io la sesta.
Carla MAGNAN
Si, solo quattro donne compositrici prima di noi. Ed io in assoluto la prima ad
entrare in maternità durante la frequenza del corso!
La nostra collaborazione è nata grazie ai suggerimenti di un editore che avevamo
in comune, cominciando così a scrivere quasi per un obbligo, e non partendo dal
presupposto di un’amicizia.
Poi con la maggior conoscenza reciproca e la collaborazione continua l’amicizia si è
affermata nel tempo, soprattutto superando la difficoltà sul campo. Una stima che è andata
via via crescendo, lavorando sull’organizzazione del lavoro e sulla divisione dei compiti.
Essere oggi un compositore, non vuol dire solo scrivere, cosa che richiede già
un’enormità di tempo, difficile da spiegare, ma richiede anche capacità di lavoro di
organizzazione, copisteria, di marketing, di pubblicità.
Bisogna essere in grado di gestire un sito, essere presenzialisti agli eventi del
settore. Tutte cose che i nostri colleghi “maschi” hanno più tempo di fare, noi, che nel 2014
abbiamo una famiglia a cui non vogliamo rinunciare.
Essere in due crea la base per una gestione diversa degli impegni, perché dal
momento che promuoviamo un nostro lavoro, ci dividiamo i viaggi e gli appuntamenti,
riuscendo a coprire anche queste esigenze.
Carla REBORA
E questo poi comporta, oltre agli aspetti pratici, anche altri aspetti.
Il primo aspetto di criticità che abbiamo notato immediatamente è stata una
grande diffidenza da parte dei nostri colleghi uomini, ma anche delle colleghe, perché nel
nostro campo compositivo non è così facile fare gruppo. Non lo è mai stato e tanto meno lo
è adesso.
Infatti le grandi associazioni, come Suonodonne e di In-Audita, grandi e importanti
movimenti e momenti in cui le donne si sono unite, compiono vent’anni adesso, ma non
sono frutto della nostra generazione. Pur partecipando attivamente a queste iniziative, non
ne siamo state direttamente fautrici.
Tornando alle criticità dello scrivere a quattro mani, la diffidenza dei colleghi
mostra un aspetto positivo. Secondo me è anche lo specchio del fatto che noi abbiamo
trovato una strada comunque originale, a prescindere dal valore estetico e finale del nostro
109
lavoro, perché nella storia della musica non esiste un simile esperimento a quattro mani,
mentre per i testi e per il teatro sappiamo che esistono vari esperimenti assimilabili.
Abbiamo un unico antenato storico, una coppia che però era formata da un
compositore, Raul Pugno, e dalla sua allieva. L’allieva era Nadia Boulanger, ma parliamo di
cento anni fa. Adesso notiamo che qualche coppia di colleghi uomini stanno iniziando a
copiare questa collaborazione.
E vorrei soltanto chiudere dicendo che la nostra esperienza, a prescindere dal
valore estetico, a mio parere mostra in modo piuttosto evidente tante caratteristiche che
oggi ho visto, anche se sviluppate in modo diverso. Queste caratteristiche sono veramente il
nostro universo: caparbietà e flessibilità. Tutte specificità che mi sento di dire molto
“nostre”. Ho sentito parlare soprattutto di grande capacità organizzativa ma anche di
notevoli capacità introspettive. Ecco perché a me piace vivere la mia esperienza di
compositore a quattro mani con Carla perché esalta la mia individualità, ma esalta anche il
mio sentirmi parte del genere femminile.
Quindi grazie.
Carla MAGNAN
Un’ultima cosa. Volevamo sottolineare che proprio qui a Pordenone c’è stata la
prima esecuzione del nostro primo pezzo scritto a quattro mani, nel 2004, al Festival di
musica sacra, un brano che poi ha vinto anche un Concorso internazionale, una bella
coincidenza questa, una coincidenza notevole.
(Carla Magnan e Carla Rebora)
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Ambra ZAGHETTO
Antropologa naturalista, ricercatrice indipendente e docente a contratto presso l’Università̀ di Pavia. L'attività artistica si
basa principalmente sulla realizzazione di cicli di ‘oggetti’ tattili che possono diventare anche elemento sperimentale
durante le sessioni di ricerca antropologica.
PARTITURE TATTILI
Buonasera a tutte. Oggi presento il progetto ‘Partiture Tattili’ basato su un’idea
nata dall’esperienza di lavoro svolta con gruppi di ragazzi sordi profondi durante gli studi di
antropologia.
In quel periodo ero rimasta colpita e affascinata dal come un sordo profondo
potesse avvertire lo stimolo sonoro attraverso la percezione tattile. Da qui ò è nata l'idea di
creare oggetti artistici particolari, che potessero essere guardati, toccati, 'letti' e, poi,
interpretati. Così nascono le 'Partiture Tattili'.
Si tratta di dodici tavole a rilievo realizzate con stucco, cartoncino nero e colla.
Ogni tavola è caratterizzata da una specifica sequenza a rilievo astratta che appare come
una sorta di scrittura bianca su sfondo nero che, al pari delle note di una partitura musicale,
deve essere 'letta' e interpretata. Chiunque può interagire con questi oggetti e dare vita ad
una interpretazione assolutamente personale e unica che diventa parte stessa dell'opera.
L'interpretazione non è legata a regole predefinite/rigide e, proprio per questo, chi diventa
interprete può realizzare una performance che sarà direttamente legata al proprio vissuto e
alle sensazioni evocate dalla 'prova' della tavola. Nasceranno così performance ballate,
cantate, recitate, mimate, suonate, e così via.
Quando dico che chiunque può interagire con queste tavole intendo che anche
persone portatrici di una disabilità percettiva (per esempio, persone sorde o cieche)
possono 'provare' e interpretare le sequenze di segni a rilievo. Come fra poco vi mostrerò in
un video, persone sorde profonde che hanno partecipato ad una sessione sperimentale
hanno testato le dodici tavole hanno dato vita ad interpretazioni narrate in Lingua dei Segni
Italiana (LIS). Questa esperienza ha dato avvio ad un’interessante percorso di ricerca
dedicato all’analisi dei rapporti sinestetici tra modalità̀ sensoriali collaterali e/o convergenti
che ancora oggi sto portando avanti.
Da un'altra prospettiva, le 'Partiture Tattili' rappresentano un’alternativa alla
classica partitura musicale e alle ‘Partiture Grafiche’ dato che la loro interpretazione
scaturisce da una percezione duplice dei segni a rilievo: visiva e tattile. Il tatto diventa
elemento fondamentale in questo lavoro, e integra l'apporto visivo generando nel fruitore
sensazioni più intense e profonde, come dimostrano le testimonianze di persone udenti e
sorde che hanno testato le tavole del ciclo.
Ora mostro un breve video dove ho raccolto alcuni minuti di registrazione delle
diverse performance realizzate da persone udenti e sorde. Come vedrete, le persone sorde
interpretano in Lingua dei Segni Italiana la 'Partitura Tattile' scelta.
(Proiezione di un filmato)
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(Intervento parlato durante la proiezione del video) A questo punto vedete un
ragazzo sordo profondo che interpreta in Lingua dei Segni Italiana una delle tavole. Il
ragazzo propone un’interpretazione linguistica della tavola. La struttura è quella del
racconto.
Le 'Partiture Tattili', oltre ad essere innovative dal punto di vista del termine
'Partitura' in senso stretto, rappresentano un fatto nuovo in senso artistico: si tratta di
lavori con i quali è d'obbligo un'interazione diretta e una successiva interpretazione, dove
tatto e vista si integrano per dare una 'lettura' delle sequenze astratte. Oggetti di questo
tipo permettono una fruizione ampia dato che coinvolgono anche persone con specifico
deficit percettivo. Questo è un fatto nuovo e interessante: se da una parte questi oggetti
permettono il coinvolgimento di un pubblico 'ampio' durante eventi artistici e un incontro
tra culture diverse, per esempio tra cultura sorda e cultura udente, dall'altra consentono
un'estensione del concetto stesso di 'Partitura'.
Le prove pratiche delle tavole tattili hanno prodotto numerosi e interessanti
risultati che ho in parte pubblicato; tuttavia, questo progetto è stato portato avanti senza
finanziamenti per cui mi auguro di poter trovare quanto prima una sovvenzione che mi
permetta di proseguire in questa direzione.
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Anna GEMELLI
Pianista-compositrice: Si è diplomata con lode in pianoforte al Conservatorio di Milano e ha seguito i corsi di
Composizione. Per molti anni ha tenuto concerti solisti e “da camera” per importanti Enti musicali. Ha insegnato
pianoforte nei Conservatori di Bolzano, Piacenza, Milano. Sue composizioni sono state trasmesse da Radio RAI3 e
regolarmente vengono eseguite in Italia e all’estero. E’ stata Direttore Artistico di Stagioni concertistiche e di altri progetti
musicali, ha tenuto conferenze/concerto.
UNA FANTASTICA AVVENTURA TRA FANTASIA E REALTÀ
Il mio intervento l’ho intitolato “Una fantastica avventura tra fantasia e realtà"
perché un giorno, parlando con una mia amica compositrice, Luisa Indovini Beretta,
abbiamo immaginato che forse sarebbe stato bello creare un CD di favole un po' moderno,
un po' originale, da dedicare ai bambini.
Favole, però, diverse dalle consuete, utilizzando testi attuali affiancati a
composizioni contemporanee di facile comprensione; il risultato sarebbe stato non solo
originale e moderno ma anche gradevole e piacevole all'ascolto.
Lo scopo fondamentale era quello di stimolare i bambini ad avvicinarsi alla Musica
contemporanea, alla Musica del nostro tempo così poco frequentata un po' da tutti.
Sappiamo che nelle scuole primarie italiane i piccoli non vengono educati ad
ascoltare musica colta: questo il motivo che soprattutto ci invogliò e ci spronò a creare
qualche cosa di nuovo, ma nel contempo di qualità, sicure che avremmo fatto un buon
lavoro a favore dei fanciulli.
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Luisa aveva già una favola pronta per essere registrata e un’altra quasi terminata;
io ne avevo due già pronte. Quattro favole, però, erano troppo poco per realizzare un CD, ne
occorrevano altre.
Si pensò allora di chiedere la collaborazione di nostre colleghe compositrici.
Così ebbe inizio la "fantastica avventura".
Al nostro progetto aderirono Beatrice Campodonico di Milano, Anna Maria
Federici di Modena e Gabriella Cecchi di La Spezia.
Si lavorò con molto impegno e molto entusiasmo e pian piano le favole si
concretizzarono musicalmente.
In secondo tempo - per dare un senso più completo al tutto - si pensò di
aggiungere delle illustrazioni, ciò avrebbe stimolato ancor più la fantasia dei bambini.
Per questo lavoro aggiuntivo interpellammo Ambra Zaghetto, una persona
artisticamente eccezionale, che ci preparò 12 tavolette "astratte" in rilievo che intitolò “I
Suoni bianchi della notte”.
L’insieme si dimostrò molto, molto interessante. Eravamo soddisfatte.
A questo punto si decise di passare alla fase tecnica di realizzazione.
Prendemmo contatto con attori, attrici, esecutori ed esecutrici e iniziò lo studio e
la preparazione dei brani.
La Casa Musicale Eco di Monza ci fornì tutti i supporti necessari per la
registrazione e la realizzazione del CD che si decise di intitolarlo “I suoni bianchi della notte”,
prendendo spunto dal titolo delle tavolette astratte di Ambra Zaghetto.
Il CD uscì nella primavera del 2012. La “fantastica avventura” era finalmente una
realtà.
114
Non nego che noi compositrici incontrammo molte difficoltà nel cercare una qualche
sponsorizzazione che ci consentisse di affrontare con maggior tranquillità le non indifferenti
spese editoriali, infatti alla fine non si ottenne nulla. Ma in compenso il CD ebbe da subito un
buon successo: ne parlarono trasmissioni radiofoniche, riviste musicali importanti, come Amadeus
per esempio, giornali, poi interviste, presentazioni in biblioteche, librerie e librerie specializzate per
bambini, eccetera.
Questa fu la più bella e gradita ricompensa alla nostra personale fatica. Il nostro
progetto musicale - che inizialmente non era stato considerato come utile e necessario - pian
piano si stava dimostrando di valore e altamente educativo.
Gli ottimi giudizi da parte di persone competenti ci procurarono grande gioia; poi via via
si aggiunsero ancora altri e tanti piacevoli riscontri positivi.
Concludo dicendo che Luisa, Annamaria, Beatrice, Gabriella ed io siamo orgogliose di ciò
che siamo riuscite a realizzare da sole, con le nostre forze e orgogliose anche di aver contributo ad
arricchire un ambito culturale così particolare com'è quello dedicato ai bambini.
Ulla ALASJÄRVI
Studia all’Università di Helsinki, Finlandia, Dipartimento Storia del Teatro. Collabora con l’Odin Teatret. Partecipa a varie
produzioni teatrali con ottimi riscontri. Fonda con Beppe Bergamasco la Mobile Action Artists’ Foundation, ora C. S. D.
Compagnia Sperimentale Drammatica a Torino. Dal ’77 a oggi crea più di 40 spettacoli rappresentati per il mondo di cui è
autrice e co-autrice. Dal 2000 dirige L’ESPACE realizzando da 15 anni la Stagione Marginalia per giovani compagnie
italiane e europee, ospitando importanti manifestazioni. Ha recitato per il cinema con registi come Dario Argento, Ted
Nicolao e Giuliano Montaldo. Collabora nel contesto del teatro sociale col Gruppo Abele, Comunità Fermata d’Autobus,
Dropin e con l’Unione dei Ciechi di Torino in collaborazione con la Cattedra di Teoria e Pratica del Teatro Educativo e
Sociale, Università di Torino, proponendo laboratori e spettacoli.
PARLA LA DONNA COSA DICONO IN AFGHANISTAN,
GEORGIA, SUDAFRICA, AUSTRALIA, IRAN
Buonasera, sono Ulla Alasjärvi Bergamasco.
Dal mio nome, si può già capire che non sono solo italiana. Di fatto, sono
finlandese al cento per cento e torinese di adozione. Ora voglio dire due parole per spiegare
meglio come mai sono qui a Pordenone a parlare di teatro. Non è poi così ovvio!
Mentre facevo i miei studi all’Università di Helsinki (studiavo logopedia e storia del
teatro), m’impegnavo anche nella pratica. Lavoravo come attrice negli spettacoli del Gruppo
Collegium Artium e del Teatro Universitario e come ballerina nel Teatro delle Operette e nel
musical “Il violinista sul tetto” al Teatro Municipale di Helsinki. Capitò che un giorno lessi su
Drama Review, rivista americana di teatro, un articolo su Jerzy Grotowski e sul suo “teatro
povero”. Mi dissi: “Questo è ciò che voglio fare!” Nell’articolo c’era anche un accenno al
laboratorio di teatro con la partecipazione di Jerzy Grotowski all’Odin Teatret, Holstebro
Danimarca. Ovviamente andai a Holstebro e all’Odin Teatret ed incontrai il teatro mondiale
attraverso Jaques Lecoque, Etienne Decroux, Joe Chaikin, Open Theatre, Dario Fo ecc. ecc.
Alla fine del laboratorio, parlai con il direttore dell’Odin, Eugenio Barba, non in italiano, lui in
norvegese con un lieve adattamento danese ed io in svedese. Gli feci presente che mi
115
sarebbe piaciuto lavorare all’Odin. Lui mi rispose che da lì a poco ci sarebbero stati dei
provini per la nuova produzione. In sintesi, venni accettata e partecipai come attrice allo
spettacolo “Ferai”.
Dopo quest’esperienza, decisi di andare a Wroclav per un laboratorio nel teatro di
e con Jerzy Grotowski. Alla fine del laboratorio, chiesi ad una delle partecipanti, un’attrice
francese, dove sarei potuta andare a cercare lavoro. Lei mi rispose immediatamente: “Vai al
Mickery Theatre. ” E io: ”Dov’è ?” Lei rispose: “A Loenersloot. ” E io ripetei: “Dov’è?” “In
Olanda, vicino ad Amsterdam. ” Due giorni dopo arrivai al Mickery Theatre diretto da Richard
Ten Cate. Fu al Mickery che incontrai Fonda con Beppe Bergamasco la Mobile Action Artists’
Foundation ……”, l’uomo della mia vita. E’ da 40 anni che continuiamo in teatro con le
nostre produzioni e laboratori, con la gestione teatrale e con le tournee in tutto il mondo:
Bahamas, New York, Francia, Svizzera, Jugoslavia (ora Serbia e Croazia), Israele, Egitto,
Tunisia, Norvegia, Svezia, Finlandia, Cipro, Spagna, Germania ecc.
Due parole sul luogo che accoglie da più di 10 anni il nostro teatro, Teatro Espace.
Il palazzo, progettato dal famoso architetto torinese Pietro Fenoglio, è stato
costruito nel 1911 per Signor Ambrosio che voleva estendere la sua attività di produzione
cinematografica. L’Ambrosiofilm è stato uno dei primi studi cinematografici a Torino e in
Italia. Era uno stabilimento imponente che comprendeva non solo studi di ripresa, ma anche
spazi di sartoria, falegnameria, e laboratori per il trattamento completo della pellicola fino
allo sviluppo e alla stampa. Eleonora Duse ha partecipato alla produzione di “Cenere” sia
come protagonista sia come co-produttrice. Uno dei fratelli Lumière venne a discutere con
Ambrosio del futuro dell’industria cinematografica.
