i dieci epici conflitti che hanno cambiato

I DIECI CONFLITTI CHE HANNO CAMBIATO
LA ROTTA DELLA STORIA
a cura di Edoardo Castagna
Avvenire
04/01/2009
Gli storici insegnano che la storia non si fa con i se, e i singoli episodi non sono quasi mai frutto del
caso, ma di cause profonde e remote, tali da rendere sostanzialmente irrealistici scenari differenti da
quelli che si sono di fatto verificati. Eppure, ci sono stati momenti, spesso battaglie che, proprio come
quella di Teutoburgo, hanno incarnato plasticamente la sterzata assunta dalla storia, veri spartiacque
nel cammino della civiltà umana.
Esattamente duemila anni fa, nelle gelide brume di Teutoburgo, si decise che la lingua del mondo
globalizzato sarebbe stato l’inglese. La battaglia del 9 d. C., nella quale le legioni di Varo furono annientate
dai Germani di Arminio, marcò infatti la fine dell’avanzata romana in Europa centrale. I Germani rimasero
indipendenti e qualche secolo dopo avrebbero alluvionato l’Europa latina, stravolgendone gli antichi
connotati e impostando quelli moderni, che ancora oggi dipingono il volto del Vecchio continente.
Teutoburgo fu quindi spartiacque, perché impedì che i Germani – e tra loro gli antenati degli inglesi –
facessero la fine dei Celti: vinti, sottomessi, e infine totalmente assimilati. Naturalmente gli storici mettono
in guardia: la storia non si fa con i se, e i singoli episodi non sono quasi mai frutto del caso, ma di cause
profonde e remote, tali da rendere sostanzialmente irrealistici scenari differenti da quelli che si sono
storicamente verificati. Vero: tuttavia, ci sono stati momenti, spesso battaglie che, proprio come quella di
Teutoburgo, riassumono plasticamente la svolta, la sterzata assunta dalla storia. Senza Teutoburgo – un senza
totalmente ipotetico, ma non per questo meno suggestivo – le aquile augustee avrebbero raggiunto, com’era
nei piani del primo imperatore, il fiume Elba, inghiottendo la caotica turba delle tribù germaniche.
Le cause remote e profonde ci spiegano che in fondo non sarebbe cambiato molto, e che da lì a poco
comunque orde di barbari avrebbero assediato il Limes, comunque l’Impero sarebbe crollato, e l’Europa
sarebbe sorta dalle sue ceneri. Soltanto, magari, senza il determinante apporto delle lingue e delle culture
germaniche; al loro posto, chissà, ci sarebbero stati gli Slavi, i popolosi e vicini ' barbari' al di là dell’Elba. E
oggi la lingua globale sarebbe una specie di polacco.
Teutoburgo arrestò l’espansione di Roma; Adrianopoli, nel 378, fu l’inizio della fine. Fino ad allora Roma
aveva reagito alla crescente pressione dei Germani con la politica dell’assimilazione: venivano accolti al di
qua del Limes, in aree poco popolate dove mantenevano le proprie tradizioni e margini di autogoverno, ma
riconoscevano l’autorità imperiale subendo, più o meno volontariamente, la romanizzazione. L’irruzione
degli Unni scompaginò questo schema sostanzialmente pacifico e a partire da Adrianopoli l’infiltrazione
divenne alluvione: uno scontro di civiltà sconvolse le strutture dell’impero che, complici le gravi debolezze
interne, finirono per soccombere. Così come avrebbe potuto soccombere anche l’Europa cristiana sorta
proprio dalla sintesi romano- barbarica: ma a Poitiers, nel 732, fu arrestata l’epica cavalcata musulmana che
in cent’anni aveva già fagocitato Medio Oriente, Nordafrica e Penisola iberica. Una sconfitta di Carlo
Martello avrebbe aperto scenari di massiccia presenza islamica in Europa occidentale, laddove invece prese
il via l’ascesa del regno franco che, da lì a poco con Carlo Magno, sarebbe divenuto il Sacro Romano
Impero, custode del cristianesimo. Identica minaccia, questa volta da Oriente, fu sventata nel 1571 a Lepanto
e nel 1683 a Vienna, dove prima la flotta e poi l’esercito turco furono ricacciati dall’unione dei principi
cristiani. Nel frattempo, i domini europei avevano fagocitato il Nuovo mondo: a Tenochtitlán, nel 1521, un
manipolo di spagnoli – aiutati da ampie defezioni in campo nemico – fu sufficiente a espugnare la capitale
dell’Impero azteco, spianando la strada a una conquista che ha definito i caratteri culturali e linguistici
dell’intero
continente.
