Verso la Seconda guerra mondiale

LEZIONI SULLA SECONDA GUERRA MONDIALE
1. Il problema. Crisi delle relazioni internazionali e responsabilità della Germania nazista
La più convenzionale delle tesi sulle cause che avrebbero scatenato la seconda guerra mondiale
(1939-45) attribuisce ogni responsabilità alla Germania nazista e al suo indiscusso capo Adolf
Hitler: un’opinione ovviamente molto diffusa nel dopoguerra, che fu sancita dal processo di
Norimberga, con i vinti sul banco degli accusati e i vincitori nelle vesti dei giudici e della pubblica
accusa.
Una simile drammatizzazione, inedita nella storia delle relazioni internazionali*, è comprensibile a
partire dalle atrocità commesse dai nazisti nel corso della guerra, e sottolinea la necessità di stabilire
un criterio morale e umanitario come limite alle strategie di dominio; ma proprio un siffatto
processo, e il verdetto che ne seguì, lasciano molti punti oscuri nella vicenda che aveva portato allo
scoppio della guerra.
Hitler ebbe effettivamente le principali responsabilità; ma come aveva potuto un solo uomo politico,
a capo di uno Stato sconfitto pochi anni prima, scatenare il più grande conflitto della storia
dell’umanità? Perché gli altri paesi non si erano opposti in tempo alla prospettiva di guerra?
A queste domande il processo di Norimberga dette risposte meno soddisfacenti, influenzate
dalla ragion di Stato delle potenze vincitrici, le quali, in un modo o nell’altro, non avevano saputo
opporsi efficacemente alla «resistibile ascesa» della Germania nazista.
Divennero invece le domande fondamentali che la cultura e la storiografia del dopoguerra si
posero, individuando una serie di concause, (1)dal regime dei trattati successivi alla primi guerra
(2) agli effetti della grande crisi del 1929, (3) alla radicalizzazione del conflitto sociale succeduta
alla stessa crisi.
Gli anni trenta furono caratterizzati da un vuoto di potere internazionale, dovuto non solo 1) alle
difficoltà incontrate dal sistema capitalistico* e liberal-liberista su cui si reggevano i maggiori paesi
dell’Occidente ma anche 2) alla forza del conflitto sociale che divenne rapidamente conflitto
transnazionale.
La guerra civile europea si sovrappose alla guerra tra Stati, ma contemporaneamente si allargò al
mondo intero e meritò il titolo di mondiale più del conflitto precedente.
Per quali vie era potuto accadere che un singolo paese potesse portare a tale disastro, alla
distruzione dell’Europa, alla fine della sua egemonia?
Ancora una volta tutto ciò rimanda alla crisi di un sistema di relazioni internazionali e sociali,
atta a conferire alla seconda guerra mondiale un carattere epocale nella storia contemporanea.
2. La fine della pace di Versailles.
2.1. L’avvento del nazismo e la ripresa dell’espansionismo grande-tedesco
L’avvento del nazismo in Germania (gennaio 1933) si annunciò fin dal primo momento come un
fattore destabilizzante dell’equilibrio europeo;
le rivendicazioni tedesche avanzate nel corso degli anni precedenti dai governi democratici
vennero ora riproposte con maggiore forza e con clamorose ricusazioni delle istituzioni
internazionali preposte al mantenimento della pace e dell’equilibrio, come 1) l’abbandono della
Conferenza internazionale di Ginevra sul disarmo e 2) l’uscita dalla Società delle Nazioni,
avvenuti entrambi nell’ottobre 1933, a solo pochi me si dalla conquista nazista del potere.
Non venne allora dato molto credito alle ambizioni di dominio europeo hitleriane così come il
dittatore le aveva enunciate ne suo libro Mein Kampf (La mia battaglia), che apparivano del tutto
sproporzionate rispetto alle possibilità di un paese male armato e limitato nell’esercizio della
sovranità su aree importanti del proprio stesso territorio, come la Saar e la Renania.
Il progetto enunciato era quello di riportare entro un unico confine tutte le popolazioni di
ceppo tedesco, dagli austriaci ai sudeti di Cecoslovacchia, ai tedeschi di Danzica e di Memel, le città
che i trattati di Versailles avevano tagliato fuori dal legame con la madrepatria ai confini orientali.
La prima mossa riguardò l’Austria e si svolse in due tempi: nel 1934 con esito negativo, nel
1938 con esito positivo.
In questo lasso di tempo si consumò la fine degli equilibri stabiliti a Versailles a conclusione
della prima guerra mondiale;
la crisi austriaca del 1934 fu infatti l’ultima occasione in cui le potenze vincitrici agirono
d’accordo per contenere le mire tedesche, dopo di che la loro politica assunse un andamento meno lineare, ondeggiante, che Hitler poté definire spregiativamente «nevrastenico».
Una tappa dopo l’altra la Germania riuscì a mettere a segno tutti i punti del suo programma
di espansione e di riarmo, senza che si consolidasse una coalizione in grado di bloccarla.
2.2. Dalla teoria alla pratica (espansione tedesca fino al 1939)
L’Italia fascista che nel 1934 si era mossa, anche con una dimostrazione militare ai confini con
l’Austria, per bloccare il rischio di un’annessione di quest’ultima alla Germania, finì per acconsentire
alla medesima operazione nel ’38.
La Francia e l’Inghilterra:
a) assistettero inerti alla ripresa tedesca del possesso della Saar (1935) e alla rimilitarizzazione
della Renania (1936);
b) nonostante la garanzia data alla sicurezza della Cecoslovacchia, nel corso della conferenza di
Monaco (ancora nel ‘38) non si opposero all’aggressività tedesca e addirittura si resero protagoniste di
una vergognosa pressione sui cecoslovacchi perché cedessero senza combattere la regione dei
Sudeti;
c) poi i tedeschi, contro quegli stessi accordi, occuparono Praga e stabilirono un protettorato
sulla Boemia e sulla Moravia, mentre la Slovacchia divenne uno Stato fantoccio.
Persino i naturali avversari ideologici dei tedeschi, i sovietici, arrivarono a un clamoroso
compromesso con Hitler stipulando un patto di non aggressione che prese il nome dai due ministri
degli Esteri che lo sottoscrissero, Ribbentrop e Molotov (agosto 1939).
2.3. Incertezze degli antagonisti
Come si spiega questa incapacità dei futuri protagonisti dell’alleanza antinazista nell’ormai
prossima guerra mondiale (Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica, per non dire degli Stati Uniti) di
muoversi di concerto di fronte a un avversario isolato e tutto sommato debole?
Le motivazioni psicologiche spesso addotte —l’energia dei dittatori corrispondente alla fiacchezza
dei democratici — non sono del tutto convincenti, anche se è vero che le democrazie e i fascismi,
italiano o tedesco, avevano nei confronti della guerra un atteggiamento diverso, e una differente
memoria della guerra precedente.
In Francia e in Inghilterra l’esperienza delle stragi della Somme e di Verdun alimentava
sentimenti pacifisti di cui i governanti dovevano tener conto; in Italia e in Germania, invece, veniva
esaltato il mito della guerra.
Dagli orizzonti fascista e nazista era bandita ogni suggestione pacifista, considerata decadente
come la stessa democrazia, pericolosa alla luce del darwinismo sociale che imponeva la lotta
mortale per la sopravvivenza dei popoli.
In questo senso la politica dell’appeasement, cioè dell’accordo con i nazisti, perseguita in
particolare dal primo ministro britannico Neville Chamberlain, è stata considerata con una qualche
indulgenza da alcuni storici (Taylor, soprattutto), come un segno dei tempi e non come espressione di
mera debolezza morale.
Francia e Gran Bretagna, pur con rilevanti differenze tra loro, pensavano veramente di poter
raggiungere l’obiettivo di portare la Germania (ma anche l’Italia e il Giappone) nell’ambito di
corretti rapporti internazionali?
2.4. La politica estera francese
Le cose sono più complesse.