La ragione per cui mi trovo qui deriva dall’incontro mondiale dell’WPI (Associazione
Drammaturghe Mondiali), che ebbe luogo a Stoccolma nell’agosto 2012. Mi avevano
invitato a partecipare con il mio testo “Non si spara sui passerotti” (“Don’t kill the
mockingbirds”) che parla di una psicologa e di una bambina autistica.
A Stoccolma incontrai Bruna a cui devo la mia presenza qui.
A Stoccolma ci s’incontrò con delle donne che provenivano da tutto il mondo e
parlavamo, parlavamo. E sapete che parlare con una donna palestinese è un’altra cosa che
leggere una notizia riferita alla Palestina sui giornali.
Tornai a Torino e mi domandai come riuscire a tenere vivi questi rapporti. Per la
Giornata Mondiale della Donna decisi di organizzare una lettura di testi, testi che chiesi via
e-mail alle iscritte dell’WPI. Ricevetti risposte da Afghanistan, Georgia, Prishtina, Iran,
Lettonia, Sud Africa, Uganda, Australia, New York, Inghilterra, Galles, Oslo, e Stoccolma.
Quanto è importante, quanto è toccante un tale contatto, anche se il contatto
avviene via media. E’ attraverso le parole e attraverso la comunicazione che riusciamo a
percepire il senso profondo, insito in una relazione, dei segni che siano parole, gesti, silenzi.
Vi leggo il testo della scrittrice norvegese, sottolineo, non un’immigrata, ma
norvegese.
“Io vivo con un uomo che dice di amarmi. I miei genitori, mia mamma, mio papà, mi
aiutano sempre. Faccio un lavoro in cui posso usare le mie capacità. La mia vita sociale è
molto vivace. Io non patirò mai la fame. Non soffrirò mai del freddo. Vivo in un Paese che è
uno dei più ricchi Paesi del Mondo: Norvegia. Posso esprimermi liberamente. Questo è un
116
paese democratico. Adesso qualcuno dovrebbe spiegarmi perché sto sul balcone all’ottavo
piano e voglio buttarmi giù. ”
Fa pensare, no?
Come contrasto voglio leggere il racconto inventato da mia nipotina Clarissa di 7
anni.
“C’era una volta un uomo molto povero. Il suo cuore era pieno di oscurità, di amore
non ce n’era neanche un po’. E l’uomo sgridava tutti quelli che incontrava. Poi un giorno, una
donna piacevole, piena di amore, si avvicinò a lui e gli chiese: “Come stai?” L’uomo si mise ad
urlare: “Che cosa vuoi da me? Io riempio questo posto di buio! “
La donna rispose: “Che il cattivo se ne vada via! Che tornino l’amore e la cura!!”
Da quel giorno in poi l’uomo divenne gentile, sempre capace di amare.
Adesso, non essere mai cattivo con nessuno e vedrai che, se sei gentile e capace di
amare, eviterai il buio. ”
Per poter leggere il testo di Clarisa, ho chiesto il permesso a nostra figlia, Ambra.
Spero che continuiamo a stare in contatto e a sviluppare i nostri progetti. L’Homo
Sapiens senza comunicazione non sopravvive.
Allora, andiamo avanti, ce la facciamo!
Stefania BOFFA
Artista e artista-terapista, laureata all'Accademia di Belle Arti di Brera, ha maturato diversi progetti di terapeutica
artistica, rivolti in particolare a donne con disturbi della condotta alimentare. Ha significative esperienze di tirocinio in
diversi ambiti socio-sanitari, dall'autismo alla psichiatria all'infanzia.
VASI SPEZIATI / VASI DI DONNA
Buonasera a tutte. Noi siamo Chiara di Gregorio e Stefania Boffa, e siamo due
artiste terapiste, e quindi ci occupiamo di terapeutica artistica. In poche parole cos’è? E’ una
disciplina in cui il nostro ambito di ricerca si basa su un presupposto molto semplice: noi
crediamo che l’espressione artistica contenga un potenziale curativo, maieutico, benefico
per ciascun individuo. Partendo da questo presupposto, e dalla nostra formazione in campo
di riabilitazione, prevenzione e cura del disagio psichico e psicosociale, abbiamo scelto di
presentarvi l’ultima attività realizzata assieme, che ha come protagonista proprio un gruppo
di donne. Si tratta di un laboratorio di ricerca rivolto a donne in psicoterapia per disturbi
dell’alimentazione, disturbi della condotta alimentare, soprattutto anoressia e bulimia.
Ora, attraverso il video che vi mostreremo cercheremo di illustrarvi di cosa si tratta
la nostra attività e i riscontri che abbiamo avuto.
(Viene proiettato un filmato)
117
Chiara DI GREGORIO
Designer e Artista Terapista, ha maturato significative esperienze sull’uso dello strumento artistico nel trattamento
dell’autismo, del mutismo selettivo e dei disturbi del comportamento alimentare, elaborando e conducendo diversi
progetti di terapeutica artistica, sotto l’egida dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano), dell’Università degli Studi di
Pavia (Department of brain and behavioural Sciences), e di vari enti ‘no profit’.
Allora, la materia che abbiamo deciso di utilizzare è la pappa di carta, in particolar
modo la carta riciclata, con la quale abbiamo realizzato dei fogli di carta colorati con
coloranti alimentari, per ricollegarci alla patologia delle pazienti con le quali abbiamo
lavorato.
Queste che sentite parlare sono le donne artiste, ma che non avevano mai fatto
arte prima.
Ogni paziente ha potuto realizzare delle opere singole e anche delle opere di
gruppo.
Nella seconda fase del nostro laboratorio abbiamo realizzato dei vasi con materiali
di recupero, che potete vedere qui.
La struttura dei vasi è stata realizzata in cartapesta. Come vedete, ogni vaso è
molto particolare e sono diversi gli uni dagli altri, poiché ognuno rappresenta l’artista che
l’ha prodotto.
In un secondo momento il vaso è stato ricoperto di gesso liquido, di polvere di
gesso, e in questo caso esso rappresenta la metafora della terra intesa come archetipo
della terra madre.
Quindi la superficie del vaso è stata lavorata con la carta vetrata, per richiamare i
trattamenti di bellezza alle quali le donne si sottopongono, che molto spesso sono anche
aggressivi, pur di apparire belle, o di sentirsi belle.
Le opere sono state tinte con una mistura di colla vinilica e polvere di peperoncino,
con la quale si può realizzare un ampio range cromatico, utilizzando sempre la materia
alimentare, sempre ricollegandoci alle patologie dell’alimentazione.
Con queste opere è stata poi realizzata un’esposizione che ha permesso di far
conoscere alla comunità non soltanto quelli che sono i disturbi della condotta alimentare,
ma anche il nostro modo di affrontarli, ovvero attraverso la terapeutica artistica ed facendo
conoscere ed apprezzare le creazioni fatte dalle donne principalmente per se stesse.
Questo aspetto è stato rilevante per far sentire le nostre pazienti, non più soltanto malate,
ma anche creatrici di opere arte di cui vedevano riconosciuto il valore. E questo è stato
molto importante, soprattutto per loro.
Ovviamente noi abbiamo lavorato con un team che coinvolgeva anche delle
psichiatre, che hanno potuto riscontrare gli effetti, la validità clinica del nostro lavoro.
Quindi non si tratta di terapia occupazionale, di lavoretti della domenica, ma c’è una validità
effettiva del metodo che è stato provato clinicamente e che si può applicare alla pratica
terapeutica.
Questo, brevemente, è quello di cui ci siamo occupate. Vi lasciamo i nostri
contatti, se avete domande, non esitate a farcele. Grazie.
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DONNE ARTISTE DIFFICOLTÀ CRITICITÀ QUOTIDIANE E SOCIALI
Bruna BRAIDOTTI
La sezione che inizia ora affronta gli ostacoli e le difficoltà del nostro operare artistico.
Ritorniamo al teatro con Carlina Torta, poi le altre a seguire alternando teatro, musica e arte
figurativa -
Carlina TORTA
Entra nel 1974 a far parte del "Teatro del Sole" di Milano. Nel 1979 scrive e interpreta "Panna Acida" con Angela
Finocchiaro, con la quale fonda il Teatro Panna Acida. Insieme realizzeranno “Scala F”. Regista e drammaturga di
numerosi spettacoli, ricerca una personale linea espressiva. Ha lavorato in teatro come scritturata con Andrée
Schammah, D. Maraini, Giancarlo Sepe, L. Muscato, A. D’Alatri. In cinema con M. Nichetti, N. Moretti, G. Piccioni, M.
Sordillo, Aldo, Giovanni e Giacomo, E. Cappuccio, G. Arcelli, C. Verdone, G. Base. Conduce dei laboratori di teatro.
119
AUTOSTIMA
Vorrei leggervi un brano tratto dal libro “L'harem e l’Occidente” dell’autrice
marocchina, Fatima Mernissi, ma prima cercherò di pronunciarmi sull’autostima.
Sono riuscita in tutti questi anni ad evitare di prendere la parola nei convegni, non
perché li snobbassi, ma perché pensavo che c’erano sicuramente persone più intelligenti,
più preparate di me che sarebbero riuscite a fare interventi illuminanti, stimolanti: credevo
di non avere niente da dire in quelle situazioni.
La confusione e il dubbio riuscivano a bloccarmi, a pietrificarmi. Oggi mi sono
forzata, obbligata a salire su questo palco per cercare di comunicare la mia esperienza.
Questa volta dovevo intervenire: è un convegno sull’arte della donna, e così mi sono detta:
"Carlina, devi andare, hai compiuto 60 anni, forse è arrivato il momento di cercare di
affrontare, superare la tua insicurezza. Magari qui in platea ci sono giovani donne che hanno
vissuto e vivono le tue stesse paure, i tuoi dubbi: la tua esperienza potrà incoraggiarle. "
Sono un’attrice, abituata al palcoscenico, ma una cosa è interpretare un ruolo, un
personaggio, altra cosa è essere qui come Carlina e dover argomentare, discutere, cercando
di interessare il pubblico, su qualsiasi problema o questione. Il mio linguaggio è il Teatro,
che per me è sintesi tra dialogo, silenzio, pausa, ritmo, musica, gesto, movimento. Per
fortuna ho sempre avuto la consapevolezza di saper realizzare spettacoli in cui riuscivo a
comunicare il mio sentire.
Nella costruzione di uno spettacolo, sia nella fase di scrittura scenica che
drammatica, niente può fermarmi, mi sento in armonia, a mio agio in tutto quello che faccio,
al di là dei centomila problemi che sempre devo affrontare. Dopo, invece, incominciano le
insicurezze, arrivano i dubbi: “Mah, boh. . . fregherà a qualcuno? No, non interessa a
nessuno, sono menate tue: falla finita, lascia perdere, ma dove vuoi andare?". Credo che
dobbiamo tenere a bada quella vocina, "la vocina cattiva".
Sono convinta dell’unicità dell’individuo, chiunque ha qualcosa di interessante da
dire. Nei miei spettacoli, affronto temi come l'amore, ma anche inquietanti, come la
solitudine, la malattia, la morte, la vecchiaia, per imparare a conviverci, con le sfumature
dell’esistenza, le sue gioie e le sue difficoltà. Con mio grande stupore, constato che il
pubblico si riconosce nei mie personaggi, così ho la conferma di non essere un marziano ma
al contrario che molti individui vivono le mie stesse ansie, le mie inquietudini.
Credo che noi donne, dovremmo recuperare una comunicazione che includa anche
le nostre paure, che ammetta la fragilità, cercando di togliere maschere e difese:
trasformare la nostra debolezza in forza! Se oggi siamo qua, è perché siamo donne creative,
perché abbiamo determinazione, forza. Dobbiamo recuperare anche quella comunicazione
che c’era negli anni ’70, quando facevamo autocoscienza; ridare valore all'umanità
dell'individuo, allenandoci in un dialogo interiore per conoscerci più profondamente e
riuscire poi a dialogare con tutti, soprattutto con chi è diverso da noi: il mondo maschile.
Nel libro "La terrazza proibita", Fatima Mernissi fa dire al personaggio della zia
Habiba, a proposito della bellezza “Se gli uomini si fossero fatti maschere di bellezza invece
che maschere da guerra, il mondo sarebbe stato un posto di gran lunga migliore”. Nel brano
che adesso vi leggo tratto da “L’harem e l’Occidente”, invece si affronta il tema del viaggio e
120
delle difficoltà e del panico della donna al momento di attraversare oceani e fiumi. Il viaggio
è la vita e credo sia una grande metafora sulle difficoltà che incontriamo ogni giorno e che
dobbiamo superare nel nostro percorso di crescita.
“Se per caso vi capitasse di incontrarmi all’aeroporto di Casablanca, o su una nave in
partenza da Tangeri, vi apparirei disinvolta, sicura di me, ma la realtà è ben diversa. Ancora
oggi, alla mia età, l’idea di varcare una frontiera mi rende nervosa, temo di non comprendere gli
stranieri.
"Viaggiare è il modo migliore per conoscere e accrescere la tua forza" diceva
Yasmina, mia nonna, che era illetterata e viveva in un harem, una tradizionale abitazione
familiare dalle porte sbarrate che le donne non erano autorizzata ad aprire. "Devi focalizzarti
sugli stranieri che incontri e cercare di comprenderli. Più riesci a capire uno straniero, maggiore
è la tua conoscenza di te stessa, e più conoscerai te stessa, più sarai forte". Yasmina viveva la
sua vita nell’harem come una vera e propria prigionia. Aveva perciò un’idea grandiosa del
viaggiare e vedeva nell’opportunità di varcare dei confini un sacro privilegio: la migliore
occasione per lasciarsi dietro la propria debolezza.
Qualche anno fa ho dovuto recarmi in Occidente e visitare una decina di città, per la
promozione del mio libro ‘La terrazza proibita, uscito nel 1994 e tradotto in ventidue lingue.
Sono stata intervistata da più di cento giornalisti occidentali e in quell’occasione ho potuto
notare che la maggior parte degli uomini pronunciava la parola ‘harem’ con un sorriso. Quei
sorrisi mi sconcertavano. Come si può sorridere evocando un sinonimo di prigione? Per mia
nonna Yasmina ‘harem’ rimandava alla crudele restrizione dei suoi diritti, primo tra tutti ‘quello
di viaggiare e scoprire la bellezza e la complessità del pianeta di Allah’, come diceva lei.
Da principio non fu facile trasformare il mio sentimento negativo in uno stato
d’animo positivo, più propizio all’apprendimento. Cominciavo a domandarmi se, data la mia
età, non stessi perdendo la capacità di adattarmi rapidamente a nuove situazioni, e mi
terrorizzava l’idea di diventare rigida, incapace di accogliere l’imprevisto. Ma nessuno fece caso
alla mia ansia durante quel viaggio di promozione, grazie al pesante bracciale berbero che
sfoggiavo e alla profusione di rossetto Chanel sulle mie labbra.
Quei giornalisti non potevano certo immaginare quanto io invece fossi vulnerabile.
Una ragione per cui mi sentivo così fragile, credo, era l’aver scoperto di non sapere nulla, o
quasi, sugli occidentali, e ancor meno sulle loro fantasie.
Diceva mia nonna Yasmina ‘il bagaglio più prezioso che portano gli stranieri è la loro
differenza. E se ti concentri sul divergente, sul dissimile, avrai anche tu delle illuminazioni’.
Per tutta l’infanzia Yasmina mi ha ripetuto che è normale, per una donna, provare
panico al momento di attraversare oceani, fiumi. ‘Quando una donna si decide a usare le
proprie ali, si assume grandi rischi’ mi diceva. Non solo Yasmina credeva che le donne avessero
le ali, ma era anche convinta che facessero male a non usarle. Quando morì io avevo 13 anni,
avrei dovuto piangere, ma non lo feci. ‘Il miglior modo di ricordare tua nonna è tramandare la
mia preferita tra le storie di Sherazade, quella della "Donna dal vestito di piume". Io quella
storia l’ho imparata a memoria. Il nucleo centrale del suo messaggio è che la donna dovrebbe
vivere come una nomade, sempre all’erta, sempre pronta a migrare, anche quando è amata,
perché – almeno, così dice la fiaba – l’amore può fagocitarla e diventare la sua prigione.
121
Claudia CONTIN ARLECCHINO
Attrice, autrice, insegnante di teatro, è conosciuta come Arlecchino, ma si occupa anche di teatro drammatico
contemporaneo. Espone come pittrice, scultrice e grafica, si occupa degli aspetti figurativi del teatro, dalla scenografia, al
costume, alle maschere, al disegno corporeo del comportamento dei personaggi. Sul teatro, ha scritto diversi volumi,
tradotti in varie lingue. È co-fondatrice della Scuola Sperimentale dell’Attore di Pordenone. Dirige il Progetto Sciamano,
che si occupa, nel teatro e non solo, dei valori artistici della disabilità.
GENERAZIONI DI DONNE: ABBIAMO ANCORA BISOGNO DI CREDERE CHE TUTTO SIA
POSSIBILE
Mi chiamo Claudia Contin Arlecchino e la mia competenza si esplica, a partire dal
1979, nel campo delle arti figurative e dell’arte del teatro.