Alba dell’età contemporanea, e al tempo stesso scontro di civiltà interno all’Europa tra Ancien régime e
ideali repubblicani francesi – sia pure rivisti e corretti in chiave imperiale da Napoleone – fu la battaglia di
Waterloo ( 1815). La sconfitta dei francesi aprì la stagione della Restaurazione e dell’ascesa dell’Inghilterra
della ARivoluzione industriale; una rivoluzione che contagiò presto anche i neonati Stati Uniti, e che fu una
delle cause della guerra di Secessione ( 1861- 1865).
Momento cruciale del conflitto fu la battaglia di Gettysburg ( 1863), con la sconfitta del pur brillante
generale Lee. La Confederazione agricola e schiavista crollò, quando una Gettysburg dall’esito ribaltato
avrebbe invece forse ritagliato in Nordamerica una specie di Sudafrica dell’apartheid, che chissà fino a
quando avrebbe mantenuto segregazionismo e razzismo di Stato.
In quella guerra « debuttò » la guerra di massa, quella che in Europa avrebbe mostrato il suo tragico volto
con i conflitti mondiali – anch’essi con due punti di svolta. La battaglia della Somme, nel 1916, durò mesi,
costò un milione di morti e sancì il fallimento dello sfondamento del fronte occidentale da parte del Secondo
Reich; stesso schema, ma sul fronte orientale, nel 1943 a Stalingrado, quando la sconfitta di Paulus diede il
via al collasso della Germania nazista, salvando mezza Europa dal totalitarismo. Soltanto mezza, perché il
dopoguerra vide ancora due civiltà contrapporsi, sui due versanti della Cortina di ferro; per fortuna – visto
che nel frattempo si era aperta l’era atomica – lo scontro non sfociò in guerra calda, se non nell’ «
esportazione » in aree remote ( Corea, Vietnam) dello scontro tra i due blocchi. I vincitori della vecchia
Europa si trovavano intanto a fare i conti con l’eredità coloniale, particolarmente sanguinosa per la Francia,
assai più restia della Gran Bretagna a mollare la presa: nella battaglia di Algeri ( 1957) Parigi si oppose con
ogni mezzo al terrorismo indipendentista algerino. Vinse, a costo di lacerazioni etiche che ancora oggi la
Francia fatica a smaltire, e fu una vittoria di Pirro: nel 1962 De Gaulle fu costretto a riconoscere
l’indipendenza dell’Algeria.
TEUTOBURGO
Tra il 4 e il 5 d. C. le conquiste del futuro imperatore Tiberio avevano convinto i Romani di aver ormai
sottomesso l’intera Germania, dall’Elba al Danubio. All’inizio del settembre del 9 d. C. Publio Quintilio
Varo, destinato a divenire il governatore civile della nuova provincia, stava per ritirarsi negli accampamenti
invernali, quando un’imboscata ideata da Arminio, capo dei Cherusci, lo attirò nella Selva di Teutoburgo,
nell’attuale Bassa Sassonia. Il 9 settembre, mentre le tre legioni di Varo – ventimila uomini – procedevano a
fatica, i Germani attaccarono in forze: Arminio aveva raccolto una vasta coalizione di tribù, in parte
composta da ex mercenari che erano stati al soldo di Roma e ne avevano imparato le tecniche di
combattimento. In tre giorni di combattimenti in mezzo alla pioggia e al vento caddero quasi tutti i legionari,
compreso lo stesso Varo, suicida. Roma rinunciò definitivamente alla conquista della Germania, salvo
qualche sporadica spedizione confermata anche da recenti ritrovamenti archeologici proprio nell’area di
Teutoburgo, e si dedicò al rafforzamento e alla difesa del Limes, dal Reno al Danubio.
Il personaggio
Ancora oggi tra i tedeschi Arminio ( Hermann; 17 a. C.- 21 d. C.) è un eroe nazionale, celebrato da numerose
statue sparse in tutta la Germania; la più colossale, presso Osnabrück, è alta oltre cinquanta metri. Il mito si
impossessò presto della sua figura, facendone il campione delle libertà germaniche contro l’invasore; è anche
possibile che abbia ispirato la figura di Sigfrido delle Saghe dei Nibelunghi.
