RUOLO DEL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE DELLA FUNZIONE EPATICA G. Pozzato S.C. Ematologia Clinica, DAI Oncologia; AOUTS Ospedali Riunti di Trieste Il laboratorio ha da sempre svolto un ruolo importante nella diagnostica delle malattie epatiche. Da quando sono nati i laboratori di chimica clinica sono stati proposti molti test per la valutazione dello stato di salute del fegato denominati in modo improprio come “test di funzione epatica”; improprio in quanto i veri e propri test per la reale quantizzazione della “funzione” ovvero della massa epatica funzionante, quali la velocità di eliminazione del galattosio, o la clearance dei sali biliari o infine l’aminopyrine breath test, sono lunghi, costosi in termini di personale e di materiali, e infine scomodi da praticare e pertanto utilizzati esclusivamente a scopi di ricerca clinica. La maggior parte dei Laboratori pertanto, per valutare la funzione epatica esegue una piccola batteria di esami che sono: Bilirubina totale e bilirubina diretta Aspartato-aminotransferasi (AST) Alanina-aminotransferasi (ALT) Fosfatasi alcalina (ALP) Gamma-glutamil-transferasi (GGT) Altri esami, peraltro utilissimi per la valutazione della severità della malattia epatica, quali il tempo di protrombina o l’albumina sierica non vengono di solito considerati come “test di funzione epatica”. I test sopra indicati, a parte l’ALT, non sono specifici per le malattie del fegato e possono essere alterati per processi che avvengono in altre sedi dell’organismo. Per questo motivo è necessario interpretare i dati forniti dal laboratorio conoscendone sia l’utilità che i limiti. • Bilirubina totale bilirubina e diretta E’ noto che la bilirubina deriva dalla distruzione della molecola di Eme che costituisce la parte non proteica dell’emoglobina. Dunque la cinetica di distruzione dei globuli rossi (GR) e il metabolismo epatico sono strettamente correlati. I GR vengono distrutti prevalentemente nella milza e nel midollo emopoietico da pare di macrofagi e monociti. La bilirubina prodotta nella milza o nel midollo emopoietico viene immessa nel plasma coniugata con l’albumina e come tale viene captata dal fegato in modo altamente efficiente. Una volta all’interno del fegato la bilirubina va incontro a un processo di glucuronazione ad opera di potenti UDP-glucuronosil-transferasi e come tale viene eliminata nella bile. I termini “diretta” e “indiretta” sono antichissimi e derivano dal fatto che un tempo (studi pubblicati nel 1916) una parte della bilirubina reagiva “direttamente” con il reagente di Ehrlich (la parte coniugata) mentre una parte doveva essere prima trattata con alcool per colorarsi col medesimo reagente (dunque indiretta ovvero quella non coniugata). La maggior parte dei laboratori dosa la bilirubina totale e quella diretta, mentre la parte indiretta viene calcolata per semplice differenza matematica. Vi sono metodiche in HPLC in grado di misurare la bilirubina indiretta in modo quantitativo, ma per motivi di costo e di praticità tali metodiche sono prerogativa dei laboratori di ricerca. Il range normale della bilirubina totale è tra 0,1 e 0,9 mg/dl (1,7 – 15 mol/L). Dal momento che la produzione di bilirubina dipende dalla velocità di distruzione dei GR, è evidente che un innalzamento della bilirubina indiretta in assenza di ulteriori alterazioni degli indici di funzione epatica farà pensare a un accelerato turnover dei GR piuttosto che malattie specifiche del fegato. Quando la bilirubina totale si innalza oltre 4,0 mg/dl (70 micromol/L) in presenza di alterazione degli altri indici di funzione epatica, una malattia di fegato è del tutto verosimile. Le principali cause di