Cercherò di essere breve, data la densità degli argomenti pieni di suggestioni che
abbiamo potuto ascoltare negli interventi di questa giornata. Ma è proprio dalla ricchezza di
questa “fucina” di testimonianze, di esperienze e di lotte di donne che può partire il mio
contributo di oggi, per riflettere sull’atteggiamento con cui possiamo affrontare l’ancora
controverso ruolo della donna nei confronti dell’arte.
Un ruolo ancora “controverso” solo se ci lasciamo fuorviare da quell’antiquato ma
ancora fastidioso cliché che vorrebbe vedere nella figura dell’artista un ruolo principalmente
maschile, adducendo la motivazione (tutta da verificare e contestualizzare) che i più grandi
artisti e i più grandi poeti, sarebbero soprattutto uomini.
Questo cliché sembrerebbe già stato abbattuto dall’impegno di innumerevoli
donne che si sono espresse e distinte nei più svariati mestieri e poetiche dell’arte, eppure,
purtroppo, ancora questo cliché si fa sentire nello sforzo maggiore che un’artista donna
deve sempre fare, rispetto ad un artista uomo, per imporsi nel suo mestiere e per averne le
proporzionate soddisfazioni, sia nel campo personale e morale, sia sotto l’aspetto
economico.
Infatti, il mio intervento intende proporre uno sguardo trasversale alle diverse
“generazioni di donne” che si sono confrontate e continuano a confrontarsi con il mutare
sempre più veloce della società che le circonda e dei messaggi mediatici che le reindirizzano
continuamente verso modelli di femminilità sempre più stretti, irrigiditi, stereotipati e verso
mestieri per così dire di “seconda categoria” e di servizio all’immaginario maschile.
Potremmo dire che in un mondo come il nostro, che dovrebbe essere sempre più evoluto,
civile, libero e paritario, l’immaginario sociale sui ruoli femminili sembra invertire la rotta e
retrocedere a preconcetti medioevali, esacerbati per altro dallo sviluppo di nuove tecnologie
per “ridisegnare” chirurgicamente e cosmeticamente l’ideale femminile cui tendere.
Rispetto alla mia esperienza di ormai quarant’anni di impegno professionale nel
mondo dell’arte, ho potuto incontrare oggi i punti di vista di molte di queste “generazioni di
donne”: sia le generazioni di college più esperte e mature di me, che possono proporre
analisi storiche del loro impegno nell’arte, sia le nuove generazioni di più giovani artiste che
si affacciano con forza e freschezza di idee al panorama dell’arte contemporanea.
In tutte queste testimonianze abbiamo potuto notare proprio il legittimo
“lamento” cui ho accennato sopra: la denuncia delle sovradimensionate difficoltà con cui
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un’artista donna deve affrontare il suo stesso ruolo propositivo nella società maschile.
Eppure, nell’incontrarci qui tutte assieme in questo convegno, credo che abbiamo
manifestato l’esigenza di esprimere non solo una nostra denuncia, ma anche un nostro
“bisogno”. Un bisogno che continua a nutrire il nostro fare quotidiano, il nostro agire
artistico e il nostro impegno nella società: “abbiamo bisogno di credere che tutto sia ancora
possibile!”.
Abbiamo cioè bisogno di credere ancora di poter “cambiare il mondo” o, meglio,
che con il nostro contributo il “mondo possa essere ancora cambiato”.
Mi rendo conto che sto usando degli “slogan” che potrebbero apparire
adolescenziali: infatti, è solo quando siamo adolescenti che ci sembra davvero di avere tutto
il futuro davanti e di poterlo anche costruire e cambiare. È quando agiamo con lo spirito di
adolescenti che possiamo protestare, opporci, ribellarci, dire dei “no” al pensiero dominante
e ai ruoli prestabiliti che ci stanno stretti. Invece, quando agiamo come persone “mature”,
spesso sentiamo di avere “le mani legate”, sentiamo che il nostro raziocinio ci rende chiare
tutte le trappole del nostro agire e tutti i rischi apparentemente inutili che corriamo,
sentiamo, insomma, che l’esperienza ci insegna a non lottare contro i “mulini a vento” del
nostro spirito donchisciottesco.
Eppure, ci sono stati momenti, nella storia del Novecento, in cui proprio lo spirito
donchisciottesco e adolescenziale ha aiutato le donne ad alzare la testa e a poter incidere
sui diritti di genere e sulla libertà femminile. Questo “credere che tutto sia ancora possibile”
ha aiutato le donne del Novecento ad uscire da condizioni di inferiorità che da millenni le
soffocava anche socialmente e legalmente, non solo artisticamente.
Mi sto riferendo, naturalmente, alle conquiste novecentesche ottenute in questo
campo dal movimento femminista (che abbiamo ereditato dai movimenti ottocenteschi)
collegato alla difesa più generale dei diritti umani.
Negli interventi che si sono succeduti oggi ho riconosciuto con piacere esperienze
artistiche e di vita che sono partite sin dagli anni Settanta del Novecento e che, per fortuna,
si rispecchiano in generazioni che ancora le testimoniano, le coltivano e ne consentono la
connessione con le generazioni successive. Questo mi sembra un fatto molto importante,
perché le nuovissime generazioni di donne, oggi (e oserei dire anche e soprattutto i colleghi
uomini), non hanno forse totalmente chiaro da dove partano le problematiche
discriminatorie che purtroppo rischiamo di incontrare di nuovo nel terzo millennio.
La mia formazione culturale si insinua alla fine degli anni Settanta del Novecento
proprio all’alba della mia adolescenza e la mia professione di artista figurativo e poi di
attrice si concretizza negli anni Ottanta. Ebbene, stiamo proprio parlando di quegli anni
Settanta e Ottanta in cui noi giovani donne “occidentali” davamo già per scontate alcune
delle conquiste che erano state guadagnate e vinte, a suon di battaglie durissime, soltanto
nei decenni precedenti. Non dobbiamo dimenticare, ad esempio, che in Italia il “Suffragio
Universale” che concedeva finalmente il diritto al voto anche alle donne, risale appena al
1945 e le donne hanno dovuto aspettare il 1946 per essere dichiarate anch’esse “eleggibili”.
Quello che avevano vissuto le nostre madri e le nostre nonne era dunque diverso
della nostra nuova mentalità di donne del secondo Novecento, perché loro, le nostre ave,
erano cresciute con una “mentalità di limite”, un limite che non era veramente crollato
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neppure dopo le battaglie e le conquiste.
Invece il senso dell’avvenuta “liberazione” era comunque così presente negli anni
Settanta e Ottanta che noi giovani artiste credevamo davvero che “tutto fosse possibile”:
che fosse possibile crearsi un proprio mestiere attraverso la competenza e
non attraverso l’asservimento;
che fosse possibile non sposarsi obbligatoriamente e vivere liberamente la
propria vita emotiva e relazionale attraverso altre forme di convivenza e impegno;
che fosse possibile, anche come donna, costruirsi la propria indipendenza
economica dalla famiglia d’origine o da quella di elezione, attraverso un riconoscimento
equo delle proprie capacità lavorative;
che fosse possibile, attraverso l’impegno e la dedizione, intendere il proprio
mestiere come una passione ed una missione, anziché come un lavoro standardizzato,
schiavizzante e alienante;
che fosse possibile, in definitiva, dare un calcio a tutte le inutili questioni di
genere ed essere considerate come “persone”, prima ancora che come donne o uomini.
Questi erano anche i miei “sogni” e i miei “credo” di ragazzina artista, lo ammetto!
Ma credo di poter affermare che li ho condivisi con la mia generazione di allora e con le
generazioni limitrofe con cui ho avuto a che fare in quegli anni.
In quel momento, in quel periodo, nel mondo del Terzo Teatro o del Teatro di
Ricerca, noi ci consideravamo tutti “attori”. E devo proprio dire “noi attori” non “noi attrici”,
perché avevamo in testa qualche cosa che era l’”attore neutro” e che derivava dagli studi del
mimo corporeo di Etienne Decroux e di Jacques Lecoq. L’”attore neutro”, era una sorta di
punto di partenza efebico, senza connotazioni di genere, un elemento neutro capace di
spostarsi indipendentemente in una direzione o nell’altra, del carattere e del genere dei
personaggi da interpretare. Una donna poteva benissimo interpretare un personaggio
maschile, a confronto con un uomo che poteva interpretare un personaggio femminile.
Avevo avuto la possibilità di incontrare molto presto culture teatrali in cui questo
percorso di “gross-gender” aveva radici antichissime e tradizionali, come ad esempio i ruoli
“Onnagata” del Teatro Giapponese, in cui solo gli attori maschi potevano interpretare
correttamente l’idealizzazione della figura femminile nello stile Kabuki; oppure i ruoli
femminili del “Minukku” nel teatro-danza Kathakali del Kerala nell’India del Sud, interpretati
da danzatori maschi; o ancora il ruolo femminile “Dan” nell’Opera Cinese che, fino
all’Ottocento, era riservato ai grandi interpreti maschili come Mei Lan Fang e che, dopo la
rivoluzione cinese continua talvolta ad essere interpretato da attori maschi accanto a
colleghe attrici che possono interpretare invece ruoli maschili, come la grande Pei Yan Ling,
una delle prime e più famose interpreti dei ruoli maschili “Sheng”, che ho avuto la fortuna di
conoscere e frequentare personalmente.
Negli anni Settanta/Ottanta una ragazza come me, che voleva intraprendere gli
studi e la carriera del teatro e dell’arte figurativa, si chiedeva semplicemente: <<Come faccio
a percorrere questa strada?>>. Non ci si chiedeva invece: <<sono donna?>> o <<sono
uomo?>>, non ci si chiedeva neppure <<è un mestiere che fa per me o non è un mestiere
che fa per me?>>. Non si ci si faceva questo tipo di domande perché eravamo ancora
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vicinissimi all’impulso possibilista del Sessantotto: vicinissimi a questa sorta di rivoluzione
delle coscienze che aveva per così dire “appianato le cose”, che aveva aperto le strade di
molte emancipazioni, forse non concluse o non sviluppate, ma almeno erano state aperte.
Pertanto, una giovane artista poteva aver fiducia nelle possibilità e si chiedeva soltanto
come fare a coglierle correttamente: <<Come faccio a studiare, ad approfondire, a
mantenermi fino a quando questo mestiere ce l’avrò davvero in mano e lo saprò fare
davvero bene?>> queste erano le nostre domande. Quindi, era un momento in cui tutto
sembrava possibile, grazie all’impegno e alla determinazione.
Più di oggi, paradossalmente.
Oggi, strada facendo ci siamo accorti che quell’appianamento e quell’apertura di
possibilità nascondeva, sotto le ceneri, gli stessi spuntoni di difficoltà che le donne hanno
sempre avuto da millenni.
Effettivamente anche per me, come per molte di voi, non è stato facile essere
donna e confrontarmi con il mondo professionale del teatro o dell’arte figurativa. Non è
stato facile!
Oggi, noi artiste, per affrontare con consapevolezza internazionale e globale il
problema della discriminazione femminile, non possiamo esimerci dal confrontarci con le
situazioni sociali e le legislazioni di alcuni altri Paesi, dove la donna subisce ripetutamente
costrizioni enormi, oppressioni, persino torture e assassinio legalizzato. E dobbiamo farlo
non solo per carità o solidarietà umana verso le donne (e sorelle) di altre culture, ma anche
perché le violenze che esse subiscono si riflettono pericolosamente ed ignobilmente anche
sulla “decadenza” della nostra stessa cultura occidentale. Una cultura occidentale che non è
ancora in grado di opporsi efficacemente al perpetrarsi interno delle violenze domestiche
(antichissime quanto l’istituzione dogmatica delle famiglie) e all’aumentare esponenziale
dei femminicidi contemporanei (figli di un’inadeguatezza emotiva delle generazioni odierne
all’evolversi del rapporto uomo-donna).
Oggi noi artiste possiamo permetterci di dare per scontati molti dei diritti di cui ci
avvaliamo e di dare per scontate molte delle cose che possiamo fare, che possiamo dire, che
possiamo pretendere. Ma se ci rendiamo conto che tutto ciò che diamo per scontato è stato
guadagnato attraverso durissime lotte di genere, delle generazioni di donne che ci hanno
preceduto, allora i nostri “diritti” si trasformano in “doveri”:
dovere di testimoniare e difendere la nostra libertà conquistata,
dovere di esprimerci e di guadagnarci l’ascolto collettivo,
dovere di imporre la nostra indipendenza artistica e di renderla utile
collettivamente,
dovere di offrire un “mutuo soccorso” che supporti e sostituisca la nostra
“richiesta di soccorso”.
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Ce la possiamo fare! Amiche!
Ritratto dell’Arlecchino di Claudia Contin (foto di Hector Gonzales 1999)
Io credo che la questione femminile nell’arte possa diventare una forza, anziché la
perpetrazione di una debolezza. Ma perché questo sia possibile, credo che non bisogna
limitare o confondere la questione dell’arte delle donne con la femminilità nell’arte.
Sono due cose completamente diverse.
Io stessa mi occupo, nel campo del teatro, di una ricerca di confronto paritario e
professionale con il maschile, piuttosto che di una rivendicazione della mia femminilità nel
mondo dello spettacolo. Mi sono specializzata, infatti, nell’interpretazione di ruoli maschili,
sia nel teatro contemporaneo (interpretando ad esempio personaggi come Artaud, Amleto,
Schiele, Ungaretti) sia nel teatro comico della Commedia dell’Arte, come prima donna ad
assumere professionalmente e continuativamente il carattere di Arlecchino.
Devo però riconoscere, in questo momento, che nel mio mestiere di attrice le lotte
di genere hanno avuto una loro importanza fortissima, e che non avrei mai potuto costruire
questa competenza e questo repertorio riconosciuto a livello internazionale, se non mi fossi
inscritta sin dai primi anni della mia formazione nelle linee di ricerca sulla “parità di genere”,
sull’”attore neutro”, sulla definizione greca di “Persona-Maschera”, sul valore interdisciplinare
del “cross-dressing” e sul concetto di “costruzione artigianale del personaggio”.
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Inoltre, per motivi contingenti e originariamente non elettivi, mi ritrovo ad essere
oggi un complice felicemente consapevole dei processi di emancipazione delle donne nel
campo dell’arte, del teatro e del lavoro in genere.
Mi ritrovo, ad esempio, ad essere, come “Arlecchino Errante”, il rappresentante
ufficiale di una compagnia teatrale professionale che vede al suo interno una stragrande
maggioranza femminile. La compagnia “Attori & Cantori” è sempre stata, sin dalla sua
nascita nel 1985, una compagnia con maggioranza di presenza femminile tra le nostre
attrici e tra le nostre organizzatrici. La nostra associazione culturale “Scuola Sperimentale
dell’Attore” ha sempre avuto, sin dalla fondazione nel 1990, la maggioranza di socie donne
e, in questo momento, la sua compagine operativa è quasi esclusivamente femminile, se si
eccettua il nostro regista storico Ferruccio Merisi.
Recentemente, a partire dal 2013, il mio personaggio di Arlecchino e la
competenza intorno alla Commedia dell’Arte e alle altre culture in maschera dal mondo,
sono stati ripetutamente chiamati ad impegnarsi proprio nella difesa dell’emancipazione e
dell’incolumità del genere femminile. Considero questo fatto un onorevolissimo
espletamento dei miei doveri d’artista e un incoraggiamento all’utilità del mio lavoro. Il
nome e il carattere del mio personaggio sono maschili, e io ci tengo moltissimo che il mio
Arlecchino rimanga un personaggio maschile, disinibito, popolaresco e con una fisicità ed
una vocalità solide e grezze insieme. Ma il fatto che io sia il primo caso di una donna che per
tutta la vita si identifica con questa maschera, fino ad aggiungerne il nome nei propri
documenti ufficiali anagrafici, mi permette di sostenere e rappresentare tutte quelle donne
che, nelle loro capacità e nel loro coraggio, scelgono di affrontare anche ruoli e mestieri che
persino oggi sono considerati preferibilmente "maschili".
Quindi in questo momento storico, e anche in questa tempestiva occasione di
incontro del convegno “L’arte delle donne”, mi trovo davvero a rappresentare il mio genere
in modo più forte di come l’abbia mai rappresentato in quarant’anni di carriera. Continuo a
ripetere che lo considero un onore e un dovere.
Il festival internazionale “L’Arlecchino Errante”, nella sua diciottesima edizione del
settembre 2013, si è voluto confrontare direttamente proprio con il mondo femminile
dell’arte della comicità, intitolando tutto il programma “Femina Ridens”. Ospite di riguardo
di “Femina Ridens” è stata una grande interprete svizzera: Gardi Hutter, una delle
pochissime grandi clown donne. Infatti, anche il clown è un genere di pertinenza soprattutto
maschile, ed è anche un mondo abbastanza chiuso. Si può dire che con i colleghi clown, seri
e stacanovisti, non è che una donna ha tanto da stare allegra. . . cioè, in qualche modo ti devi
“mettere su i pantaloni” se vuoi farti rispettare in questo mestiere, e non puoi esprimere
tanto la tua femminilità.
