I DIECI CONFLITTI CHE HANNO CAMBIATO LA ROTTA DELLA STORIA a cura di Edoardo Castagna Avvenire 04/01/2009 Gli storici insegnano che la storia non si fa con i se, e i singoli episodi non sono quasi mai frutto del caso, ma di cause profonde e remote, tali da rendere sostanzialmente irrealistici scenari differenti da quelli che si sono di fatto verificati. Eppure, ci sono stati momenti, spesso battaglie che, proprio come quella di Teutoburgo, hanno incarnato plasticamente la sterzata assunta dalla storia, veri spartiacque nel cammino della civiltà umana. Esattamente duemila anni fa, nelle gelide brume di Teutoburgo, si decise che la lingua del mondo globalizzato sarebbe stato l’inglese. La battaglia del 9 d. C., nella quale le legioni di Varo furono annientate dai Germani di Arminio, marcò infatti la fine dell’avanzata romana in Europa centrale. I Germani rimasero indipendenti e qualche secolo dopo avrebbero alluvionato l’Europa latina, stravolgendone gli antichi connotati e impostando quelli moderni, che ancora oggi dipingono il volto del Vecchio continente. Teutoburgo fu quindi spartiacque, perché impedì che i Germani – e tra loro gli antenati degli inglesi – facessero la fine dei Celti: vinti, sottomessi, e infine totalmente assimilati. Naturalmente gli storici mettono in guardia: la storia non si fa con i se, e i singoli episodi non sono quasi mai frutto del caso, ma di cause profonde e remote, tali da rendere sostanzialmente irrealistici scenari differenti da quelli che si sono storicamente verificati. Vero: tuttavia, ci sono stati momenti, spesso battaglie che, proprio come quella di Teutoburgo, riassumono plasticamente la svolta, la sterzata assunta dalla storia. Senza Teutoburgo – un senza totalmente ipotetico, ma non per questo meno suggestivo – le aquile augustee avrebbero raggiunto, com’era nei piani del primo imperatore, il fiume Elba, inghiottendo la caotica turba delle tribù germaniche. Le cause remote e profonde ci spiegano che in fondo non sarebbe cambiato molto, e che da lì a poco comunque orde di barbari avrebbero assediato il Limes, comunque l’Impero sarebbe crollato, e l’Europa sarebbe sorta dalle sue ceneri. Soltanto, magari, senza il determinante apporto delle lingue e delle culture germaniche; al loro posto, chissà, ci sarebbero stati gli Slavi, i popolosi e vicini ' barbari' al di là dell’Elba. E oggi la lingua globale sarebbe una specie di polacco. Teutoburgo arrestò l’espansione di Roma; Adrianopoli, nel 378, fu l’inizio della fine. Fino ad allora Roma aveva reagito alla crescente pressione dei Germani con la politica dell’assimilazione: venivano accolti al di qua del Limes, in aree poco popolate dove mantenevano le proprie tradizioni e margini di autogoverno, ma riconoscevano l’autorità imperiale subendo, più o meno volontariamente, la romanizzazione. L’irruzione degli Unni scompaginò questo schema sostanzialmente pacifico e a partire da Adrianopoli l’infiltrazione divenne alluvione: uno scontro di civiltà sconvolse le strutture dell’impero che, complici le gravi debolezze interne, finirono per soccombere. Così come avrebbe potuto soccombere anche l’Europa cristiana sorta proprio dalla sintesi romano- barbarica: ma a Poitiers, nel 732, fu arrestata l’epica cavalcata musulmana che in cent’anni aveva già fagocitato Medio Oriente, Nordafrica e Penisola iberica. Una sconfitta di Carlo Martello avrebbe aperto scenari di massiccia presenza islamica in Europa occidentale, laddove invece prese il via l’ascesa del regno franco che, da lì a poco con Carlo Magno, sarebbe divenuto il Sacro Romano Impero, custode del cristianesimo. Identica minaccia, questa volta da Oriente, fu sventata nel 1571 a Lepanto e nel 1683 a Vienna, dove prima la flotta e poi l’esercito turco furono ricacciati dall’unione dei principi cristiani. Nel frattempo, i domini europei avevano fagocitato il Nuovo mondo: a