scarica pagine saggio

annuncio pubblicitario
Parte Prima
Dalla filosofia antica alla crisi della scolastica
1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione
Di cosa parleremo
La filosofia, affonda le sue radici nella cultura e nelle civiltà greche. La civiltà
greca si caratterizza per un profondo pluralismo di pensiero in tutte le sue forme
culturali, religiose e politiche.
Il punto di partenza è una religione politeista i le cui divinità, in assenza di una
classe sacerdotale dominante, hanno il compito di assicurare verità e sacralità alla
vita quotidiana.
Da un punto di vista filosofico tra le divinità, assumono particolare importanza le
figure di Apollo e Dioniso: soprattutto il culto di quest’ultimo, praticato in riti collettivi di carattere musicale-estatico, acquisirà una rilevanza notevole nella cultura
greca. Legate a Dioniso sono, infatti, anche altre complesse forme di religiosità, note
come «misteriche» ed «orfiche»: in esse viene teorizzata la possibilità di raggiungere la salvezza della propria anima al culmine di un lungo ciclo di reincarnazioni.
Tra gli dèi più venerati si pongono anche Afrodìte ed Eros, le cui figure sono tuttora
oggetto di numerose composizioni liriche.
La civiltà greca (o ellenica) assume tratti definiti attorno all’800 a.C., dopo
il declino della civiltà achea (o micenea) che possiamo datare intorno al
1200 a.C.
Dal disfacimento di questa civiltà viene progressivamente sviluppandosi
una nuova cultura, stimolata sia del trascorso splendore degli achei, sia dal
contatto con il mondo fenicio che in quegli stessi secoli stava conoscendo il
suo maggiore sviluppo.
Dai fenici l’embrionale civiltà greca trasse da un lato l’alfabeto e, dall’altro, uno spirito di avventura che la condurrà sin sulle coste della Ionia, e
dell’Asia minore, luoghi ove inizia quella «colonizzazione» che giocherà un
ruolo decisivo per lo sviluppo della cultura greca e occidentale in genere.
Proprio nella Ionia, infatti, nascerà la filosofia.
5
1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione
1) Le origini della civiltà ellenica
La frammentazione geografica non impedirà ai Greci di conservare la
coscienza della propria unità di popolo, al punto che uno dei più grandi
storici dell’antichità, Erodoto (484-430 ca. a.C.) nelle sue Storie potrà parlare,
a proposito delle «stirpi elleniche», di «comunanza di sangue e di lingua», di
«comuni templi degli dèi», di «riti e costumi affini» per tutti gli appartenenti
alla Magna Grecia.
2) Le forme religiose
La notevole varietà culturale della civiltà greca si manifesta soprattutto
nella dimensione religiosa, che viene definita sapienziale, poiché il concetto
moderno di «religione» è del tutto assente nell’antica Grecia, ove non esisteva
alcun corpo dottrinale di norme o insegnamenti confessionali autonomi rispetto
agli altri ambiti del pensiero e della cultura.
In Grecia, ad esempio, non ritroviamo una letteratura o un’arte strettamente
sacre, né una classe sacerdotale distinta dalle altre caste. Ciò, generò una notevole multiformità, della concezione e dell’immagine degli dèi, sia rispetto
alle credenze che, nei culti che nelle stesse esperienze religiose dei singoli.
Tutte le prime forme di sapienza greca — da cui poi si svilupperà il pensiero filosofico in senso stretto — trovano origine nel campo religioso, con
i tentativi di spiegazione dell’origine degli dei (le cosiddette teogonie) e
l’indagine sulla genesi del cosmo (cosiddette cosmogonie).
Parte Prima: Dalla fisolofia antica alla crisi della scolastica
Su queste basi, possiamo definire i caratteri generali della religione greca:
— si tratta anzitutto di una religione politeista.