Anche io mi occupavo di clownerie negli anni Ottanta, quando ho incontrato per la
prima volta Gardi Hutter, e per me lei è stata una rivelazione: lavorava come un uomo e
anche meglio di un uomo, faceva tutti gli esercizi e le fatiche di un uomo, anche quelle di
montaggio e smontaggio di complicati sistemi scenografici per le illusioni comiche dei suoi
spettacoli, ma in scena lei voleva portare un clown “in gonna”, una clownessa donna, ricca di
forza e autoironia sulla sua stessa condizione e sui mestieri popolari che comicamente
affrontava sulla scena. Gardi Hutter voleva che fosse rappresentata la parte femminile del
127
comico, del grottesco, dell’indipendenza, del farsi da sé…
Proprio con questa nuova proposta, la clownessa Gardi Hutter ha avuto subito un
grandissimo successo con il suo primo spettacolo, “Giovanna d’Arpo”, la storia di una
lavandaia nana che affronta coraggiosamente un mondo più grande di lei. Lei stessa, Gardi
Hutter, durante la consegna del premio “La Stella dell’Arlecchino Errante 2013” a
Pordenone, ha affermato: <<Sì, è vero, è stato durissimo, è stato difficile, ma era il momento
giusto per la mia Giovanna d’Arpo, tutta la società, compresa quella maschile, aveva
bisogno che apparisse un clown in gonnella, quindi io sono arrivata in un momento in cui ero
necessaria>>.
Anche io potrei dire lo stesso. E’ stato durissimo il mio apprendistato e durissima
la mia “gavetta” nel mestiere del teatro, però ho avuto la fortuna di cominciare ad
interessarmi di Commedia dell’Arte in un momento in cui c’era bisogno di uscire da alcuni
cliché un po’ irrigiditi, in cui non era stata adeguatamente “sdoganata” di fronte al grande
pubblico la stratificata struttura culturale della Commedia dell’Arte. Le compagnie che
avevano degli Arlecchini nel proprio organico si riferivano soprattutto al periodo
settecentesco e al repertorio goldoniano, relegando il periodo cinque-seicentesco delle
Maschere dell’Arte alle ricerche storiografiche e universitarie, e trascurando le riscoperte
ottocentesche di George e Maurice Sand in Francia e quelle novecentesche di Vachtàngov
Evgenij Bogrationovič in Russia. In quel momento, dunque, c’era bisogno di scardinare una
figura di Arlecchino che si stava in qualche modo “tradizionalizzando” e istituzionalizzando
all’interno del repertorio goldoniano.
Il mio Arlecchino ispirato a quello dell’attore mantovano Tristano Martinelli (15571630) ha funzionato da stimolo, forse da volano, per riconsiderare l’ampiezza di questo
personaggio. Inoltre, il fatto che sotto la maschera ci fosse un’attrice, una donna, dopo i
primi momenti di stupore o imbarazzo, è stato considerato come una prova della pertinenza
e dell’affidabilità del mio lavoro sul comportamento corporeo di Arlecchino.
In qualche modo c’era bisogno di una rottura, di una proposta innovativa in quanto
forte ed inusitata. Ho avuto la fortuna di essere la prima donna a cavalcarla, di essere
presente nel momento di quella necessità, di intuirla e di indossarla con tutta la dedizione
che richiedeva.
Oggi, in questo momento c’è lo stesso bisogno.
Che cosa posso dire dunque io alle giovani attrici che tendono ad essere la
stragrande maggioranza, rispetto ai maschi, sia nei corsi di formazione che nelle nuove
compagnie? Che cosa posso rispondere quando mi chiedono: <<Ma come faccio a farne un
mestiere di queste arti? Come faccio a sopravvivere di questa competenza e ad avere un po’
di ascolto?>>.
Io posso solo dire: <<Credici! Credici e non ti incastrare in un percorso già avallato,
già posto, già autorizzato da altri. Credici e fai l’outsider, stai fuori dalle righe>>. Perché in
questo momento c’è nuovamente bisogno di proposte nuove, di un “farsi da sé” che ci
distingua dall’essere nella mediocrità delle mode di riflusso. C’è bisogno di essere convinti
del proprio mestiere (ovvero della propria Arte=Mestiere) e di non di incasellarci tutti quanti
in coda nella richiesta illusoria di un qualsiasi anonimo successo.
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Ritratto di Claudia Contin Arlecchino (Omaggio grafico dell’artista Blenda Sburelin 2012)
Nell’individualità dell’artista ci credo anch’io, ma essa è niente se non diventa
simbolo trainante anche per altre persone. Il nostro compito di artiste è quello percorrere
tutte le strade, anche quelle più impervie, e di aprire altre strade oltre la fine del mondo
immaginato: <<… delà le bout du monde>> diceva l’Arlecchino Tristano Martinelli nel suo
libretto autografo Compositions de Rhétorique del 1601 a Lyon <<… al di là dell’oltre
mondo… e … oltre la fine del mondo>>.
Per concludere le citazioni del mio intervento vorrei proporre una frase didattica di
un’altra grande clownessa donna che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare come
allieva, negli anni della mia formazione. Una donna minuta che ha avuto la forza di fondare
in Italia una delle scuole di teatro più serie, riversando in essa la sua competente dedica al
Maestro Jacques Lecoq e, insieme, tutto il proprio fascino indipendente ed inquieto, fino alla
sua prematura scomparsa nel 2004. Si tratta di una delle frasi con cui Alessandra Galante
Garrone affrontava la trasmissione del proprio sapere alla responsabilità di auto pedagogia
che richiedeva ai suoi allievi:
<<È facile dissimularsi dietro a reazioni isteriche, a grida e gesticolazioni selvagge. Ma
se si vuole arrivare ad una violenza vera, innovatrice, bisognerà lavorare “selvaggiamente” su di
sé>> (dal libro “Alla ricerca del proprio Clown” 1979, riedizione Pedragon – Bologna 2014)
Pertanto, come Arlecchino professionista, prima ancora che come donna artista,
mi sento di consigliare alle giovani generazioni di colleghe, di avere (quando e se necessario)
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il coraggio e la forza di “mettersi i pantaloni” - come Gardi Hutter, come Alessandra Galante
Garrone, come me - di “mettersi i pantaloni” per poi rivendicare il proprio diritto a “mettersi
la gonna” anche in situazioni professionali e artistiche. Rivendicate pure il diritto di mettervi
la gonna, i tacchi, il rossetto, tutto quello che volete! Però fatelo con fiducia in voi stesse,
con indipendenza e con autostima.
L’artista donna forse oggi ha bisogno di addestrarsi all’autostima ancor più che di
ricevere un riconoscimento esterno. E anche gli uomini ed i colleghi hanno bisogno che noi
donne ci autostimiamo, perché forse essi hanno ancora più problemi di noi a confrontarsi.
Bruna BRAIDOTTI
Volevo aggiungere una cosa, lei ha detto che ci sono moltissime donne che fanno
teatro. E’ vero, anche nella mia scuola di teatro sono più le allieve che gli allievi. Su questo mi
ero interrogata quando avevo cominciato a studiare e praticare la commedia dell’arte con
Carlo Boso al TAG Teatro. Mi domandavo come mai ci fossero tante donne nei suoi stage di
teatro quando i ruoli erano per lo più maschili e le maschere non rappresentavano
personaggi femminili.
Forse il motivo è che le donne hanno più necessità di salire sul palco per parlare di
sé, per rappresentarsi come donne e per questo vogliono calcare la scena a dispetto della
penuria di ruoli femminili? Non abbiamo bisogno però di indossare panni maschili per
recitare. Se la commedia dell’arte ha avuto fortuna è perché per la prima volta in scena
c’erano le donne, e donne colte, autrici, come Isabella Andreini. Scorrendo la storia del
teatro, si scopre che di donne nel passato ce ne sono state molte, Aprha Behn e George
Sand, per esempio, che mettevano in scena personaggi femminili. Il pubblico delle donne ha
bisogno di vedersi rappresentare e per questo la Commedia dell’arte ha avuto così
successo, più che per le maschere che rappresentavano gli stereotipi della società, perché in
scena c’erano le donne, perché c’è bisogno, da parte delle donne stesse di rappresentarsi.
Lascio la parola a Marilena Pitturru.
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Marilena PITTURRU
Espone dal 1998, ha all’attivo varie mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Alcune sue opere sono esposte sia in
collezioni private che pubbliche. Conduce inoltre vari laboratori creativi a Cagliari. Utilizza prettamente materiali di riciclo
trasformandoli in materia prima per poi divenire altro.
CRESCITA DELLA DONNA COME CRESCITA DEL PAESE
Allora, io sono un’artista, vengo da Cagliari, faccio sculture, installazioni,
scenografie e lavoro prettamente sul riciclo.
Spero di non tediarvi, per i pochi minuti che ho, altrimenti sarò io la prima ad
addormentarsi. Questo è un esempio di un mio lavoro, uno sportello di cucina e bottiglie di
plastica, comuni, dell’acqua. Il mio argomento è “Crescita della donna come crescita del
Paese” perché io penso che la donna sia il vero elemento di speranza per il nostro Paese, sia
nel senso più attuale, di maggior partecipazione di donne negli ambiti decisionali,
economici e politici, sia nell’espressione artistica dovrebbe una maggior presenza delle
donne sarebbe ancora più importante.
Comunque in entrambi i casi è necessario che la nostra modalità femminile cresca
come autostima e come valore in noi stesse.
Parto dalla mia realtà, dove molte donne si adeguano allo stereotipo femminile
assumendo ruoli marginali o di supporto, timorose di esporsi e mettersi in primo piano. Per
tanti anni anch’io ero così.
Sono modelli tradizionali della donna, lenti a sbiadire in alcune realtà sarde, in cui
la cultura arcaico-patriarcale praticamente relega la figura femminile in ruoli di sudditanza.
Solo se miglioriamo la nostra autostima e la consapevolezza del nostro valore possiamo
pian piano cercare di modificare questo mondo.
Ci sono tante donne artigiane che hanno le potenzialità e le capacità per diventare
artiste, ma una hanno una grande difficoltà a fare il salto per passare dall’altra parte.
Un esempio, da noi, Dolores Ghiani, una donna di Isili, che solo in tarda età ha
avuto il coraggio, sotto forti stimoli, a venir fuori – lei era una tessitrice – a farsi vedere ed a
fare delle mostre.
Ci sono tanti di questi percorsi femminili di sperimentazioni timidamente
nascoste, quasi temendo il giudizio sociale di alzare troppo la testa.
C’è, invece, Maria Lai, la grande artista sarda recentemente scomparsa. Lei è nata
artista. Fin da piccola si è messa in gioco nella sperimentazione e nel capire cosa voleva fare
della sua vita. Ha perseguito i suoi ideali, avendo anche però la fortuna di avere un padre
che l’amava così tanto, e una persona di una certa cultura, che le ha permesso di esprimersi
e di poter fare un percorso per potersi poi esprimere.
Scelse di non legarsi nel matrimonio forse per mantenere la sua libertà di artista,
ed ha rinnovato notevolmente l’artigianato sardo, queste caprette stilizzate le ha disegnate
lei. Però l’opera a cui lei è più affezionata è “Legarsi alla montagna, quella che lei ritiene più
importante perché unisce il suo bellissimo paese, Ulassai, alla montagna che ha sopra a
picco. La parte piccolina in basso è il paese e quella sopra grande è tutta la montagna che è
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a picco, a rischio di frana. Lei ha lanciato l’idea di legare la montagna al paese come in una
forma di protezione.
E la cosa fantastica che lei ha fatto è di dare in mano agli abitanti del paese l’agire,
e loro hanno deciso, autonomamente, che l’unione tra case e case evidenziasse il tipo di
rapporto tra vicinato, nodo, fiocco, fiocco con pane della festa. (1)
Quest’ultimo indicava che si andava oltre il rispetto e l’amicizia, c’era amore.
Con quest’opera Maria Lai, quindi, ha espresso la sua grande capacità di mettere
insieme le persone con l’arte e nell’arte.
Questo insegnamento è quanto mai importante anche per noi oggi, una strada
che insieme, anche noi donne, e non solo donne, possiamo percorrere per superare le
nuvole scure della crisi che incombono sulle nostre teste.
Quindi fare un passo avanti trovando nuove forme, solo reinterpretando il
presente con la sapienza del passato si troverà un modo di vivere più compatibile e
rispettoso della terra e della gente, della vita.
Io, come artista, sto nella via di mezzo tra Maria Lai e Dolores Ghiani. Mi sono
sempre sentita un po’ diversa, anche se non cosciente del mio essere artista.
Da piccola seguivo sempre mio padre, da maschiaccio, nel suo laboratorio in
cantina. Guardavo e imparavo l’uso di attrezzi, che mi tornerà poi utile. Apprendevo anche le
capacità a risolvere quesiti che sentivo tipicamente maschile, assemblavo bulloni, viti, e
tanti piccoli pezzi di metallo, forme che erano in equilibri temporanei, che poi riconoscerò
essere stata la mia prima scuola di assemblaggio e scultura.
Quando poi decisi che sarei andata al liceo artistico, sentivo che era quella la mia
scuola. Ma ho dovuto attraversare un purgatorio di più di un anno, ai geometri, scuola di
ripiego, perché quella era accettabile, il liceo artistico no, decisamente no. Solo quando ho
minacciato di interrompere gli studi, mio padre capitolò, e mi permise di fare ciò che volevo.
Credo anche che, come me, molte continuino a chiedersi: dove sarei adesso se non
dovessi scendere a compromessi in casa? Anche con un compagno di vita come il mio,
insegnante di discipline plastiche - insegnava scultura -, che ora è in pensione, non avrei
ancora potuto presentare il mio lavoro in una mostra. La sua opinione era sempre: non sei
ancora pronta, continua a lavorare, aspetta ancora un pochino.
Finché ho deciso che dovevo fidarmi del mio giudizio e non delle sue paure.
Quanto più si potrebbe fare se non ci si sentisse frenate? Ingabbiate? Mi sono conquistata
un ampio margine di libertà, ma i freni interiori sono duri da combattere, ci trattengono
rendendoci insicuri. Solo la continua ricerca artistica, il lavoro, il confronto con gli altri,
facendoci crescere, ci fa vedere chiaramente cos’è meglio per la propria arte. Questo
percorso è fondamentale per sostenere la crescita.
Io l’ho sperimentato con l’associazione Grecam, fondata dallo psicoterapeuta
uruguayano Norberto Silva Itza, che ha varie sedi in Italia, con cui collaboro da otto anni,
attraverso incontri mensili di psicoterapia di gruppo. Lavorando creativamente sul
movimento, da quello fisico a quello psichico, dal giardinaggio al canto, si scopre che la
capacità creativa è propria di ogni individuo, ognuno con la sua forma e i suoi mezzi
espressivi.
132
Nel fare artistico condiviso c’è una possibilità di sviluppo, un’evoluzione che
permette riflessioni sulla propria natura umana, ma anche sulla relazione che si instaura con
l’altro ed è un modo di mettersi in gioco, sperimentarsi in più piani, volendo andare verso
forme diverse di espressione e di sensibilità, fino ad arrivare ad un insieme, come la nascita
di un gruppo di artiste. E questo è un esempio di un lavoro che abbiamo fatto come gruppo
di artiste di Torino, Roma, Cagliari e Sassari. In pratica abbiamo creato una mostra, a cui
abbiamo dato il titolo di “Confluenza di orme”. La luce migliore, per questa esposizione, è
nella chiesa di Santa Rita a Roma, dove la mostra ha avuto il suo spazio più adatto. E’ stata
un’esperienza molto arricchente. Le immagini che vedete che faccio scorrere velocemente
sono sempre di questa mostra.
(Scorrono le diapositive con le creazioni artistiche)
Questa opera invece fa parte di una mostra itinerante, quest’altra l’abbiamo
realizzata a Cagliari, questa invece in una scuola a Roma e quest’altra alla chiesa di Santa
Rita, dove io ho fatto il manichino, cioè non è proprio una vera scultura, nel senso che non la
sento in quel senso, poi c’è un’altra persona che ha lavorato sui vestiti, un’altra sui gioielli,
un’altra persona sul video. Questa esposizione si è tenuta a Sassari, qui nuovamente a
Cagliari, con il video e qui è a Roma.
Questa è una madre terra. Usando materiali da riciclo, ho creato la struttura della
donna, con la rete metallica per polli, dopodiché l’ho rivestita con delle sacche di PVC, che
gli ho saldato sopra.
Io credo molto in questa metodologia di lavoro insieme.
Credo che noi donne abbiamo una sensibilità, un’anima collegata alla terra, da
mantenere sana, con uno spirito creativo vivo, un modo per rimanere noi stesse e non
perdere il contatto con la nostra anima istintuale.
Ad esempio, c’era un’installazione che mi è stato chiesto di fare da Alessandra
Menesini, un critico d’arte da noi in Sardegna, in contemporanea con uno spettacolo di
danza della Compagnia Tersicorea, su “Ofelia”. Dovevamo interagire, e sono stata mandata
a vedere lo spazio e lì ho visto quest’albero che assomigliava alle mie donne - queste sono
mie sculture - e poi ho trovato un albero che assomigliava alle mie donne come struttura e
ci ho costruito su un’installazione.
Ma la cosa particolare è che io ho individuato l’albero nello stesso bosco dove dieci
anni prima era stato trovato un bronzetto nuragico con il quale avevo fatto un collare.
Un’ultima cosa velocissima, velocissima, solo per dare un consiglio, perché non
riesco a farvi vedere questa parte. E’ un consiglio di leggere, anche se penso che molte di voi
la conoscono, Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono con i lupi”, che è fondamentale
per la crescita dell’autostima. E’ un libro che assolutamente ogni donna, e non solo artista,
dovrebbe leggere.