Il libro
Una ricostruzione minuziosa della battaglia è contenuta in
Teutoburgo, 9 d. C. La grande disfatta delle legioni di Augusto, di Massimo Bocchiola e Marco Sartori (
Rizzoli).
Ricordando le reazioni attonite di Roma alla notizia del massacro, il volume rievoca anche il lamento di
Augusto, che vagava per il palazzo ripetendo « Vare, Vare redde me legiones » (' Varo, Varo, rendimi le
legioni').
ADRIANOPOLI
Nel mondo barbarico sconvolto dall’irruzione degli Unni, nel 376 i Goti implorarono ospitalità all’interno
dell’Impero romano. Fino ad allora erano rimasti accampati a ridosso del Danubio, frontiera settentrionale
dell’impero nella Penisola balcanica. Furono accolti, ma in un caos tale che portò presto i profughi alla
disperazione: abbandonati a loro stessi e costretti a subire l’umiliazione della consegna ai loro «soccorritori»
non solo delle armi, com’era logico, ma anche di tutti bambini come ostaggi, patirono la fame e le ruberie dei
funzionari romani. Dopo un’inversno di stenti si ribellarono, guidati dal visigoto Fritigerno, e misero a ferro
e fuoco con le loro scorrerie tutta la Penisola balcanica; nell’estate del 378 raggiunsero Adrianopoli, l’attuale
Edirne (Turchia europea), dove il 9 agosto furono attaccati dall’imperatore Valente, che era convinto di poter
supplire all’inferiorità numerica con la migliore organizzazione delle legioni.
Sottovalutò però la forza della cavalleria gota, che sancì la vittoria dei barbari; caddero oltre quarantamila
romani, tra i quali lo stesso imperatore, forse ferito a morte da una freccia o forse arso vivo nella capanna in
cui si era rifugiato. Si aprirono così le porte alle alluvioni barbariche del V e VI secolo, che travolsero
definitivamente l’Impero.
Il protagonista
L’imperatore romano Valente (328-378) fu il primo augusto a cadere sul campo, vittima di barbari. Ad
Adrianopoli pagò gravi errori tattici, come l’aver sottovalutato la forza dei nemici, acuiti dall’arroganza:
disprezzava i Germani, tanto da prendere la catastrofica decisione di non attendere i rinforzi del coimperatore Graziano, che stava accorrendo.
Il libro
Alla battaglia di Adrianopoli ha dedicato un saggio lo storico e scrittore Alessandro Barbero. 9 agosto 378. Il
giorno dei barbari (Laterza) sottolinea proprio il grande valore simbolico che, accanto alle pur gravi
conseguenze materiali, assunse la battaglia nel contesto dei rapporti tra Romani e Germani.
POITIERS
Conquistata gran parte della Penisola iberica, gli Arabi avevano preso a compiere incursioni al di qua dei
Pirenei: nel 732 l’emiro al-Ghafiqi penetrò in Aquitania, dove prese Bordeaux e la saccheggiò, infierendo in
particolare contro le chiese – al-Ghafiqi apparteneva a una setta di estremisti fanatici. Investì poi Poitiers,
dove però era sceso ad affrontarlo il maggiordomo di palazzo Carlo Martello, 'primo ministro' che aveva di
fatto esautorato i re merovingi dei Franchi. La battaglia, combattuta il 10 o il 17 ottobre, vide per una
settimana intera i due schieramenti fronteggiarsi senza combattere, per poi divampare improvvisamente in
una mischia scatenata dall’assalto della cavalleria berbera. I musulmani erano soliti provocare il nemico con
finte ritirate, per attrarlo in disordine verso il grosso del loro esercito, ma Carlo Martello seppe prevedere la
mossa e far tenere le posizioni ai suoi, che decimarono i cavalieri e solo alla fine mossero contro la più
debole fanteria nemica. Le perdite furono elevate da entrambe le parti, ma gli Arabi furono costretti a
ripiegare orfani del loro emiro, caduto in battaglia.