Tenochtitlán, nel 1521, un manipolo di spagnoli – aiutati da ampie defezioni in campo nemico – fu sufficiente a espugnare la capitale dell’Impero azteco, spianando la strada a una conquista che ha definito i caratteri culturali e linguistici dell’intero continente. Alba dell’età contemporanea, e al tempo stesso scontro di civiltà interno all’Europa tra Ancien régime e ideali repubblicani francesi – sia pure rivisti e corretti in chiave imperiale da Napoleone – fu la battaglia di Waterloo ( 1815). La sconfitta dei francesi aprì la stagione della Restaurazione e dell’ascesa dell’Inghilterra della ARivoluzione industriale; una rivoluzione che contagiò presto anche i neonati Stati Uniti, e che fu una delle cause della guerra di Secessione ( 1861- 1865). Momento cruciale del conflitto fu la battaglia di Gettysburg ( 1863), con la sconfitta del pur brillante generale Lee. La Confederazione agricola e schiavista crollò, quando una Gettysburg dall’esito ribaltato avrebbe invece forse ritagliato in Nordamerica una specie di Sudafrica dell’apartheid, che chissà fino a quando avrebbe mantenuto segregazionismo e razzismo di Stato. In quella guerra « debuttò » la guerra di massa, quella che in Europa avrebbe mostrato il suo tragico volto con i conflitti mondiali – anch’essi con due punti di svolta. La battaglia della Somme, nel 1916, durò mesi, costò un milione di morti e sancì il fallimento dello sfondamento del fronte occidentale da parte del Secondo Reich; stesso schema, ma sul fronte orientale, nel 1943 a Stalingrado, quando la sconfitta di Paulus diede il via al collasso della Germania nazista, salvando mezza Europa dal totalitarismo. Soltanto mezza, perché il dopoguerra vide ancora due civiltà contrapporsi, sui due versanti della Cortina di ferro; per fortuna – visto che nel frattempo si era aperta l’era atomica – lo scontro non sfociò in guerra calda, se non nell’ « esportazione » in aree remote ( Corea, Vietnam) dello scontro tra i due blocchi. I vincitori della vecchia Europa si trovavano intanto a fare i conti con l’eredità coloniale, particolarmente sanguinosa per la Francia, assai più restia della Gran Bretagna a mollare la presa: nella battaglia di Algeri ( 1957) Parigi si oppose con ogni mezzo al terrorismo indipendentista algerino. Vinse, a costo di lacerazioni etiche che ancora oggi la Francia fatica a smaltire, e fu una vittoria di Pirro: nel 1962 De Gaulle fu costretto a riconoscere l’indipendenza dell’Algeria. TEUTOBURGO Tra il 4 e il 5 d. C. le conquiste del futuro imperatore Tiberio avevano convinto i Romani di aver ormai sottomesso l’intera Germania, dall’Elba al Danubio. All’inizio del settembre del 9 d. C. Publio Quintilio Varo, destinato a divenire il governatore civile della nuova provincia, stava per ritirarsi negli accampamenti invernali, quando un’imboscata ideata da Arminio, capo dei Cherusci, lo attirò nella Selva di Teutoburgo, nell’attuale Bassa Sassonia. Il 9 settembre, mentre le tre legioni di Varo – ventimila uomini – procedevano a fatica, i Germani attaccarono in forze: Arminio aveva raccolto una vasta coalizione di tribù, in parte composta da ex mercenari che erano stati al soldo di Roma e ne avevano imparato le tecniche di combattimento. In tre giorni di combattimenti in mezzo alla pioggia e al vento caddero quasi tutti i legionari, compreso lo stesso Varo, suicida. Roma rinunciò definitivamente alla conquista della Germania, salvo qualche sporadica spedizione confermata anche da recenti ritrovamenti archeologici proprio nell’area di Teutoburgo, e si dedicò al rafforzamento e alla difesa del Limes, dal Reno al Danubio. Il personaggio Ancora oggi tra i tedeschi Arminio ( Hermann; 17 a. C.