(1)
(L’opera d’arte consisteva nel legare le case del paese con un nastro azzurro da parte degli stessi paesani, ai nastri
veniva appeso un pane tradizionale, il pane pintau, e infine il nastro veniva collegato alla montagna che sovrasta il
paese)
133
Bruna BRAIDOTTI
Adesso dò la parola a Giuliana Musso, che non ha bisogno di presentazioni,
autrice, attrice ha fatto spettacoli come “Nati in casa” “Sexmachine”, Tanti saluti etc. con i
quali ha sempre tantissimo successo per l’interesse dei temi che elabora e presenta.
Giuliana MUSSO
Diplomata presso la Civica scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Durante gli anni della sua formazione
predilige lo studio dell’improvvisazione comica, della maschera e della narrazione. In qualità di attrice lavora in diverse
produzioni di prosa contemporanea e in alcune produzioni di Commedia dell’Arte. Dal 2001 si dedica esclusivamente a
progetti di teatro d’Indagine, firmando tutti i testi che porta in scena.
LA STUPIDARTE DEL VIVENTE
Buon pomeriggio. Mi presento un attimo per tutte le persone che sono qui, e che
io non conosco.
Io sono Giuliana Musso, faccio l’attrice da sempre, negli ultimi dodici anni ho
anche scritto, quindi sono anche autrice, e capo-comica, come Claudia Contin. Cioè siamo
donne che provengono da una cultura del teatro, da un modo, una mentalità, una visione di
fare il teatro che è artigianato, dove l’artista si assume una responsabilità abbastanza
profonda, abbastanza totale di quello che fa.
Lo mettiamo lì questo dato.
Sì, “Nati in casa” è uno spettacolo cult nell’ambito della nascita, e quindi sono
diventata automaticamente una narratrice al femminile, ghettizzata, strumentalizzata, ho
fatto tante tante stagioni, festival, posti, cose, eccetera, perché ero l’unica donna, se no
stavo a casa. Cioè avevano bisogno di una donna, c’ero io, perché altrimenti sarebbero stati
tutti uomini e, se volessimo raccontare di tutti gli episodi che ti raccontano di come siamo
messi in Italia riguardo alla cultura di genere nell’ambito dell’arte, potremmo scrivere una
sit-com adesso, ci mettiamo insieme qua e viene fuori.
Mi viene in mente una delle ultime cose. Io faccio uno spettacolo con sei
personaggi, di cui quattro maschi, interpreto i maschi come Claudia, e non è un caso, questa
liberazione dei modelli attraverso l’arte teniamone conto, liberante e generante di altri
modelli, perché lei sotto maschera non è lo stesso Arlecchino, è un altro Arlecchino. Non è
che fa bene l’Arlecchino dei maschi, fa un altro Arlecchino, che è una cosa diversa.
Quindi faccio uno spettacolo dove faccio quattro maschi e due donne, ed è uno
spettacolo al femminile. Capito?
No. Cioè arriviamo proprio a non vedere la realtà, a non volerla leggere, a non
dargli sensi. Faccio, voglio dire, su sei personaggi, uno spettacolo sul sesso commerciale,
faccio una prostituta su sei personaggi. Ma è il famoso spettacolo sulla prostituta.
Potremmo andare avanti all’infinito. La chiudo qua.
Volevo dirvi questo: a me della situazione delle donne e della questione di genere
non mi è mai interessato niente, non ho fatto questo perché mi interessava questo tema
qui. Sono nata nel ’70, non ho avuto problemi di nessun tipo, né intellettuali né altri, non ho
134
incrociato il femminismo, mai, quindi mi ritrovo a vent’anni a fare i maschi in scena,
esattamente come lei, ma senza pormene proprio il problema di che senso abbia questa
cosa, lo voglio fare perché mi diverte.
Capisci il vuoto cosmico che c’è nella mia testa?
Arrivo – ascoltate bene – adesso a dirmi che io faccio testi, storie, spettacoli che
trattano profondamente la questione di genere, perché la questione di genere è la
questione, è la questione del vivente, perché per me il punto è questo.
Quello che sta succedendo nell’ambito delle arti al femminile è quello che succede
nel mondo, è quello che succede nel sistema Italia. E’ la stessa identica cosa.
Il problema non ce l’ho io, discriminata, o oppressa, o contratta, repressa, in
quanto donna, ma ce l’ho in quanto essere umano.
Il fatto che sia donna, e che noi siamo donne, e che su di noi si sia scaraventata la
violenza del sistema è perché noi siamo più nel vivente. Basta. Ma lo sappiamo.
Cioè, voglio dire, sto parlando delle donne che sono più acculturate di me su questi
temi, quindi non ce la meniamo.
Io adesso dico solo: cattive dentro e morbide fuori. Cioè la lucidità ci manca, per
vedere in che sistema siamo immersi, tutti. Tutti.
E quando io porto la mia arte, è arte del vivente. Ma lo vedete cos’abbiamo fatto
oggi pomeriggio? Testimonianza. Noi abbiamo fatto testimonianza del nostro vivente. Lei
che mi parla delle sue sculture, lei che mi parla di quel suo lavoro. Qua nessuna è stata in
grado di teorizzare. Ci siamo annoiate, forse, ad ascoltare le esperienze delle altre, ma qua
nessuno ha fatto seghe mentali, o pippe, o costruzioni astratte, qui siamo tutte nel vivente.
O no?
Allora io quello che dico è: all’occhio, però, c’è fuori, intorno a noi, un sistema che
va arginato, perché non è vero che noi soffriamo di più, in quanto donne, e che la nostra
condizione di donne nella società è peggiorata perché è sopraggiunta anche la crisi. No, no.
C’è la crisi perché la nostra condizione di donne era già peggiorata, è a monte il problema. E’
a monte.
E quando io porto buone pratiche, perché ho una mente che include il vivente, che
pensa il vivente e che si occupa del vivente, lo faccio come organizzatrice, come operatrice
culturale, lo faccio come musicista, lo faccio come scrittrice, lo faccio come attrice, lo faccio
come educatrice, importantissimo, lo faccio come terapeuta. Quando io faccio tutto questo
io sto lavorando per il vivente, e questo, per il sistema, è molto sovversivo.
Quindi dovete essere molto consapevoli, secondo me, che siete delle sovversive di
merda e che il sistema ve la vuole far pagare.
Concludo. Vorrei concludere solo con questo quadro: sulla gerarchia. Il sistema
della dominanza prevede una gerarchia rigida fissata su modelli di dominio e non di
attuazione.
Ci ritroviamo una classe dirigente in Italia, politica, amministrativa, come nel
teatro, che è pessima. Pessima.
Mentre abbiamo squadre di segretarie, competenti, capaci, intelligenti, sensibili,
acculturate. . . Okay?
135
Allora io che cosa posso fare se questo è il sistema? E’ che non ti rispetto. Te,
gerarchia del cazzo, non ti rispetto. Non vengo a patti con te. Io vengo una volta da te a
chiederti i soldi, dopodiché non ci torno più, perché io con te non voglio fare i conti, io vado
per l’autonomia. Autarchia totale.
Devo fare un monologo perché non ho i soldi per produrmi uno spettacolo con
tredici persone? Faccio il monologo. Ma non vengo a patti. Non vengo a patti.
Chiudo citando una persona che è già stata citata, grande regista italiano, grande
intellettuale, Cesare Lievi, mi disse che una Medea che non uccide i figli è una Medea che
non ha senso di essere rappresentata, perché non è interessante.
Stiamo parlando di un mito costruito ad hoc per dare norma, per rafforzare la
norma di – usiamola questa parola – un patriarcato violento. Va bene? E da duemila anni ce
la stiamo riraccontando in tutte le salse, e in tutte le maniere, va bene?
“L’inutile arte del vivente”. Il titolo è provocatorio. Lo capite che per questo sistema
la vostra arte è inutile, fatevene una ragione! E’ inutile! Non contate una sega! Quindi
cattive dentro, cattivissime! Decise, serie. Difendetela questa roba! E difendete le colleghe,
difendete gli uomini miti che lavorano come voi e che sono penalizzati tanto quanto voi!
E’ lo stesso regista che poi ha fatto Il principe di Homburg, dove si racconta una
storia che è altrettanto emblematica, di un imperatore che fa condannare a morte il nipote
perché ha pur vinto la guerra ma non ha rispettato il suo ordine. Lo capite? Stiamo parlando
di questo.
Stiamo parlando che io per fare una Medea che non uccide i figli chiedo
cinquantamila euro, lui per fare un imperatore che ammazza il nipote perché non ha
rispettato una legge ne prende trecentocinquantamila. E’ vero che lui è molto più bravo di
me, ma non è solo questo il parametro, non può essere solo questo.
Secondo me, bisogna anche capire che cosa mi stai dicendo. Il vivente dentro lì
non c’è. Non ci sono io. Non ci siamo noi. Basta. Ciao.
Bruna BRAIDOTTI
L’intervento di Giuliana ci ha messo nel cuore del tema: la vita, la filosofia della
vita, come la chiama, “del vivente”, è la ragione che sta alla base, forse, di tutto questo, su
cui dovremmo riflettere molto a fondo.
Invito le prossime relatrici, che sono Laura De Marchi, Francesca Gallo, Silvia
Lorusso e Marta Alejandra Roldán, Stefania Brandinelli, Sabrina Morena e Silvia Mei, che si
avvicenderanno, e poi ancora Caterina Casini e Marzia d’Alesio.
136
Marta Alejandra ROLDÁN
Scrittrice nata in Argentina. Le sue poesie sono state pubblicate in molte riviste virtuali e non e in più di 100 antologie
cartacee e lette in diverse radio. Il suo libro “Amar es verter sudor y sangre” pubblicato da: Homo Sapiens - Argentina nel
1994 e da El Taller del poeta – Spagna nel 2004. Ha collaborato in riviste e radio (Spagna, Argentina e Italia) e
Associazioni Culturali (Italia e Argentina). Ha creato il concorso di racconti erotici “Karma sensual” e organizza
annualmente l’incontro astronomico-letterario “Dal cosmo alla parola”. Ha ricevuto intorno ai dieci premi letterari.
COME SMETTERE DI ESSERE UN'AUTRICE EMERGENTE
Sì, non dirò niente di quello che avevo preparato, da questa mattina ho cambiato
tutto e veramente, come dicono tutte, vado via con energie rinnovate.
Sono argentina, da dieci anni abito qui in Italia, scrivo da quando avevo undici anni,
sono mamma da quando avevo diciassette, e anche moglie. Lui è stato il mio primo
mecenate e ha pubblicato il mio primo libro quando avevo vent’anni, e ha pagato tutto,
avevamo una bambina di tre anni. In Argentina un giorno avevi da mangiare e un giorno no,
allora io prendevo la mia bambina sotto un braccio, i miei libri sotto l’altro, e andavo casa
per casa a vendere i miei libri. Ne ho venduti duecento, ho recuperato le spese, ma
comunque questo non è servito a niente. Questa è stata la prima e unica volta che ho
pagato per essere pubblicata. Da allora libri personali, ne ho scritti sette, otto, uno è stato
pubblicato da una casa editrice virtuale, allora, capite, niente diritti d’autore. Poi più di cento
antologie, quando sei in un’antologia non sai se qualcuno ti legge. E anche lì, quante
persone? Cinquanta, sessanta persone, anche se si vendono i libri, non ti rimane niente.
Io ho gestito antologie, ho creato un concorso letterario di racconti erotici, in
spagnolo che funziona da dieci anni e adesso l’ho ceduto a una casa editrice in Argentina
perché loro, partecipando anche alle fiere del libro, riescono a vendere di più di me Alla fine
noi dobbiamo essere la scrittrice, la produttrice, la correttrice, fare il prologo, dobbiamo
andare a venderli e pubblicizzarli. Forse pretendo troppo a essere solo scrittrice, ma ho
capito oggi che dobbiamo fare tutto! E mi devo mettere questa idea in testa perché io la
volevo eliminare. Non si può. Ho lasciato il concorso alla casa editrice perché ho pensato che
il percorso che avevo intrapreso fosse errato, e allora ho cominciato l’università e sono al
terzo anno della cattedra di Lettere all’Università di Udine.
Forse pensavo: non ho le conoscenze sufficienti, non sono sufficientemente
preparata, questa questione dell’autostima, e allora ho intrapreso quest’altro percorso
senza mai smettere di scrivere e pubblicare. Questa settimana sono stata pubblicata in due
antologie in Argentina e in due riviste. Però comunque io vorrei che fosse una professione
per me e non trovo il modo.
Per ultimo a parte la mia testimonianza di straniera, volevo parlare delle donne che
ho conosciuto qua in Italia, perché facevano le stesse cose che facevo io, e ho trovato che
anche loro hanno questa angoscia dentro perché non arrivano ad avere i risultati che
vogliono. Sono tutte scrittrici, autoeditrici, forse se comincio a nominarle, ne conoscete
qualcuna, anche se invece io non conoscevo nessuno di quelli che avete nominato voi, forse
perché sono l’unica poetessa qui. Quella che volevo nominare prima è Giovanna Mulas, è
sarda, è sposata con un argentino, e lui mi racconta che lei è stata tre volte nominata al
Premio Nobel per l’Italia, e ha ricevuto due volte il Premio alla Cultura di Roma, è stata
137
proposta per ricevere la pensione allo scrittore, quella della legge Bacchelli, perché non
riesce a mantenere i suoi quattro figli con i diritti d’autore. Le pubblicano un romanzo ogni
anno, ma lei non può vivere di questo. Ed è una vergogna! Scusatemi, sono indignata.
Poi Antonella Barina, che è di Venezia, lei ha creato la sua propria casa editrice,
chiamata “Edizione dell’autrice”, pubblica libri, riviste, opuscoli, ma gli regala nei raduni
poetici, non riesce a fare altro. . . scusate se è così negativa la testimonianza che posso
lasciarvi, però comunque mi sa che da oggi è cambiato tutto!
Bruna BRAIDOTTI
Non avevamo incluso nel nostro convegno, ovviamente, la parte letteraria, ma è
chiaro che anche nel campo della scrittura, dell’arte come scrittura, ci sono le stesse
situazioni e condizioni.
Passo ora la parola a Laura De Marchi, attrice comica, nonché autrice dei suoi testi.
Autrice nota non solo in teatro ma anche in televisione.
Laura DE MARCHI
Ha conseguito una laurea in lettere presso l’Università di Roma “La Sapienza” in Discipline Delle Spettacolo, Storia Del
Teatro. E’ diplomata attrice al biennio professionale sui teatri gestuali e di testo presso la Scuola Internazionale di Teatro
“Circo a Vapore” e ha conseguito il “Certificate of Completation” in “Clown” presso l’Ecole Philippe Gaulier di Londra. Tanti
gli spettacoli ai quali ha preso parte, in teatro, al cinema, in radio e in televisione
LA COMICITÀ E GLI STEREOTIPI
Porto la testimonianza, la solita. Volevo fare solo la premessa sul fatto che sono in
imbarazzo, perché io oggi volevo parlare di comicità, la comicità delle donne, non per la
parola “comicità”, ma perché, dato che questo si chiama “Arte delle donne”, io volevo parlare
di televisione, non so se quando si nomina la televisione, si può anche nominare l’arte come
parola. Questo era l’unico imbarazzo.
Dato che comunque la televisione forma, chiaramente, l’immaginario collettivo, la
cultura, se così si può chiamare, di un paese, penso che sia utile riflettere anche sulla
televisione, anche se penso che il novanta per cento di noi non la guardi. Con chiunque parli
dici: ah, hai fatto la televisione? Sì, che hai fatto? Ma tanto io non la guardo. Ma che me lo
chiedi a fare, allora, scusa? E invece fare la comica in televisione è tutto quello che avete
detto esasperato all’ennesima potenza: la televisione veicola uno stereotipo di genere, la
donna sorridente, compiacente, muta – questo è importante dirlo – e che se parla
comunque gratifica l’uomo, meglio se è un po’ scema, perché agli uomini piace moltissimo,
quando è anche un po’ scema. E’ l’ideale dell’immaginario maschile, una donna disponibile e
soprattutto innocua. Non fa male a nessuno, no?
E la comica in tv che cosa fa? Detiene un corpo non omologato, un corpo normale,
in televisione è il suo corpo strano, non è quello delle immagini costruite della televisione,
non sorride, non compiace, parla molto, non è compiacente ma è in contrasto, è un
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soggetto della comunicazione, non un oggetto, e quindi ha un approccio critico nei
confronti della realtà. Oddio, si stanno ribellando gli uomini! A volte, parla anche male degli
uomini, però io non vorrei ridurre la comicità solo a questo, però sicuramente la comica
parodizza come un buffone medioevale un sistema di valori e di poteri che hanno costruito
e che continuano a detenere gli uomini.
Quindi la comica è tutt’altro che innocua, è pericolosa. E quindi che cosa succede?
In queste trasmissioni comiche, fatte queste premesse, dove gli autori sono al novanta per
cento maschi, direttori di rete maschi, presentatori maschi non vi meraviglierà che le donne
siano il cinque per cento del cast della trasmissione, perché loro – gli uomini –dicono che le
donne non li fanno ridere, li innervosiscono. Chissà perché?!