Il personaggio
Con il nomignolo derivato da un’arma dell’epoca – il «martello d’arme», sostanzialmente una mazza di ferro
– Carlo Martello (685-741) fu il fondatore della dinastia dei Carolingi, che con suo nipote Carlo Magno
avrebbe «rifondato» l’Impero romano, questa volta anche «Sacro». Il valore soprattutto simbolico della
battaglia di Poitiers, dove arrestò la marea musulmana che minacciava di travolgere l’Europa, fece di lui un
personaggio leggendario, tanto da offuscare perfino il suo fondamentale ruolo nel gettare le fondamenta
dell’Impero carolingio.
La canzone
La parodistica Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, composta da Fabrizio De André e Paolo
Villaggio nel 1963, reinventò il componimento poetico della pastorella, di ascendenze provenzali, con un
linguaggio volutamente aulico, sottolineato da una musica buffamente solenne ma con un testo
goliardicamente ironico.
TENOCHTITLÁN
Sbarcati sulle coste del Messico nel 1519, i conquistadores spagnoli di Hernán Cortés raggiunsero
rapidamente la capitale dei domini aztechi, Tenochtitlán, e imprigionarono l’imperatore Montezuma II.
Presto gli Aztechi si ribellarono e scacciarono Cortés; il condottiero, con appena un manipolo di fanti e
sedici cannoni ma appoggiato dai ribelli Tlaxcaltechi, strinse d’assedio Tenochtitlán. La città resistette dal 26
maggio al 16 agosto 1521, guidata dal nuovo imperatore Cuauhtémoc, prima di cadere vinta dalla fame, dalla
sete e dalle enormemente più efficaci armi nemiche. Gli Aztechi, terrorizzati dall’equipaggiamento bellico
mai visto prima schierato dagli spagnoli – cavalli, armi da fuoco, galeoni – ricorsero anche a diversi sacrifici
umani per invocare l’aiuto degli dei, ma le loro perdite furono immani: si calcola che nell’assedio siano periti
centomila guerrieri e altrettanti civili. L’inevitabile resa spianò la strada alla conquista spagnola dell’intera
America centro- settentrionale, che divenne così di religione cattolica e di lingua castigliana.
Il personaggio
Cuauhtémoc ( 1496- 1525) fu l’ultimo imperatore azteco. Dopo aver condotto la difesa di Tenochtitlán cercò
scampo sull’isolotto di Tlatelolco, ma la barca che trasportava la famiglia reale fu intercettata dagli spagnoli
e Cuauhtémoc fu condotto dinanzi a Cortés, al quale disse: « Ho fatto tutto ciò che era in mio potere ed in
mio dovere per difendere la città. Prendi il pugnale che hai nella cinta e con quello uccidimi » . Il sovrano fu
però inizialmente risparmiato e torturato affinché rivelasse dov’era nascosto il tesoro reale; fu comunque
impiccato qualche anno dopo.
L’opera
È ambientata durante l’assedio di Tenochtitlán l’opera in tre atti di Antonio Vivaldi Motezuma, su libretto di
Girolamo Alvise Giusti ( 1733). È una vicenda di intrighi e di suggestioni esotiche, con un intreccio
romantico tra la figlia di Motezuma ( erronea trascrizione di Montezuma) e un ufficiale spagnolo.
A Poitiers, nel 732, venne arrestata la marea islamica che investiva l’Europa da ovest; a Lepanto e poi ancora
a Vienna, mille anni dopo, quella che l’aggrediva da est. Due tappe di uno «scontro di civiltà» secolare, fatto
anche di scambi e influenze reciproche, che avrebbe potuto avere esiti radicalmente differenti. Allo stesso
modo, la caduta di Tenochtitlán segnò il destino dell’America, la battaglia di Gettysburg quello degli Stati
Uniti, la Somme e Stalingrado le due guerre mondiali... Fino ad Algeri, episodio chiave della
decolonizzazione nel ’900.
LEPANTO E VIENNA
È racchiuso tra due tappe, distanti l’una dall’altra più di un secolo, il braccio di ferro tra l’Europa cristiana e
l’Impero ottomano islamico nell’età moderna. Prima sul mare, a Lepanto nel golfo di Corinto, nel 1571: la
coalizione cristiana, capitanata da veneziani e spagnoli, per la prima volta ebbe la meglio in uno scontro
navale contro una flotta turca. Uno scontro epico, il 7 ottobre, che portò alla perdita di trentamila uomini e
oltre duecento navi con la mezzaluna; come Teutoburgo, fu prima di tutto la fine di un mito d’invincibilità.
