Il culto dell`amore misericordioso: un nuovo modo di riproporre il

SPIRITUALITÀ SCJ
Il culto dell'amore misericordioso:
un nuovo modo di riproporre
il culto al s. Cuore di Gesù nei tempi odierni?
P. Francesco Giuseppe Mazzotta, scj
Introduzione
Nella lettera al Generale della Compagnia di Gesù, in occasione del 50° anniversario dell'enciclica Haurietis
aquas di Pio XII sul culto al s. Cuore di Gesù, il papa Benedetto XVI afferma che il contenuto di ogni vera
spiritualità e devozione cristiana, non soltanto il culto e la devozione al Sacro Cuore di Gesù, è l'amore di Dio
per noi, per cui «il fondamento di questa devozione è antico come il cristianesimo stesso. Infatti, essere
cristiano è possibile soltanto con lo sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore, “a Colui che hanno
trafitto” (Gv 19,37; cfr Zc 12,10). A ragione – continua il Papa – l'Enciclica Haurietis aquas ricorda che la
ferita del costato e quelle lasciate dai chiodi sono state per innumerevoli anime i segni di un amore che ha
informato sempre più incisivamente la loro vita (cfr n. 52)» 1.
Di fatto, però, se l'attuale Pontefice ha aperto il suo pontificato con un'enciclica sull'amore 2 e conclude la
lettera al Generale dei Gesuiti augurando «che la ricorrenza cinquantenaria [dell'Haurietis aquas] valga a
stimolare in tanti cuori una risposta sempre più fervida all'amore del Cuore di Cristo» 3, è innegabile che
oggi si continui a respirare una generale allergia verso il culto al Cuore di Gesù, come faceva notare già
Carminati alla fine degli anni '70 4, se non addirittura un diffuso disinteresse.
Invece, dalla pubblicazione della seconda enciclica del pontificato di Giovanni Paolo II, la Dives in
misericordia dell'30/11/1980, a cui fece seguito prima la beatificazione il 18/04/1993 e poi la canonizzazione
il 30/04/2000 della suora polacca Maria Faustina Kowalska, con l'estensione a tutta la chiesa della
celebrazione della festa della divina misericordia la seconda domenica di Pasqua, il culto all'amore
misericordioso ha avuto un'incredibile ripercussione sui fedeli e l'icona di Gesù con due raggi, uno rosso e
l'altro pallido, che scaturiscono dal suo petto, secondo la visione avuta dalla Santa 5, ha avuto una notevole
diffusione.
Si potrebbe pensare, dunque,che il culto dell'amore misericordioso stia oggi semplicemente prendendo il
posto nel cuore dei fedeli del culto al s. Cuore di Gesù, sicuramente molto sentito fino almeno alla
celebrazione del Concilio Vaticano II, e che fra i due ci sia una sostanziale equivalenza.
Per comprendere se questa equivalenza sia vera, occorre analizzare i fondamenti biblico-teologici dei due
culti, esaminando alcuni segni e concetti che si trovano alla loro base.
1. Il costato trafitto
Il versetto di Giovanni sul costato trafitto di Gesù da cui «scaturì sangue e acqua» (Gv 19,34) ha sempre
destato fin dall'antichità cristiana delle profonde risonanze nella Tradizione: all'inizio nei Padri della chiesa,
poi più specialmente nella teologia e nella spiritualità del Cuore di Cristo dal Medioevo e ora in epoca
contemporanea nella teologia e nella spiritualità dell'amore misericordioso. Procedere, dunque, dall'analisi di
questo versetto appare fondamentale e indispensabile, sebbene in esso non appaia né la parola cuore, né la
parola misericordia. D'altra parte, l'immagine del Gesù di Maria Faustina Kowalska lo evoca in maniera
inequivocabile, mentre la spiritualità del cuore di Cristo insiste sull'«apertura» del costato che carica di
poesia e di simbolismo, sebbene non si possa dimenticare che questo tema risale ad Agostino 6, il quale si
appoggiava sulla traduzione imprecisa della Volgata, che usa aperuit, aprì, mentre secondo il greco, bisogna
dire che il soldato con la sua lancia énuxen, colpì, il costato di Gesù 7.
Il versetto di Gv 19,34, però, solleva innanzitutto problemi di ordine esegetico e teologico. Circa i problemi
esegetici, occorre richiamare la problematica sollevata da Bultmann, secondo il quale, nella teologia di
Giovanni, la morte di Gesù non ha più il senso che aveva nella prima tradizione cristiana. Precedentemente,
si interpretava la sua morte come un sacrificio espiatorio per i nostri peccati (cf Rm 3,25; Eb 7,27), mentre,
secondo gli scritti giovannei, invece, Gesù nella sua morte è il rivelatore. Di conseguenza, Gv 19,34 e gli altri
passi in cui si parla del sangue di Cristo, vittima di espiazione per i nostri peccati, devono essere considerati
come delle interpolazioni posteriori, perché l'idea di sacrificio espiatorio è estranea al pensiero di Giovanni 8.
Questa posizione, sebbene inaccettabile, mette però in evidenza che la teologia giovannea è
fondamentalmente una teologia di rivelazione anche durante il racconto della Passione. La questione reale
allora è quella di sapere se una teologia della rivelazione e una teologia del sacrificio necessariamente
debbano escludersi.
Fra gli esegeti contemporanei, sembra poi esserci smarrimento nell'interpretazione del sangue e dell'acqua.
Schnackenburg dice che il passo deve essere interpretato alla luce di quello di Gv 7,37-39, ma in esso si
parla soltanto dell'acqua viva che sgorga dal seno di Gesù. Se però si vuole distinguere di più, egli
suggerisce che sia lecito pensare che il sangue sia segno della morte salvifica di Gesù (cf 1Gv 1,7) e l'acqua
un simbolo dello Spirito e della vita 9.
Anche ai giorni nostri si ritrova l'esegesi sacramentale che era corrente all'epoca patristica: l'acqua e il
sangue simboleggiano il battesimo e l'eucaristia, ma l'ordine inverso delle parole, «sangue e acqua», è una
seria difficoltà contro questa interpretazione che richiederebbe piuttosto che si leggesse «acqua e sangue»,
come alcuni testimoni propongono 10.
