Uditori della Parola - Liceo Classico Psicopedagogico Cesare

Scheda del libro “Uditori della Parola” di Karl Rahner, Ed. Borla, Roma, 2006
Il testo raccoglie un ciclo di lezioni sul fondamento di una filosofia della religione
tenuto da un giovanissimo Karl Rahner (1904-1984) nell’estate del 1937 alle
settimane universitarie di Salisburgo.
Pubblicato in volume in piena guerra – nel 1941 – il testo fu successivamente
rielaborato e semplificato dall’allievo Johannes Baptist Metz nel 1963.
Il titolo – scelto dallo stesso Rahner – Horer des Wortes sintetizza efficacemente
l’intero contenuto dell’opera, al punto da essere diventato, come scrive Metz, “più
famoso del suo contenuto”.
Alfredo Marranzini S.J. nella presentazione al libo scrive: “L’espressione biblica,
che designa la posizione dell’uomo di fronte alla rivelazione di Dio, è immessa in
una sintesi filosofico-religiosa, fedele al pensiero tomistico e attenta ai principi della
filosofia contemporanea” (p. 7). Il Metz, da parte sua, nell’introduzione alla nuova
edizione afferma: “ L’uomo viene qui concepito come l’ente che si realizza solo nella
storia, mentre questa a sua volta attua la sua essenza solo attraverso l’uomo. Per ciò
egli durante il corso della storia deve stare in ascolto per incontrarvi quella
“parola” che illumina e fonda l’esistenza e alla quale la ragione umana, che ha per
oggetto l’essere, è di sua natura aperta nella sua problematicità” (p. 24).
Capitolo I : Impostazione del problema
A) La FdR come ontologia della potentia oboedientialis di fronte alla Rivelazione
Domandandosi quale sia il rapporto tra la fdr come “scienza” e la teologia, Rahner
pone il problema di fondo (che chiama teoretico-scientifico) di come due scienze
particolari siano confrontabili tra di loro solo facendo riferimento all’unico principio
fondante di tutto il conoscere umano. Questo principio fondante è – per R. – la
metafisica: “il rapporto tra due scienze è una questione metafisica” (p. 31). E
ancora: “ Il problema teoretico-scientifico del rapporto tra due scienze è in definitiva
quello metafisico dell’unico principio originario, che determina in partenza il loro
oggetto formale e la loro necessità, ponendole così in un certo rapporto” (p. 32). Ma
attenzione a non dimenticarsi che “un problema teoretico-scientifico non è una
curiosità innocua su una qualunque realtà, ma un problema esistenziale dell’uomo
stesso” (p. 32).
Discendendo da questa premessa alla questione del rapporto tra fdr e Teologia, R. fa
subito cenno ad una duplice difficoltà di impostazione del problema.
1^ difficoltà:
La fdr è “la conoscenza che l’uomo può raggiungere circa il suo esatto rapporto con
Dio, l’Assoluto” (p. 33), ma Dio “non è una realtà che possa essere in se stessa intuita
e sperimentata immediatamente dall’uomo”, anzi, per dirla con san Tommaso, “Dio è
dato sempre solo come principium dell’ente e della sua conoscenza, mai come
subiectum di una vera scienza puramente umana” (p. 34). Quanto poi alla teologia,
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essa “nella sua natura originaria non è una scienza costituita dagli uomini… ma un
discorso fatto da Dio stesso all’uomo, sia pure in termini umani” (p. 34). Allora?
“Il nostro problema verte in partenza sull’uomo, non in quanto vero teologo, ma in
quanto essere capace per sua costituzione di diventare teologo, qualora il messaggio
libero e imprevedibile di Dio giunga a lui e gli sia concessa anche, attraverso la
grazia e la sua “manifestazione” storica nella parola, la piena capacità di ascoltare”
(p. 36). Il cammino scelto da R. è ulteriormente precisato poco dopo: “Partendo dalle
conoscenze naturali dell’uomo non deduciamo la sua capacità di una fede
soprannaturale, ciò che non si può provare dall’essenza della teologia, ma
analizziamo la sua idoneità ad ascoltare la rivelazione di Dio, idoneità che costituisce
fondamentalmente il suo essere e sviluppa in pieno la sua essenza” (p. 37).