Ciascuno dei tre possibili avversari del nazismo (per non dire dell’Italia fascista, che
rapidamente si aggregò al carro tedesco) perseguiva obiettivi propri, difficilmente conciliabili con
quelli degli altri due.
Le due potenze più direttamente minacciate erano la Francia e l’Unione Sovietica, non a caso
le due alleate del 1914, al tempo della Russia zarista.
Ma la politica francese fu incerta e ondeggiante tra una linea decisamente filosovietica, perseguita ad esempio dal ministro degli Esteri Louis Barthou — ben attento a non sottovalutare i temi
antifrancesi presenti nella propaganda nazista e nelle enunciazioni del Mein Kampf di Hitler — e la
linea del suo successore Pierre Laval, conservatore e ammiratore entusiasta di Mussolini.
Simili ondeggiamenti erano dovuti anche all’incertezza e all’instabilità del quadro politico
francese. Dal 1931 il paese era stato investito in pieno dagli effetti della crisi economica che aveva
colpito in particolare il suo settore agricolo. Alle elezioni del 1932 avevano vinto i radicali,
dimostratisi tuttavia incapaci di risollevare le sorti del paese e di assicurare ad esso una guida stabile;
questo clima e gli scandali finanziari che coinvolsero alcune personalità politiche rafforzarono la
destra ispirata da Charles Maurras e dall’Action Française, alla quale vennero ad affiancarsi movimenti che assumevano a modelli la Germania nazista e l’Italia fascista, come quelle delle Croix de
Feu.
2.5. Il «fronte popolare» e l’accordo franco-russo
Nel febbraio 1934, l’estrema destra fu protagonista di una marcia sul parlamento per impedire
l’insediamento al governo del radicale Daladier. stroncata dalla tempestiva e sanguinosa repressione
della polizia.
Significativa fu la massiccia protesta popolare contro il pericolo fascista, in occasione della
quale socialisti e comunisti abbandonarono le violente polemiche che avevano caratterizzato i loro
rapporti e posero le basi per un accordo che avrebbe portato a una politica comune e alla formazione
del Fronte popolare.
Comunque anche la Francia di Laval rivolse l’attenzione all’Urss firmando nel maggio del ‘35
un trattato di mutua assistenza rivolto contro la Germania, e così fecero anche gli alleati
cecoslovacchi.
La difficoltà dei conservatori francesi di accordarsi con i bolscevichi russi riguardava a maggior
ragione gli alleati della Francia nella parte orientale dell’ Europa, dove la pluralità di Stati piccoli,
deboli e arretrati — nati dopo la prima guerra mondiale — dava luogo a un vuoto di potere favorevole
alla politica revisionista tedesca.
L’alleanza franco-sovietica, e la conseguente legittimazione internazionale del comunismo, era
osteggiata da Jugoslavia e Romania, che insieme alla Cecoslovacchia costituivano la Piccola Intesa, il
sistema francese di alleanze in Europa centro-orientale. Anche in questo caso l’incompatibilità
ideologica aveva un’importanza notevole: Jugoslavia e Romania erano infatti governate da sistemi
autoritari, diversamente dalla democratica e sviluppata Cecoslovacchia che appoggiava le aperture
filosovietiche della principale alleata.
Si trattava dunque di rafforzare questo sistema di alleanze, costituito da paesi deboli e non
confinanti con la Francia, ai quali sarebbe stato difficile portare aiuto in caso di aggressione anche per
la strategia militare francese, che si fondava su una logica difensiva.
L’amicizia sovietica avrebbe certo garantito un elemento dinamico e di maggior sicurezza:
questo argomento, importante sul piano della politica di potenza, si scontrava però con un veto di
carattere ideologico.
2.6. La Gran Bretagna tra affari europei e impegno mondiale
Anche la Gran Bretagna aveva simili motivazioni conservatrici per ostacolare l’alleata
Francia nelle sue aperture verso i sovietici, che ai britannici apparivano più pericolosi dei
tedeschi; erano anzi convinti che l’antiboiscevismo nazista potesse essere assunto come un fattore
di contenimento utile in Europa.
Un ruolo attivo della Germania costituiva anche un elemento di contrappeso al primato
francese sul continente per il conseguimento di un equilibrio più accettabile alla Gran Bretagna,
sempre divisa tra gli affari europei e l’impegno mondiale.
Dopo la guerra del 1914-18 le due cose erano divenute più difficilmente conciliabili: le
responsabilità internazionali eccedevano le ancora consistenti risorse dell’Impero britannico,
accresciutosi grazie all’acquisizione sotto forma di mandati internazionali delle ex colonie tedesche
in Africa (Tanganica, Togo e Camerun) e di buona parte dei possedimenti ottomani in Medio
Oriente (Transgiordania, Iraq).
Il classico problema del contenimento russo nel Mediterraneo orientale, nell’ area del Golfo
Persico e in Afghanistan era ora complicato dalle motivazioni ideologiche di cui la nuova
dirigenza sovietica poteva avvalersi per intrecciare rapporti con i movimenti antibritannici.
L’importanza dell’ Iran, dell’area mesopotamica e del Golfo Persico, zone ricche di
giacimenti di petrolio, era d’altronde aumentata in seguito all’uso ormai generalizzato dei derivati di
quest’ultimo.
Le rivendicazioni italiane nel Mediterraneo erano divenute più pericolose negli anni trenta. Quello
che Londra considerava un pacifico lago britannico e la principale via di comunicazione —
attraverso Suez — per la tenuta delle varie parti dell’Impero, divenne The dangerous Sea, «il mare
pericoloso», e ciò anche per la contemporanea presenza di movimenti nazionalisti in Egitto.
Verso Oriente, l’India era attraversata da un movimento indipendentista e il Giappone, come
si vedrà, seguiva una propria linea aggressiva.
La gestione dell’Impero costringeva il governo britannico a mantenere un basso profilo
politico sul continente, che andava compensato con un’accorta strategia delle concessioni all’Italia
e alla Germania, soprattutto dopo che quest’ultima era uscita dalla Società delle Nazioni sottraendosi
così a un ambito di relazioni internazionali in cui il primato britannico era indiscusso.
In Estremo Oriente si profilava intanto il nuovo pericolo giapponese che minacciava l’Impero in
un altro dei suoi punti vitali. Il raffreddamento delle tensioni tramite la politica di concessioni che
avrebbe dovuto dividere i potenziali nemici, farne garanti dell’ordine come potenze
«soddisfatte», finì invece per aumentare la loro libertà di movimento e il loro potere contrattuale.
Su questa strada Germania, Italia e Giappone si sarebbero incontrate e avrebbero stabilito tra
loro una solidarietà che trovò un forte collante nell’ideologia.
3. Il Giappone.
3.1. La guerra civile europea dallo scacchiere asiatico
La percezione di una guerra civile europea era evidente dall’osservatorio asiatico (Panikkar).
Perché?
Lo scontro interimperialistico avviatosi con la prima guerra mondiale aveva allentato la capacità
di controllo della metropoli europea e aperto spazi di contrattazione e di movimento per diverse
realtà del continente, dall’indipendentismo indiano alla rivoluzione cinese, all’espansionismo giapponese.
Questo si era manifestato già nel corso della prima guerra mondiale, combattuta a fianco
dell’Intesa, ai danni dei possedimenti tedeschi nel Pacifico; ma nel contempo i giapponesi avevano
rivolto la loro attenzione alla possibilità di espansione in Cina.
Una simile spinta contenuta dalle potenze occidentali, Gran Bretagna e Stati Uniti, nel corso degli
anni venti, si ripropose negli anni trenta con la ricerca di uno spazio di dominio giapponese in
Cina volto ad assicurarsi l’accesso a mercati più ampi e a fonti di materie prime.