Alcuni autori si sforzano di precisare ulteriormente il simbolismo del sangue. Viene proposto di vedere nel
sangue del costato trafitto un'allusione al sangue dell'agnello pasquale 11, ma questa spiegazione potrebbe
non essere del tutto convincente, perché il riferimento all'agnello pasquale è sicuro per le gambe non
spezzate di Gesù, ma, per il sangue che esce dal costato, l'immagine nel caso dell'agnello pasquale è del
tutto differente, giacché, secondo Es 12,13, gli Israeliti dovevano prendere il sangue dell'agnello e metterlo
sugli stipiti delle porte per sfuggire all'angelo sterminatore: e qui apparentemente non si fa cenno al sangue
che esce dall'agnello.
Un'altra interpretazione, infine, afferma che «il sangue che esce dal costato di Gesù figura la sua morte che
egli accetta per salvare l'umanità» 12, quindi il sangue sarebbe segno della morte accettata dal Gesù morto
quando era ancora in vita.
Dal punto di vista teologico, c'è, invece, da considerare il problema del disconoscimento della nozione di
sacrificio espiatorio, che porta a vedere la morte di Gesù non in questa chiave 13.
Per quanto si possa dire, però, è innegabile che per l'evangelista Giovanni la visione del costato trafitto
costituisce una delle sue visioni supreme, a cui egli dà un grandissimo risalto: «Chi ha visto ne dà
testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv
19,35).
Una insistenza così marcata sulla verità della propria testimonianza e il richiamo a quella di Cristo risorto 14
non avrebbero senso, se per Giovanni il fuoriuscire dell'acqua e del sangue dal costato di Cristo non
rappresentassero uno dei più grandi prodigi, se non il più grande, del mistero della salvezza, un prodigio
rimarcato dall'adempimento di due scritture 15: «Non gli sarà spezzato alcun osso» (Es 12,46) e
«Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Zc 12, 10). Questo indica che la trafittura del costato non
fu dovuta a circostanze fortuite, ma che essa era stata progettata da Dio con cura e preannunziata nell'AT.
Con la prima citazione, Giovanni richiama il rituale relativo alla consumazione dell'agnello pasquale che si
deve mangiare in una sola casa, senza portarne fuori la carne. Un divieto “strano”, ma che ci ricorda quanto
veniva fatto in alcuni paesi, almeno dell'Italia meridionale, fino a qualche decennio fa: si uccideva il maiale
16, ci si confezionavano i vari salumi e poi, perché non venisse sprecato nulla, le parti meno nobili, che non
si potevano conservare, venivano suddivise fra parenti e amici, perché ognuno le potesse consumare a casa
propria. In questo modo, ognuno mangiava dell'unico animale, ma per conto proprio. Il divieto di portare fuori
casa la carne dell'unico agnello, allora, intende evitare che succeda qualcosa di simile, perché quell'agnello
ha un significato particolare: è l'agnello della comunione, una comunione che deve unire strettamente i
membri della stessa famiglia. Richiamando Es 12,46, Giovanni vuole evidenziare, dunque, il carattere
pasquale della trasfissione e la sua funzione di garantire l'unità dei partecipanti 17.
Questo intento può essere confermato, ricordando innanzitutto che, all'inizio del suo Vangelo, Giovanni fa
dire a Giovanni Battista che vede venire Gesù verso di lui «Ecco l'agnello di Dio» (Gv 1,29) e sempre
Giovanni vede morire Gesù in croce, mentre nel tempio di Gerusalemme venivano sacrificati gli agnelli da
mangiare durante la celebrazione della pasqua, giacché «era il giorno della Parasceve» (Gv 19,31). Questo
significa che Gesù in croce è da considerare il vero agnello, segno e strumento, cioè sacramento vero, di
unità 18. E anche il simbolismo dell'acqua, che è segno dello Spirito Santo (cf Gv 7,37-39), ci spinge a
rafforzare la convinzione che, nel simbolismo della trasfissione, Giovanni veda innanzitutto l'intento di
garantire l'unità.
La seconda citazione, «volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Zc 12,10), ci porta a ritenere che
Giovanni non si stupisca per il mancato spezzamento delle gambe, come potrebbe far pensare il precedente
richiamo a Es 12,46, ma per la trasfissione vera e propria dell'unigenito e del primogenito annunciata da
Zaccaria circa verso il 315 a.C. per i tempi futuri. Giovanni ravvisa in Gesù il Trafitto unigenito (Gv 1,18) e
primogenito (Col 1,15) annunziato dal profeta (Zc 12,10). E la trasfissione dell'Inviato di Dio è il punto di
partenza della conversione (cf Zc 12,10; Is 53,11), perché fa zampillare una sorgente per la casa di Davide,
per lavare il peccato e l'impurità (cf Zc 13,1; Is 53,10-12; Ez 36,25-27).
2. Il sangue
L'acqua e il sangue che scaturiscono dal costato di Cristo sono da sempre al centro della riflessione
teologica sul s. Cuore di Gesù 19 e sono il costitutivo inequivocabile dei raggi rappresentati nell'immagine
del Gesù di suor Faustina Kowalska.
Il sangue che sgorga dal costato trafitto di Cristo è innanzitutto il sangue della nuova alleanza (cf Lc 22,20;
1Cor 11,25; Eb 12,24), compimento di quella antica stabilita al Sinai, proposta da Dio al popolo di Israele (Es
19,5) e ideata come comunione di vita che trova il suo più adeguato termine di confronto nel fidanzamento e
nelle nozze (cf Es 16,8.60; Ger 2,2), nel rapporto padre-figlio (Es 4,22ss.; Os 11,1; Dt 1,31; 14,1; 32,6; Is
63,16; Ger 31,9; Mal 2,10; Sap 18,13), nel vincolo che unisce un sacerdote al suo Dio (Es 19,6; Dt 7,6; 14,2;
Is 62,12).
Ora questa alleanza antica fu siglata tra Dio e il suo popolo, attraverso Mosé, con la consegna di un codice
(cf Es 19-23) e con un'aspersione nel sangue (Es 24, 1-11), che, secondo il libro del Levitico, è il segno della
vita (cf Lv 17,11.14). Questo significa che nell'alleanza Dio invita Isarele a divenire il suo popolo. Perché ciò
avvenga, però, Israele deve impegnarsi a vivere secondo le norme dettate nel codice della legge e questo
impegno è vincolante perché viene sigillato nel sangue. Mosè fa infatti costruire un altare, segno della
presenza di Dio e lo fa poggiare su 12 stele, segno delle dodici tribù di Israele. Poi fa sacrificare dei
giovenchi, ne prende il sangue e lo versa sull'altare e, dopo aver letto il libro dell'alleanza e atteso il
consenso da parte degli Israeliti, asperge il popolo con lo stesso sangue versato sull'altare (Es 24,1-8). Così
Mosè, intermediario tra Dio e il popolo, li unisce simbolicamente spargendo sull'altare, che rappresenta Dio,
e poi sul popolo il sangue di una stessa vittima. In tal modo, il patto è ratificato nel sangue (cf Lv 1,5ss.),
come la nuova alleanza lo è nel sangue di Cristo (Gv 19,34; Mt 26,28ss; Eb 9,12-26ss.) 20.