Ma l’Europa divisa non seppe sfruttare appieno la vittoria, e i turchi ripresero preso a premere sul suo fianco
orientale. Fino ad arrivare a cingere d’assedio Vienna, la capitale del cattolicissimo Impero asburgico. L’11 e
il 12 settembre 1683 la Lega santa condotta da Giovanni III di Polonia riuscì con una battaglia campale a
spezzare l’assedio che stringeva Vienna fin da luglio. Fattore decisivo fu la cavalleria polacca, tremila ussari
condotti da Giovanni III in persona che, scendendo in campo nel tardo pomeriggio, sbaragliò definitivamente
i turchi.
Il personaggio
La Lega santa fu raccolta da padre Marco d’Aviano (1631-1699) su incarico di papa Innocenzo XI. Faticò
molto a superare le rivalità dei principi europei – in particolare tra Giovanni di Polonia e Leopoldo d’Austria
–, ma alla fine riuscì nel suo obiettivo. Fu presente anche sul campo della battaglia di Vienna, che anzi si aprì
proprio con una messa celebrata dal cappuccino. È stato beatificato il 27 aprile 2003.
Il quadro
La battaglia di Lepanto colpì immediatamente i contemporanei, che ne colsero soprattutto il carattere di
scontro di civiltà e di fede tra cristianesimo e islam e videro nella vittoria della Lega santa un segno divino.
Così già nel 1571 il Veronese dipinse un’Allegoria della battaglia di Lepanto (Venezia, Gallerie
dell’Accademia), con Cristo e i santi che dal cielo illuminano la flotta cristiana vittoriosa.
WATERLOO
Fuggito dall’Elba e tornato alla guida dei francesi per i Cento giorni, Napoleone scese in battaglia per
difendere la riconquistata corona a Waterloo il 18 giugno 1815. Presso Mont-Saint-Jean, non lontano da
Bruxelles, centoventimila francesi affrontarono circa centosessantamila soldati di una vasta coalizione, che
andava dall’Inghilterra alla Prussia.
Quella volta il genio di Napoleone non fu sufficiente a pareggiare la superiorità numerica del nemico, a sua
volta guidato da un abile stratega, l’inglese Wellington. Napoleone compì forse più errori in quella giornata
che in tutta la sua folgorante carriera militare e si lasciò stringere tra le due colonne nemiche, così da dover
combattere contemporaneamente contro gli inglesi e contro i prussiani. Fallito anche l’ultimo attacco della
Guardia imperiale – che lanciò il celebre grido: «La Vecchia Guardia muore, ma non si arrende!» –
Napoleone dovette arrendersi, per essere immediatamente inviato in esilio a Sant’Elena.
Il personaggio
Waterloo sancì definitivamente la gloria di Arthur Wellesley, primo duca di Wellington (1769-1852), che
per contrastare l’ultimo assalto dell’imperatore corso abbandonò in fretta e furia i tavoli del Congresso di
Vienna, dove si disegnava l’Europa post-napoleonica. Dopo la battaglia si oppose fermamente ai propositi di
vendetta dei prussiani, che volevano Napoleone condannato a morte. Proseguì poi la sua carriera politica,
ricoprendo per due volte la carica di primo ministro britannico.
La canzone
Divenuta la resa incondizionata per antonomasia, Waterloo è stata ripetutamente citata in ogni arte. La
battaglia fu ricostruita da Sergej Bondarcuk nel kolossal italo-sovietico Waterloo (1970, Mario Soldati cosceneggiatore), con Rod Steiger nei panni di Napoleone, Christopher Plummer in quelli di Wellington e
Orson Welles in quelli di Luigi XVIII. Ma Waterloo è anche il titolo di una canzone e di un album degli
Abba, che nel 1974 lanciarono il gruppo svedese raccontando di una ragazza che si «arrende», allo stesso
modo di Napoleone, all’amore.