La grande crescita industriale del Giappone aveva subito un’accelerazione nel corso della prima
guerra mondiale, risentendo anche delle alterne vicende del dopoguerra e della crisi del 1929; essa era
soprattutto afflitta dal pericolo di strozzature derivanti dalla mancanza di materie prime sul
territorio nazionale e da una impressionante crescita demografica, che aveva portato la popolazione
da 35 milioni all’inizio del secolo a 64 nel 1930, continuando a crescere fino a 80 milioni circa alla
vigilia della seconda guerra mondiale.
Lo slancio industriale giapponese era anche motivo di una forte conflittualità interna al paese, e
aveva messo a dura prova la capacità di tenuta del regime conservatore di stampo prussiano che lo
caratterizzava dalla fine dell’Ottocento.
3.2. Autoritarismo giapponese
Dopo la prima guerra mondiale, anzi, l’attenzione giapponese si era rivolta ai modelli
parlamentari dei paesi vittoriosi e ne aveva mutuato alcune caratteristiche, pur lasciando intatta la
sacralità del potere imperiale.
A dominare la scena politica erano rimaste le zaibatsu, ovvero le grandi concentrazioni
industriali, tutrici dei maggiori movimenti politici.
La crisi del 1929 assestò un duro colpo a questo processo di liberalizzazione e aprì la strada a ipotesi
conservatrici e autoritarie influenzate dai fascismi europei.
Tuttavia l’autoritarismo giapponese non fu una riedizione del fascismo europeo, quanto un
percorso originale fondato sull’alleanza tra le zaibatsu e l’esercito.
L’occupazione della Manciuria (1931) e la proclamazione l’anno successivo di uno Stato
indipendente, il Manchukuo, era stata un’iniziativa dei militari poi avallata dal governo al prezzo di
lotte interne: il primo ministro, accusato di opporsi all’operazione in Manciuria, venne infatti
assassinato.
I militari imposero così la fine del regime parlamentare sul piano interno, e su quello internazionale
l’abbandono della Società delle Nazioni, contemporaneamente alla Germania (1933).
3.3. La ripresa del conflitto con la Cina
Con ciò ebbero termine la subordinazione giapponese alla politica britannica e le relazioni di
buon vicinato con gli Stati Uniti; ne seguì una politica degli armamenti ormai senza più controlli e
limitazioni e una più determinata politica di espansione in Cina.
Nel 1937 la guerra riprese con l’attacco a Pechino, dopo di che la marcia nipponica travolse la gran
parte delle province esterne e industrializzate della Cina, da Shanghai a Nanchino e a Canton.
La guerra in Asia era così cominciata e sarebbe confluita nella seconda guerra mondiale.
Intanto una vastissima area era posta sotto il controllo nipponico; fu l’occasione per bandire la dottrina
della Grande area di prosperità asiatica, ovvero l’avvio di una politica di cooperazione tra il Giappone
e gli Stati satelliti frutto delle sue recenti conquiste, il Manchukuo e la Cina.
Si trattò in realtà di una politica di sfruttamento accompagnata da feroci repressioni, e tuttavia la
formulazione ideologica data allora ottenne credito presso i movimenti anticolonialisti attratti dalla
parola d’ordine «l’Asia agli asiatici».
Anche l’idea di uno spazio di dominio contiguo alla potenza dominante era destinata a maggiore
fortuna; assomigliava alla formulazione hitleriana dello spazio vitale da conquistare a est della
Germania per assicurarsi rifornimenti alimentari e di materie prime industriali e per garantire
l’espansione della popolazione.
Esso si contrapponeva ai vecchi criteri imperialistici proprio per la compattezza territoriale dei
domini cui si voleva dar luogo in Europa e in Asia; il presupposto era quello di un maggiore
controllo sociale, ancora una volta un’estensione dei rigidi criteri interni che le dittature si erano date
per bandire il conflitto e governare le trasformazioni sociali.
Ma così praticato, questo criterio di omogeneità e di dominio avrebbe dovuto gradualmente colmare
quel vuoto di potere internazionale che le «decadenti» potenze occidentali sembravano lasciare in
eredità alle emergenti potenze fasciste, nelle metropoli europee così come nelle dipendenze asiatiche.
3.4. Il nazionalismo di Chiang Kai-shek e la "lunga marcia" di Mao Dzedong
La vicenda del vasto complesso territoriale cinese esemplificava bene questa situazione,
attraversata com’era da un conflitto endemico interno alla Repubblica nata nel 1911.
1. Il Guomindang, il grande movimento nazionalista e modernizzatore di Chiang Kai-shek,
rappresentava il più importante polo di potere, che tuttavia non riusciva a esercitare il controllo
sull’intero paese dovendo venire a patti con potenti signori locali — i signori della guerra — dotati di
piccoli e agguerriti eserciti.
2. Un altro polo era rappresentato dal Partito comunista cinese, che dopo il fallimento di alcuni
tentativi insurrezionali nelle città industriali aveva mutato strategia sotto la guida di Mao Dzedong.
Asse portante della rivoluzione cinese vennero allora considerati non gli operai dei distretti
industriali, ma i contadini, la classe più numerosa della società.
La campagna avrebbe dunque accerchiato la città, secondo la visione maoista, il che comportò la
costituzione di un contropotere in alcune regioni dell’interno dove si erano rifugiati i dirigenti
sopravvissuti alla repressione, come accadde nel Kiangsi (1931).
Nel 1934, per sottrarsi all’accerchiamento dell’esercito nazionalista, l’Armata maoista intraprese
una marcia di trasferimento dalla Cina centrale alle regioni nord-occidentali, fino allo Shensi, dove
poté porre le basi di un potere alternativo. La Lunga marcia svoltasi per circa diecimila chilometri
aveva comportato perdite enormi (dei 90 000 che erano partiti ne arrivarono solo 7000) e tuttavia
consentì ai comunisti di rafforzare le loro posizioni.
Divenne inoltre un evento mitico della storia del Partito comunista cinese, che davanti al nuovo
attacco giapponese del 1937 poté stipulare un accordo con i nazionalisti per unire gli sforzi contro il
nemico comune.
Nella lotta però i comunisti mantennero un autonomo controllo delle proprie forze, adottando una
strategia di guerriglia che si rivelò molto più fruttuosa della contrapposizione frontale perseguita
dall’esercito nazionalista.
4. La conquista dell'Etiopia.
4.1. L'espansionismo italiano in Africa orientale
La questione etiopica va letta nell’ambito della politica di concessioni: essa fu il prolungamento
di una classica strategia ottocentesca che mirava a trasferire le conflittualità dal continente
europeo alla periferia africana, assegnando compensi in cambio di distensione ai confini
metropolitani.
Francia e Gran Bretagna infatti tentarono di usare l’Impero abissino come merce di scambio
per captare la benevolenza italiana e farne un utile contrappeso alla presenza tedesca.
La condotta italiana in occasione della crisi austriaca aveva fatto pensare a una disponibilità a
collaborare agli obiettivi di sicurezza che andava incoraggiata per scongiurare un eventuale
avvicinamento alla Germania, e compensata soddisfacendo alcune delle richieste avanzate dall’Italia
negli anni precedenti.
Tra queste c’era la rivendicazione di una maggiore influenza italiana in Etiopia.
Tuttavia le oscillazioni delle vicende diplomatiche imposero alle trattative un corso diverso da
quello previsto e dettero luogo a effetti indesiderati, ovvero alla guerra coloniale e a un primo
importante avvicinamento tra Italia fascista e Germania nazista. Subito dopo, la guerra di Spagna
avrebbe visto le due potenze fasciste nuovamente affiancate.
L’Etiopia era rimasta in quegli anni l’unico grande complesso politico africano indipendente,
un simbolo per i movimenti anticolonialisti, nonostante il suo regime semifeudale; agli occhi
dell’opinione pubblica europea essa godeva della garanzia che l’appartenenza alla Società delle
Nazioni le conferiva al pari degli altri membri.
Questa singolare posizione si spiegava anche in relazione alle acquisizioni di un dibattito allora
vivo sull’evoluzione del colonialismo, che assegnava alle potenze europee il ruolo di tutrici dei paesi
loro soggetti, sulla via di un graduale conseguimento dell’indipendenza.