Aspergendo con il sangue l'altare e il popolo, Mosè pronuncia, infatti, queste parole: «Ecco il sangue
dell'alleanza» (Es 24,8). Sono le stesse parole che troviamo sulle labbra di Gesù, quando innalza il calice
nell'ultima cena: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt
26,28). Versando il suo sangue, Cristo inizia verso di noi una diaconia di liberazione 21 che culmina nella
nostra acquisizione sacerdotale a Dio Padre, mediante l'alleanza (cf Ap 1,5-6; 5,9-10; 1Pt 2,9; At 20,28;
26,18). Si tratta anche di una diaconia di consacrazione a beneficio nostro, che si prolunga nell'eucaristia
(Gv 17,19; Eb 13,12).
L'aggettivo possessivo «mio» di Mt 26,28 sottolinea l'abissale differenza che c'è tra il sangue dell'alleanza
mosaica, sangue di giovenchi (Es 24,5), e il sangue versato sulla croce, che è il sangue del Figlio di Dio (cf
Eb 9,12). L'alleanza siglata con il sangue di animali nell'AT trova compimento nell'alleanza siglata sulla croce
con il sangue di Cristo, l'unico che ha il potere di rimettere in circolazione nelle vene dell'uomo il sangue
stesso di Dio, la sua vita. L'alleanza siglata nel sangue di Cristo ci rende, infatti, membra della famiglia di
Dio, perché pone nelle nostre vene lo stesso sangue che scorre nelle vene di Dio. Questa cosa non poteva
avvenire davvero nell'antica alleanza, siglata nel sangue di giovenchi.
Se il sangue di Cristo pone in circolazione nelle nostre vene il sangue stesso di Dio, esso ha anche il potere
di cancellare il peccato. Il peccato, infatti, nella sua essenza è «una rottura dell'alleanza» 22. Esso appare
come una rottura totale di rapporti da parte dell'uomo. Dopo il peccato, l'uomo scopre di essere nudo e ha
bisogno di coprirsi (Gen 3,7), cioè rompe con se stesso, non si trova più a proprio agio nel suo corpo; l'uomo
ode i passi di Dio nel giardino, ha paura e si nasconde (Gen 3,8), cioè rompe con Dio, ne ha timore; quando
Dio interroga Adamo, egli se la prende con Eva (Gen 3,12), cioè rompe con la sua donna e quindi si ha una
rottura fra di loro; infine, quando Dio interroga Eva, ella se la prende con il serpente (Gen 13), cioè rompe
con il creato.
Il sangue di Gesù, «versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,28), è il sangue che rimette in
circolazione nelle nostre vene la vita stessa di Dio e cancella la rottura del peccato, portando a compimento
anche i riti di espiazione del Kippur (Lv 16), in virtù dei quali Dio offriva la pace al suo popolo, condonandogli
le infedeltà all'alleanza.
Cristo ha versato il proprio sangue, divenendo la nostra riconciliazione con il Padre dopo l'infedeltà
all'alleanza. Il rituale del Kippur trova così compimento in Cristo, Figlio di Dio fatto uomo «per espiare i
peccati del popolo» (Eb 2,17), vero tempio (Gv 2,21), vero strumento di espiazione (Rm 3,25), vero altare
(Eb 13,10), vero sangue dell'aspersione (Eb 12,24), vero sommo sacerdote (cf Eb 9,11-14), vera dimora
della divinità (Col 2,9), in cui il Padre si è reso presente per riconciliare a sé il mondo (cf 2Cor 5,19) 23.
Dall'apertura del costato, dopo la morte di Gesù, scaturisce una sorgente che lava il peccato e l'impurità (Zc
13,1), manifestando tutta la buona volontà di Dio a venire incontro agli uomini e a volersi riconciliare con loro
(cf Rm 8,32; Gv 3,16). Si tratta della misura del proprio intenerimento verso il figlio che ritorna, a cui egli,
senza far dire una parola, gli si getta al collo e lo bacia (cf Lc 15,20). «Attraverso il velo, cioè la sua carne»
(Eb 10, 20), Gesù inaugura per noi una via vivente e nuova, attraverso la quale, grazie al suo sangue,
possiamo entrare nel santuario (Eb 10,19) alla presenza di Dio. L' ilastèrion, il propiziatorio collocato sull'arca
(Es 25,17.22) era, per volontà di Dio una sacramentalizzazione della sua presenza. Ora, il vero sacramento
dell'incontro con Dio è il Cristo in croce, il vero ilastèrion posto dinnanzi agli occhi di tutti (cf Rm 3,25),
asperso non con sangue di capri o di vitelli, ma col suo stesso sangue (Eb 9,12), cui Dio presta ascolto più
che al sangue di Abele (Eb 12,24).
Al momento della morte di Gesù, infatti, il velo del tempio che nascondeva l' ilastèrion si squarcia (Mc 15,38)
per significare che d'ora in poi tutti, non soltanto il sommo sacerdote, potranno accedere a questo
sacramento di incontro e di riconciliazione con Dio (cf Ef 2,18; Col 1,20-22) 24.
3. L'acqua
Nel suo vangelo, Giovanni sembra mettere in risalto particolare il segno dell'acqua: essa diventa il vino
buono alle nozze di Cana (cf Gv 2,1-12); il simbolo dello Spirito rigenerante, nel dialogo tra Gesù e
Nicodemo (cf Gv 3,1-21); il segno del «dono di Dio», nel dialogo tra Gesù e la Samaritana (cf Gv 4,10); il
simbolo del vero tempio da cui il profeta Ezechiele aveva visto sgorgare acque risananti (cf Ez 47,8-9.12);
segno di colui che risuscita i morti e li fa rivivere e simbolo di vita eterna, nella catechesi sulle opere del
Padre e del Figlio susseguente alla guarigione di un infermo alla piscina di Betzaetà (cf Gv 5,21.24-25);
dono di Cristo ai credenti in lui, nel grido espresso da Gesù durante la festa delle capanne (cf Gv 7,37-39);
annuncio dell'inviato di Dio, nella catechesi battesimale sulla illuminazione e sulla fede di Gv 9 25; annuncio,
infine, della necessità del battesimo per aver parte con Gesù nell'eucaristia, durante la lavanda dei piedi (cf
Gv 13,8b).