iperbilirubinemia sono indicate nella tabella 1. Tabella 1 CAUSE DI IPERBILIRUBINEMIA NON CONIUGATA (INDIRETTA) CONIUGATA (DIRETTA) Cause congenite Cause congenite Gilbert’s syndrome Dubin-Johnson syndrome Crigler-Najjar syndrome Rotor syndrome Cause acquisite Cause acquisite Disordini ematologici di natura emolitica Malattie epatiche (cirrosi, neoplasie, epatiti) Emopoiesi inefficace Ostruzione vie biliari intra-epatiche (colangite sclerosante, cirrosi biliare, etc.) Ostruzione vie biliari extra-epatiche (calcolosi via biliare, neoplasie, atresie, etc.) Ittero fisiologico del neonato Come indicato vi sono anche cause congenite ed ereditarie di iperbilirubinemia; tali patologie compariranno evidentemente durante l’infanzia se non dopo i primi giorni di vita, fatta eccezione per la sindrome di Gilbert che in genere si manifesta dopo la pubertà. Valori estremi di bilirubina (>70 mg/dl) si vedono esclusivamente per insufficienza epatica acuta (ad esempio da intossicazione da Ammanita falloides). Data la fondamentale differenza tra iperbilirubinemie indirette (generalmente correlate a patologie ematologiche) e quelle dirette (correlate a patologie epatiche o delle vie biliari), è della massima importanza che il laboratorio, anche in urgenza, fornisca il dosaggio della bilirubina frazionata. • Aspartato amino-transferasi (AST) Questo enzima catalizza una reazione tra aspartato e alfa-ossiglutarato per dare glutamato e ossaloacetato. Questo enzima si trova in alta concentrazione all’interno delle cellule epatiche, ma anche nel muscolo scheletrico, nel muscolo cardiaco, nel rene, nel pancreas e nei GR. Valori elevati indicano la presenza di necrosi cellulare. Non vi è modo di individuare la provenienza dell’enzima neppure con metodiche sofisticate, la determinazione dell’AST è pertanto del tutto aspecifica e il riscontro di elevati valori nel siero deve essere confrontato con il quadro clinico e laboratoristico del paziente. • Alanino amino-transferasi (ALT) Questo enzima catalizza la reazione tra alanina e ossiglutarato per dare piruvato e glutamato. Al contrario delle AST, questo enzima si trova quasi esclusivamente nelle cellule epatiche dove è confinato nel citoplasma. Elevati valori di ALT sono pertanto indicativi di necrosi di cellule epatiche, anche se modesti aumenti sono stati verificati in corso di malattie del muscolo come la distrofia di Duchenne. Sebbene specifiche per il fegato, i livelli di ALT non forniscono informazioni sulla natura del danno epatico in quanto sono elevate sia nelle forme epatitiche di natura virale così come nell’ittero colestatico, nelle steatosi o nel danno epatico da farmaci. Livelli di ALT superiori a 200 volte la norma sono quasi sempre indicativi di una forma virale acuta. Alterati livelli di ALT si riscontrano anche nell’insufficienza ventricolare sinistra acuta o nello shock ma in questi casi il quadro laboratoristico è facilmente giustificato dall’esplicita situazione clinica. D’altra parte è ben noto che malattie di fegato avanzate come la cirrosi sia su base alcolica che di natura virale possono presentare normali livelli di ALT e parimenti di AST per anni se non per decenni. • Fosfatasi alcalina (ALP) La fosfatasi alcalina è un zinco-metallo-enzima che rilascia fosfato inorganico da una serie di ortofosfati organici. La ALP si trova nel fegato, dove è localizzata nei microvilli dei canalicoli biliari e sulla superficie sinusoidale degli epatociti, ma grandi quantità di questo enzima si trovano anche nell’osso, nel rene, nella placenta e nell’intestino. L’organo di provenienza può essere individuato per la presenza di differenti isoenzimi specifici per ogni tessuto. L’attività totale di ALP