2^ difficoltà:
Come è possibile cercare l’unico principio metafisico che fonda tutto il conoscere
umano? In particolare, la nostra pretesa di voler vedere fdr e teologia costituite
originariamente da un unico principio “sembra a priori assurda” (p. 39).
La soluzione di tale difficoltà appare possibile a patto che la fdr non pretenda di
fondare una religione autosufficiente che debba essere in un secondo tempo inverata,
completata od eventualmente annullata dalla teologia, ma si limiti ad “indirizzare
l’uomo verso un’ eventuale rivelazione di Dio e, precisamente, a una rivelazione
storica” (p. 40). Infatti la metafisica non può “arrogarsi il diritto di decidere
aprioristicamente il modo in cui questo Essere libero , sconosciuto e personale
intenda venire a contatto con l’uomo” o quello di “stabilire come e con quale titolo
questo Dio possa e voglia rivelarsi, come intenda fondare e fissare i rapporti tra sé e
gli uomini e quindi precisare cosa debba essere la religione” (p. 40).
La vera metafisica sa che “l’uomo è un essere essenzialmente storico, che deve stare
in ascolto di un’eventuale rivelazione di Dio” (p. 41). Ne consegue allora che:
- La fdr diventa “il fondamento dell’unica teologia possibile a partire dal
basso” (p. 41).
- Il rapporto tra fdr e teologia diventa quello di un’antropologia metafisica
fondamentale che deve cogliere la natura dell’uomo sotto un duplice aspetto:
l’uomo come spirito e l’uomo come essere storico (pp. 41-42).
B) Problematiche analoghe
1) Confrontando questa tematica con il procedimento tradizionale della teologia
cattolica fondamentale, appare subito chiara l’insufficiente antropologia della storia
sottesa a quest’ultima.
Infatti, da un punto di vista ontologico, la teologia fondamentale tradizionale parte
dal presupposto che sia già stato provato dalla metafisica speciale (teodicea) il fatto
della esistenza di un Dio personale e trascendente e della sua possibilità di rivelarsi; e
continua assumendosi l’onere di provare che “ tale rivelazione è di fatto avvenuta in
Cristo e continua ad essere promulgata e conservata integra dal magistero della
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Chiesa cattolica” (p. 44). Il riconoscimento di essa da parte dell’uomo avverrebbe in
forza del “dovere universalissimo dell’obbedienza a Dio” (p.46).
In realtà, in questo modo di procedere “si tratta solo molto poco o per nulla della
giustificazione razionale della fede” (p. 44) e si spiega “solo in maniera molto
inadeguata come l’uomo da una parte, in forza della sua costituzione essenziale e
della sua natura spirituale, possa essere capace di ricevere tale allargamento delle sue
conoscenze, e dall’altra come queste conoscenze rivelate non siano già
fondamentalmente un compimento necessario della sua costituzione essenziale” (p.
45). Il punto da chiarire è invece proprio “perché l’uomo in forza della sua
costituzione essenziale può ricevere tale contenuto, che per sé gli è inaccessibile” (p.
46). Se si parte dall’uomo si scopre che “il dovere di stare in ascolto e di tenere
conto di un’eventuale rivelazione, è ontologicamente anteriore al suo effettivo
verificarsi” (p. 46).
In secondo luogo, dal punto di vista storico, la teologia fondamentale tradizionale non
spiega sufficientemente l’orientamento costitutivo dell’uomo verso la storicità, cioè il
dovere che ha l’uomo per sua natura di occuparsi della verità storica (p. 47).
Si può invece rispondere all’obiezione illuministica e liberale sull’indeducibilità di
verità etiche e metafisiche da parte di contenuti storici, solo dimostrando che
“l’essere umano non può prescindere da un fondamento storico”. Ne consegue che
una vera teologia fondamentale non può prescindere da “una concezione metafisica
dell’uomo quale essere che nella sua storia sta in ascolto di una possibile rivelazione
di Dio” (p. 48). Insomma: il punto di partenza è la potentia oboedientialis
dell’uomo rispetto all’ascolto di una possibile locuzione di Dio (p. 49).
2) Un secondo punto da chiarire riguarda il tema della cosiddetta filosofia cristiana.
Questa è stata così intesa (appunto cristiana) in forza di una sorta di battesimo a
posteriori da parte della teologia, come per una fecondazione resa possibile dai
problemi postile dalla teologia. Per R. invece “la filosofia è cristiana in senso
autentico e originario, quando costituisce con mezzi propri se stessa e quindi l’uomo
in quanto battezzabile e giunge da se stessa ad un atteggiamento in cui si dispone a
essere superata dalla teologia fondata eventualmente da Dio” (p. 51).