Questa veloce carrellata ci lascia intuire il perché l'acqua che sgorga dal costato trafitto di Cristo (Gv 19,34)
sia per Giovanni un segno particolare, uno dei più carichi di mistero e di salvezza.
Per metterlo meglio in evidenza, è necessario analizzare in particolare il passo di Gv 7,37-39. Siamo durante
la festa delle capanne; durante le sue celebrazioni, alcuni sacerdoti scendevano ad attingere acqua alla
piscina di Siloe per offrire sacrifici presso l'altare degli olocausti nel Tempio, al fine di implorare da Dio il
dono delle piogge autunnali al termine dell'estate 26.
Gesù, prendendo lo spunto da quel rito, si presenta pubblicamente come una sorgente d'acqua: «Chi ha
sete venga a me e beva chi crede in me» (Gv 7,37-38). Lo fa, richiamandosi alla Scrittura: «Come dice la
Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7,38). A quale passo della Scrittura Gesù fa
qui riferimento? Il seno da cui scaturiranno fiumi d'acqua viva è del Cristo o del credente in lui? 27.
È probabile che, citando la Scrittura, Gesù faccia riferimento principalmente a tre testi: Ez 47,1-2.9, in cui il
Profeta vede sgorgare delle acque dal lato destro del tempio, acque che, dovunque passano, risanano; il
secondo potrebbe essere Zc 13,1, in cui si parla di una sorgente zampillante capace di lavare il peccato e
l'impurità; l'ultimo potrebbe essere Zc 14,8- 9, in cui si promettono acque vive sgorgare da Gerusalemme 28.
La spiegazione della citazione del seno, invece, potrebbe essere ricercata nel Sal 78,16, per cui lo si
potrebbe identificare con la rupe di cui vi si parla 29.
Di fatto, è Giovanni stesso che fornisce l'interpretazione teologica di quanto Gesù grida: «Questo egli disse
riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù
non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39). L'effusione dello Spirito di Gesù è dunque legata alla sua
glorificazione (cf Gv 16,7; 20,22; At 2,33), glorificazione che per Giovanni è già iniziata nell'esaltazione di
Cristo in croce (cf Gv 3,14; 8,28; 12,32). Giovanni anticipa la glorificazione di Gesù al momento della sua
passione e morte: è nell'innalzamento di Gesù sulla croce e nell'apertura del suo costato che egli vede
l'esaltazione gloriosa del Signore e l'irrompere della Pentecoste nel mondo. Per Giovanni, infatti, l'ora della
croce è proprio l'ora della gloria (cf Gv 12,23-24; 17,1) 30.
Questo ci porta ad affermare che la trasfissione del costato deve essere letta alla luce della pentecoste e il
testo di Gv 7,38 diventa molto esemplificativo: l'acqua che prorompe dal costato trafitto è il segno dello
Spirito che Cristo effonde sulla sua chiesa, rappresentata ai piedi della croce da Maria e Giovanni (cf SC 5).
Sotto la croce, Giovanni ci invita ad assistere allo scaturire del fiume di acqua viva intravisto da Ezechiele
(Ez 47,1-12) e da Zaccaria (Zc 13,1; 14,8-9). Cristo è, infatti, il vero tempio-sorgente mostrato in visione a
Ezechiele (cf Gv 2,21); è l'inviato di Dio di cui parla Zaccaria, trafitto dal suo popolo e divenuto sorgente
zampillante per la casa di Davide, al fine di lavarne il peccato e l'impurità (cf Gv 19,37). Sotto gli occhi di
Maria e di Giovanni si realizza un antico progetto di Dio, delineato nella figura veterotestamentaria della
roccia percossa da Mosè e divenuta fonte di acqua viva per il popolo in cammino verso il monte di Dio (cf
1Cor 10,4).
4. Il Cuore
Al centro della devozione al s. Cuore di Gesù, però, vi è da sempre il simbolo stesso del cuore, che diviene
in tutta la letteratura cristiana religiosa il simbolismo più naturale e più efficace di tutto l'amore di Gesù 31.
Da tale reciprocità tra cuore e amore, questo simbolo si estende quanto l'amore stesso di Cristo, l'unigenito
del Padre, che si è fatto uomo per amore degli uomini.
L'amore di Gesù, che si manifesta nell'apertura del suo cuore, diventa segno della donazione totale di se
stesso, di quello che la lettera agli Ebrei, specie nei capitoli 7-10, chiama il sacerdozio di Cristo 32. In quei
capitoli, l'Autore, dopo aver affermato la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio aaronitico sulla
triplice base dell'origine, del santuario e dell'efficacia del sacrificio, parla dell'offerta sacrificale con cui il
sacerdozio di Cristo si pone in atto.
I sacrifici antichi mancavano di un valore proprio per piacere a Dio e soprattutto non avevano potere di
rimettere i peccati. Allora, Cristo «entrando nel mondo» fa sue le parole del Sal 40: «Tu non hai voluto né
sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà»
(Eb 10,5-7). E l'Autore aggiunge a compimento: «Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne
uno nuovo» (Eb 10,9).
Non è qui nostra intenzione approfondire il tema del sacerdozio di Cristo. Annotiamo soltanto che l'offerta di
cui parla la lettera agli Ebrei, che rimanda in particolare alla croce, è innegabilmente un'offerta sacrificale; è
un'offerta unica; abbraccia in modo unitario e unificante l'intera vita di Gesù, fino alla morte di Croce e
all'apertura del suo cuore; anzi, proprio con questa apertura sarà completamente realizzata, come fa notare
Giovanni nello stupore che il fatto gli suscita.
Quest'offerta ha anche avuto come scopo immediato e manifesto quello della remissione dei peccati e della
nostra santificazione: «Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta
del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre» (Eb 10,10). La finalità redentiva a favore degli uomini
del sacerdozio di Cristo è la nota fondamentale e caratterizzante del messaggio cristiano. Il Verbo è entrato
nel mondo come un dono dell'amore di Dio, perché abbiano la vita eterna coloro che credono in lui (cf Gv
17,12).