- 21 d. C.) è un eroe nazionale, celebrato da numerose statue sparse in tutta la Germania; la più colossale, presso Osnabrück, è alta oltre cinquanta metri. Il mito si impossessò presto della sua figura, facendone il campione delle libertà germaniche contro l’invasore; è anche possibile che abbia ispirato la figura di Sigfrido delle Saghe dei Nibelunghi. Il libro Una ricostruzione minuziosa della battaglia è contenuta in Teutoburgo, 9 d. C. La grande disfatta delle legioni di Augusto, di Massimo Bocchiola e Marco Sartori ( Rizzoli). Ricordando le reazioni attonite di Roma alla notizia del massacro, il volume rievoca anche il lamento di Augusto, che vagava per il palazzo ripetendo « Vare, Vare redde me legiones » (' Varo, Varo, rendimi le legioni'). ADRIANOPOLI Nel mondo barbarico sconvolto dall’irruzione degli Unni, nel 376 i Goti implorarono ospitalità all’interno dell’Impero romano. Fino ad allora erano rimasti accampati a ridosso del Danubio, frontiera settentrionale dell’impero nella Penisola balcanica. Furono accolti, ma in un caos tale che portò presto i profughi alla disperazione: abbandonati a loro stessi e costretti a subire l’umiliazione della consegna ai loro «soccorritori» non solo delle armi, com’era logico, ma anche di tutti bambini come ostaggi, patirono la fame e le ruberie dei funzionari romani. Dopo un’inversno di stenti si ribellarono, guidati dal visigoto Fritigerno, e misero a ferro e fuoco con le loro scorrerie tutta la Penisola balcanica; nell’estate del 378 raggiunsero Adrianopoli, l’attuale Edirne (Turchia europea), dove il 9 agosto furono attaccati dall’imperatore Valente, che era convinto di poter supplire all’inferiorità numerica con la migliore organizzazione delle legioni. Sottovalutò però la forza della cavalleria gota, che sancì la vittoria dei barbari; caddero oltre quarantamila romani, tra i quali lo stesso imperatore, forse ferito a morte da una freccia o forse arso vivo nella capanna in cui si era rifugiato. Si aprirono così le porte alle alluvioni barbariche del V e VI secolo, che travolsero definitivamente l’Impero. Il protagonista L’imperatore romano Valente (328-378) fu il primo augusto a cadere sul campo, vittima di barbari. Ad Adrianopoli pagò gravi errori tattici, come l’aver sottovalutato la forza dei nemici, acuiti dall’arroganza: disprezzava i Germani, tanto da prendere la catastrofica decisione di non attendere i rinforzi del coimperatore Graziano, che stava accorrendo. Il libro Alla battaglia di Adrianopoli ha dedicato un saggio lo storico e scrittore Alessandro Barbero. 9 agosto 378. Il giorno dei barbari (Laterza) sottolinea proprio il grande valore simbolico che, accanto alle pur gravi conseguenze materiali, assunse la battaglia nel contesto dei rapporti tra Romani e Germani. POITIERS Conquistata gran parte della Penisola iberica, gli Arabi avevano preso a compiere incursioni al di qua dei Pirenei: nel 732 l’emiro al-Ghafiqi penetrò in Aquitania, dove prese Bordeaux e la saccheggiò, infierendo in particolare contro le chiese – al-Ghafiqi apparteneva a una setta di estremisti fanatici. Investì poi Poitiers, dove però era sceso ad affrontarlo il maggiordomo di palazzo Carlo Martello, 'primo ministro' che aveva di fatto esautorato i re merovingi dei Franchi. La battaglia, combattuta il 10 o il 17 ottobre, vide per una settimana intera i due schieramenti fronteggiarsi senza combattere, per poi divampare improvvisamente in una mischia scatenata dall’assalto della cavalleria berbera. I musulmani erano soliti provocare il nemico con finte ritirate, per attrarlo in disordine verso il grosso del loro esercito, ma Carlo Martello seppe prevedere la mossa e far tenere le posizioni ai suoi, che decimarono i cavalieri e solo alla fine mossero contro la più debole fanteria nemica. Le perdite furono elevate da entrambe le parti, ma gli Arabi furono costretti a ripiegare orfani del loro emiro, caduto in battaglia. Il personaggio Con il nomignolo derivato da un’arma dell’epoca – il «martello d’arme», sostanzialmente una mazza di ferro – Carlo Martello (685-741) fu il fondatore della