In conclusione: “solo quando si concepisce la filosofia anche come ontologia di una
potentia oboedentialis rispetto alla rivelazione, si coglie insieme il suo carattere
cristiano, cioè la sua vera autonomia e la sua relatività originaria alla teologia” (pp.
51-52).
3) L’ultimo confronto riguarda due tipi di fdr di stampo protestante. Per alcuni, il
contenuto della religione non è altro che “l’oggettivazione dell’esperienza religiosa
soggettiva” frutto di un originario senso di dipendenza interiore e di valori
soggettivamente sperimentati, per cui Dio diventa “l’Essere che dà l’intimo
significato e rende possibile il mondo e l’essere storico dell’uomo e nulla più”.
Per altri, il contenuto della religione è “la parola del Dio vivente, che pone in crisi
tutto ciò che è finito e umano, ed è assolutamente inattesa e inattendibile”, per cui
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Dio diventa “il termine opposto e dialetticamente necessario di ciò che nell’uomo c’è
di radicalmente antidivino” (p. 53).
Contro queste posizioni R. si propone di dimostrare: a) che la possibilità che ha Dio
di rivelarsi all’uomo sia più che la semplice oggettivazione dell’aspirazione religiosa
dell’uomo stesso; b) che l’uomo, pur costituito nel suo limite ontologico, sia capace
di accogliere la rivelazione di Dio, pur senza poterne prevedere il contenuto e senza
trasformarla in un inevitabile correlato oggettivo dell’umana esistenza.
La considerazione sui rapporti tra fdr e teologia che chiude il capitolo è
particolarmente interessante e la riportiamo testualmente:
“Una fdr, intesa nel suo giusto significato, non lede neppure minimamente
l’autonomia della teologia, anzi al contrario la sua mancanza porta la teologia
proprio a diventare una filosofia teologicamente sofisticata e in fondo falsa. Quando
la teologia diventa falsamente tanto “autonoma” da non aver più rapporto alcuno
con la metafisica e con l’essenza dell’uomo che in essa si scopre, si corre il rischio di
farle perdere, almeno conseguenzialmente, ogni significato nei riguardi dell’uomo”
(pp. 54-55).
Capitolo II: L’apertura dell’essere e dell’uomo
A) La trasparenza dell’essere
La metafisica è la “conoscenza metodica e riflessa di ciò che si è sempre saputo” (p.
59). Essa ci dice che “l’essere umano è capace di ascoltare il messaggio di Dio e
ricevere, mediante la grazia, la luce e l’eterna vita che si celano nelle profondità del
Dio vivente” (p. 60).
Sulla scorta della metafisica di Tommaso d’Aquino, ma con le opportune integrazioni
ricavate dalla contemporanea analisi metafisica dell’essere umano, affrontiamo “il
problema del significato dell’essere di ciascuna realtà esistente, quale viene posto
necessariamente dall’uomo” (p. 63). Tale problema ha tre caratteristiche: a) è un
problema dell’essere in genere; b) lo si deve porre necessariamente; c) tenendo conto
della differenza tra essere ed ente (p. 65).
La prima proposizione ontologica da cui partire è che “l’essenza dell’essere è
conoscere ed essere conosciuto in un’ unità originaria che noi vogliamo chiamare
coscienza o trasparenza (soggettività/conoscenza) dell’essere in ogni ente” (p. 66). Si
può anche dire che, in quanto l’essenza dell’uomo è l’assoluta apertura all’essere,
allora l’uomo è spirito. La conoscibilità è pertanto una proprietà ontologica
dell’ente: “essere e conoscere costituiscono un’unità originaria” (p. 68). La coscienza
di sé è l’espressione di questa unità originaria: “l’essere dell’ente è la sua
autotrasparenza” (p. 69).
B) L’analogia del “possesso dell’essere”
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Questa unità originaria di conoscere e di essere naturalmente “non ha niente a che
fare con un panteismo o con un idealismo deteriore di ogni tipo” (p. 75). Infatti,
l’uomo indaga l’essere, quindi come soggetto interrogante non può coincidere con ciò
su cui indaga (l’essere). Ciò non toglie tuttavia che l’ente inquirente deve pur
possedere un essere, secondo una determinata gradualità.