Sarebbe, però, riduttivo restringere il sacerdozio di Cristo al compimento di certe funzioni nel culto divino.
Gesù vive l'intera sua esistenza nella consapevolezza costante di compiere la volontà del Padre che l'ha
mandato a compiere una missione di salvezza a favore degli uomini (cf Gv 4,34; 5,30; 6,38-39; 8,29; 10,18).
Senza soluzione di continuità, con lo stesso atteggiamento di amorosa obbedienza al Padre, egli va incontro
al suo atto supremo e conclusivo: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il
Padre mi ha comandato. Alzatevi, andiamo via di qui» (Gv 14,31). Trova così ultimo compimento l'offerta
iniziale del Verbo: «Ecco io vengo… o Dio, per fare la tua volontà» (Eb 10,7).
Nell'ubbidienza offerta al Padre, Gesù ha espresso e offerto il suo amore adorante, costitutivo essenziale di
ogni offerta sacrificale. L'amore offerto per gli uomini è stato anche espiatorio e redentivo. In vista di questa
offerta, la sua capacità umana di amare era stata ripiena di una somma partecipazione dell'amore
misericordioso di Dio. Perciò, il cuore di Gesù fu aperto a ogni miseria umana, prima fra tutte la miseria del
peccato (cf At 10,38).
Nella preghiera sacerdotale, Gesù ha la serena coscienza di poter dire al Padre: «Io ti ho glorificato sopra la
terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare» (Gv 17,4). Tutta la sua vita è stata vissuta con l'unico
scopo di glorificare il Padre, compiendo la sua volontà a cui si era offerto, entrando nel mondo. Mediante
l'offerta dell'obbedienza fedele di Gesù fino alla morte, sale a Dio l'espressione di un amore purissimo,
derivante dalla persona divina di Gesù e anche della sua natura umana, di cui il suo cuore aperto diventa il
simbolo più espressivo 33.
5. La misericordia
Se al centro della devozione al s. cuore di Gesù c'è proprio il simbolo del cuore, la misericordia è però il
perno della devozione al culto dell'amore misericordioso. Santa Maria Faustina Kowalska sente, infatti, con
chiarezza queste parole: «Io desidero che vi sia una festa della Misericordia. Voglio che l'immagine, che
dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa
domenica deve essere la festa della misericordia» 34. Non possiamo, dunque, esimerci dall'analizzare il
senso del suo significato.
La parola misericordia è la traduzione di tre sostantivi greci piuttosto differenti nel loro senso originario:
éleos, che indica prevalentemente il sentimento dell'intima commozione; oiktirmós, che rimanda
all'espressione dell'atteggiamento compassionevole di fronte alle disavventure del prossimo; splánchna, che
pone l'accento sulla sede dei sentimenti e potrebbe essere tradotto con viscere, cuore 35.
Éleos è il sentimento della commozione che suscita la vista di un qualche male che ha colpito altre persone
ed è quindi la misericordia, la compassione, la pietà. Si tratta di un sentimento opposto all' invidia. Il suo
equivalente ebraico prevalente è khesed, che indica, preso alla lettera, l'atteggiamento conforme all'alleanza
36, cioè una forma di solidarietà alla quale si sono obbligate le parti che hanno stipulato il patto. Siccome la
solidarietà può assumere la forma del soccorso per la parte in difficoltà, allora il concetto di khesed può
estendersi al significato di bontà, grazia, misericordia, quest'ultimo soprattutto in combinazione con oiktirmós
che traduce rakhamim 37. Essendo Dio, pur nella sua superiorità, il partner che rimane sempre fedele
all'alleanza, il suo éleos viene inteso per lo più come atteggiamento benevolo e misericordioso verso il
partner inferiore. Stringendo l'alleanza, egli ha promesso di attenersi a quest'atteggiamento e ha rinnovato a
più riprese la promessa. Perciò, Israele può invocare da lui éleos, anche come grazia del perdono, quando
ha violato l'alleanza 38.
Il concetto di khesed è particolarmente presente nei testi di Qumran. Con esso, la comunità degli Esseni
intende celebrare la fedeltà di Dio, sperimentata nell'istituzione della nuova alleanza escatologica 39.
Nel NT éleos e derivati indicano l'irruzione della misericordia divina nella realtà della miseria umana,
attraverso la potente azione liberatrice e risanatrice di Gesù di Nazaret. Nei discorsi di Matteo, eleéo o
elêmon sono impiegati in 5,7 e 18,33 per indicare l'atteggiamento di misericordia dell'uomo verso il suo
prossimo, il cui fondamento è la misericordia di Dio. Gesù testimonia la misericordia sovrana di Dio che
esige una risposta adeguata nell'attiva solidarietà con i più umili. Paolo vuole essere considerato come uno
che ha ottenuto misericordia da Dio (cf 1Tm 1,13.16), in vista dell'apostolato, e che è stato graziato (cf 1 Cor
7,25) dalla bontà del Signore, in vista di un'altra responsabilità, sicché la libera misericordia di Dio non è in
contrasto con la sua fedeltà all'alleanza. La lettera agli Ebrei testimonia la solidarietà di Gesù, vero sommo
sacerdote, con i suoi fratelli, solidarietà che garantisce una comprensione illimitata e misericordiosa delle
loro condizioni (cf Eb 2,17; 4,15) e offre, a una comunità scoraggiata, la fiducia di potersi avvicinare «al trono
della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,16).
La parola originaria che per noi può essere, però, fra le più interessanti è spláncha, che all'inizio indica le
interiora della vittima animale e in particolare le parti nobili come il cuore, i polmoni, la milza e i reni. Si tratta
di parti che venivano usate come antipasto nei banchetti sacrificali, per cui la parola venne anche a indicare
presto l'intero pasto sacrificale. Dal V sec. a.C., la parola spláncha viene usata anche per indicare le viscere
dell'uomo, soprattutto l'organo del sesso maschile e il ventre materno, come sede della facoltà di concepire e
partorire 40.