GETTYSBURG
Tra l’1 e il 3 luglio 1863, ottantamila confederati sudisti, guidati dal generale Robert Lee, attaccarono i
centodiecimila nordisti al comando del maggiore generale George Meade presso Gettysburg, in
Pennsylvania. L’offensiva unionista guidata più a ovest da Ulysses Grant lungo il Mississippi stava per
tagliare in due la Confederazione, così il generale Lee tentò una mossa a sorpresa, quasi disperata, per
ribaltare le sorti del conflitto e raggiungere un compromesso che consentisse la sopravvivenza della
Confederazione, in difficoltà per le sue drammatiche carenze di rifornimenti. Lee puntò direttamente su
Washington, dopo aver attraversato il fiume Potomac con una manovra aggirante da nord, ma a Gettysburg
fu intercettato quasi casualmente dalla cavalleria del generale Buford, che trattenne i sudisti per il tempo
necessario a Meade per accorrere con il grosso dell’armata. In tre giorni i due eserciti persero oltre
cinquantamila uomini tra caduti, feriti e prigionieri; Lee fu costretto a ripiegare, spianando la strada alla
definitiva vittoria del Nord. La guerra sarebbe tuttavia proseguita ancora due anni, con i sudisti che contesero
palmo a palmo il suolo della Confederazione.
Il personaggio
Il generale Robert Edward Lee (1807-1870) era un brillante stratega, che seppe spesso imporsi anche
disponendo di forze inferiori al nemico. Si era distinto nella guerra tra gli Usa e il Messico (1846-1848) e
divenne poi comandante in capo dei Confederati; più che per superiorità militare, l’Unione lo sconfisse
grazie alla schiacciante supremazia tecnica. Dopo la guerra fu ancora in prima linea, questa volta in abiti
civili, nell’opera di riconciliazione nazionale.
Il film
Uno dei più lunghi film mai prodotti da Hollywood, il patinato e ambizioso Gettysburg
(1993), di Ronald F. Maxwell con Martin Sheen, non ha sfondato tra il pubblico, nonostante il rigore storico,
dai costumi agli armamenti. Quattro ore e un quarto sull’onda del successo del documentario The Civil War
di Ken Burns (1990).
VERDUN E SOMME
Aperta il 1 luglio 1916 come manovra diversiva sul fronte occidentale, impegnato fin da febbraio nella
battaglia di Verdun e paralizzato da un sostanziale stallo, quella della Somme fu la più sanguinosa battaglia
della Grande guerra. Gli eserciti britannico e francese tentarono di spezzare le linee tedesche lungo un fronte
di quaranta chilometri a nord e a sud del fiume Somme, nella Francia settentrionale, per attirare forze
nemiche e alleggerire il fronte di Verdun. I durissimi scontri di luglio, tuttavia, non diedero gli esiti sperati,
nonostante il debutto sul campo dei primi carri armati (i britannici Mark I) e anche questa battaglia, come
quella di Verdun, si stabilizzò per mesi in una sanguinosa guerra di trincea, con cinquanta divisioni per parte.
A concludere la battaglia non furono gli scontri sul campo, ma l’inverno; il 18 novembre 1918 si prese atto
che più di tre mesi di lotta e di un milione di morti avevano portato all’Intesa un guadagno di appena otto
chilometri.
Il personaggio
Il comandante delle forze britanniche, Douglas Haig (1861-1928), passò alla storia come il «Macellaio della
Somme». È considerato un generale inetto, che esibiva fredda indifferenza per le vite dei suoi soldati
inviandoli ripetutamente, a decine di migliaia, verso la morte contro le trincee nemiche. Tale atteggiamento
era tuttavia assai comune, durante la Prima guerra mondiale; sul Carso, i fanti di Cadorna subirono identica
sorte. La miopia di Haig trova conferma nella sua sentenza: «La mitragliatrice mai rimpiazzerà il cavallo
come strumento di guerra», oltretuttto pronunciata anni dopo la fine del conflitto.
Il film
In occasione della battaglia fu realizzato il primo film di propaganda realizzato con riprese autentiche,
realizzate sul campo: La battaglia della Somme (1916), di Geoffrey Malins e John McDowell. Il film attirò
un’enorme pubblico in Inghilterra, dove si stima che furono venduti venti milioni di biglietti, tanto che è
ancora oggi considerato il film britannico di maggior successo della storia del cinema.
STALINGRADO
La città di Stalingrado (oggi Volgograd), nella Russia meridionale, fu il punto estremo raggiunto
dall’avanzata nazista durante la Seconda guerra mondiale.