Tralascio i contenuti. Chiaramente, agli uomini piace sempre quando la donna si
autoumilia, si autocommisera, non sono abbastanza figa, ho la cellulite, i peli, sono poco
desiderabile. Così non fa altro che confermare lo stereotipo veicolato dalla televisione. E
così loro dicono che sono autoironiche, che brave, che sono delle sfigate ma autoironiche.
Questo piace tantissimo. Oppure le donne, quando parlano di un argomento, che può
essere il traffico, per esempio i comici di serie C parlano: ‘a Roma c’è er traffico, an’ vedi’. . .
loro possono parlare del traffico in maniera neutra, cioè il traffico esiste per gli uomini e per
le donne. Se la donna parla del traffico, deve parlare dal punto di vista della donna, cioè non
si capisce perché. Cioè se l’uomo parla di quanto costa la frutta e la verdura ne può parlare
in maniera assolutamente neutra e universale, la donna ne deve parlare, prima si deve
giustificare di essere una donna, quindi giustifica la sua presenza in scena in quanto comica
donna, e poi è autorizzata a parlare del traffico. Chiaramente, deve dire che si trucca, che si
mette il rossetto. . . queste sciocchezze, insomma. Perché questo li fa molto ridere.
Non vi faccio i nomi, ma molti mei colleghi maschi comici hanno fatto successo
parlando male delle donne. Come fanno le donne comiche a fare successo? Parlando male
delle donne, anche loro! Cioè faccio un esempio: una straordinaria attrice, come Virginia
Raffaele, che è bella, brava e intelligente, ha fatto successo facendo la parodia di un’icona
maschile scema come Belen, no? Come se attraverso la ridicolizzazione della Raffaele,
l’attrazione degli uomini per Belen venga esorcizzata: sì, non me la darà mai, però è anche
scema, quindi va bene così e facciamola rappresentare da una bravissima attrice.
Comunque io volevo concludere che il mondo della comicità è assolutamente
ancora maschile e maschilista, allora a volte, le donne che hanno fatto? Si prendono dei
laboratori per loro. Noi a Roma abbiamo fatto il laboratorio “Bambine cattive”, che aveva
così tanto successo che è diventata una trasmissione comica. Quando hanno messo i soldi,
ci hanno imposto quattro autori maschi, e quindi potete immaginare che il programma non
è andato granché bene.
Io volevo semplicemente dire, e ho tagliato tutto il resto, che non credo che esista
una comicità di genere – questa è la mia opinione – così come un’arte di genere, ma esiste
un pensiero femminile al quale si deve dare voce e spazio e respiro perché giri e cresca e si
trasformi come qualunque pensiero.
Se in una classe di venti bambini, dieci bambini e dieci bambine, alle discussioni
partecipano solo i maschietti, disegnano solo i maschietti, suonano solo i maschietti, fanno
sport solo i maschietti …. . io non so se esista un’arte di genere, una musica di genere, uno
139
sport di genere, questo non lo so, ma sicuramente c’è una discriminazione di genere, perché
le bambine non hanno potuto mettere in circolazione i loro pensieri, i loro disegni, la loro
musica, che a sua volta avrebbe potuto influenzare la musica e il pensiero dei maschietti, in
una sinergia che avrebbe fatto crescere entrambi.
Quindi non considerare il pensiero femminile è una grave perdita per un Paese,
anche per gli uomini, e qualcuno lo ha già detto, anche in termini economici. Ed è un
impoverimento in termini culturali e sociali. E poi volevo concludere che per il suo aspetto
rivoluzionario – e lo abbiamo visto con la nostra grande attrice stamattina – in quanto la
comica non è per niente innocua, o compiacente, io avrei intitolato questo mio intervento:
“la comicità femminile è il cavallo di Troia per una parità di genere”!
Scusate, con questo titolo credo di aver fatto felice anche qualche uomo! Sì,
perché sicuramente ci sarà un comico in sala che ha trovato una battuta, scontata
ovviamente, perché da maschio!
Francesca GALLO
Impegnata da oltre dieci anni nel diffondere la musica tradizionale, sia in Italia, sia all’estero. Proviene da formazione
classica presso il Conservatorio di Castelfranco (TV) e ricerca e studia da oltre vent’anni il repertorio tradizionale dell’Alto
Adriatico. Collabora con musicisti e attori in varie formazioni.
LA MUSICA POPOLARE DELLE DONNE
Sono figlia di un costruttore di fisarmoniche, sono cresciuta quindi in una bottega
di costruzione di fisarmoniche, con musicisti che giravano per casa tutto il giorno. Ora la
bottega è mia ed è l’unica bottega attualmente in Italia che produce artigianalmente
fisarmoniche. Mi trovo a essere l’unica donna in Europa a fare questo mestiere e in questo
modo. Quindi già nell'ambito artigianale devo farmi largo a gomitate. Almeno in quello
artistico potrei fare meno fatica, invece no.
Mi occupo di canto di protesta, di canti del lavoro, e sentendo oggi tutti vostri
interventi, ho pensato: se già nel teatro o nella musica classica, dove ci sono dei filoni ben
riconosciuti, delle rassegne, dei luoghi dove questo viene fatto, è difficile, pensate in una
realtà come la mia. Io arrivo da una formazione classica, sono diplomata al conservatorio
come cantante lirica. A un certo punto non mi andava di vivere con la valigia, in albergo, mi
mancava quella cosa che io facevo a sedici anni, ossia girare con la bicicletta e il registratore
e andare a intervistare le persone per sapere com’era la vita di una volta. Quella vita "di una
volta" adesso non la definisco più così, perché le fiabe cominciano con “c’era una volta”, ma
quello che io ho raccolto è di anni ben precisi, dei “raccordi”, dove le cose comunque sono
cambiate. E quindi mi occupo appunto di questo, mi occupo di portare in teatro ciò che
raccolgo e il canto di tradizione orale. E’ stata una scelta. Io sono fisarmonicista e cantante e
spesso mi dicono: ma dove ti mettiamo? In una rassegna teatrale? No, non sono un’attrice.
In una rassegna concertistica? No, veramente anche parlo. E quindi solo il fatto che io parli,
e che non abbia la chitarra, ma la fisarmonica, nasce l'osservazione" cosa vuole questa?
Cosa sta facendo?".
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A un certo punto della mia vita, mi è venuto in mente di recuperare il canto del
movimento femminista perché io ritengo che quello sia ora il repertorio da recuperare. I
canti di lavoro ormai sono già stati raccolti per tanto tempo e soprattutto in un tempo in cui
c'erano ancora degli informatori. Quello che manca assolutamente è la raccolta dell'epoca
dal ‘68 in poi, quindi i canti del movimento operaio e i canti del movimento femminista. Ci ho
lavorato due anni, ancora col registratore, e via, ed è stato ancora più difficile, perché non
solo donna con la fisarmonica che parla, oltre a cantare, ma racconta! e cosa racconta?
Cento anni di emancipazione femminile. Quindi una guerra ancora più grande.
Porte chiuse. Ho pensato, perciò, di decidere io dove andare a fare gli spettacoli,
non mi interessano le rassegne di teatro, né le rassegne concertistiche, ma mi interessa il
luogo dove tutti possono andare. A marzo ho organizzato una rassegna, ho fatto aprire
quattordici fabbriche e in quattordici catene di montaggio ho raccontato l’emancipazione
femminile. Non è uscito un solo articolo su un giornale. Non c’è stato un giornale che abbia
parlato della cosa.
Quindi mi trovo in questa “guerra” quasi quotidiana, prima come costruttore di
fisarmoniche, e poi come musicista che comunque anche parla. Non è difficile solo con chi
organizza, ma anche con i colleghi della musica classica molto spesso è difficile in quanto
semplificano la questione con un "va beh, insomma, primo, quarto, quinto grado, e te la sei
cavata. " No! Non è primo, quarto, quinto grado, perché io ho deciso di farlo da
professionista, nel momento in cui Italia Giovanna Marini sta tramontando, così come
Margot Galante Garrone, hanno tutte più di settant’anni, le altre grandi ricercatrici sono già
morte. Loro come me, ma molto prima di me, hanno girato col registratore e la loro chitarra
e hanno raccolto, impedendo la totale scomparsa di un patrimonio inestimabile di canti di
tradizione orale. Io lo sto facendo adesso. Sto continuando quello che loro hanno
cominciato.
Tanto altro potrei dire, ma credo che per oggi possa bastare. Grazie.
Silvia LORUSSO DEL LINZ
Drammaturga e regista con molti lavori come “Streghe si Nasce” e “Artemisia”. Ha lavorato come giornalista, critica
cinematografica. Da diversi anni progetta e realizza incontri letterari e poetici, con attenzione al mondo femminile. Ha
scritto il romanzo “Giulia, una donna fra due Papi” sulle vicende di Giulia Farnese.
IL TEATRO È DI GENERE?
Cercherò di essere più sintetica possibile. Come ha anticipato Bruna, io sono
regista, autrice, drammaturga e scrittrice. Anche se inizialmente, io vengo da un periodo di
tanto lavoro come giornalismo, in Toscana, alla Nazione, e il piccolo primo scontro, ovvero
quando io ero molto giovane, che avevo iniziato, appunto, a fare giornalismo ed ero entrata
in redazione, ero l’unica ragazza giovane, mentre andavo all’Università, e invece c’era una
signora, l’altra donna, che aveva già un percorso, era assunta, era una professionista.
Allora io ero insieme a tutti gli altri praticanti maschi, il primo giorno, la prima cosa
che mi hanno detto, quando ero lì: vacci a fare il caffè! E io gli ho detto: eh no, sono qui per
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imparare anch’io! E da lì, per fortuna, le cose si sono messe. . . sì, insomma, tante difficoltà
perché cercavano di emarginarmi dalla cronaca, tutta una serie di cose, però io spero che
facendosi sentire fin da subito, se metti comunque un po’ le cose in chiaro, qualcosa ottieni.
E mi ricollego al fatto che spesso anche noi, nei nostri settori, nel nostro lavoro, dovremmo
avere un po’ più consapevolezza, un po’ più di forza nell’imporci, perché è vero che le
condizioni in cui operiamo, Giuliana Musso appunto ne parlava giustamente, ci schiaccia
tutti quanti, però è anche vero che bisogna avere le spalle forti.
Per quanto riguarda altre cose, in maniera più specifica, ovvero la presenza nei
cartelloni teatrali, la presenza nelle direzioni artistiche, qui c’è una cosa che si rifà ai padri
fondatori. Mi collego al libro di Roberta Gandolfi, che parla della prima regista donna, Edith
Craig, che era la sorella del più noto Edward Gordon Craig, nel primo ‘900 inglese. Edith
Craig lottava per il voto alle donne, aveva fondato una compagnia, le sue esperienze
registiche esperienze che l’avvicinano al moderno Living Theatre, ma dalla storia del teatro,
è addirittura quasi rimossa. E non è l’unica.
Ci sono state presenze forti femminili come registe di teatro nella storia, eppure
non se ne trova traccia. E’ questa la cosa più pericolosa: questa dimenticanza anche
continua di citare le donne che hanno lavorato nel settore artistico non solo come attrici o
danzatrici, ma che hanno avuto un ruolo di drammaturghe e di registe. Questo ci tenevo a
precisarlo. E vi consiglio il libro della Gandolfi per riscoprire una figura storica, molto più
rivoluzionaria rispetto ai registi drammaturghi dell’epoca.
Andando ancora avanti, due secondi veloci, una cosa che mi ha colpito
quest’estate è stato un articolo su Repubblica in cui si riportava una rivolta in Francia da
parte della Ministra delle Pari Opportunità, Najat Vallaud-Belkacem, che ha lanciato la
proposta di applicare le quote rosa per la decisione dei teatri stabili, adducendo il fatto che
l’ottanta per cento dei teatri stabili è diretto da uomini e non da donne. Questa proposta è
nata perché l’ennesimo direttore di teatro stabile nominato a Montpellier quest’estate è un
uomo, Jean-Marie Besset; al che la ministra è saltata su e ha detto in forti termini che non
era giusto che ci fosse l’ennesima nomina maschile.
Ok, si dice: parliamo delle competenze, parliamo della bravura, parliamo di tutto
questo, parliamo dei vari equilibri politici, e una serie di cose istituzionali, in cui si può dire: sì,
va beh, sono nominati tanti uomini rispetto alle donne, ma è possibile che tutti questi
uomini siano più bravi delle donne?! Cioè è ovvio che c’è un non riconoscimento in primis
della competenza nelle donne.
Un’altra cosa che mi viene in mente è che io ho avuto una piccola esperienza come
direttore artistico e vedevo, forse anche per una questione di provincialità, la fatica di
riconoscere il mio ruolo, cioè era più ascoltato il tecnico, se i cavi erano a posto, tanto cosa
potevo saperne io della sicurezza? C’è un atteggiamento aprioristico di non riconoscimento
di un ruolo femminile direttivo. La stessa cosa la riporta Flavia Mastella, che lavora da anni
con con Antonio Rezza, come drammaturgo e regista, entrambi scrivono i testi, fanno regie
e sono molto famosi, e lei racconta che quando vanno nei teatri o agli incontri lui è il
maestro, a lei chiedono: ma lei è la costumista? Cioè hanno difficoltà a concepire che siano
entrambi due registi, che hanno un sodalizio professionale e che lavorano. E quindi vanno
da lui con la deferenza che si deve al maestro e invece con lei c’è sempre questa titubanza.
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Allora è una questione di mentalità, è una questione che bisogna essere più forti
noi nell’autorevolezza perché è quella che dobbiamo anche esercitare, cioè avere anche la
forza di dire: io sono.
Ora, avevo preparato anche altre testimonianze, ma il tempo è poco, e comunque
mi auguro che le donne, che sono oggi qui presenti, artiste, ascoltatrici eccetera, abbiano la
forza di portare avanti le loro cose, sappiamo bene il tipo di sistema con cui abbiamo e
avremo a che fare, perciò ci vuole forza. E nello stesso tempo anche collaborazione e
solidarietà perché, purtroppo, a volte vedi anche le donne che si chiudono, che si arroccano
in certe posizioni.
Io spero che tutto questo, che un convegno come questo, e grazie
all’organizzazione, ci renda maggiormente unite tutte quante. Grazie.
Stefania BRANDINELLI
Nata a Milano nel 1963. Accademia di Belle Arti di Bologna (pittura con Concetto Pozzati), Laurea al D. A. M. S. (Arte). Dal
1987 al 1996 ha continuato a studiare pittura e scultura negli Stati Uniti. Vive e lavora a Pietrasanta (Lucca), dove da
oltre 5 anni è attivista per Rifiuti Zero e facente parte del team operativo del Centro Ricerca Rifiuti Zero di Capannori per i
progetti legati all'arte. Da un anno ha scelto di studiare varie tecniche a base di materiali naturali al fine di diffonderle e
utilizzarle per l'esecuzione delle sue opere. Sta mettendo in discussione il sistema dell'arte che finora ha subìto
L'ARTISTA PUÒ E DEVE TORNARE AD AVERE INCISIVITÀ NELLA SOCIETÀ
Ormai, alla fine del convegno, tante cose sono già state dette. Io volevo
rappresentare in un primo momento la mia categoria, però dopo gli interventi che mi hanno
preceduta intendo raccontare la mia esperienza personale, di vita.
Ho 50 anni. Fino all’età di 39 anni, ho vissuto appassionatamente, interessata sia
allo studio della Storia dell’Arte (mi sono laureata al DAMS), sia al fare arte (ho preso il
Diploma di Pittura all’Accademia di B. B. Arti, sempre a Bologna). Per 9 anni ho vissuto negli
Stati Uniti, dove ho ancora studiato, disegno, pittura e scultura.
A 39 anni ho avuto il mio primo figlio, e nonostante fossi contentissima, perché era
voluto e desiderato, era difficile trovare il tempo per coltivare quella parte di me che aveva
vissuto per così tanto tempo “libera”. Poi ho avuto un’altra bimba, voluta anche lei, che mi
ha resa sempre strafelice, ma ancor più dovevo frammentare la mia vita. Chi tra di voi ha
avuto figli lo sa già: la vita è molto stressante quando si devono fare troppe cose e valutare
ogni momento il modo migliore per poter essere efficienti.
Dopodiché, casualmente, mio figlio mangiava alla mensa, a casa mangiava meno,
volli imparare, vedere come si cucina, insomma, entrai come genitore all’interno della
commissione mensa scolastica. Ho avuto modo di imparare di nutrizione, di cibo
biologico…per essere breve, per tre anni, invece di lavorare nel mio studio, ho dedicato
parecchio tempo a questa cosa, ne sentivo l’urgenza. Alla fine il Consiglio comunale di
Pietrasanta (in provincia di Lucca) ha approvato, grazie al lavoro della commissione mensa,
l’introduzione nel menù scolastico di prodotti biologici e a filiera corta.
Subito dopo questo fatto, dall’inceneritore locale esce quella che, ho saputo dopo,
era l’ennesima emissione di diossine; avevo appena saputo della nocività delle
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nanoparticelle emesse da tutti questi impianti. Non aveva senso aver ottenuto cibi a filiera
corta con la presenza di un inceneritore. Inizio così a collaborare col comitato locale che da
anni si batteva per la chiusura dell’inceneritore e che aveva cercato di ostacolarne la
costruzione. E’ quindi partita un’avventura che non avrei mai immaginato: praticamente,
adesso sono più di cinque anni che sono attivista per una virtuosa gestione dei rifiuti. Ho
continuato a lavoricchiare in arte, perché non posso fare a meno di usare le mani, è una
passione che mi coinvolge, però, per la prima volta nella mia vita, mi sono trovata felice di
fare qualcosa che sapevo fosse veramente utile per la comunità. Dopo avere vissuto 39
anni nello studio, trovando in esso un rifugio, visto che il mondo che mi circondava non mi
piaceva un granché, finalmente, capivo che potevo fare qualcosa che aveva un intervento
diretto sulla realtà e non più per un pubblico ipotetico come prima.