L'immagine della misericordia come l'utero materno è suggestiva, perché ci aiuta a comprendere il senso
profondo della parola stessa. L'utero è il luogo in cui nasce e si sviluppa la vita. Così, la misericordia è
l'atteggiamento che rende possibile la nascita e lo sviluppo della vita umana, una vita che ha bisogno della
giusta protezione per potersi sviluppare. L'immagine che viene in mente è quella di una candela che deve
essere accesa e la cui fiamma deve essere mantenuta in vita. La fiamma della candela si può spegnere o
per eccesso di ossigeno (le si soffia vicino troppo forte), oppure per carenza di esso (vi si pone sopra un
bicchiere e la si fa soffocare). Perché la fiamma della candela possa mantenersi accesa al di là di qualsiasi
difficoltà, occorre che la si immetta in un ambiente protetto che impedisca all'ossigeno di venire a mancare o
di esservi presente in maniera eccessiva. Un modo per realizzare questo ambiente è quello di mettere la
candela all'interno di una lanterna, che fornisce l'ambiente ideale a che la candela possa ardere anche in
situazioni esterne molto difficoltose. L'utero è per la vita quello che la lanterna è per la candela. E se la
parola misericordia ha a che fare con la parola utero, significa che essa è la condizione necessaria perché la
vita possa svilupparsi; significa che essa sola fornisce alla vita quell'ambiente protetto, ma non soffocante,
perché essa possa dare il meglio di se stessa. La misericordia non è, dunque, un qualcosa di sdolcinato o di
pietistico, ma la lanterna, l'ambiente idoneo che permette alla luce della vita di accendersi e di continuare ad
ardere, in una condizione protetta 41.
Il sostantivo spláncha si trova nella LXX 15 volte e il verbo 2. Il sostantivo trova però equivalenti ebraici
soltanto in 2 passi: In Pr 12,10 si dice che «il giusto ha cura del suo bestiame, ma i sentimenti degli empi
sono spietati» ( rakhamim =misericordia); in Pr 26,22 si afferma che «le parole del sussurrone sono come
ghiotti bocconi, esse scendono in fondo alle viscere» ( beten =viscere). Gli altri passi sono privi di
equivalente ebraico, essendo in prevalenza scritti in greco.
Nel NT il termine prevalentemente acquista il significato di misericordia. Nella parabola del Servo spietato di
Mt 18,23-35 e in quella del Figliol Prodigo di Lc 15,11-20, il verbo splanchnízomai esprime il sentimento che
suscita un atteggiamento di misericordia (Mt 18,27) e di amore (Lc 15,20), che imprime una svolta a tutta la
vicenda. A ciò fa da contrasto, in entrambe le parabole, il forte sentimento di collera che provoca un
atteggiamento di ripulsa (cf Mt 18,34; Lc 15,28). Nelle due parabole, l'uso di splanchnízomai serve a far
trasparire l'illimitata misericordia di Dio e, nella prima, anche la sua collera definitiva e mortale contro colui
che aveva sperimentato la sua grazia, ma l'ha rinnegata, mostrandosi egli stesso spietato.
In Paolo, il sostantivo indica l'uomo intero nella sua capacità di amare o nell'atto stesso di amare e lo si può
sostituire generalmente con il nome o il corrispettivo pronome personale. Si può anche tradurre con cuore,
purché per cuore si intenda il centro dal quale scaturisce l'atto di amore 42.
Anche in 1Gv 3,17 il termine equivale a cuore, ma qui come sorgente da cui scaturisce l'azione di soccorrere
il fratello che si trova nella necessità.
6. Il culto al s. Cuore di Gesù e all'amore misericordioso
Sia il culto al s. Cuore di Gesù che quello all'amore misericordioso trovano innanzitutto nella Scrittura il loro
fondamento. Pio XII nell'enciclica Haurietis aquas lo aveva esplicitamente auspicato per il culto al s. Cuore,
dicendo: «È nei testi della sacra Scrittura, della tradizione e della sacra liturgia che i fedeli devono cercare di
scoprire le sorgenti limpide e profonde del culto al Cuore sacratissimo di Gesù» 43.
La Scrittura parla molto del cuore e qualche volta del cuore di Cristo, parla, anche, come abbiamo visto di
misericordia e dell'amore di Dio, ma mai accenna al culto all'amore di Dio o alla sua misericordia, attraverso
il simbolismo del cuore o attraverso qualsiasi altro simbolo.
Se il culto al s. Cuore di Gesù si può poggiare sostanzialmente sull'immenso scenario di citazioni che si apre
attorno al simbolo del costato aperto di Cristo, come si è avuto modo di vedere, cui si deve aggiungere il
simbolismo dello stesso cuore di Gesù 44, quando si vanno ad analizzare i fondamenti biblici dell'amore
misericordioso, così come li presenta l'enciclica di Giovanni Paolo II Dives in misericordia, ci si rende conto
che essi, pur sfociando chiaramente nel mistero Pasquale, risiedono da un'altra parte, sebbene poi l'icona
dell'amore misericordioso sia il Cristo, dal cui costato fuoriescono i raggi bicolore, che richiamano
inequivocabilmente il sangue e l'acqua che scaturiscono dal costato di Cristo morto in croce (Gv 19,34).
La Dives in misericordia, nel suo momento teologico 45, ci dice che la misericordia da un lato ci fa
conoscere che Dio è fedele, anche quando l'uomo è infedele, debole, oppresso, sfiduciato; dall'altro lato,
essa non tende a perpetuare la disuguaglianza tra chi la offre e chi la riceve, bensì si fonda sulla comune
esperienza della dignità dell'uomo, che, per essere pienamente se stesso, ne ha bisogno.
Il punto di partenza è che Gesù il Cristo, il Messia, ci rivela il Padre. Egli è «un segno particolarmente
leggibile di Dio che è amore», e «in tale segno visibile, al pari degli uomini di allora, anche gli uomini dei
nostri tempi possono vedere il Padre» 46. Gesù, dunque, è la rivelazione che nel mondo è presente l'amore.
Non un amore teorico e astratto, ma che abbraccia l'uomo concreto, con tutto ciò che fa parte della sua
umanità. Questo amore si manifesta, perciò, in modo particolare «nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia,
la povertà, a contatto con tutta la “condizione umana” storica, che in vari modi manifesta la limitatezza e
fragilità dell'uomo sia fisica, sia morale» 47. Ora, appunto questo manifestarsi dell'amore di Dio per l'uomo,
nell'ambito soprattutto delle sue difficoltà e della sua povertà, viene chiamato «misericordia» nel linguaggio
biblico della Tradizione cristiana.