Devastanti bombardamenti aerei e di artiglieria consentirono, alla fine dell’agosto 1942, alla VI armata di
Friedrich Paulus di entrare nella città; in ottobre Paulus era riuscito ad incunearsi fino al centro, ma l’assalto
finale fallì. Scese così in campo il «Generale Inverno» e nella Stalingrado stretta dalla morsa del gelo i
tedeschi rimasero chiusi in una sacca dai sovietici, guidati da Vasilij Cujkov e Georgij Zukov. In novembre il
tentativo tedesco di rompere l’accerchiamento fallì a causa di Hilter in persona, che proibì a Paulus di
ritirarsi per ricongiungersi con le accorrenti armate di von Manstein. Gli assediati continuarono a combattere
uomo per uomo, anche all’arma bianca.
Il 2 febbraio 1943 Paulus e i pochi superstiti si arresero, e da quel momento per i sovietici sarebbe iniziata la
controffensiva che avrebbe avuto termine solo a Berlino.
Il personaggio
Il feldmaresciallo Friedrich Wilhelm Ernst Paulus (1890-1957) era uno di quei generali tedeschi privi di
vincoli con l’aristocrazia militare prussiana (non era quindi «von», come pure è spesso ricordato)
particolarmente cari a Hitler. Fu fedele al Führer fino all’ordine che gli impose di rimanere nella città
assediata, ma poi non protrasse la resistenza fino all’ultimo uomo, come avrebbe voluto Hitler, e si consegnò
ai russi. Durante la prigionia divenne una voce critica del regime nazista e fu testimone dell’accusa al
processo di Norimberga. Liberato nel 1953, divenne ispettore di polizia in Ddr.
Il film
La pellicola di Jean-Jacques Annaud Il nemico alle porte (2001) ricostruisce le vicende del cecchino
sovietico Vasilij Grigor’evic Zajcev, che a Stalingrado, tra il 10 novembre e il 17 dicembre 1942, uccise 225
nemici. Il film è incentrato sul contrasto a distanza tra Zajcev e il maggiore König, comandante della scuola
tedesca per tiratori scelti inviato a Stalingrado proprio per contrastarlo.
ALGERI
A partire dal 1954 il Fronte di liberazione nazionale algerino avviò una guerriglia terroristica contro il
dominio francese.
Parigi non considerava l’Algeria una colonia ma parte integrante del proprio territorio, sia pure «oltremare»,
a causa del grande numero di francesi residenti; durante la guerra, all’esercito si affiancarono infatti anche i
francesi locali, sia ufficialmente sia in organizzazioni autonome. La guerriglia del Fln conobbe una brusca
battuta d’arresto nel 1957, quando Parigi inviò ad Algeri il generale Jacques Massu: tra il 7 gennaio e l’8
ottobre riuscì a riprendere il controllo della città, ricorrendo a tecniche contro-terroristiche, di rappresaglia e
di tortura che suscitarono ampi dibattiti negli anni seguenti. La riconquista fu tuttavia soltanto provvisoria, e
negli anni seguenti il Fln continuò a scontrarsi con l’esercito e le organizzazioni dei francesi d’Algeria, fino
al riconoscimento dell’indipendenza da parte di De Gaulle nel 1962.
Il personaggio
Esperto di guerre coloniali e già al fianco di De Gaulle nelle Forze armate della Francia libera, Jacques
Massu (19082002) si era distinto nella guerra d’Indocina, partecipando alla riconquista di Saigon. Promosso
generale, fu inviato ad Algeri nel gennaio del 1957, per rispondere con il pugno di ferro a una situazione
ormai sfuggita di controllo. Le aspre polemiche sui suoi metodi non gli impedirono di usufruire dell’amnistia
generale concessa per i fatti d’Algeria e di proseguire la carriera, sia pure senza più ricoprire incarichi
operativi, fino al grado di generale d’armata.
Il film
Il ricordo della guerra d’Algeria è indissolubilmente legato al film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri,
uscito nel 1966 con un taglio documentaristico. A parte Jean Martin nei panni del Colonnello Mathieu
(trasposizione del generale Massu), il cast era composto da attori non professionisti, tra i quali il capo del Fln
Yacef Saâdi nei panni di se stesso. Il film, appogiato nel neonato governo algerino, suscitò un’ampia eco
internazionale.