Almeno in via teorica questo era l’ultimo «fardello» che l’uomo bianco riteneva di dover
assumere davanti alla crisi del suo dominio mondiale.
I nuovi domini coloniali francesi e britannici, ottenuti i seguito alla vittoria del 1918 a spese
dei possedimenti ex tedeschi ed ex ottomano erano stati regolati secondo un regime internazionale
nuovo, quello dei mandati formalmente esercitati a nome della Società delle Nazioni e finalizzati al
conseguimento della piena indipendenza delle aree poste sotto tutela.
C’è da dubitare sulla sincerità di simili enunciati, il cui fine ultimo sembrava piuttosto la
massima dilazione possibile della fase di tutela e il rinvio dell’indipendenza. In questo contesto
l’Etiopia costituiva una cerniera tra il mondo europeo e il mondo coloniale.
Comunque le teorie qui rapidamente ricordate erano diffuse nei paesi liberal-democratici, che
tendevano appunto a conciliare i principi di nazionalità del primo dopoguerra con il possesso delle
colonie, ma erano estranee a paesi dittatoriali fascisti come l’Italia.
La posizione italiana fu quella più apertamente vetero-colonialista, tanto da rappresentare un
brusco ritorno al passato: la guerra d’Etiopia fu infatti l’ultima guerra di conquista coloniale.
4.2. La guerra d’Etiopia
Propositi di conquista italiana erano manifesti fin dal 1932, accompagnati da relativi programmi di
preparazione militare.
Era questo anche un modo per reagire alla crisi economica: dopo la chiusura delle frontiere
statunitensi del decernio precedente, gli anni trenta videro una drastica riduzione delle opportunità
di emigrazione in America come negli altri paesi europei.
L’avventura coloniale si presentò, dunque, come una più o meno realistica valvola di sfogo
alternativa per la mano d’opera in eccesso.
Inoltre la prospettiva di investimenti e commesse statali legate alla guerra e alla conquista fu
favorevolmente accolta anche da ambienti fino ad allora non del tutto omogenei al regime fascista,
come quelli della grande industria.
In questo clima, il fascismo poté mettere in moto la già sperimentata macchina propagandistica 1,
rielaborando una tradizione imperiale che trovava un recente riferimento nella politica crispina di
fine Ottocento e un obiettivo di prestigio nella vendetta della sconfitta di Adua (1896), ora resa possibile dal rafforzamento del paese e dall’unità conseguita all’interno, non ultimo grazie alla
Conciliazione con la Chiesa cattolica; la quale consentì anche di presentare a tutto tondo
l’alternativa civilizzatrice latina, con la prospettiva di operare conversioni (anche se gli etiopi
erano per lo più cristiani di rito copto) e abolire la schiavitù.
Il 5 dicembre 1934 un incidente di frontiera (Ual-Ual) pose la guerra all’ordine del giorno,
mentre inglesi e francesi mettevano in moto le loro diplomazie per arrivare a un accordo.
Le trattative svoltesi lungo il corso del 1935 vennero a intersecare gli «accordi di Stresa» e la
creazione di un fronte franco-angio-italiano in funzione antigermanica: a Stresa infatti si erano
riuniti — per l’ultima volta — i rappresentanti delle potenze vincitrici, Francia, Inghilterra e Italia, per
condannare il riarmo tedesco (la Germania aveva introdotto la coscrizione obbligatoria, proibita dal
trattato di Versailles).
Per il momento la posizione contrattualmente più forte era quella italiana, sorretta peraltro da
un assenso alla conquista segretamente dato a Mussolini dal ministro francese Laval durante la
sua visita a Roma nel gennaio 1935, a crisi iniziata.
L’avventura italiana preoccupava invece gli inglesi per un motivo apparentemente paradossale:
il fallimento di una potenza europea contro un esercito africano sarebbe stato l’ultimo fattore di
destabilizzazione che l’impero britannico si augurava.
L’Italia poté così giocare d’azzardo e dare l’avvio alle operazioni militari nell’ottobre 1935.
1. Lo schieramento della flotta britannica nel Mediterraneo non scoraggiò affatto Mussolini,
2. né migliore risultato ottennero le iniziative intraprese nell’ ambito della Società delle Nazioni: la
condanna dell’Italia come paese aggressore e le sanzioni economiche, cui non aderirono la
Germania, l’Urss e gli Stati Uniti;
3. né il blocco comprese risorse strategiche di primaria importanza come il petrolio e i metalli
1
"La guerra d'Etiopia era stata anticipata da un'abile attività propagandistica, che mirava a
dimostrare l'arretratezza e la barbarie delle popolazioni etiopiche, legittimando in tal modo
l'intervento "civilizzatore" dell'Italia. Il tema della romanità venne richiamato in causa per
dare una sorta di fondamento storico alle imprese [...] conclusasi con la sconfitta di Adua".
cfr. p. 543 (Einaudi 3,2)
ferrosi.
4. Inoltre il canale di Suez fu lasciato libero al transito dei convogli italiani.
5. Assai significativa fu la posizione tedesca di assenso all’avventura italiana, ma nel contempo
generosa di aiuti nei confronti dell’esercito abissino: un prolungamento dell’impegno
africano dell’Italia infatti ne avrebbe indebolito la posizione militare in Europa, a vantaggio
delle rivendicazioni tedesche sull’Austria.
4.3. «Riapparizione dell’impero»
L’ Italia poté presentare le sanzioni come un tentativo di strozzare la sua economia, contro il
quale tuttavia bisognava reagire conseguendo l’indipendenza economica (autarchia).
Il regime diffuse l’immagine di un’Italia proletaria in opposizione alle potenze plutocratiche ed
egoiste.
Nel contempo fu compiuto un grande sforzo logistico su linee di comunicazione lunghissime per
assicurare la superiorità numerica e tecnologica italiana sul male armato esercito abissino, che fu
travolto anche grazie all’impiego di bombardamenti aerei e gas asfissianti contro la popolazione
civile.
Nel maggio del 1936 con l’esilio dei Negus Ailé Selassié (Hayla Sellase I) e l’ingresso del
maresciallo italiano Pietro Badoglio ad Addis Abeba si concluse la conquista.
Il 9 maggio Mussolini proclamò «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma».
Il consenso interno al regime era al massimo, soprattutto presso i ceti dominanti e nell’ambito di
istituzioni come la Chiesa, la monarchia e l’esercito: il re poté allora fregiarsi del titolo di imperatore,
mentre l’esercito poté attribuirsi per intero il successo.
Personaggi di spicco, avversi ai regime, come Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, si
erano dichiarati solidali con l’Italia in guerra; la popolazione aveva offerto l’oro alla Patria per sostenerne lo sforzo.
Davanti a tanta soddisfazione poterono passare sotto silenzio le feroci repressioni che
caratterizzarono la normalizzazione della nuova colonia, con l’uso prolungato dei gas asfissianti sui
focolai di resistenza, con il massacro sistematico della intellighenzia locale e del clero copto.
Il comando passò ai maresciallo Rodolfo Graziani, già sperimentato «pacificatore» della Libia dove
con metodi simili aveva represso la rivolta dei Senussi.
Dal patto tra Germania e Giappone all’Asse Roma-Berlino»
La conquista dell’Etiopia coincise anche con la fase di maggiore prestigio internazionale
dell’Italia presso i conservatori come Winston Churchill, il futuro primo ministro inglese durante la
seconda guerra mondiale;
rapidamente furono sospese le sanzioni internazionali,
e italiani e inglesi arrivarono al cosiddetto gentlemen’s agreement (gennaio 1937), un accordo
di convivenza riguardante il Mediterraneo.
La politica inglese era egualmente conciliante nei confronti della Germania e se ne ebbe
dimostrazione in occasione di un altro e definitivo colpo assestato da Hitler all’ormai moribondo
ordine di Versailles con la rimilitarizzazione della Renania.