La conoscenza dell’essere da parte dell’ente (il suo possesso) sarà perciò graduale e
proporzionata. L’uomo “non è coscienza assoluta, ma uno spirito finito, proprio
perché avendo una “coscienza trascendentale” ha bisogno della metafisica” (p. 81).
Conclusione: “L’unità suprema di essere e conoscere è il presupposto ultimo perché
Dio, nonostante la “sua trascendenza”, comunichi con l’uomo attraverso il discorso e
la parola” (p. 82).
C) L’uomo come spirito
“La rivelazione, nel caso che sia possibile, presuppone in secondo luogo che l’uomo
debba essere aperto a ricevere la comunicazione che l’Essere assoluto fa di se stesso
attraverso la sua parola luminosa” (p. 83).
L’uomo non si identifica con ciò che lo circonda, ma rimane soggetto di fronte a
degli oggetti. San Tommaso designa questa capacità come reditio completa subiecti
in seipsum. La soggettività si manifesta anzitutto nel giudizio, possibile grazie alla
capacità di astrazione della nostra intelligenza, quindi nella libertà.
La capacità di astrazione – che nel linguaggio tomistico si chiama anche intellectus
agens – richiama il concetto di percezione previa che è “la capacità che ha per sua
natura lo spirito umano di protendersi dinamicamente verso l’illimitata vastità di tutti
gli oggetti possibili” (p. 90). Essa è anche definibile come “presa di coscienza
dell’orizzonte nell’ambito del quale l’uomo conosce il singolo oggetto”. Grazie a
questa capacità l’uomo coglie non soltanto l’essere (che è appunto l’oggetto formale
della percezione previa), ma anche Dio come essere assoluto “in quanto si afferma
l’esse absolutum sempre e fondamentalmente insieme con la vastità per sé infinita
della percezione previa”. Infatti “noi diciamo e pensiamo oggettivamente che l’
affermazione della finitezza reale di un ente postula come condizione della sua
possibilità l’affermazione dell’esistenza di un esse absolutum” (p. 95).
In conseguenza di ciò possiamo dire che “l’uomo è spirituale, cioè vive la sua vita in
una continua tensione verso l’Assoluto, in un’apertura a Dio”. Egli è uomo “solo
perché è in cammino verso Dio, lo sappia o no espressamente, lo voglia o no. Egli è
sempre l’essere finito totalmente aperto a Dio” (pp. 97-98).
Conclusione: “La trascendenza della conoscenza dell’essere in genere, che è
necessariamente tematizzata e costituisce essenzialmente l’uomo in quanto spirito, è
la prima affermazione di un’antropologia metafisica, tendente a una fdr capace di
fondare la possibilità di una rivelazione orale… L’essere è illuminato, è logos e può
essere rivelato mediante la parola…L’uomo è però dotato dello spirito, che lo plasma
interamente, perciò ha l’orecchio teso a qualunque parola che possa venire dalla
bocca dell’eterno” (pp. 98-99).
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Cap. III: La misteriosità dell’essere
A) Impostazione del problema e preliminari della soluzione
Bisogna ora contrastare una possibile obiezione. Questa: se l’uomo è l’essere
spirituale totalmente aperto all’essere in genere e capace con la sua conoscenza di
essere, come dice la Scolastica, quodammodo omnia, la rivelazione non potrebbe
essere allora niente altro che la “necessaria e immanente evoluzione dell’apertura
dell’essere, che a priori ci sarebbe stata sempre nello spirito in quanto tale”?
Insomma: “La rivelazione sarebbe così niente altro che la spiritualizzazione
progressiva dell’uomo secondo la sua “naturale” legge interna. Dio stesso sarebbe per
sé l’essere che è sempre aperto e rivelatore. La rivelazione non potrebbe essere l’atto
libero di Dio, perché la sua luce si è sempre irradiata e ha brillato in ogni uomo. La
“luce inaccessibile” sarebbe una contraddizione, perché l’essere luminoso si diffonde
da sé necessariamente dovunque ci sia uno spazio che glielo permetta” (pp. 105-106).
L’antropologia metafisica si trova quindi nella necessità di dover spiegare: a) perché
l’essere è nascosto nonostante la sua luminosità; b) perché la natura dell’uomo,
nonostante la sua trascendenza sull’essere e la sua autotrasparenza, non è in grado di
anticipare il contenuto di una possibile rivelazione, libera e personale, di Dio.