L’inceneritore locale è stato chiuso tre anni fa grazie ai cittadini che hanno visto
quello che gli addetti al controllo non avevano notato. Gli ultimi anni ho avuto contatto con
tutti i comitati d’Italia che si occupano dell’argomento. Ho così cominciato a guardare la
realtà in un modo diverso, in quanto ho capito che la realtà di Pietrasanta era comune a
quella di Vercelli, Brindisi, Gioia Tauro…stesse ditte, stesse multinazionali.
Allora ho approfondito, nell’ambito dei rifiuti, quali erano i metodi per la loro
gestione virtuosa, capendo che la Strategia Rifiuti Zero era l’unica soluzione.
Mettendo in discussione una cosa, ho poi cominciato a mettere in discussione
tutte le altre: va bene mangiare carne quasi tutti i giorni? Forse no, . . . va bene vestirsi con
gli abiti che ci propinano? Da dove vengono? Come sono prodotti? Allora è partito un lavoro
di analisi, su ogni cosa.
Nel contesto di questo convegno, penso sia importante sottolineare che la qualità
di mettere in discussione le cose ci caratterizza come donne, una capacità sulla quale
dobbiamo puntare, che ci fa spesso rinunciare a raggiungere un obiettivo, perché non vale
più la pena inseguirlo, possiamo fare altro; ma che ci fa anche perseguire con
determinazione qualcosa, se lo riteniamo importante, con un coraggio che raramente gli
uomini dimostrano.
Adesso sono nel Centro Ricerca Rifiuti Zero, nel team operativo, per i progetti
legati all’arte e ai rifiuti (www. arterifiutizero. it).
Al momento avrei un po’ più di tempo, potrei tornare di nuovo nel mio studio, ma
non mi interessa più fare quello che facevo prima. Ho capito come è considerato un artista
oggi. Gli artisti, in vari ambiti, a qualsiasi età, anche ad alti livelli, sia pure esistano le
eccezioni, vengono trattati malissimo. Gli artisti visivi si distinguono rispetto agli artisti
musicali o dello spettacolo, perché lavorano isolati e perché sponsorizzano gli eventi ai quali
prendono parte senza riconoscimento alcuno. Gli altri operatori necessari all’organizzazione
delle mostre o degli eventi, e che dipendono dagli artisti per lavorare, invece, vengono
pagati. Ma la cosa incredibile che gli artisti visivi non si lamentano di questa situazione.
Ho cominciato a indagare sul perché vengono organizzate le mostre. Do ragione a
Giuliana Musso, anch’io credo che a nessuno interessi il mio lavoro; siamo in troppi a
lavorare nel settore, e se non ci sono io, c’è qualcun altro che può prendere il mio posto;
‘l’importante è fare l’evento’. . . penso che l’amministrazione locale faccia mostre
esclusivamente per attirare turisti. A Pietrasanta, definita “città dell’arte”, si devono fare
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felici i ristoratori, gli albergatori, i proprietari dei Bagni, e via dicendo.
Pietrasanta da undici anni ha una mostra annuale un po’ particolare,
“DonnaScultura”. Partecipando nel 2012, ho avuto modo di essere in contatto con ben 40
scultrici internazionali, di tutte le età, che mi hanno aiutata a comprendere che le cose non
cambieranno mai per me, che non sono sfruttata solo io. Fino a quel momento avevo,
infatti, spesso pensato: “Cosa posso pretendere, ho deciso di avere una famiglia e ho troppi
interessi; per ‘farcela’ in ambito artistico dovrei metterci più impegno”. Invece ho capito che
anche chi ha deciso di abbracciare la carriera artistica a tempo pieno viene usato. Se può
permettersi di lavorare è perché ha già una rendita di qualche tipo che gli permette di
svolgere l‘attività artistica senza la necessità di venire ricompensato. Allora mi sono chiesta:
che senso ha? Pur avendo lavorato sempre per passione e non per denaro, che senso ha
continuare a produrre oggetti per rendere possibili eventi che non mettono in luce l’Arte o
gli artisti, ma servono per altri scopi?
Spesso in questo convegno è stata nominata la solitudine, la difficoltà di
comunicare: tutte noi dobbiamo farci forza, ma non credo lo si debba fare da sole;
dobbiamo unirci ad altre persone, e non solo tra noi donne o tra noi artiste. Come attivista
quando parlo agli artisti di rifiuti o questioni ambientali, essi si stufano subito, non vogliono
sentire. Allo stesso modo, se parlo agli ambientalisti di arte, non riscontro alcun interesse.
Per questo, da un po’ di tempo, ho cominciato a pensare: se uno va a spiegare le
cose alle quali tiene a chi non è già sensibile all’argomento, diventa noioso e antipatico.
Questo discorso vale anche per la questione della donna: se si racconta che la donna è così
e colà, dei suoi diritti, eccetera, non si raggiungerà mai lo scopo, non si riuscirà a fare
cambiare idea e comportamento alla gente. L’esempio convince più di mille parole.
Su queste basi è partito un piccolo progetto a Pietrasanta, dal titolo “Luogo
comune”, che è anche il nome del comitato che l’ha originato, che raccoglie cittadini e
associazioni di volontariato. Il progetto prevede che le persone singole, impegnate in
molteplici attività lavorative, e le associazioni siano ‘gentilmente’ obbligate a convivere,
mentre svolgono il loro lavoro. Uno spazio fisico sarebbe di grande aiuto, non basta
internet, ma non l’abbiamo ancora.
Immaginiamo che in questo spazio i cittadini (compresi gli artisti) e le associazioni
operino individualmente come hanno sempre fatto, per realizzare conferenze, eventi di varia
natura, feste, ospitare sportelli d’ascolto, costituire una Banca del Tempo ecc. La vicinanza
fisica di persone diverse, impegnate in attività diverse, potrebbe portarle a guardarsi, anche
per sbaglio, ad incuriosirsi l’una dell’altra, a cominciare a comprendere meglio come ognuno
opera, quali sono le motivazioni, gli obiettivi, ecc. E questo potrebbe dare adito a sinergie
che sarebbero impossibili laddove le attività si svolgono in compartimenti stagni.
A conclusione del mio intervento, direi che collaborare con il comitato per la
realizzazione del progetto “Luogo Comune” mi sta dando la possibilità di dare un contributo
come artista, ma in una prospettiva nuova e più attuale: non dipingo o scolpisco, ma opero
con le persone per ricostituire una comunità.
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Sabrina MORENA
Laureata in lingua e letteratura russa, assistente di Giorgio Pressburger nelle produzioni Mittelfest (1994-1999) e
organizzatrice del Festival Teatri a Teatro a Trieste (2007-2008). Promotrice e curatrice della manifestazione “Spaesati”.
Ha curato molte regie, documentari come “Donne allo Specchio”, “Rose” di Martin Sherman, “Un Marito” di Italo Svevo.
PERSONAGGE IN CERCA DI AUTRICI E REGISTE
Cercherò di essere sintetica perché siamo ormai in chiusura. Vi ringrazio e mi
dispiace di non essere stata presente questa mattina. E ringrazio comunque per questo
convegno, che ho trovato ricco di spunti e stimolante, e devo dire che l’avere abbandonato
l’idea iniziale di dividerci in gruppi per settore artistico e avere invece creato questo unicum
fra le arti è stato un grande valore. E qui mi riferisco all’intervento di Francesca Gallo, che
canta ma anche parla. Perché un po’ è il problema, secondo me, culturale generale di questo
Paese, che è fatto tutto un po’ a compartimenti stagni per cui chi canta ma anche parla non
sai bene in che rassegna metterlo, e così chi fa spettacoli multidisciplinari non sai mai dove
metterlo, insomma, c’è questa settorialità che penso uccida la cultura.
E qui, però, devo dire, metto la nota dolente. Abbiamo tanto parlato di
meravigliose culture ed esperienze e tutto quello che vogliamo, ma siamo in un paese dove
la cultura è morta, il teatro è morto, se non ancora morto, moribondo. Siamo in un paese
l’Italia, bisogna dirlo, dove è stata scientemente uccisa e continua a essere costantemente
falcidiata la cultura.
In particolare, mi esprimo per quello che riguarda il teatro. Mi occupo fondamentalmente di
teatro, anche se organizzo una rassegna, “Spaesati”, eventi sul tema delle migrazioni, un
evento multidisciplinare, che non si sa mai bene dove incasellare, in più siamo “spaesati”
perché oltre a parlare di migrazione, parliamo di spaesamento, che riguarda tutti, ma che
non si sa mai dove mettere. Ritornando all’uccisione della cultura, quello che soprattutto
viene eliminata, e voglio dirlo a voce molto forte, in particolare in teatro, è soprattutto la
parte artistica. Purtroppo, ormai resteranno solo le scatole con tante persone che lavorano,
appunto da rispettare, ma l’artista, le maestranze, il know-how è stato completamente
distrutto.
Io guadagno, ora come ora, meno di quando ho iniziato a lavorare come assistente
regista, non è possibile una cosa del genere. E’ frustrante, ma credo che ci sia qualcosa che
non va perché se succede a me che ho quarantasei anni, cosa succede alle più giovani? La
situazione è gravissima.
Mi è piaciuto molto, l’intervento di Giuliana Musso perché dice: noi siamo
comunque fuori dal sistema perché parliamo del vivente, ed è vero, però penso anche che
possiamo fare qualcosa tra di noi. Credo che fare rete, come stiamo facendo, sia molto
importante perché ci conosciamo e anche conosciamo tantissime esperienze.
Perché il problema comunque principale di noi donne e di questa società, da cui
appunto siamo tagliate fuori, è che soprattutto a livello mediatico, e parliamo di televisione
ma anche di giornali, di giornali locali e di riviste, l’arte delle donne non c’è, o c’è pochissimo.
Per cui anche i nomi che circolano, se vedete, sono anche sempre quelli, e sono soprattutto
sempre maschi.
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E devo dire anche tante volte astratti, poco concreti, sembra che si parli dei
massimi sistemi, però senza mai cambiare questo sistema.
Sono anche molto d’accordo sul fatto non esiste un’arte di genere. Si, abbiamo
tante belle particolarità, però penso che possiamo parlare di tanti argomenti, come parlano
gli uomini, anzi in nodo più appropriato di loro. Noi possiamo dare la nostra opinione anche
sul traffico, ma il problema vero è che c’è la discriminazione di genere. Che è poi a certi livelli
diventa un muro il famoso “tetto di cristallo”.
Credo che le soluzioni siano in ogni caso sia quelle di fare rete, di conoscerci, di
aiutarci tra di noi, fare lobby e di promuoverci. Visto che questa iniziativa è stata organizzata
dalla Commissione Pari Opportunità, credo che le Commissioni Pari Opportunità –faccio un
inciso politico perché ho questa esperienza in questo momento – abbiano il compito anche
di vigilare che vi siano le pari opportunità, nei teatri, nei cartelloni e credo che sia molto
importante questo. Quindi raccomando le Commissioni ad attivarsi in questo senso, perché
sono dentro le istituzioni dove possono vigilare.
Ringrazio chi è intervenuta prima di me, a ricordare l’esempio francese, perché noi
abbiamo tutti i diritti di chiedere le pari opportunità su tutti i livelli, sulle stagioni teatrali
sulle direzioni artistiche e via dicendo.
Sarebbe ora di mobilitarci, abbiamo anche i canti, e quindi possiamo fare la
rivoluzione!
Bruna BRAIDOTTI
Concludiamo con Marzia d’Alesio e poi Caterina Casini. Prima però interviene Santina
Zannier con una proposta.
Santa ZANNIER
Solo un momento sull’intervento di Alina Narciso avevo una proposta da fare:
portare questo progetto all’attenzione del Coordinamento nazionale delle Presidenti delle
Commissioni pari opportunità delle Regioni per continuare questo percorso in tutte le
regioni italiane ottenendo il risultato di avere una sensibilizzazione e una visibilità sia a
livello nazionale che in tutte le Amministrazioni regionali.
Bruna BRAIDOTTI
E’ tantissimo veramente, un’ottima proposta e ci impegniamo per preparare il
progetto.
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Marzia D’ALESIO
Nata nel 1975. Si occupa di organizzazione, produzione, programmazione, distribuzione e promozione di spettacoli
teatrali. Nel 2012 è nella giuria del premio “La scrittura della differenza 2013” nell’ambito del progetto delle biennale
internazionale di drammaturgia femminile. Attualmente lavora presso il Teatro Stabile di Napoli.
DARE GAMBE ALLE IDEE. ESERCITARE IL PENSIERO DELLA DIFERENZA NEL LAVORO DI
ORGANIZZAZIONE NEL SETTORE TEATRALE CURA DEI PROGETTI E PRATICHE DI
RELAZIONE
Voglio partire dagli ultimi interventi, ed in particolare da quest’ultima
sollecitazione. Credo che l’importante sia fare rete, e credo che questo parta molto dalle
persone, indipendentemente dalle istituzioni. Mi hanno colpito tantissimo gli interventi,
quindi è ovvio metterli dentro nelle mie riflessioni.
Innanzi tutto, partirei dal vissuto. Io prima ho lavorato in un teatro di innovazione,
ora lavoro in un teatro stabile pubblico a Napoli dove è tutto precario, compreso il teatro
stabile, che l’anno scorso rischiava di chiudere! Siamo in tutto quindici dipendenti, dopo che
con una battaglia sindacale sono stati assunti anche i tecnici. Il contributo del Ministero al
Teatro è molto basso perché è uno stabile che ha dieci anni, quindi ha una storia
relativamente giovane. Allo stesso tempo questa storia “giovane” ha fatto sì, secondo me,
che questo teatro ha espresso la voglia di costruire in maniera forte la propria identità.
Quindi accanto alla classica programmazione tradizionale, si è lavorato anche ad alcuni
progetti speciali per dare un’identità forte al teatro.
Per essere brevi, mi piace citare alcune artiste con cui ho lavorato di recente,
perché anche il legame che si stabilisce fra donne è molto importante, come è stato detto.
Ad esempio, una è Valeria Parrella, che è una scrittrice che non ha quarant’anni, che ha
riscritto un’Antigone, per uno spettacolo da palco grande, che va in tournée in tutta Italia, e
lei, essendo un’autrice contemporanea, ci ha messo dentro due temi molto significativi,
secondo me, quello dell’eutanasia e quello delle carceri, due temi che ci toccano molto oggi.
Abbiamo poi elaborato un progetto dedicato ad Annamaria Ortese, un’autrice che
non so se conoscete, ma che vi consiglio molto, ed in particolare abbiamo scelto il suo testo
“Il mare non bagna Napoli”. Immagino che anche per voi questo titolo possa aprire un
mondo, perché a volte “il mare non bagna Napoli” perché mentre vai a teatro, per strada, ci
sono le blatte, i topi, dietro all’ingresso principale, dov’è l’ingresso per gli artisti, c’è chi vende
i telefonini rubati! Tipici combattimenti da sud. Come dicevo alcune regie del progetto
dedicato a “Il mare non bagna Napoli” sono state affidate a delle donne, Alessandra Cutolo,
Antonella Monetti, con cui ho lavorato da tanti anni su progetti anche dedicati al sociale,
nelle periferie e con il carcere.
Quello che voglio dire, in sintesi perché siamo alla fine di questa giornata, è che
credo che sia importantissimo costruire una rete di donne, una rete che resista nel tempo.
Ad esempio con Alina Narciso ci conosciamo da tanto, da quando io lavoravo al Teatro
Nuovo, e realizzavamo la “Scrittura della differenza” e ci siamo ritrovate ora al Teatro
Mercadante sempre per “la scrittura della differenza”. Ci tengo a precisare che non occupo
nessun ruolo di responsabilità al Mercadante, le scelte sono sempre dei direttori, lo Stabile
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di Napoli ha già cambiati quattro direttori e quattro presidenti, e poi c’è un responsabile di
programmazione; io sono un’impiegata, un po’ la segretaria “pensante”, per citare la figura
invocata negli interventi precedenti. Quello che voglio dire è che credo che ciascuno,
qualsiasi posto occupi, debba avere il ruolo di pungolare, di essere il pungolo. Ho preso nota
dagli interventi precedenti sul tema della “sensibilità del direttore”; credo che ciascuno di
noi deve stimolare la sensibilità del direttore, dell’amministratore, del regista! Credo che
questa possa essere una pratica e una risposta, per rilanciare il tema di questo convegno
“l’arte delle donne”; anche perché sappiamo tutti che le reti sono una cosa molto difficile,
perché noi ora usciremo da qui e diremo tutti: “facciamo rete, facciamo rete”, ma c’è il
rischio di non dare seguito a questo proposito, e stare chiusi ognuno nel proprio mondo. A
proposito di questo mi fa piacere ricordare un’esperienza: ho seguito un progetto
veramente con grandissima adesione emotiva, il progetto “Arrevuoto”, dei laboratori teatrali
nelle periferie per ragazzi, con insegnanti, lavoratori del sociale e teatranti; ed è stata
davvero dura fare rete! Sono “morta” nel fare l’elastico fra questi tre gruppi, ma poi il
risultato è stato di grande arricchimento, umano e professionale.