nel siero è costituita esclusivamente dalla forma epatica e ossea. E’ possibile distinguere l’attività dei due enzimi sulla base della sensibilità al calore (la forma epatica è più stabile rispetto a quella ossea) ma tale metodica è stata pressoché abbandonata per lasciare il passo a una più fine differenziazione basata sugli anticorpi monoclonali. Da oltre 50 anni è noto che elevati valori di ALP si riscontrano in corso di ostruzione delle vie biliari sia extraepatiche (calcolosi delle via biliare principale, stenosi coledoco etc.) che intra-epatiche (ad es. colangite sclerosante). Moderati incrementi della ALP sono riscontrabili anche nelle forme epatitiche acute e croniche o nelle patologie neoplastiche epatiche sia primitive che secondarie. Elevati livelli di ALP si riscontrano anche in corso di malattie ematologiche con infiltrazione del fegato quali le sindromi mieloproliferative croniche in particolare nelle mielofibrosi primitive o secondarie. • Gamma glutamil-transferasi (GGT) La GGT è un enzima legato alle membrane che trasferisce gruppi gamma-glutaminici da peptidi (specialmente glutatione) ad amino-acidi, acqua o altri peptidi. Anche questo enzima è rintracciabile in molti organi oltre al fegato quali pancreas, rene, prostata e intestino. Sono stati descritti numerosi isoenzimi che però non forniscono localizzazione d’organo. Dal momento che il dosaggio nel siero dipende quasi esclusivamente dalla componente epatica è un indice sicuro di patologie primitive del fegato. Anche la GGT viene considerata un indice di colestasi, ma non così specifico come la fosfatasi alcalina. In effetti, la GGT risulta elevata in tutte la malattie epatiche indipendentemente dall’eziologia e pertanto è di poco valore nella differenziazione eziologica, anche se i valori più elevati di GGT (oltre 20 volte il valore limite) sono riscontrati nelle colestasi da ostruzione biliare o nelle neoplasie epatiche (sia primitive che secondarie). Come elemento parzialmente confondente, da segnalare che elevati valori di GGT possono essere secondari a induzione enzimatica, come si verifica dopo l’assunzione di farmaci quali barbiturici, fentoina ed altri anti-convulsivanti. Isolati livelli di GGT senza ulteriori modificazioni degli altri indici di funzione epatica, richiederanno dunque un’anamnesi farmacologica del paziente. Un meccanismo di induzione enzimatica viene invocato anche per spiegare la correlazione tra elevati livelli di GGT e abuso alcolico. Non esiste una correlazione lineare tra quantità di alcol e livelli di GGT anche in quanto alla sospensione dell’introito alcolico, dopo una iniziale diminuzione, la GGT può rimanere elevata indicando pertanto più il danno epatico sottostante che l’assunzione di alcol. Sfortunatamente un terzo degli etilisti cronici non presenta alcuna alterazione della GGT o degli altri indici di funzione epatica e pertanto la GGT è di poco utilità nel follow-up dei soggetti etilisti in assenza di malattia cronica di fegato. Da ultimo è doveroso segnalare che i livelli di GGT sono sensibili alla quantità di ormoni steroidi circolanti, per tale motivo le donne tendono ad avere livelli di GGT molti più bassi dei maschi. Per lo stesso motivo, durante la gravidanza, la GGT tende ad essere normale o appena aumentata anche in corso di colestasi o di altre patologie epatiche. DIAGNOSTICA DELLE EPATITI VIRALI Molti virus sono in grado di infettare il fegato determinando epatiti acute e croniche. Al di là dei sofisticati test sierologici e di biologia molecolare oggi a disposizione, non bisogna mai dimenticare le clinica che può rapidamente indirizzare verso l’agente eziologico. Ad esempio sarà evidente che in presenza di