A questo punto R. si addentra in una profonda (anche se spesso – ahimè – oscura e
difficile) discussione sulle modalità naturali di accesso al mistero divino,
contrapponendo una pietà mistica alla pietà profetica propria della religione rivelata e
arrivando alla conclusione che “la mistica filosofica della notte estatica” finirebbe col
superare inesorabilmente “la pietà profetica della parola rivelata nella sua ristrettezza
storica”, rendendo la rivelazione “una sorta di manifestazione anticipata, attraverso la
parola, di un Dio, che per sé era già noto, almeno fondamentalmente e
definitivamente, allo spirito umano” (pp. 110-113).
Invece, la misteriosità di Dio appare “più cecità dell’uomo che chiusura di Dio in se
stesso” e “solo se sappiamo che Dio non solo trascende il contenuto della nostra
conoscenza umana, quale è stato fissato nell’antropologia, ma anche può parlare o
tacere, possiamo comprendere il valore della parola rivelatrice di Dio, qualora
effettivamente fosse pronunciata: è l’atto imprevedibile del suo amore personale, che
l’uomo adora in ginocchio” (p. 115).
B) L’ignoto libero
Si riprende l’esame del secondo aspetto dell’essere: la sua problematicità.
Escludendo a priori ogni forma di ontologismo (e, come dice R., del suo “gemello
camuffato” che è il razionalismo), va affermato che l’uomo non può possedere in
maniera assoluta l’essere nella sua completa trasparenza (visio beatifica), ma si apre
ad esso solo “quando accetta la sua esistenza umana, il che è in ultima analisi
ineluttabile” (p. 119), riconoscendone la contingenza e la finitezza.
A questo punto R. tratteggia una nuova ontologia generale, tenendo evidentemente in
conto l’analitica esistenziale di Heiddeger. Secondo questa linea:
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1) L’uomo “indaga l’essere” e “per il fatto di dover indagare, egli afferma
necessariamente la propria finitezza contingente”. Tale affermazione è “assoluta”, nel
senso che “solo in questo rapporto necessario e cosciente verso il non-necessario,
egli trascende l’essere in genere che è per sé trasparente ed affermato come tale” (p.
121).
2) Questa posizione assoluta della propria contingenza è “un atto di volizione”,
perché “riguarda anzitutto l’atto del porre e solo dopo l’oggetto posto in quanto tale”
(p. 121).
3) Questo atto di volizione è libero: “il porre assoluto e necessario di un essere
contingente, che in quanto tale implica la trasparenza dell’essere, può essere solo la
realizzazione e la conclusione posta da un atto assoluto e libero di questo essere
contingente” (p. 123).
4) Questa posizione libera, voluta e originaria dell’ente-uomo “può essere effetto
solo dell’essere assoluto, di Dio”, che è principio di ogni ente. Per cui: “il
fondamento dell’ente finito può essere solo un atto della libera volontà di Dio” e Dio
appare come “il termine della percezione previa dello spirito umano proprio in
quanto appare potenza libera di fronte al finito. Quando un essere finito lo conosce,
questa conoscenza è sostenuta da un suo atto libero” (pp. 123-124).
A proposito della libertà vanno fatte ancora alcune osservazioni. La prima è che
“l’incontro conoscitivo di una persona libera e perciò autonoma è in quanto tale un
lasciare libero il conosciuto nella sua misteriosità” (p. 124). Nel caso del rapporto
uomo-Dio nell’esperienza della rivelazione storica vanno rispettate due condizioni: a)
Dio “deve poter agire liberamente anche dopo la creazione di questo essere finito che
lo conosce”; b) l’uomo da parte sua “deve avere ancora spazio per la conoscenza
oggettiva di tale atto libero di Dio nei suoi confronti…deve esserci ancora un oggetto
di un altro atto libero che possa essere ancora conosciuto” (p. 125).
Secondo R. tali condizioni si sono entrambe verificate, perché ogni ulteriore azione
di Dio sulle sue creature non è mai la semplice e calcolabile conseguenza del primo
atto creativo che si è verificato e perché da parte dell’uomo lo spirito, in forza della
sua trascendenza, può cogliere un orizzonte di oggetti più vasto di quello già dato.