dinastia dei Carolingi, che con suo nipote Carlo Magno avrebbe «rifondato» l’Impero romano, questa volta anche «Sacro». Il valore soprattutto simbolico della battaglia di Poitiers, dove arrestò la marea musulmana che minacciava di travolgere l’Europa, fece di lui un personaggio leggendario, tanto da offuscare perfino il suo fondamentale ruolo nel gettare le fondamenta dell’Impero carolingio. La canzone La parodistica Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, composta da Fabrizio De André e Paolo Villaggio nel 1963, reinventò il componimento poetico della pastorella, di ascendenze provenzali, con un linguaggio volutamente aulico, sottolineato da una musica buffamente solenne ma con un testo goliardicamente ironico. TENOCHTITLÁN Sbarcati sulle coste del Messico nel 1519, i conquistadores spagnoli di Hernán Cortés raggiunsero rapidamente la capitale dei domini aztechi, Tenochtitlán, e imprigionarono l’imperatore Montezuma II. Presto gli Aztechi si ribellarono e scacciarono Cortés; il condottiero, con appena un manipolo di fanti e sedici cannoni ma appoggiato dai ribelli Tlaxcaltechi, strinse d’assedio Tenochtitlán. La città resistette dal 26 maggio al 16 agosto 1521, guidata dal nuovo imperatore Cuauhtémoc, prima di cadere vinta dalla fame, dalla sete e dalle enormemente più efficaci armi nemiche. Gli Aztechi, terrorizzati dall’equipaggiamento bellico mai visto prima schierato dagli spagnoli – cavalli, armi da fuoco, galeoni – ricorsero anche a diversi sacrifici umani per invocare l’aiuto degli dei, ma le loro perdite furono immani: si calcola che nell’assedio siano periti centomila guerrieri e altrettanti civili. L’inevitabile resa spianò la strada alla conquista spagnola dell’intera America centro- settentrionale, che divenne così di religione cattolica e di lingua castigliana. Il personaggio Cuauhtémoc ( 1496- 1525) fu l’ultimo imperatore azteco. Dopo aver condotto la difesa di Tenochtitlán cercò scampo sull’isolotto di Tlatelolco, ma la barca che trasportava la famiglia reale fu intercettata dagli spagnoli e Cuauhtémoc fu condotto dinanzi a Cortés, al quale disse: « Ho fatto tutto ciò che era in mio potere ed in mio dovere per difendere la città. Prendi il pugnale che hai nella cinta e con quello uccidimi » . Il sovrano fu però inizialmente risparmiato e torturato affinché rivelasse dov’era nascosto il tesoro reale; fu comunque impiccato qualche anno dopo. L’opera È ambientata durante l’assedio di Tenochtitlán l’opera in tre atti di Antonio Vivaldi Motezuma, su libretto di Girolamo Alvise Giusti ( 1733). È una vicenda di intrighi e di suggestioni esotiche, con un intreccio romantico tra la figlia di Motezuma ( erronea trascrizione di Montezuma) e un ufficiale spagnolo. A Poitiers, nel 732, venne arrestata la marea islamica che investiva l’Europa da ovest; a Lepanto e poi ancora a Vienna, mille anni dopo, quella che l’aggrediva da est. Due tappe di uno «scontro di civiltà» secolare, fatto anche di scambi e influenze reciproche, che avrebbe potuto avere esiti radicalmente differenti. Allo stesso modo, la caduta di Tenochtitlán segnò il destino dell’America, la battaglia di Gettysburg quello degli Stati Uniti, la Somme e Stalingrado le due guerre mondiali... Fino ad Algeri, episodio chiave della decolonizzazione nel ’900. LEPANTO E VIENNA È racchiuso tra due tappe, distanti l’una dall’altra più di un secolo, il braccio di ferro tra l’Europa cristiana e l’Impero ottomano islamico nell’età moderna. Prima sul mare, a Lepanto nel golfo di Corinto, nel 1571: la coalizione cristiana, capitanata da veneziani e spagnoli, per la prima volta ebbe la meglio in uno scontro navale contro una flotta turca. Uno scontro epico, il 7 ottobre, che portò alla perdita di trentamila uomini e oltre duecento navi con la mezzaluna; come Teutoburgo, fu prima di tutto la fine di un mito d’invincibilità. Ma l’Europa divisa non