febbre, adenopatie multiple, splenomegalia e linfomonocitosi, la diagnosi di infezione da EBV sarà verosimile e pertanto, pur in presenza di elevati livelli di ALT e AST, risulterà inutile far eseguire la ricerca dell’infezione da altri virus epatitici. Dal momento che una parte dei virus epatitici si trasmette per via parenterale e una parte per via oro-fecale, un’attenta anamnesi sull’eventuale esposizione del paziente renderà spesso la diagnosi molto agevole. Bisogna inoltre separare subito gli esami da effettuare nel caso si sospetti un’epatite acuta e nel caso si sospetti una cronica. Anche se le epatiti acute e croniche hanno purtroppo aspetti laboratoristici in parziale sovrapposizione, possiamo, almeno grossolanamente, distinguere le due entità nosologiche in questo modo: EPATITE ACUTA: Clinicamente il paziente risulta in genere sintomatico (astenia, nausea, malessere generale, cefalea, mialgie, lombalgia etc.) con, dal punto di vista laboratoristico, livelli di ALT da 40 a 100 volte i livelli normali, aumento consensuale delle AST mentre gli indici di colestasi (GGT e ALP) presentano un incremento molto più modesto. La bilirubina è in genere elevata e mista. In assenza di elementi anamnestici chiari, la diagnostica deve escludere l’epatite da HAV, HBV, HCV e HEV. Per diagnosticare un’epatite A acuta è indispensabile il dosaggio degli anticorpi anti-HAV-IgM. La loro presenza infatti conferma il sospetto diagnostico in quanto le IgM anti-HAV compaiono quasi contemporaneamente ai sintomi sistemici e biologici e declinano piuttosto rapidamente (12 settimane circa) lasciando il posto alle IgG anti-HAV che indicano un’esposizione pregressa. Le IgM anti-HAV devono essere effettuate in tutti i soggetti con epatite acuta di natura non definibile anche se sono positivi per infezione cronica da HBV o HCV. Per diagnosticare un’epatite B acuta invece gli anticorpi non sono utili. Infatti, dopo la fase di incubazione della durata variabile, compaiono nel siero, contemporaneamente ai sintomi clinici, sia HBsAg che l’HBeAg che l’HBV-DNA. Nel volgere di 4-6 settimane HBsAg e HBeAg scompaiono, mentre l’HBV-DNA declina anche più rapidamente, mentre compaiono gli anticorpi anti-HBc-IgM che rimangono dosabili per circa 12 mesi, mentre le IgG anti-HBc perdurano praticamente tutta la vita. La diagnosi dell’epatite acuta da HBV dunque si basa sulla dimostrazione del virus HBV circolante, la diagnosi viene poi confermata nel tempo dalla successiva comparsa degli anticorpi IgM specifici. La diagnosi di epatite C acuta invece risulta quasi sempre molto ardua. Prima di tutto perché nella quasi totalità dei casi l’epatite acuta da HCV è completamente asintomatica, pur in presenza di ALT anche 30 volte il livello normale, ed è sempre anitterica. Il paziente dunque non presentando alcun sintomo non si rivolge al medico e di solito la forma acuta è diagnosticata per caso nei centri trasfusionali o nei SERT durante prelievi di sangue eseguiti per routine. Il virus HCV infatti si replica ad alto livello (106 copie/ml) per 6-8 settimane prima che compaiano gli anticorpi specifici insieme alle alterazioni delle ALT. Purtroppo le alterazioni delle ALT possono essere modeste anche nella fase acuta dell’infezione e pertanto non sono un parametro discriminante. L’HCV possiede un sistema per sfuggire al sistema immune e non determina una risposta umorale significativa: le IgM anti-HCV non compaiono e le IgG indicano la presenza di infezione e non di immunità. In corso di un’epatite di natura non definibile gli anticorpi anti-HCV devono essere sempre eseguiti e nel caso siano positivi deve essere sempre fatta la ricerca dell’HCV-RNA. Anche in presenza di