L’uomo, come spirito libero in ascolto di una possibile rivelazione di Dio, sta di
fronte ad un Dio che si rivela sempre: con la parola o con il silenzio. “lo spirito non
può esigere che Dio parli, ma se questi non parla, egli ascolta proprio il suo silenzio;
altrimenti non sarebbe spirito, perché non starebbe di fronte al Dio vivente e libero in
quanto tale. L’uomo, perché spirito, sta di fronte all’Essere vivente e libero, che si
apre o si chiude nel silenzio, in quanto tale” (p. 127).
C) L’ascoltante libero
“Trovarsi di fronte a Dio, il che costituisce essenzialmente l’esistenza umana, è di sua
natura sempre un trovarsi di fronte al Dio libero, che non ha ancora esaurito le sue
incalcolabili possibilità e quindi un trovarsi di fronte a un essere che agisce
storicamente, di fronte al Dio della rivelazione…L’uomo è l’ente che, in forza della
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sua costituzione essenziale di spirito finito, il quale indaga e deve indagare l’essere,
sta di fronte al Dio libero, di cui afferma la libertà nella peculiarità del suo problema
ontologico” (p. 130). Da queste affermazioni, che in qualche modo riassumono
conclusivamente il lavoro del precedente capitolo, R. passa ora ad analizzare il
momento volitivo della conoscenza umana.
“La conoscenza è in fondo la coscienza che ha l’ente del proprio essere… L’atto
libero, preso nella sua essenza originaria.. è un perfezionamento della propria
essenza, una presa di possesso di se stesso.. Perciò esso è trasparente a se stesso,
anche se è oscuro a un altro” (p. 134). Ma “può diventare trasparente e comprensibile
a un altro solo se si realizza liberamente e si ama”. Continua naturalmente a restare
oscuro ed inintelligibile “solo a una conoscenza che vuole coglierlo restando fuori di
lui” (p. 135).
Nel caso del rapporto uomo-Dio, poiché “il finito ha il suo fondamento nell’atto
libero e trasparente di Dio” e Dio “libero nell’amore di se stesso, ama in quanto
potenza che pone il finito e lo coglie nell’amore”, anche il finito quindi viene a
partecipare della trasparenza dell’essere e della logica dell’amore divino.
“Il trovarsi dell’uomo di fronte a Dio, che si attua attraverso la conoscenza e
costituisce la natura dell’uomo in quanto spirito, implica per sé che l’amore verso Dio
sia un momento intrinseco di questa conoscenza. L’amore non è qualcosa che può
introdursi o meno o s’inserisce solo successivamente nella sua conoscenza, ma è il
momento intrinseco di essa, la sua condizione e il suo principio” (p. 137).
Volontà e conoscenza vengono perciò ad essere “momenti inseparabili dell’unica
struttura fondamentale, che compete all’esistenza umana di fronte a Dio”. Si tratta in
fondo di niente altro che dell’assioma scolastico ens-verum-bonum convertuntur.
C’è però in questione la libertà: infatti l’uomo si rapporta a Dio secondo una propria
ordinata predisposizione. “Il vero modo con cui si concepisce Dio è sempre
determinato dal suo amore ordinato o contrario all’ordine…La conoscenza concreta
di Dio è a priori determinata sempre dal modo in cui l’uomo ama e valuta gli oggetti
offertigli… Così ogni uomo ha il Dio che corrisponde al suo impegno e al tipo di
questo impegno” (p. 143). Insomma: “ l’apertura cosciente dell’uomo a questo Dio
della possibile rivelazione, che fa parte della costituzione fondamentale dell’uomo, è
nello stesso tempo ed è per essenza sempre determinata nella sua intima struttura
concreta dal libero atteggiamento dell’uomo” (p. 144).
Il capitolo si chiude con la formulazione della seconda proposizione
dell’antropologia metafisica del Rahner : “l’uomo è l’ente che, amando
liberamente, si trova di fronte al Dio di una possibile rivelazione” (p. 145).
N.B. La prima proposizione era (p. 98) quella della trascendenza della conoscenza
dell’essere in generale, cioè dell’uomo in quanto spirito, costitutivamente teso
all’ascolto di qualsiasi parola possa venire dalla bocca dell’eterno.