Infine due parole sullo specifico delle donne. Ho fatto anche degli studi sul
pensiero della differenza e ho una mamma femminista, non ho nemmeno quarant’anni (ho
notato che sono l’unica che ha la data di nascita nel programma!), e mi porto dietro questo
bagaglio, come la gobba del cammello, come una riserva energetica. Ho tentato sempre di
mettere cura, perché, secondo me, è in questo modo che le donne possono fare la
differenza. Come la fa una donna? Con la cura e con la relazione.
Per chiudere, mi faceva piacere pensare che oggi ci portiamo tutti a casa una
mappa – mi sono occupata anche di distribuzione per tanto tempo, di circuitazione degli
spettacoli - e secondo me avere una buona mappa è importantissimo. Partire dal conoscere
bene le regole per poi provare a intervenire su quelle regole con un’azione sovversiva, è
questo quello che dobbiamo provare a fare.
Caterina CASINI
Si diploma attrice allo studio Fersen di Arti Sceniche a Roma, nel 1977, poi studia a Parigi Commedia dell'Arte con Carlo
Boso. Ha lavorato con registi quali A. Trionfo, W. Manfré, GC Sammartano, A. Fago, Emanuela Giordano, Tonino Conte, e
con M. Ferreri, R. Arbore, i Vanzina, M. Mattolini, G. Landi e moltissimi altri. Attualmente è Direttore Artistico della
Associazione Culturale Laboratori Permanenti e co-Direttore Artistico del Teatro della Misericordia di Sansepolcro,
residenza triennale sostenuta dalla regione toscana.
CREATIVITÀ E ORGANIZZAZIONE
E’ una grande responsabilità chiudere.
Io sono un’attrice, sono regista, e scrivo testi da sempre. Ho iniziato con la scuola
di Fersen, ho fatto tutti i miei percorsi, ho fatto il teatro tradizionale, il teatro alternativo, il
teatro della Maddalena di Roma, ho fatto un sacco di cose, dopodiché, nel fare questo, ho
costruito il mio percorso, e questo percorso aveva bisogno di spazi.
Mi sono occupata di didattica, è avvenuto naturalmente e ho aperto una scuola di
teatro, la scuola di teatro comunale a Sansepolcro, dove la mia famiglia, proveniente da
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mezza Europa, è arrivata. L’esigenza di uno spazio migliore per la scuola e, nel frattempo, la
costruzione della mia compagnia ha fatto sì che io, una mattina, ho chiesto a mio fratello,
giornalista: dove si va a chiedere uno spazio? All’ufficio urbanistica. E sono andata.
Sono andata e ho chiesto un teatro. Dove lo facciamo un teatro? Ho detto proprio
così. Basta, mi sono rotta. Dove facciamo un teatro? La storia è lunga, comunque l’11
ottobre inauguriamo un teatro, che è stato costruito a Sansepolcro, a partire da questa
richiesta.
Io sono condirettore artistico perché questa impresa è partita da questo
momento, ma nel frattempo c’era anche la compagnia Capo Trave che camminava con il
suo festival, il Kilowatt, un festival di energia giovanile, di spettacoli di ragazzi e di giovani
artisti. Il teatro quindi è cogestito e co-diretto con loro. Non è facile, ma è molto
interessante perché ognuno ha le proprie possibilità di elaborazione e il confronto porta ad
elaborare qualcosa di comune.
In sintesi ho lavorato, e questo credo sia una cosa da riconoscere, organizzandomi
la struttura corrispondente alla mia necessità creativa. Cosa che mi mancava e per cui
soffrivo quando lavoravo nei teatri tradizionali. Mi sono costruita anche i testi, ho praticato
la commedia dell’arte, sono stata artigiano, sono stata folle, per arrivare. . . ora vedremo che
cosa succederà in questo teatro. Credo che noi abbiamo una “modulistica” (perdonatemi la
parola un po’ semplice) diversa, che condiziona anche tutto il nostro agire, che dobbiamo
rispettare quando intraprendiamo le nostre costruzioni, perché abbiamo la possibilità di
edificare strutture molto aderenti al reale e siamo, forse, più legate, come si diceva, alla
relazione, e quindi teniamo conto di molte cose insieme.
Questo dà forza perché se costruisci una organismo o un organizzazione, come la
tua casa, costruisci qualcosa che ti assomiglia, nella quale ti muovi bene ed è armonica
rispetto a quello che fai, tu costruisci una struttura in cui puoi, come ha detto qualcuno,
concepire il festival e tutto ciò che organizzi come un’opera d’arte.
Bruna BRAIDOTTI
Il fatto che sei riuscita ad avere un teatro, ribadisce quello che notava qualcuna
oggi e cioè la caratteristica delle donne di essere caparbie e flessibili: penso che per questa
nostra caparbietà unita alla flessibilità noi andiamo avanti e questa nostra forza di non
rassegnarci mai prima o poi ci porterà da qualche parte.
Grazia SCUCCIMARRA
Solo cinque minuti prima di salutarci. Grazie a Bruna per questa splendida
giornata. Però è mancata una cosa, che dico molto brevemente: è mancata la constatazione
anche di una grossissima responsabilità da parte delle donne rispetto alla situazione nella
quale versiamo, perché va bene dire che il sistema. . . , ma il sistema siamo pure noi, noi che
lo avalliamo. Come possiamo dormire tranquille se abbiamo avallato – hanno avallato – e
noi non abbiamo “ammazzato” nessuno? Forse avremmo dovuto farlo! Una Gelmini che ci
ha raccontato da Ministro della Pubblica Istruzione che esiste un tunnel che parte dalla
Svizzera e arriva al Gran Sasso in Italia!
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Ragazze, c’è tanta responsabilità. Se la società oggi quella che è, cioè così schifosa,
lo dobbiamo anche al peggioramento delle donne, perché le donne stanno peggiorando.
L’uomo no, non può peggiorare! Peggio di così!
Le donne hanno un ampio margine ancora di peggioramento, quindi cerchiamo di
riempirle col positivo. Grazie.
Bruna BRAIDOTTI
Grazie. Ricordo che alle ore 20. 45 inizia il concerto di Luisa Sello e Suonodonne al Teatro
ridotto.
Al prossimo convegno!
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Concerto di Luisa Sello
Ore 20. 45 Ridotto Del Teatro Verdi
Concerto a cura di Luisa Sello e Suono Donne
Interpreti: Cristina Nadal, Giada Visentin, Rose Marie Soncini, Maria Vittoria Jedlowski, Luisa
Sello.
Musiche di J. S. Bach, W. A. Mozart, Sonia Bo, Beatrice Campodonico, Carla Magnan, Renata
Zatti
La commedia delle donne di Bruna Braidotti
Ore 21. 30 Sala Prove Teatro Verdi
Spettacolo a cura della Compagnia di Arti e Mestieri
Primo Premio di drammaturgia femminile Mariangela Melato 2013
Con Bruna Braidotti e Bianca Manzari
Ringraziamenti:
Si ringraziano le collaboratrici della Compagnia di Arti e Mestieri per la preziosa assistenza
all’organizzazione del convegno.
Si ringrazia il Comune di Pordenone per aver messo a disposizione il teatro Verdi.
152
CONCLUSIONI
L’originalità del convegno è stata l’incontro di artiste dei diversi settori espressivi,
permettendo confronti e scambi fra teatro, musica ed arte figurativa. E’ stata un’esperienza
arricchente per tutte e i contatti nati fra le artiste si sono sviluppati nei mesi successivi in
collaborazioni artistiche. Le circa 70 artiste convenute da tutta Italia hanno vissuto
praticamente insieme due giorni moltiplicando anche fuori dal convegno le occasioni di
conoscenza e favorendo la progettazione di iniziative future. Si è creata una ‘comunità di
artiste’ nazionale che ha anche stimolato una comunità regionale, facendo entrare in un più
stretto contatto artiste del FVG stimolando progettualità collettive.
Nel convegno accanto alle ricche testimonianze di esperienze espressive ed
organizzative sono stati sollevati i problemi, le difficoltà ma anche le caparbietà delle artiste
ed i risultati ottenuti e sono state lanciate alcune proposte, ma i temi sollevati e la
discussione che stimolavano avrebbero richiesto almeno un’altra giornata. Molte cose sono
rimaste ancora da esplorare ed approfondire ed il confronto con gli operatori, con chi
organizza e veicola cultura si è ridotto, per mancanza di tempo, a pochi contributi. Per
questo la proposta di Santa Zannier di replicare questa iniziativa presso le altre
Commissioni regionali Pari Opportunità d’Italia ha suscitato molto entusiasmo. La proposta
consiste nel realizzare in ogni regione un convegno ‘nazionale’ a cura degli organi
istituzionali per le pari opportunità per continuare a svolgere i fili dei percorsi tematici
lanciati sull’arte delle donne con questo primo convegno e stimolare un dibattito con il
mondo dell’organizzazione culturale. Con ulteriori momenti di incontro le proposte e le
riflessioni avviate a Pordenone potrebbero concretizzarsi in strategie per superare la
marginalità artistica femminile e potrebbe continuare il confronto sui linguaggi espressivi e
sui contenuti artistici. Gli atti di questo convengo potrebbero essere il volano di nuove
sessioni di incontri che dovrebbero moltiplicare contatti e reti coinvolgendo il più possibile
le realtà artistiche femminili esistenti in Italia.
La proposta di coinvolgimento delle Commissioni Regionali è stata già inoltrata
alla Presidente della Conferenza delle Commissioni regionali delle Pari Opportunità d’Italia
e l’augurio è quello che questo resoconto diventi il primo quaderno di un confronto a più
tappe sull’arte delle donne.
Bruna Braidotti
153
PARTECIPANTI
L’ARTE DELLE DONNE teatro musica arti figurative
Coordinano gli interventi Bruna Braidotti e Luisa Sello
PRESENTAZIONE
Annamaria POGGIOLI
Presidente Commissione pari opportunità della Regione Friuli Venezia Giulia
SALUTI DELLE AUTORITA’
Santa ZANNIER Presidente dimissionaria della Commissione pari opportunità della
Regione FVG
Claudio PEDROTTI Sindaco di Pordenone.
Loredana PANARITI Assessore regionale al lavoro, formazione, istruzione, pari opportunità,
politiche giovanili e ricerca.
Giorgio ZANIN Deputato della Repubblica italiana
Donata CANTONE Presidente Commissione pari opportunità della Regione FVG
Elisabetta TURANI Consigliere comunale di Spilimbergo.
3
3
4
5
7
8
INTRODUZIONE
Bruna BRAIDOTTI - Alcuni dati sulla presenza artistica delle donne in Italia
Maria Vittoria JEDLOWSKI - “Io ce la farò” “Ti riconosco sorella”
11
16
LE DONNE E L’ARTE NELLA STORIA
Elisabetta CAPPUGI - Com’era difficile per le donne avere voglia di dipingere
Luisa SELLO - Muse musiciste e compagne musicali
Monica CATTAROSSI - Da bambine prodigio a interpreti: due secoli di musiciste e
palcoscenici di musica classica
Valeria PALUMBO - La sindrome del nonnetto: perché le donne non hanno scritto musica
sinfonica
Annamaria CECCONI - La storia di genere e le artiste della scena: un aggiornamento
20
27
28
32
38
INTERVENTI DELLE ARTISTE
Grazia SCUCCIMARRA - ‘Chiedo i danni’
Renata BAGATIN - Consigliere regionale della Regione Friuli Venezia Giulia
Renato MANZONI - Direttore dell’Ente teatrale della Regione Friuli Venezia Giulia
Annamaria IODICE - L’intreccio non lineare della ricerca nell’arte
Luisa SELLO - Dietro il leggio
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44
45
46
50
TESTIMONIANZE DI MANIFESTAZIONI ARTISTICHE, CONCORSI
E FESTIVAL DEDICATI ALLE DONNE ESISTENTI IN
ITALIA ED IN EUROPA
Beatrice CAMPODONICO - Suonodonneitalia
Rosalba MONTRUCCHIO - L’esperienza di in - audita musica al conservatorio “Guido
Cantelli” di Novara e l’associazione Magistrae Musicae
Serena GRANDICELLI - Studi nel femminile a teatro e in letteratura
Maria Assunta CALVISI - Esperienze di una giovane attrice e regista teatrale. Difficoltà e
soddisfazioni nel mio lavoro quando ho deciso di fondare la mia compagnia teatrale.
Ornella URPIS
Alda RADETTI
52
55
61
63
66
66
Bruna BRAIDOTTI - Festival la scena delle donne e l’esperienza del coordinamento donne
del teatro
Alina NARCISO - Reti di donne del teatro in Italia ed all’estero
Annamaria TALONE - Magfest la rete the Magdalena Project in Italia
Gabriella SACCO - Scambi e progresso creativo nel Magfest
Valentina TIBALDI - Connessione tra la rete internazionale the Magdalena Project e la rete
nazionale Magfest
Valentina RAPETTI - Women Playwrights International e donne fuori scena: il teatro
declinato al femminile
Silvia SCOTTO D’ANTUONO - Donne su un palco che scotta
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71
76
79
81
83
88
LINGUAGGI E CONTENUTI DELL’ARTE DELLE DONNE
Paola BRISTOT - Film d’animazione d’autrici. Alcune esemplificazioni e presentazioni di film
contemporanei
Cristina CALÌ - L' arte come strumento di indagine personale, l'identità di genere come
strumento
Antonia LUCCHESE - Esiste un’arte al femminile o donne che fanno arte?
Lea MONETTI - In principio fu Eva
Silvia ZOFFOLI - La questione del “punto di vista al femminile” a teatro
Marina TOFFOLO - Agane
Carla MAGNAN e Carla REBORA - Prime donne compositrici a scrivere a 4 mani
Ambra ZAGHETTO - Partiture tattili
Anna GEMELLI - Una fantastica avventura tra fantasia e realtà
Ulla ALASJÄRVI - Parla la donna cosa dicono in Afghanistan, Georgia, Sudafrica, Australia,
Iran
Stefania BOFFA e Chiara DI GREGORIO - Vasi speziati / vasi di donna
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95
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101
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108/109
111
113
115
117/118
DONNE ARTISTE DIFFICOLTÀ CRITICITÀ QUOTIDIANE E SOCIALI
Carlina TORTA - Autostima
Claudia CONTIN ARLECCHINO - Generazioni di donne: abbiamo ancora bisogno di
credere che tutto sia possibile
Marilena PITTURRU - Crescita della donna come crescita del paese
Giuliana MUSSO - La stupidarte del vivente
Marta Alejandra ROLDÁN - Come smettere di essere un'autrice emergente
Laura DE MARCHI - La comicità e gli stereotipi
Francesca GALLO - La musica popolare delle donne
Silvia LORUSSO DEL LIN - Il teatro è di genere?
Stefania BRANDINELLI - L' artista può e deve tornare ad avere incisività nella società
Sabrina MORENA - Personagge in cerca di autrici e registe
Marzia D’ALESIO - Dare gambe alle idee. Esercitare il pensiero della differenza nel lavoro di
organizzazione nel settore teatrale cura dei progetti e pratiche di relazione
Caterina CASINI - Creatività e organizzazione
Grazia SCUCCIMARRA
119
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140
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CONCLUSIONI
Bruna BRAIDOTTI
153
ARTISTE INTERVENUTE AL CONVEGNO
NOME
Alasjarvi Ulla
Boffa Stefania
Braidotti Bruna
Brandinelli Stefania
Bristot Paola
Calì Cristina
Calvisi MariaAssunta
Campodonico Beatrice
Cappugi Elisabetta
Casini Caterina
Cattarossi Monica
Cecconi Annamaria
Contin Claudia
D'Alesio Marzia
De Marchi Laura
Di Gregorio Chiara
Gallo Francesca
Gemelli Anna
Grandicelli Serena
Iodice Annamaria
Jedlowski Maria Vittoria
Lorusso Del Linz Silvia
Lucchese Antonia
Magnan Carla
Merisi Miana
Monetti Lea
Montrucchio Rosalba
Morena Sabrina
Musso Giuliana
Narciso Alina
Palumbo Valeria
Pitturru Marilena
Rapetti Valentina
Rebora Carla
Roldan Marta Alejandra
Sacco Gabriella
Scotto D'Antuono Silvia
Scuccimarra Grazia
Sello Luisa
Soncini Rose Marie
Talone Annamaria
Toffolo Marina
Torta Carlina
Zaghetto Ambra
Zoffoli Silvia
SETTORE
Teatro
Arti Figurative
Teatro
Arti Figurative
Arti Figurative
Teatro
Teatro
Musica
Arti Figurative
Teatro
Musica
Teatro
Teatro
Teatro
Teatro
Arti Figurative
Musica
Musica
Teatro
Arti Figurative
Musica
Teatro
Arti Figurative
Musica
Teatro
Arti Figurative
Musica
Teatro
Teatro
Teatro
Musica
Arti Figurative
Teatro
Musica
Arti Figurative
Teatro
Teatro
teatro
Musica
Musica
Teatro
Arti Figurative
Teatro
Arti Figurative
Teatro
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A cura di Loredana Tamai
Novembre 2014
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