seppe sfruttare appieno la vittoria, e i turchi ripresero preso a premere sul suo fianco orientale. Fino ad arrivare a cingere d’assedio Vienna, la capitale del cattolicissimo Impero asburgico. L’11 e il 12 settembre 1683 la Lega santa condotta da Giovanni III di Polonia riuscì con una battaglia campale a spezzare l’assedio che stringeva Vienna fin da luglio. Fattore decisivo fu la cavalleria polacca, tremila ussari condotti da Giovanni III in persona che, scendendo in campo nel tardo pomeriggio, sbaragliò definitivamente i turchi. Il personaggio La Lega santa fu raccolta da padre Marco d’Aviano (1631-1699) su incarico di papa Innocenzo XI. Faticò molto a superare le rivalità dei principi europei – in particolare tra Giovanni di Polonia e Leopoldo d’Austria –, ma alla fine riuscì nel suo obiettivo. Fu presente anche sul campo della battaglia di Vienna, che anzi si aprì proprio con una messa celebrata dal cappuccino. È stato beatificato il 27 aprile 2003. Il quadro La battaglia di Lepanto colpì immediatamente i contemporanei, che ne colsero soprattutto il carattere di scontro di civiltà e di fede tra cristianesimo e islam e videro nella vittoria della Lega santa un segno divino. Così già nel 1571 il Veronese dipinse un’Allegoria della battaglia di Lepanto (Venezia, Gallerie dell’Accademia), con Cristo e i santi che dal cielo illuminano la flotta cristiana vittoriosa. WATERLOO Fuggito dall’Elba e tornato alla guida dei francesi per i Cento giorni, Napoleone scese in battaglia per difendere la riconquistata corona a Waterloo il 18 giugno 1815. Presso Mont-Saint-Jean, non lontano da Bruxelles, centoventimila francesi affrontarono circa centosessantamila soldati di una vasta coalizione, che andava dall’Inghilterra alla Prussia. Quella volta il genio di Napoleone non fu sufficiente a pareggiare la superiorità numerica del nemico, a sua volta guidato da un abile stratega, l’inglese Wellington. Napoleone compì forse più errori in quella giornata che in tutta la sua folgorante carriera militare e si lasciò stringere tra le due colonne nemiche, così da dover combattere contemporaneamente contro gli inglesi e contro i prussiani. Fallito anche l’ultimo attacco della Guardia imperiale – che lanciò il celebre grido: «La Vecchia Guardia muore, ma non si arrende!» – Napoleone dovette arrendersi, per essere immediatamente inviato in esilio a Sant’Elena. Il personaggio Waterloo sancì definitivamente la gloria di Arthur Wellesley, primo duca di Wellington (1769-1852), che per contrastare l’ultimo assalto dell’imperatore corso abbandonò in fretta e furia i tavoli del Congresso di Vienna, dove si disegnava l’Europa post-napoleonica. Dopo la battaglia si oppose fermamente ai propositi di vendetta dei prussiani, che volevano Napoleone condannato a morte. Proseguì poi la sua carriera politica, ricoprendo per due volte la carica di primo ministro britannico. La canzone Divenuta la resa incondizionata per antonomasia, Waterloo è stata ripetutamente citata in ogni arte. La battaglia fu ricostruita da Sergej Bondarcuk nel kolossal italo-sovietico Waterloo (1970, Mario Soldati cosceneggiatore), con Rod Steiger nei panni di Napoleone, Christopher Plummer in quelli di Wellington e Orson Welles in quelli di Luigi XVIII. Ma Waterloo è anche il titolo di una canzone e di un album degli Abba, che nel 1974 lanciarono il gruppo svedese raccontando di una ragazza che si «arrende», allo stesso modo di Napoleone, all’amore. GETTYSBURG Tra l’1 e il 3 luglio 1863, ottantamila confederati sudisti, guidati dal generale Robert Lee, attaccarono i centodiecimila nordisti al comando del maggiore generale George Meade presso Gettysburg, in Pennsylvania. L’offensiva unionista guidata più a ovest da Ulysses Grant lungo il Mississippi stava per tagliare in due la Confederazione, così il generale Lee tentò una mossa a sorpresa, quasi disperata, per ribaltare le