Tale inerzia svelava ancora contrasti profondi di natura ideologica nella progettazione
dell’equilibrio europeo.
L’iniziativa di Hitler si presentò come una contromisura al trattato franco-sovietico che era
stato ratificato dall’Assemblea nazionale parigina dopo un lungo e sofferto dibattito.
I contrasti interni alla Francia avevano fatto il gioco di Hitler, e d’altronde l’alleanza francosovietica, come si è detto, era mal vista dal governo britannico.
Dell’antisovietismo potevano farsi banditori a maggior ragione i regimi tedesco e italiano, e in
Estremo Oriente il regime autoritario giapponese.
Nel novembre 1936 Germania e Giappone firmarono il Patto anti-Comintern, nello stesso
mese si definì l’accordo di massima tra Italia e Germania chiamato «Asse Roma-Berlino».
Il Patto anti-Comintern e l'Asse Roma-Berlino non erano veri e propri trattati di alleanza, quanto
piuttost intese volte contro un’organizzazione politica, l’Internazionale comunista (il Comintern,
appunto) e la sua ideologia.
Si cominciava così a configurare un fronte ideologico atto a trasferire sul piano internazionale i
criteri della lotta politica interna;
anche sul versante opposto l’iniziativa del fronte antifascista cominciava a prendere forma: il
1936 fu l’anno dei fronti popolari in Francia e in Spagna, e del più accentuato impegno dell’Urss
nella politica europea.
5. L’Urss.
5.1. La proiezione esterna dell'unione sovietica
Le incompatibilità politiche e ideologiche dell’Urss con i sistemi dominanti sul continente ne
avevano fatto un corpo estraneo al concerto delle potenze europee, confinato dietro una barriera di
piccoli nuovi Stati cuscinetto, l’Estonia, la Lituania, la Lettonia, irrequieti sul piano internazionale,
autoritari nei loro regimi interni.
A questi si sovrapponeva la Polonia, uno Stato anch’esso autoritario che aspirava al ruolo di
grande potenza e di baluardo antisovietico anche in virtù della vittoria riportata contro l’Armata
rossa nel 1920.
Oltre che isolata, l’Urss era anche considerata, e a ragione, un paese debole, le cui energie erano
completamente assorbite dallo sforzo di modernizzazione interna.
Un elemento importante della proiezione esterna dell’Urss era rappresentato dall’Internazionale
comunista, l’organismo di direzione dei partiti comunisti su scala mondiale, posto saldamente in mano
ai dirigenti sovietici.
Si trattava di un esercito ben disciplinato e compatto di rivoluzionari di professione articolato in
sezioni nazionali, alcune delle quali di grande influenza, come quella tedesca (prima dell’avvento del
nazismo), quella cecoslovacca, quella francese.
Altrove, nei paesi a regime autoritario, i comunisti di solito tenevano le fila della più irriducibile
opposizione clandestina.
L’avversione ai regimi fascisti e autoritari, comunque, era solo una variante dell’avversione al
capitalismo, ai regimi borghesi anche liberal-democratici e perfino alla socialdemocrazia,
spregiativamente definita dai comunisti socialfascismo.
Proprio a simili posizioni rigidamente settarie è stata spesso addebitata l’incapacità del forte Partito
comunista tedesco di opporsi al1’avvento del nazismo.
5.2. Rompere l'isolamento
L’attivismo della diplomazia nazista in Europa orientale preoccupò i dirigenti sovietici. A un
programma massimalista enunciato dalla propaganda che individuava nei grandi spazi orientali
l’area di espansione del Reich, l’Ucraina per esempio, seguiva una penetrazione economica e
diplomatica nei paesi della cintura orientale.
La rinascente potenza tedesca poteva inoltre avvalersi di un effetto di dimostrazione dato dalla capacità
della sua economia organizzata di contrastare efficacemente e vittoriosamente gli effetti della Grande
crisi, ai contrario dei sistemi capitalistici occidentali.
L’esempio nazista e fascista conobbe allora una straordinaria popolarità.
Visto da Oriente il successo dei modelli autoritari appariva preoccupante, praticamente la sola
Cecoslovacchia non ne fu contagiata, anche in virtù dello sviluppo industriale e civile della sua
società.
Gli altri paesi, piuttosto arretrati e dominati da élites agrarie, avevano scelto la via autoritaria per lo
più negli anni venti (Austria, Ungheria, Polonia, Jugoslavia); ma non è senza significato il fatto che
negli anni trenta questi paesi abbiano accentuato la loro politica antiliberale fino a introdurre
elementi dei sistemi fascisti.
Romania, Bulgaria, Estonia, Lituania, Grecia imboccarono la stessa via tra il 1930 e il 1936.
Per L’Urss si trattava di rompere un isolamento che si preannunciava ancora più pericoloso che in
passato.
La minaccia in Europa era solo un aspetto dell’insicurezza delle frontiere sovietiche, perché in
Estremo Oriente l’espansionismo giapponese costituiva un’altra grave fonte di preoccupazioni
soprattutto dopo l’invasione della Manciuria, nel 1931.
Sul versante diplomatico la politica sovietica continuò ad avere come sua principale
interlocutrice la Francia.
Questa era anche la più bisognosa di un alleato forte nell’area centro-orientale dove gravitava il suo
sistema di alleanze, la Piccola Intesa, costituito da paesi deboli e non confinanti a cui sarebbe stato difficile portare aiuto.
Si profilava così il problema centrale e decisivo fino allo scoppio della guerra nel 1939, al quale
la diplomazia francese non riuscì a dare soluzione positiva per vari motivi:
1. la sua indecisione,
2. l’ostilità britannica a questo schema,
3. l’ostilità dei paesi alleati che videro un pericolo nell’amicizia sovietica e non consentirono che
essa potesse costituire un elemento di sicurezza contro la Germania
4. Il fatto che i regimi interni dei paesi del sistema di alleanze francese (tranne la
Cecoslovacchia) non fossero ideologicamente compatibili con quello della Repubblica ebbe
un’importanza determinante nel provocare la paralisi di cui poterono giovarsi i nazisti sia
5.
6.
sfruttando il vuoto di potere esistente in Europa centro-orientale, sia agendo all’interno delle
società di quell’area con movimenti da essi ispirati, volti a orientare l’opinione pubblica o a
creare confusione e disordini.
Nel caso jugoslavo, per esempio, erano attivi gruppi fascisti divisi anche per nazionalità, tra
i quali si distinguevano gli ustascia croati, sostenuti da Mussolini.
La capacità di pressione o addirittura di fomentare il disordine interno divenne un’arma
importante in mano alla Germania nazista e all’Italia fascista.
5.3. L'internazionale comunista e la lotta al fascismo.
L’unica forza di penetrazione ideologica e organizzativa confrontabile a quella fascista era
l’Internazionale comunista, ma del tutto isolata finché accomunò nella sua irriducibile
opposizione sia i governi liberal-democratici che i regimi fascisti.
Di una simile realtà l’Internazionale prese atto di fronte all’avvento del nazismo e a ulteriori
pericoli di involuzione politica in Francia e in Spagna nel corso del 1934;
nelle grandi manifestazioni antifasciste francesi e nella lotta dei minatori delle Asturie,
socialisti e comunisti (e anarchici in Spagna) trovarono una prima forma di unità dal basso,
subito sanzionata da accordi tra i due partiti e da aperture verso i movimenti democratici.
Questa politica di larghe alleanze venne accolta al VII Congresso dell’Internazionale (Mosca,
luglio 1935);
così si espresse il segretario, il comunista bulgaro Georgi Dimitrov: «L’avvento del fascismo al
potere non è la sostituzione di un governo borghese con un altro, ma è il cambiamento di una forma
statale del dominio di classe della borghesia con un’altra sua forma, la dittatura terroristica aperta».