positività dell’HCV-RNA la diagnosi di epatite C acuta è difficile in quanto fasi di riacutizzazione di una malattia cronica hanno il medesimo aspetto laboratoristico e sierologico delle forme acute. Un’attenta anamnesi volta a verificare gli eventuali fattori di rischio è il mezzo più appropriato per discriminare una forma acuta da una cronica. Una diagnosi di epatite D acuta è per certi versi un ossimoro in quanto il virus delta non può replicarsi se non in presenza dell’HBV e pertanto una forma acuta che coinvolga l’HDV può verificarsi solo in due situazioni: 1) se l’HDV viene trasmesso contemporaneamente all’HBV oppure 2) se un soggetto portatore di HBsAg viene infettato dall’HDV. Nel primo caso l’HDV inibisce la replicazione dell’HBV e questo può determinare una malattia acuta benigna a rapida risoluzione spontanea, nel secondo caso l’HDV si replica vigorosamente e determina la comparsa o il peggioramento dell’epatite cronica da HBV. Nel caso vi sia il sospetto di una superinfezione da HDV in un soggetto HBsAg positivo si possono cercare gli anticorpi anti-HDV sia IgM che IgG. La ricerca dell’HDV-RNA è utile solo per il monitoraggio della terapia antivirale. L’epatite E acuta è una realtà che si credeva confinata nei paesi in via di sviluppo ma che purtroppo sta diffondendosi anche nei paesi industrializzati. Il virus dell’epatite E infatti presenta diversi genotipi tra i quali il 2 e il 4 sono quelli “classici” delle epidemie che periodicamente compaiono nei paesi con sistemi fognari scadenti (o inesistenti) in cui gli scarichi provenienti dalle deiezioni umane si mescolano con l’acqua dei pozzi e in questi casi il contagio è uomo-uomo. In tali casi la malattia è benigna e può presentare complicazioni solo per le donne in gravidanza. Invece il genotipo 3 dell’HEV, che si sta diffondendo nei paesi industrializzati, determina una zoonosi, ovvero il virus si trasmette da animali portatori (in genere maiali, cinghiali, cervi e caprioli) all’uomo. La malattia è benigna nel 70% dei casi, con ALT raramente oltre 20 volte la norma, ma può essere grave o anche mortale nei soggetti immuno-compromessi. Purtroppo i test sierologici non sono completamente affidabili in particolare le IgM per la diagnosi di una forma acuta, mentre il dosaggio delle IgG è abbastanza affidabile per verificare un pregresso contagio. Nel caso di sospetto di epatite acuta con anamnesi positiva l’unico modo per arrivare a una diagnosi è la determinazione dell’HEV-RNA. In conclusione, in una forma epatitica acuta le indagini da fare sono: • Nel caso di sospetta infezione per via oro-fecale (HAV e HEV) determinare: IgM anti-HAV e l’HEVRNA. • Nel caso di sospetta esposizione alla via parenterale (HBV, HDV o HCV) richiedere: HBsAg, HBeAg, HBV-DNA, anti-HDV e anti-HCV. Se positività anti-HCV determinare HCV-RNA. EPATITI CRONICHE: In questo caso le alterazioni delle ALT e degli altri indici di funzione epatica saranno modesti (da 4 a 10-15 volte i livelli normali), il paziente è in genere asintomatico e si rivolge al medico proprio per tali alterazioni scoperte durante controlli di screening o casuali. Anche in questo caso la presenza di obesità o dislipidemie e l’anamnesi, ad esempio positiva per uso di droghe per via parenterale o per abuso alcolico, dovrà sempre indirizzare il percorso diagnostico. I virus che possono determinare epatiti croniche sono HBV, HDV e HCV. Sono stati segnalati anche casi di forme croniche da HEV, ma tale patologia è confinata nei casi con severa immuno-soppressione per malattie ematologiche, reumatologiche o per trapianti d’organo. Uno screening per l’HEV è pertanto inutile al di fuori di tali categorie a rischio. Nel caso venga