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Cap. IV: Il “luogo” del messaggio libero
A) Il problema
La domanda è : dove si trova, nell’esistenza dell’uomo, il punto concreto ove si attua
la possibile rivelazione di Dio? Nell’interiorità dello spirito? In una estasi
dell’anima? Oppure… Premesso che “non si può comunque determinare il punto di
una possibile rivelazione di Dio in maniera da delimitare in partenza la possibilità di
detta rivelazione” (p. 151), perché ciò significherebbe trasformare la rivelazione nel
“correlato oggettivo “ della disposizione religiosa dell’uomo (errore in cui sono
cadute le moderne fdr, sia nella versione razionalistica sia in quella sentimentalistica),
allora questo “luogo” non può appartenere al mondo delle leggi a priori.
Si dànno allora due possibilità: o Dio si rivela direttamente nella propria essenza
oppure mediante un segno rappresentativo come la parola. Nel primo caso, l’uomo
coglierebbe Dio direttamente nel proprio io, in una visione beatifica suprema; nel
secondo caso l’uomo si costituisce invece come “uditore della parola”, cioè come
“colui che deve prevedere una possibile rivelazione di Dio, che non consiste nella
manifestazione diretta del contenuto dell’oggetto rivelato nella sua propria essenza,
ma nella sua comunicazione mediante segni rappresentativi, che indichino ciò che
deve essere rivelato, pur essendo da essi diverso” (p. 153).
Anche a proposito del luogo di una possibile rivelazione si deve dire che non può
darsi alcuna determinazione aprioristica. Ma occorre peraltro affermare che tale luogo
deve essere “senz’altro l’uomo” (p. 154). E poiché “l’elemento preciso che determina
l’uomo come spirito” è la sua storicità, si può concludere che “il luogo di una
possibile rivelazione è sempre e necessariamente la storia dell’uomo” (p. 155).
La conoscenza umana è infatti recettiva: l’uomo “prende coscienza di sé quando
percepisce un altro oggetto diverso da lui” e solo dopo questo incontro è capace di
ritornare in se stesso. Insomma: “il ritorno in sé dell’uomo è sempre anche un
“esodo nel mondo” e attraverso il mondo” (p. 159). Quando si indaga sul possibile
luogo di una rivelazione bisogna tenere ben presente questa ineliminabile
caratteristica della conoscenza umana.
B) L’uomo come essere materiale
Ontologicamente la struttura dell’uomo si colloca nella differenza originaria tra
essere ed ente. “L’essere dell’uomo è di conseguenza l’essere di una possibilità
ontologica realmente diversa dall’essere, vuota, indeterminata, in funzione di
soggetto. Tale possibilità nella metafisica tomistica si chiama materia” (p. 164).
Naturalmente si parla non della moderna materia fisico-chimica ma di un “costitutivo
metafisico dell’ente, indubbiamente reale ma non osservabile e afferrabile come
oggetto”. E’ in forza di questa sua costituzione materiale che l’uomo conosce in
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maniera recettiva, cioè in modo essenzialmente sensibile. Questa della sensibilità non
è una determinazione aggiuntiva o estrinseca, ma è “intrinseca alla stessa spiritualità
dell’uomo”. Infatti l’uomo “in quanto spirito, nella sua caratteristica umana di
spiritualità recettiva – anima tabula rasa – ha bisogno di una facoltà sensibile intesa
come mezzo specifico, necessario e da essa prodotto, attraverso cui tende al suo
proprio fine: la percezione dell’essere in genere. L’uomo è in questo senso spiritualità
sensibile…L’anima in quanto spirito entra per sé nella materia” (p. 170).
C) L’uomo spirito nella storia
Da questo concetto di materia prima si deducono facilmente due sue fondamentali
funzioni: spazialità/temporalità.
a) Spazialità: “un ente ha carattere spaziale quando in forza della sua più intima
costituzione ontologica ha la materia come suo principio interiore essenziale”
(p. 172);
b) Temporalità: un ente appare sempre aperto a nuove future determinazioni
ontologiche e perciò in movimento verso nuove possibili realizzazioni di sé.
Ma ciò allora significa che “l’ente è immesso nel tempo” e che questa sua
temporalità va intesa come “l’estensione interna dell’ente stesso in tutta la
realizzazione delle sue possibilità” (p. 173).
Questo uomo definito nella sua spazio-temporalità non è unico, ma appartiene ad una
specie (è infatti ripetibile nella sua quiddità), è “reale solo in una umanità” (p. 174).