Da ciò conseguiva la necessità di una politica delle alleanze, sia nell’ambito sindacale, tendente
a egemonizzare le altre forze di sinistra, sia nell’ambito politico con un’ampia disponibilità al
confronto con le forze della sinistra non comunista e con i movimenti liberal-democratici.
La radicalizzazione sociale in Europa faceva pensare alla praticabilità di una simile linea: nel
1936 le contemporanee vittorie dei fronti popolari in Francia e in Spagna dettero 1’iniziativa
politica alla sinistra che tentò di consolidare senza successo un fronte antifascista.
6. I fronti popolari in Francia e in Spagna.
6.1. La guerra civile spagnola.
La Spagna degli anni trenta era un paese arretrato e marginale, molto lontano dalla passata grandezza
imperiale le cui ultime vestigia si erano dissolte con la guerra del 1898 contro gli Stati Uniti (cfr. le
lezioni ix e x).
Questa umiliazione fu un significativo visto d’ingresso nel XX secolo, che comportò un progressivo
isolamento internazionale, un addensarsi dei contrasti interni.
Nel 1931 nacque la Repubblica,
sostenuta dal movimento popolare e democratico che reclamava la laicizzazione dello Stato, la riforma
agraria, la modernizzazione del paese;
e osteggiata, viceversa, dalle forze tradizionaliste della Chiesa cattolica, della grande possidenza
agraria e dell’esercito.
Nel 1936 la vittoria elettorale dei fronte popolare portò allo scontro aperto.
Si ebbe una sollevazione militare appoggiata dalle forze reazionarie all’interno e, all’esterno,
dall’Italia fascista e dalla Germania nazista: la Spagna si divise in due e divenne un sanguinoso campo
di battaglia.
Fu allora che su di essa si concentrò improvvisamente l’attenzione del mondo, perché la guerra
che vi si combatteva assunse il valore di un confronto tra fascismo e antifascismo che sembrava
dover decidere le sorti dell’Europa.
La guerra civile si sarebbe arrestata appena alle soglie del secondo conflitto mondiale, dopo di che
la penisola iberica tornò nel suo isolamento affrontando una sanguinosa normalizzazione sotto il
regime clerico-fascista di Francisco Franco2.
2
(El Ferrol 1892, † Madrid 1975). Generale e uomo politico spagnolo. Dopo aver comandato la
Legione straniera spagnola in Marocco, nel 1934 fu nominato capo di stato maggiore dal governo di
destra. In quello stesso anno diresse la sanguinosa repressione dell’insurrezione dei minatori delle
Asturie. La vittoria elettorale del Fronte popolare nel febbraio del 1936 lo vide su posizioni
accesamente avverse. Il nuovo governo lo inviò come governatore nelle isole Canarie. Scoppiata nel
luglio 1936 la guerra civile, Franco entrò a far parte della giunta militare golpista antirepubblicana e
guidò una spedizione di truppe marocchine in Spagna. In ottobre divenne il capo del governo
insurrezionale. L’anno seguente fu l’artefice della riorganizzazione delle forze politiche nemiche
6.2. Il campo franchista.
Un contributo determinante alla vittoria dei ribelli, si è detto, venne dall’Italia fascista e dalla
Germania nazista.
Sotto la parvenza della partecipazione volontaria, l’Italia schierò un esercito ben armato, mirando
anche a rafforzare la sua influenza nel Mediterraneo oltre che ad appoggiare la causa franchista.
Il carattere ideologico della partecipazione italiana fu comunque prevalente rispetto alla politica di
potenza;
d’altronde il modello fascista stava conoscendo la sua maggiore fortuna nei paesi cattolici
ispirando regimi clericali e reazionari, come in Portogallo dove Antonio de Oliveira Salazar tra il
1932 e il 1933 aveva accentuato ulteriormente il carattere autoritario del suo regime adottando una
nuova costituzione informata al corporativismo fascista; il regime ultracattolico di Dollfuss in Austria
era un altro caso.
I tedeschi colsero l’opportunità dell’intervento in Spagna per sperimentare nuove tecniche, come il
bombardamento aereo, che dette ampia e convincente prova della sua efficacia con la distruzione
pressoché totale delle cittadine basche di Durango e Guernica (1937).
6.3. Il campo antifascista.
In campo democratico il fronte della solidarietà ebbe una valenza ideologica anche più sostenuta
grazie ai volontari antifascisti che costituirono le Brigate internazionali formate da migliaia di
militanti, intellettuali, operai, europei e americani;
emigrati politici italiani e tedeschi colsero la possibilità di combattere il fascismo apertamente,
nella speranza di poter presto continuare la lotta nei paesi d’origine.
Oggi in Spagna, domani in Italia si intitolava il manifesto lanciato da Carlo Rosselli, leader di
Giustizia e libertà ucciso di lì a poco da sicari fascisti in Francia.
In occasione della guerra di Spagna l’intellettualità democratica (compresa quella spagnola) dette la
misura migliore dell’impegno politico riuscendo a farsi guida di un movimento d’opinione
internazionale che vide lucidamente il pericolo fascista e le conseguenze nefaste per la pace che
esso rappresentava.
Gli intellettuali si conquistarono così un ruolo politico che avrebbe avuto notevole importanza
nell’organizzazione della resistenza europea durante il secondo conflitto mondiale e nel
dopoguerra, davanti al crollo delle élites tradizionali.
Il momento di massima visibilità di questo impegno fu dato dal congresso degli scrittori antifascisti
tenutosi a Valencia, Madrid e Barcellona nel 1937, conclusosi a Parigi;
pur davanti alla sconfitta della Repubblica, esso assicurò all'antifascismo una vittoria sul piano
dell’immagine, riuscendo a rendere popolare il concetto di lotta partigiana in una dimensione
transnazionale.
Rimasero all’attivo della grande cultura e della tradizione democratica per gli anni più tristi a venire i
contributi letterari e artistici che la guerra civile spagnola ispirò a scrittori come Hemingway,
della repubblica e della loro fusione nella Falange. Nel 1939, grazie anche all’aiuto determinante
della Germania nazista, dell’Italia fascista e della chiesa cattolica e agli effetti della politica di
neutralità anglo-francese, che giocò nettamente a sfavore della repubblica, i nazionalisti di Franco
ottennero la vittoria. Attuata una durissima repressione contro i repubblicani, il caudillo, capo del
governo e dello stato, riorganizzò lo stato secondo criteri autoritari che si ispiravano al corporativismo
fascista e cattolico. Scoppiata la seconda guerra mondiale, Franco diede un attivo appoggio politico
alle potenze dell’Asse, inviando anche truppe costituite da volontari sul fronte russo; ma,
superate le esitazioni iniziali, decise di tenere la Spagna su posizioni di neutralità, tanto più in
seguito alle prime grandi sconfitte italo-tedesche nel 1942. Finita la seconda guerra mondiale, la
Spagna franchista beneficiò degli effetti della guerra fredda, stabilendo buone relazioni con le
potenze occidentali, in quanto considerata una baluardo dell’anticomunismo. Il ruolo della
Falange venne notevolmente ridimensionato. Nel 1947 Franco, dopo avere nel 1942 concesso la
costituzione delle Cortes, organo rappresentativo sotto stretto controllo del regime dittatoriale, ristabilì
la monarchia, esercitando la posizione di reggente. A partire dagli anni Sessanta la Spagna conobbe
un rilevante processo di modernizzazione economica, la quale favorì un allentamento dei caratteri più
rigidamente autoritari del regime. Un importante riconoscimento internazionale, dovuto all’appoggio
statunitense, fu l’ammissione della Spagna all’ONU nel 1955. Un problema interno molto grave fu lo
sviluppo dell’opposizione basca, che assunse caratteri terroristici. Nel 1973 Franco, intendendo
separare le funzioni di capo dello stato e del governo, nominò primo ministro Luis Carrero
Blanco, che venne però assassinato pochi mesi dopo dai terroristi baschi. Nel 1969 il caudillo
aveva intanto nominato erede al trono il principe di Borbone Juan Carlos, il quale, dopo la morte di
Franco nel 1975, ebbe un ruolo di primo piano nella trasformazione della Spagna in senso democratico.