sorti del conflitto e raggiungere un compromesso che consentisse la sopravvivenza della Confederazione, in difficoltà per le sue drammatiche carenze di rifornimenti. Lee puntò direttamente su Washington, dopo aver attraversato il fiume Potomac con una manovra aggirante da nord, ma a Gettysburg fu intercettato quasi casualmente dalla cavalleria del generale Buford, che trattenne i sudisti per il tempo necessario a Meade per accorrere con il grosso dell’armata. In tre giorni i due eserciti persero oltre cinquantamila uomini tra caduti, feriti e prigionieri; Lee fu costretto a ripiegare, spianando la strada alla definitiva vittoria del Nord. La guerra sarebbe tuttavia proseguita ancora due anni, con i sudisti che contesero palmo a palmo il suolo della Confederazione. Il personaggio Il generale Robert Edward Lee (1807-1870) era un brillante stratega, che seppe spesso imporsi anche disponendo di forze inferiori al nemico. Si era distinto nella guerra tra gli Usa e il Messico (1846-1848) e divenne poi comandante in capo dei Confederati; più che per superiorità militare, l’Unione lo sconfisse grazie alla schiacciante supremazia tecnica. Dopo la guerra fu ancora in prima linea, questa volta in abiti civili, nell’opera di riconciliazione nazionale. Il film Uno dei più lunghi film mai prodotti da Hollywood, il patinato e ambizioso Gettysburg (1993), di Ronald F. Maxwell con Martin Sheen, non ha sfondato tra il pubblico, nonostante il rigore storico, dai costumi agli armamenti. Quattro ore e un quarto sull’onda del successo del documentario The Civil War di Ken Burns (1990). VERDUN E SOMME Aperta il 1 luglio 1916 come manovra diversiva sul fronte occidentale, impegnato fin da febbraio nella battaglia di Verdun e paralizzato da un sostanziale stallo, quella della Somme fu la più sanguinosa battaglia della Grande guerra. Gli eserciti britannico e francese tentarono di spezzare le linee tedesche lungo un fronte di quaranta chilometri a nord e a sud del fiume Somme, nella Francia settentrionale, per attirare forze nemiche e alleggerire il fronte di Verdun. I durissimi scontri di luglio, tuttavia, non diedero gli esiti sperati, nonostante il debutto sul campo dei primi carri armati (i britannici Mark I) e anche questa battaglia, come quella di Verdun, si stabilizzò per mesi in una sanguinosa guerra di trincea, con cinquanta divisioni per parte. A concludere la battaglia non furono gli scontri sul campo, ma l’inverno; il 18 novembre 1918 si prese atto che più di tre mesi di lotta e di un milione di morti avevano portato all’Intesa un guadagno di appena otto chilometri. Il personaggio Il comandante delle forze britanniche, Douglas Haig (1861-1928), passò alla storia come il «Macellaio della Somme». È considerato un generale inetto, che esibiva fredda indifferenza per le vite dei suoi soldati inviandoli ripetutamente, a decine di migliaia, verso la morte contro le trincee nemiche. Tale atteggiamento era tuttavia assai comune, durante la Prima guerra mondiale; sul Carso, i fanti di Cadorna subirono identica sorte. La miopia di Haig trova conferma nella sua sentenza: «La mitragliatrice mai rimpiazzerà il cavallo come strumento di guerra», oltretuttto pronunciata anni dopo la fine del conflitto. Il film In occasione della battaglia fu realizzato il primo film di propaganda realizzato con riprese autentiche, realizzate sul campo: La battaglia della Somme (1916), di Geoffrey Malins e John McDowell. Il film attirò un’enorme pubblico in Inghilterra, dove si stima che furono venduti venti milioni di biglietti, tanto che è ancora oggi considerato il film britannico di maggior successo della storia del cinema. STALINGRADO La città di Stalingrado (oggi Volgograd), nella Russia meridionale, fu il punto estremo raggiunto dall’avanzata nazista durante la Seconda guerra mondiale. Devastanti bombardamenti aerei e di artiglieria consentirono, alla