dunque sospettata un’epatite cronica virale, i primi esami da effettuare sono l’HBsAg e gli anticorpi anti-HCV. Nel caso l’HBsAg risulti positivo si dovrà richiedere tutto il pannello di Ag e Ab del virus ovvero HBeAg e anti-HBe, anti-HBc, anti-HBs, anti-HBc-IgM (laddove tale test è disponibile) anti-HDV e infine l’HBV-DNA con carica virale. Se gli anticorpi anti-HCV risultano positivi si dovrà richiedere l’HCV-RNA e il genotipo virale, mentre la carica virale risulta inutile se non in vista di un programma di terapia antivirale specifica. I pazienti HBsAg positivi e HCV-RNA positivi dovranno essere avviati a un ambulatorio epatologico per le procedure di stadiazione delle malattia epatica, follow-up, screening familiare ed eventuale terapia specifica. VALUTAZIONE CRITICA DI UN PANNELLO VIRALE RELATIVO ALL’EPATITE B: Molto spesso ematologi, internisti e reumatologi a vario titolo sono incerti sulla valutazione di un pannello virale relativo all’epatite B. In effetti il quadro è complesso e negli ultimi anni, gli sviluppi tecnologici hanno ulteriormente complicato la situazione. Non bisogna comunque mai dimenticare il significato dei vari Ag e anticorpi: • Presenza di Anti-HBs significa immunità anti-HBV • Presenza di Anti-HBc significa esposizione all’HBV in tempi pregressi • HBsAg positivo significa infezione da HBV • HBeAg positivo significa replicazione attiva dell’HBV • Anti-HBc-IgM (al di fuori della fase acuta ovviamente) significa malattia epatica da HBV. La possibilità di spingere la ricerca dell’HBV-DNA mediante PCR a livelli impensabili fino a pochi anni fa, ha dimostrato che tutti i soggetti HBsAg positivi replicano il virus e pertanto la vecchia terminologia di “portatore sano” di HBV è stata eliminata e attualmente si parla di “Portatore attivo” quando, in presenza di normali indici di funzione epatica, si trovano più di 2.000 IU/ml di virus circolanti e di “Portatore inattivo” quando le IU sono inferiori a 2000/ml. Ulteriore complicazione è la problematica della presenza del HBeAg e anti-HBe. Fino agli anni ’80 dello scorso secolo, si credeva che la cosiddetta “sieroconversione” da HBeAg a anti-HBe fosse un segno di potenziale guarigione dall’epatite B. Purtroppo negli anni successivi si è dimostrato che tale “sieroconversione” era legata non alla guarigione ma alla comparsa di una variante virale priva dell’antigene “e” in grado di replicarsi a livelli ancora più elevati del virus HBV “selvaggio”. Questo ha creato molta confusione e pertanto è bene ricordare che almeno in Italia questa mutazione la cosiddetta “variante pre-core” è la più diffusa tra le epatiti croniche da HBV. Vediamo dunque una serie paradigmatica di pannelli virali per illustrare meglio le varie combinazioni possibili. HBsAg neg anti-HBs pos anti-HBc neg HBeAg neg anti-HBe neg anti-HDV neg HBsAg neg anti-HBs pos anti-HBc pos HBeAg neg anti-HBe neg anti-HDV neg HBsAg neg anti-HBs neg anti-HBc pos HBeAg neg anti-HBe neg anti-HDV neg HBsAg pos anti-HBs neg anti-HBc pos HBeAg pos anti-HBe neg anti-HDV neg HBsAg pos anti-HBs neg anti-HBc pos HBeAg neg anti-HBe pos anti-HDV neg HBsAg pos anti-HBs neg anti-HBc pos HBeAg pos anti-HBe neg anti-HDV pos Vaccinato Pregressa infezione guarita Pregresso contatto con il virus Epatite cronica virus selvaggio Epatite cronica virus mutante pre-core Epatite cronica HBV +HDV Anche da questo pannello di evince che nei soggetti HBsAg negativi è inutile eseguire il pannello completo, mentre è di grande utilità far eseguire gli anticorpi anti-HBc e anti-HBs. Al contrario i soggetti HBsAg positivi dovranno eseguire tutto il pannello, l’HBV-DNA e la ricerca della sovra-infezione delta mediante anticorpi specifici.