Orwell, Brecht, a poeti come Auden, Alberti, Garcìa Lorca, Neruda, a fotografi come Robert Capa.
Pablo Picasso fissò sulla tela la testimonianza della distruzione di Guernica.
6.4. Timidezze francesi e inglesi.
Scrisse in quell’occasione Karl Polanyi:
«In tempi di guerre religiose è abbastanza facile che, quando il conflitto coinvolge
diversi Stati, parte dei cittadini di un paese partecipi alle guerre civili di un altro paese a
fianco dei propri correligionari. [...] In Spagna oggi sta evidentemente accadendo
qualcosa di simile, ma la differenza è che nel nostro tempo le guerre civili tendono ad
avere un carattere non tanto religioso, quanto sociale».
Una simile evidenza fu nel contempo la forza e la debolezza dello schieramento che si costituì
intorno alla Repubblica spagnola:
la radicalizzazione sociale infatti mostrò i limiti cui poteva giungere l’impegno antifascista.
E significativo il caso della Francia, il cui governo, presieduto dal socialista Léon Blum, aveva
subito fornito aiuti all’omologo governo spagnolo, e tuttavia dovette recedere verso posizioni più
prudenti a causa dell’opposizione interna che minacciava la guerra civile.
Lo slogan dei conservatori francesi fu allora: «meglio Hitler che Blum».
La solidarietà tra i due fronti popolari fu scarsamente operante, e la Francia si limitò all’invio
di materiali di impiego civile mentre promosse un’azione diplomatica che mirava a garantire la
non ingerenza esterna nella guerra spagnola.
Era già in partenza una finzione a cui il governo democratico francese si adattò, seguendo
ancora una volta l’Inghilterra nella politica di non intervento.
Questa era interessata, dopo la fine della guerra in Etiopia a ricostruire rapporti amichevoli con
l’Italia in funzione antitedesca.
Fu così che ancora una volta il tentativo di dividere Italia e Germania in realtà consentì loro di
continuare una politica aggressiva e di sostegno al fascismo internazionale.
Ma a determinare l’atteggiamento inglese contribuivano anche fattori di politica interna:
1.
la guerra di Spagna divise la sinistra in un’ala interventista contrapposta a quella «pacifista»
e maggioritaria nella concentrazione laburista.
2.
I gruppi più radicali si schierarono a favore della Repubblica spagnola e perorarono
l’unità d’azione con i comunisti:
3.
a questa prospettiva, che sembrava implicare un’unità d’azione anche in patria, la
maggioranza laburista si oppose duramente, facilitata in questa scelta dal diffuso rifiuto
della guerra presente nella società inglese.
4.
Specialmente a sinistra, il fascismo era sinonimo di guerra, e l’opposizione ai regimi
hitieriano e mussoliniano non poteva conformarsi all’uso della violenza propagandato dai
dittatori, imponendo piuttosto differenti forme di contrasto, come per esempio le sanzioni
economiche ai paesi che minacciavano il ricorso alle armi.
5.
La posizione del maggior partito della sinistra britannica divenne così inefficace e mentre
stigmatizzava le simpatie filofasciste dei conservatori non poteva evitare di appoggiarne la
politica di non intervento, ovvero l’appeasement con cui i governi conservatori si
apprestavano ad affrontare i momenti più drammatici della crisi europea.
Dall’Urss vennero gli aiuti più consistenti alla causa democratica, pur non paragonabili a quelli
tedeschi e italiani sul fronte opposto;
1. essi consistettero in circa un migliaio di tecnici e poche centinaia di pezzi d’artiglieria, carri
armati e aerei, oltre a forniture di munizioni e di carburante, pagati a caro prezzo dalla
Repubblica con il trasferimento delle sue riserve auree in Urss.
2. Per la dirigenza sovietica si trattò di sostenere per la prima volta un impegno su scala
europea di carattere antifascista, che non metteva all’ordine del giorno la trasformazione
socialista della società.
3. Una simile strategia non sortì effetti rassicuranti nel quadro della politica internazionale, né
all’interno della Spagna, nonostante l’impegno profuso dall’Internazionale comunista per
moderare le tendenze più rivoluzionarie e mantenere aperta la possibilità di un’alleanza con la
borghesia.
4. Il controllo sempre più stretto esercitato dai dirigenti di osservanza sovietica sul governo
spagnolo fece esplodere contrasti interni al fronte repubblicano che portarono allo scontro
armato (maggio 1937) con gli anarchici e con il Poum, un partito d’ispirazione trockijsta.
5. L’ala maggioritaria della sinistra in Europa alla fine svolse un intervento di moderazione che non riuscì a salvare la Repubblica, e finì per restringere lo stesso campo d’azione
della politica dei fronti popolari.
Pochi mesi separarono la fine della guerra civile spagnola dallo scoppio della seconda guerra
mondiale, da marzo a settembre 1939, ma furono sufficienti ad archiviare il problema spagnolo.
Contribuirono a questa messa fra parentesi da un lato la prudente politica internazionale di Franco,
che si tenne lontano dalla partecipazione al nuovo conflitto, dall’altro il patto che l’Urss stipulò con la
Germania ai danni della Polonia nel settembre 1939.
Sembrò una cesura definitiva nella storia dello schieramento antifascista che si era costituito in
Spagna pur tra mille contraddizioni e conflitti sanguinosi.
Ciò che avrebbe segnato la continuità era invece il concetto e la pratica stessa di guerra civile,
così come si era manifestata in Spagna, agevolata dall’impiego di moderne tecnologie e caratterizzata
dal coinvolgimento di tutta la popolazione senza distinzione di condizione, di età, di sesso.
7. Anschluss, Cecoslovacchia e Polonia.
7.1. La fine dell'indipendenza austriaca
Tra il 1936 e il 1937 Germania, Italia e Giappone stipularono patti contro il comunismo
internazionale adatti a fornire una copertura ideologica al loro espansionismo.
Era la Germania il nucleo di questi accordi, poiché a essa avevano fatto capo le due altre potenze: il
Giappone nel novembre 1936, l’Italia un anno dopo, nel novembre 1937, contemporaneamente al suo
ritiro dalla Società delle nazioni.
Per Hitler era arrivato il momento di rilanciare i progetti pangermanisti.
Dopo il fallimento della prima prova di annessione dell’Austria nel 1934, la politica hitleriana si era
mossa con maggiore circospezione ma altrettanta decisione nell’intento di fagocitare la destra clericofascista austriaca che deteneva il potere in ciò servendosi del locale partito nazista.
Era difficile leggere questa attività nel quadro della contrapposizione al pericolo comunista,
inesistente dopo la messa al bando e la distruzione di ogni opposizione da parte del governo
dittatoriale e fascista del cancelliere Schuschnigg, il che mostra in questo caso la strumentalità con
cui veniva agitato il pericolo della sinistra.
I disordini servirono piuttosto a costringere il governo ad aprire le porte ai nazisti, il che avvenne
su perentorio invito di Hitler, quando nel febbraio 1938 il cancelliere austriaco gli si rivolse ottenere
un suo intervento moderatore in Austria.
Il capo dei nazisti austriaci Seyss-Inquart divenne allora ministro degli Interni e subito dopo
cancelliere.
La crisi precipitò nel giro di poche ore: appena insediatosi (11 marzo), il nuovo cancelliere chiese
l’intervento tedesco e così l’Austria divenne parte del Reich con il nome di Ostmark, provincia di
Levante.
Il successivo 10 aprile un plebiscito sancì l’Anschluss, ovvero la fine dell’indipendenza austriaca.
La reazione di Mussolini all’annuncio dell’imminente occupazione fu l'indifferenza, il che
contribuì a rinsaldare i legami personali tra i due dittatori.