Ma affermando ciò è come se dicessimo che “egli è storico nel senso concreto di una
storia umana”, cioè di una vicenda che è tale (storia umana) in quanto caratterizzata
dalla irripetibilità ed imprevedibilità della libertà. Infatti: “La storia si ha solo quando
l’unicità e il valore particolare la vincono sulla ripetizione dei casi e sui valori già
disposti, dove quindi c’è libertà” (p. 175).
Dopo aver sottolineato la piena aderenza di questi concetti al quadro generale
dell’ontologia tomista, il Rahner conclude con la delineazione del nuovo compito:
“chiarire perché e fino a che punto la storicità dell’uomo determini la sua apertura
verso un Dio di una possibile libera rivelazione e la renda proprio una potentia
oboediantialis dell’uomo per tale rivelazione” (p. 182).
D) Spirito e storicità. Essere e fenomeno
Poiché la caratteristica fondamentale dello spirito umano è la sensibilità, questi si
apre all’essere (e anche all’essere assoluto: Dio) solo “ in quanto penetrando nella
materia realizza un incontro con l’ente materiale nello spazio e nel tempo… un
accesso a Dio solo in un ingresso nel mondo”. Si può anche dire che “l’uomo ha la
possibilità di un ritorno in se stesso che gli apra l’essere e in esso Dio, solo uscendo
nel mondo interiore ed esteriore, materiale e sociale” (p. 184).
Si può allora affermare che:
a) L’essere in genere è aperto all’uomo solo nel fenomeno (pp. 189-191);
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b) Ma Dio “ente immateriale e non fenomenizzabile” come può manifestarsi
nella pienezza delle sue proprietà per mezzo del fenomeno? Come “un ente
sopramondano può essere svelato nella sua concretezza” ? (pp. 191-194).
E) La storicità umana di una possibile rivelazione
Si può iniziare a rispondere a questa domanda ricordando anzitutto che “ogni ente
può diventare un dato nell’orizzonte del fenomeno sensibile attraverso la parola” (p.
195). La parola naturalmente non si identifica con il suono fonetico, ma con “un
segno concettuale escogitato dallo spirito e a lui dato immediatamente” (p. 200).
Questa parola, in quanto allude sempre ad un fenomeno , “può essere il modo in cui
ogni ente senz’altro si rivela. Se poi è ascoltata come pronunciata da Dio in quanto
depositaria del concetto di un ente sopramondano.. può rivelare anche l’esistenza e la
possibilità interna di tale ente” (p. 200).
L’uomo, in quanto essere costitutivamente teso all’ascolto di una possibile
rivelazione di Dio, ha il dovere di ascoltare questa libera manifestazione di Dio
attraverso la parola. La parola diventa il luogo di questo possibile incontro.
Ma dove l’uomo deve attendere questa parola? R. risponde: “La rivelazione deve
essere attesa come un evento fissato nello spazio e nel tempo di tutto il complesso
della storia umana” (p. 206). E ciò perché “l’uomo è un essere storico a causa della
sua apertura trascendente, protesa verso l’essere in genere, verso Dio e quindi verso
una possibile rivelazione” (p. 207).
A conclusione dell’ultimo capitolo Rahner formula la terza proposizione della sua
antropologia metafisica (cfr. le altre due a p. 8 della presente scheda): “l’uomo è
l’ente che nella sua storia deve tendere l’orecchio ad un’eventuale rivelazione
storica di Dio attraverso la parola umana” (p. 208). E conclude:
“l’uomo è l’ente che è dotato di una spiritualità recettiva aperta sempre alla storia e
nella sua libertà in quanto tale si trova di fronte al Dio libero di una possibile
rivelazione, la quale, nel caso si verifichi, si effettua sempre mediante “la parola”
nella sua storia, di cui costituisce la più alta realizzazione. L’uomo è colui che ascolta
nella storia la parola del Dio libero. Solo così egli è quello che deve essere.
Un’antropologia metafisica è completa solo quando concepisce se stessa come la
metafisica di una potentia oboedientialis rispetto alla rivelazione del Dio
trascendente” (p. 209).
N.B. Rahner chiude il suo libro con una conclusione (pp. 213-229) dedicata al tema
dei rapporti tra fdr e teologia. La discussione su tali rapporti appare oggi datata e
priva – a mio avviso - di interesse (se non in ordine ad una storia del pensiero
teologico), per cui mi permetto di ignorarla, invitando il lettore interessato alle pagine
succitate.
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