fine dell’agosto 1942, alla VI armata di Friedrich Paulus di entrare nella città; in ottobre Paulus era riuscito ad incunearsi fino al centro, ma l’assalto finale fallì. Scese così in campo il «Generale Inverno» e nella Stalingrado stretta dalla morsa del gelo i tedeschi rimasero chiusi in una sacca dai sovietici, guidati da Vasilij Cujkov e Georgij Zukov. In novembre il tentativo tedesco di rompere l’accerchiamento fallì a causa di Hilter in persona, che proibì a Paulus di ritirarsi per ricongiungersi con le accorrenti armate di von Manstein. Gli assediati continuarono a combattere uomo per uomo, anche all’arma bianca. Il 2 febbraio 1943 Paulus e i pochi superstiti si arresero, e da quel momento per i sovietici sarebbe iniziata la controffensiva che avrebbe avuto termine solo a Berlino. Il personaggio Il feldmaresciallo Friedrich Wilhelm Ernst Paulus (1890-1957) era uno di quei generali tedeschi privi di vincoli con l’aristocrazia militare prussiana (non era quindi «von», come pure è spesso ricordato) particolarmente cari a Hitler. Fu fedele al Führer fino all’ordine che gli impose di rimanere nella città assediata, ma poi non protrasse la resistenza fino all’ultimo uomo, come avrebbe voluto Hitler, e si consegnò ai russi. Durante la prigionia divenne una voce critica del regime nazista e fu testimone dell’accusa al processo di Norimberga. Liberato nel 1953, divenne ispettore di polizia in Ddr. Il film La pellicola di Jean-Jacques Annaud Il nemico alle porte (2001) ricostruisce le vicende del cecchino sovietico Vasilij Grigor’evic Zajcev, che a Stalingrado, tra il 10 novembre e il 17 dicembre 1942, uccise 225 nemici. Il film è incentrato sul contrasto a distanza tra Zajcev e il maggiore König, comandante della scuola tedesca per tiratori scelti inviato a Stalingrado proprio per contrastarlo. ALGERI A partire dal 1954 il Fronte di liberazione nazionale algerino avviò una guerriglia terroristica contro il dominio francese. Parigi non considerava l’Algeria una colonia ma parte integrante del proprio territorio, sia pure «oltremare», a causa del grande numero di francesi residenti; durante la guerra, all’esercito si affiancarono infatti anche i francesi locali, sia ufficialmente sia in organizzazioni autonome. La guerriglia del Fln conobbe una brusca battuta d’arresto nel 1957, quando Parigi inviò ad Algeri il generale Jacques Massu: tra il 7 gennaio e l’8 ottobre riuscì a riprendere il controllo della città, ricorrendo a tecniche contro-terroristiche, di rappresaglia e di tortura che suscitarono ampi dibattiti negli anni seguenti. La riconquista fu tuttavia soltanto provvisoria, e negli anni seguenti il Fln continuò a scontrarsi con l’esercito e le organizzazioni dei francesi d’Algeria, fino al riconoscimento dell’indipendenza da parte di De Gaulle nel 1962. Il personaggio Esperto di guerre coloniali e già al fianco di De Gaulle nelle Forze armate della Francia libera, Jacques Massu (19082002) si era distinto nella guerra d’Indocina, partecipando alla riconquista di Saigon. Promosso generale, fu inviato ad Algeri nel gennaio del 1957, per rispondere con il pugno di ferro a una situazione ormai sfuggita di controllo. Le aspre polemiche sui suoi metodi non gli impedirono di usufruire dell’amnistia generale concessa per i fatti d’Algeria e di proseguire la carriera, sia pure senza più ricoprire incarichi operativi, fino al grado di generale d’armata. Il film Il ricordo della guerra d’Algeria è indissolubilmente legato al film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri, uscito nel 1966 con un taglio documentaristico. A parte Jean Martin nei panni del Colonnello Mathieu (trasposizione del generale Massu), il cast era composto da attori non professionisti, tra i quali il capo del Fln Yacef Saâdi nei panni di se stesso. Il film, appogiato nel neonato governo algerino, suscitò un’ampia eco internazionale.