In quell’occasione Hitler ebbe a dire: «Dite a Mussolini che questo non lo dimenticherò mai mai mai,
qualunque cosa accada [...] sia pur certo che sarò con lui anche se dovesse avere contro il mondo
intero».
Francia e Inghilterra assistettero alle operazioni tedesche senza prendere contromisure;
era anzi opinione del premier britannico Neville Chamberlain che la soddisfazione delle richieste
hitleriane riguardanti l’Austria avrebbe facilitato una politica di pace e di stabilizzazione.
Nonostante la Germania avesse avviato il riarmo3, essa ancora non disponeva di un esercito in
grado di confrontarsi con i rivali europei.
L’invasione sia della Renania che dell’Austria erano state operazioni di scarsa consistenza dal punto di
vista militare, e non mancarono le perplessità da parte dei comandi tedeschi.
7.2. La questione dei Sudeti e la conferenza di Monaco.
La stessa Cecoslovacchia godeva di una buona preparazione militare, con esercito moderno e
dotato di forze corazzate, come la sua economia industriale consentiva;
ma Hitler sollevò ugualmente la questione dei tedeschi dei Sudeti, una popolazione di circa tre
milioni di persone inglobata nello Stato cecoslovacco.
Qui, fin dal 1935 era attivo un partito ispirato da Berlino che chiedeva l’autonomia della
regione.
Nello stesso aprile 1938 una campagna propagandistica particolarmente virulenta, appoggiata
dalla stampa tedesca, creò uno stato di tensione che richiese la mobilitazione dell’esercito
cecoslovacco.
La determinazione a contrastare le pretese tedesche questa volta sembrava più forte e avrebbe
3
Il riarmo era stato permesso dagli Stati Uniti sotto la presidenza Roosevelt
dovuto godere della copertura della Francia, principale alleata della Cecoslovacchia, e della Gran
Bretagna.
Nessuno dei due paesi era tuttavia intenzionato a portare le cose fino alle estreme conseguenze.
Fu ancora il premier britannico Chamberlain a cercare l’accordo ad ogni costo, secondo la
linea dell’appeasement, con il risultato dì far aumentare le richieste del dittatore tedesco, che non
si accontentò più dell’autonomia dei Sudeti, ma annunciò la volontà di annettersi la regione.
Mentre le potenze interessate mobilitavano le forze ai confini, Chamberlain richiese la
mediazione di Mussolini, che invitò alla conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1938, da cui
rimasero esclusi i sovietici e i diretti interessati cecoslovacchi.
6.
La mediazione mussoliniana apparve allora provvidenziale per la salvezza della pace in
Europa e offri al duce un’ultima occasione di apprezzamento internazionale.
7.
In realtà Mussolini si era mosso su indicazioni tedesche, riuscendo a ottenere quanto la
Germania chiedeva.
8.
La trattativa fu solo una copertura diplomatica offerta al cedimento delle potenze
occidentali.
9.
Il 10 ottobre le truppe tedesche penetrarono nella regione dei Sudeti:
10. l’unificazione tedesca avveniva ora a spese di circa un milione di cechi presenti sul
territorio annesso.
Anche la Polonia e l’Ungheria ottennero rettifiche territoriali nel quadro di questa
operazione:
11. circa 133 000 cechi passarono alla prima
12. e circa 270 000 slovacchi passarono alla seconda.
7.3. L'occupazione di Praga.
La questione però non era chiusa;
1. nel marzo del 1939 le truppe tedesche occuparono Praga
2. e stabilirono il protettorato tedesco sulla Boemia e sulla Moravia,
3. la Slovacchia divenne uno Stato formalmente indipendente, ma in realtà un satellite tedesco.
Questo intervento non riguardava più popolazioni tedesche; l’espansionismo hitleriano stava
segnando una nuova tappa: le potenze occidentali cominciarono ad avvertire il pericolo e a segnare il
limite oltre il quale non si poteva più trattare. Ciò comportava anche la prospettiva della guerra.
Una nuova occasione di contrasto d’altronde non tardò a presentarsi mentre ancora la questione
cecoslovacca era alle sue ultime battute nello stesso marzo 1939.
7.4. Il corridoio di Danzica
Questa volta gli obiettivi erano le città di Danzica e di Memel, di popolazione tedesca, poste
rispettivamente in territorio polacco e lituano.
1. Memel fu subito occupata il 23 marzo;
2. più spinosa era la questione di Danzica.
3. Questa città godeva dello status di città libera ed era collegata attraverso un corridoio
territoriale alla Polonia, che ne garantiva lo sbocco sul Mar Baltico.
4. Questa sistemazione spezzava la continuità del territorio tedesco, lasciandone fuori la
Prussia orientale.
5. Però, come spiegò Hitler ai suoi ufficiali con chiarezza, «Danzica non è affatto il vero motivo
della disputa. Si tratta di estendere il nostro spazio vitale a Oriente».
Per la Francia e l’Inghilterra si pose ancora una volta la questione dell’alleanza con l’Urss,
elusa per il permanere delle classiche diffidenze e per l’opposizione della stessa Polonia.
La Russia era inoltre impegnata in una pericolosa tensione col Giappone ai suoi confini
orientali tra la Mongolia e la Manciuria; nell’estate del 1939 l’Armata rossa riuscì a respingere un
attacco dei giapponesi, che da allora avrebbero rinunciato a espandersi in direzione del territorio
sovietico.
Tuttavia l’episodio confermava la visione di Chamberlain, sia riguardo alla debolezza russa, sia
riguardo alla valenza planetaria che l’alleanza russo-britannica avrebbe immediatamente assunto
esponendo l’Impero a rischi in Estremo Oriente e nel Mediterraneo.
A maggio (1939) era stato sottoscritto il «Patto d’Acciaio» tra Italia e Germania, che
impegnava le due potenze a intervenire come alleate in caso di guerra.
Questa era la prospettiva dell'Urss:
1.
l’episodio di guerra in Mongolia prospettava alla dirigenza sovietica il pericolo di una
guerra su due fronti, in Europa e in Asia;
2.
l’indecisione delle potenze occidentali a concludere un accordo,
3.
4.
5.
6.
la politica di concessioni adottata fino ad allora nei confronti della Germania,
lo stesso indirizzo politico conservatore del governo britannico destavano il sospetto che
le potenze occidental potessero avallare o addirittura favorire una politica aggressiva
della Germania nei confronti dell’Urss.
La conduzione della vicenda cecoslovacca, con la ricerca della pace ad ogni costo e con
l’esclusione dell’Urss dalle trattative, poteva avvalorare questa ipotesi.
Perciò venne ricercata un'alleanza con la Germania
7.5. Il patto Ribbentropp-Molotov e l'accordo di spartizione della Polonia.
L’alleanza con le potenze occidentali, che a metà degli anni trenta era stata ricercata, apparve
ora meno rassicurante.
I sovietici pensarono che sarebbe stato meglio restare fuori da un eventuale conflitto
«interimperialista» tra la Germania e le potenze occidentali, attendendo lo svolgimento degli
eventi.
Un patto di non aggressione della durata di dieci anni fu presto stipulato (patto RibbentropMolotov), proprio mentre Francia e l’Inghilterra avviavano trattative con l'Urss, il 23 agosto 1939.
Il trattato conteneva alcune clausole segrete che prevedevano:
1. l’eventualità di una spartizione della Polonia sul confine della Vistola;
2. la Lituania sarebbe stata inglobata nel territorio tedesco,
3. mentre Finlandia, Estonia e Lettonia in quello sovietico.
4. Dal punto di vista tedesco un simile accordo tendeva a delimitare l’area del conflitto, secondo
una strategia gradualistica fino ad allora di successo, che avrebbe dovuto consentire una nuova
tappa dell’espansione a Oriente senza dover sostenere la pressione occidentale alle spalle,
almeno in una prima fase della guerra.
La seconda guerra mondiale ha inizio. Il patto nazi-sovietico fece superare a Hitler le ultime
perplessità sull’attacco alla Polonia, che avvenne il 1° settembre 1939.