Tutto l'AT è una «peculiare esperienza della misericordia di Dio», cioè della «speciale potenza dell'amore
che prevale sul peccato e sull'infedeltà del popolo eletto» 48. Così, fin dall'inizio della rivelazione, la
misericordia viene in qualche modo contrapposta alla giustizia divina, e si rivela più grande di essa. Non si
tratta, però, di un vero e proprio contrasto, perché «l'amore […] condiziona la giustizia e, in definitiva, la
giustizia serve la carità» 49. In questa rivelazione dell'intimo rapporto di complementarietà tra giustizia e
amore sta il concetto veterotestamentario di misericordia, secondo l'enciclica. La misericordia diviene, così,
una speciale potenza dell'amore che prevale sul peccato e sull'infedeltà del popolo eletto.
Il perno, però, su cui deve fondarsi il culto all'amore misericordioso sembra divenire il passo della parabola
del Figliol Prodigo (Lc 15,11-32), di cui essa riporta un'esegesi profonda, in cui diviene ancor più palese che
«l'amore si trasforma in misericordia, quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e
troppo stretta». Q50uesta correzione della giustizia con l'amore, che è la misericordia, fa sì che «colui che è
oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e “rivalutato”», poiché «un figlio, anche se
prodigo, non cessa di essere figlio reale di suo padre» 51. La misericordia, dunque, fa ritornare l'uomo «alla
verità su se stesso» 52. Infatti, il significato della misericordia è questo: un uomo va perdonato e merita
giustizia e amore anche quando ha sbagliato, proprio perché, pur sbagliando, non cessa di essere un uomo
reale, con tutta la sua dignità. I pregiudizi che inducono a vedere nella misericordia un rapporto di
disuguaglianza tra colui che la offre e colui che la riceve si devono abbandonare. Non solo la misericordia
non umilia chi la riceve e non ne offende la dignità, ma essa, al contrario, rivaluta l'uomo per quello che è,
perché la misericordia si fonda «sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune
esperienza della dignità che gli è propria» 53.
Come per l'amore di Dio, anche la rivelazione biblica della misericordia raggiunge, in ogni modo, la sua
pienezza nel mistero pasquale. Nella passione, infatti, il «Cristo sofferente parla in modo particolare
all'uomo, e non soltanto al credente. Anche l'uomo non credente saprà scoprire in lui l'eloquenza della
solidarietà con la sorte umana, come pure l'armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa
dell'uomo, alla verità e all'amore» 54. Nella morte, il Cristo crocifisso mostra l'amore presente nel mondo,
svela che l'amore misericordioso del Padre è più potente di ogni specie di male, in cui sono coinvolti l'uomo,
l'umanità, il mondo: «La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo –
specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo felice destino. La croce è come un tocco
dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo» 55.
Nella risurrezione, infine, l'amore misericordioso che nella passione e nella croce si rivela più forte del male,
si manifesta più potente della morte. La gloria del Risorto ci fa conoscere che la misericordia sarà puro
amore nel compimento escatologico; intanto, «nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte,
l'amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia e anche attuarsi come tale» 56.
Conclusione
Siamo partiti con il chiederci se esista una sostanziale equivalenza tra il culto del s. Cuore di Gesù e il culto
alla divina misericordia, che oggi sembra sostituire il primo sempre più nel cuore dei credenti.
Da quanto abbiamo avuto modo di vedere, però, se fra i due culti
sostanziale equivalenza, giacché anche l'immagine del s. Cuore
misericordioso sembrerebbero entrambi richiamarsi allo stesso evento
della trasfissione del costato di Cristo, l'analisi dei fondamenti biblici di
differenze.
sembrerebbe esserci un'apparente
di Gesù e del Gesù dell'amore
fondamentale descritto in Gv 19,34
entrambi mette in risalto non poche
Se, infatti, il culto del s. Cuore di Gesù si poggia sostanzialmente sull'immenso scenario di citazioni che si
apre attorno al simbolo del costato aperto di Cristo, il culto della divina misericordia si fonda su una serie di
citazioni, con al centro la parabola del Figliol Prodigo, che mettono in evidenza come essa sia da intendere
sostanzialmente nel senso di una speciale potenza dell'amore, che prevale sul peccato e sull'infedeltà del
popolo eletto.
Non che il discorso del perdono del peccato sia estraneo al culto del s. Cuore, dove anzi la dimensione
dell'offerta sacrificale di Gesù in remissione dei peccati dell'umanità ne costituisce un aspetto importante, ma
ci pare che esso sia soltanto uno degli aspetti, mentre quello che prevale è la dimensione dell'iniziativa
gratuita di Dio, che ha effuso tutto il suo amore sull'umanità, tramite lo squarcio del costato del proprio Figlio.
L'accento biblico della misericordia, così come viene messo in evidenza soprattutto nell'enciclica di Giovanni
Paolo II Dives in misericordia, svelando che l'amore misericordioso del Padre è più potente di ogni specie di
male, invita invece l'uomo, più che all'offerta di sé sull'imitazione del Figlio, alla richiesta per se stesso del
perdono, nella fiducia di poter essere riammesso, nonostante tutto, nel rapporto di amicizia con Dio.
1. Benedetto XVI, Lettera al Preposito generale della Compagnia di Gesù in occasione del 50° anniversario dell'enciclica
Haurietis Aquas, Città del Vaticano 15/05/2006.
2. Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est, Città del Vaticano 25/12/2005.
3. Benedetto XVI, Lettera al Preposito generale della Compagnia di Gesù in occasione del 50° anniversario dell'enciclica
Haurietis Aquas, op. cit.
4. Cf A. Carminati, È venuto nell'acqua e nel sangue. Riflessione biblico-patristica, Bologna 1979, pp. 11-17; Cf pure I.
De la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Genova 1992, p. 170.
5. Cf M. F. Kowalska, Diario. La misericordia divina nella mia anima, Città del Vaticano 2006, pp. 74-75.
6. Cf Agostino, In Iohannis evangelium tractatus, in CLCLT cl. 0278, tract 120, par. 2, linea 2; par. 3, linea 18.
7. Rendono correttamente l'idea varie traduzioni della Vetus latina: percussit, perfodit, pupugit.
8. Cf R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1985, 391-400.
9. Cf R. Schnackenburg, Das Johannesevangelium, III, Freiburg 1975, pp. 344-345.
10. Nella nota relativa al versetto di Gv 19,34, la Bibbia di Gerusalemme dice: «Non senza fondamento, molti padri
hanno visto nell'acqua il simbolo del battesimo, nel sangue quello dell'eucaristia e in questi due sacramenti il segno della
chiesa, nuova Eva che nasce dal nuovo Adamo (cf Ef 5,23-32)
11. Cf S. Cipriani, Il sangue di Cristo in S. Giovanni, in Aa.Vv., Sangue e antropologia biblica, I/2, Roma 1981, pp. 721737; S. Lyonnet, Il sangue della trafittura di Gesù: Gv 19,34ss., in Ibidem, pp. 739-743.
12. J. Mateos-J. Barreto, Il vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Assisi (PG) 1982, p. 778.
13. Cf le opere di R. Girard, La violence et le Sacré, Paris 1972; Des choses cache depuis la fondation du monde, Paris
1978.
14. Cf Bibbia TOB, nota p.
15. Per una lettura scientifica dell'avvenimento, cf L. Coppini – F. Cavazzuti (a cura di), La Sindone, scienza e fede,
Bologna 1983, pp. 251-252.
16. Cf F. Sansalone, L'uccisione del maiale nella tradizione paesana. Una vera e propria cerimonia accompagnava
questo rito che avveniva una volta l'anno in quasi tutte le famiglie calabresi, in La voce del Savuto, Febbraio 2000.
17. Cf A. Carminati, È venuto nell'acqua e nel sangue. Riflessione biblico-patristica, op. cit., pp. 20-21.
18. Cf Ibidem, pp. 32-35.
19. Cf Pio XII, Enciclica Haurietis aquas, n. 80.
20. Cf La Bibbia di Gerusalemme, nota Es 24,8.
21. In Mc 10,45 Gesù dice: «Il Figlio dell'uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria
vita in riscatto per molti». E Ap 1,5 si rivolge: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue».
Questi passi ci portano a dire che Cristo è venuto a svolgere un servizio, che è un servizio di liberazione e che questa
liberazione si attua mediante il suo sangue versato nell'atto di dare la propria vita.
22. Giovanni Paolo II, Reconciliatio et pænitentia, 29/06/1983, B.1.2 (EV 9/313).
23. Sui titoli cristologici si può vedere lo studio F. Mazzotta, I titoli cristologici nella cristologia cattolica contemporanea:
uno studio delle aree: italiana, francofona, ispano-latinoamericana, Roma 1998.
24. Cf G. Barbaglio – R. Fabris – B. Maggioni, I vangeli, Assisi (PG) 1978, p. 902.
25. Le acque di Siloe, che significa l' Inviato, già simbolo delle benedizioni di Dio (cf Is 8,6), annunciano con il loro stesso
nome l'I nviato di Dio che le rende sacramento della luce per gli occhi del corpo e dello Spirito (Gv 9, 35-39). (cf La
Bibbia di Gerusalemme, nota Gv 9,7).
26. Cf Mishnah 4,9; Tosephta Sukka 3,18.
27. Sulle questioni cf M. Costa, Simbolismo battesimale in Gv 7,37-39; 19,31-37;3,5, in Rivista Biblica (XIII, 1965) 355359; R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, Brescia 1977, II, pp. 288ss.
28. Si tratta di un testo utilizzato dalla liturgia della festa dei Tabernacoli (cf Bibbia TOB, nota k). Altri testi biblici utilizzati
nella liturgia dell'acqua potevano essere Is 12,3 (da cui il titolo dell'enciclica di Pio XII) e Is 44,3.
29. Cf M. E. Boismard, De son ventre couleront des fleuves d'eau (Jo. 7,38), in Reveue Biblique (1958) 544ss.
30. Cf H. V. D. Bussche, Giovanni, Assisi (PG) 1974, pp. 164-166. 418ss.
31. Cf Pio XII, Enciclica Haurietis aquas, n. 42.
32. Cf R. Fabris, Le lettere di Paolo, Roma 1990, vol. 3, pp. 640ss.
33. Sull'argomento, cf Aa.Vv., Il cuore di cristo e il sacerdozio comune e ministeriale, Roma 1986.
34. M. F. Kowalska, Diario. La misericordia divina nella mia anima, op. cit., p. 75.
35. Cf H.-H. Esser, Misericordia, in L. Coenen – E. Beyreuther – H. Bietenhard, Dizionario dei concetti biblici del Nuovo
Testamento, Bologna 1976, p. 1013.
36. Ib., p. 1014.
37. «[Il Signore] ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia» (Is 63,7); «Sarà stabilito un
trono sulla mansuetudine, vi siederà con tutta fedeltà, nella tenda di Davide, un giudice sollecito del diritto e pronto alla
giustizia» (Is 16,5); «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e
nell'amore» (Os 2,21); «Ecco ciò che dice il Signore degli eserciti: Praticate la giustizia e la fedeltà; esercitate la pietà e
la misericordia ciascuno verso il suo prossimo» (Ez 7,9); «Ricordati, Signore, del tuo amore, della tua fedeltà che è da
sempre» (Sal 25,6); «Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia, la tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre»
(Sal 40,12); «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato» (Sal 51,3);
«Rispondimi, Signore, benefica è la tua grazia; volgiti a me nella tua grande tenerezza» (sal 69,17).
38. «Il Signore passò davanti a lui proclamando: “Il Signore, Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco
di grazia e di fedeltà…» (Es 34,6); «Perdona l'iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua bontà, così come
hai perdonato a questo popolo dall'Egitto fino a qui» (Nm 14,19); «Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò
la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore» (Ger 3,12).
39. Cf H.-H. Esser, Misericordia, in L. Coenen – E. Beyreuther – H. Bietenhard, op. cit., p. 1015.
40. Talvolta, anche i figli vengono chiamati spláncha: ek splánchon viene a significare «della propria carne e del proprio
sangue» ( Ib., p. 1019).
41. Cf Ib.
42. Cf Ib., pp. 1020-1021.
43. Pio XII, Enciclica Haurietis aquas, 30.
44. Nello sviluppo del culto del s. Cuore di Gesù deve essere, invero, tenuto anche presente il simbolismo del riposo di
Giovanni sul petto del Signore (Gv 13,25) (Sull'argomento e sullo sviluppo del culto del s. Cuore in generale, cf A.
Tessarolo, Il culto del s. Cuore, Torino-Bologna 1957).
45. Giovanni Paolo II, Enciclica Dives in misericordia, nn. 3-9.
46. Ib., n. 3.
47. Ib.
48. Ib., n. 4.
49. Ib.
50. Ib., n. 5.
51. Ib.
52. Ib.
53. Ib.
54. Ib., n. 7.
55. Ib., n. 8.
56. Ib.