La Grecia non respinge le altre civiltà antiche, che prevedono un pantheon (cioè un insieme di dèi) assai differenziato, proprio per tener presente
tutti gli orientamenti e comportamenti umani. Zeus ad esempio, in quanto dominatore degli dèi, costituisca il modello simbolico di giustificazione
del potere;
Antropomorfismo: tenden- — si tratta in secondo luogo di una religione anza a rappresentare la natura e
tropomorfica: ove il comportamento degli dei
l’azione della divinità in analogia
riflette i «difetti» o i caratteri della società umana.
con la natura e l’azione degli
uomini.
Al mondo degli dèi si affianca una complessa
mitologia che attribuisce al mondo divino alcuni
momenti della vita degli uomini: si pensa ai cibi e alle bevande particolari di
cui si nutrono (l’ambrosia, il «nettare» degli dèi) o sullo stesso sangue divino
(l’ìcore), diversi da quello umano.
6
3) Dèi, eroi, uomini: l’areté
In questa dimensione di simultanea continuità e alterità tra mondo umano
e mondo divino, l’individuo greco, dal punto di vista del comportamento, è
tenuto a non oltrepassare i confini della propria umanità.
Il complesso rapporto di distanza e affinità che gli dèi intrattengono con
gli uomini, costituisce anche l’elemento centrale del culto degli eroi (detti
anche «semidèi»). Si tratta di figure di mediazione tra i due mondi: in quanto
secondo la mitologia greca sono figli di un dio e di un mortale, gli «eroi» veicolano spesso, nella poesia e nell’immaginario collettivo dei greci, modelli
ambivalenti: forza e potere da un lato, volontà di d’infrangere i limiti della
natura dall’altro.
La rappresentazione poetica del mondo degli eroi a noi è nota per i poemi
omerici (Iliade e Odissea, VIII sec. a.C. circa) in cui funziona come espressione dell’antico mondo della civiltà achea; anche se raggiungerà risultati di
altissimo livello soprattutto nelle tragedie di Eschilo (525-456 a.C.), Sofocle
(497-406 a.C.), Euripide (480-406 a.C.), le quali, nonostante le differenze di
stile e di personalità degli autori, trova un elemento comune proprio la raffigurazione di eterne forze in contrasto e sofferenze che drammaticamente
colpiscono gli eroi.
Questo mondo è permeato di spirito agonistico, desiderio di imporsi,
importante momento della cultura greca. Le feste religiose, infatti, erano in
Grecia spesso segnate dalla presenza di agoni e sfide di ogni genere: atletiche, ludiche, musical-teatrali, poetiche, fisico-estetiche: sullo sfondo di queste
forme di lotta si impone il culto dell’areté, della «virtù» intesa come eccellenza
psicofisica, come profonda auto-realizzazione del modello di «eroe» greco.
L’assenza di una classe sacerdotale unitaria centrale che funzionasse come
depositaria della coscienza e delle pratiche religiose talvolta viene affiancata
nella funzione sacrale dall’arte rappresentata dalla figura dell’artista, e più
specificamente del poeta.
La poesia possiede in Grecia un potere che, oltre alla celebrazione del mondo divino, persegua anche e soprattutto un fine di educazione dell’umano.
Questo è il motivo per cui i poemi omerici svolsero a lungo un ruolo didascalico
centrale nell’educazione greca. Sintesi del sapere, specchio sociale profondo
della società arcaica, l’Iliade e l’Odissea coltivano i valori ed ebbero notevole
influsso sulle pratiche educative elleniche.
7
1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione
4) Il potere della poesia: educazione e virtù
Tra questi valori, prioritari ma non unici sono quelli militari, sintesi di
eroismo, lealtà, destrezza, disprezzo della viltà.
Si tratta di un complesso di abilità che i greci definiscono, come abbiamo
già detto, col termine areté, sintesi dell’unità psicofisica della persona.
Da questo genere di ideale dell’epica omerica la forza e lo sviluppo
della corporeità e della potenza è unito alla dimensione del rispetto del
Paidéia. Il termine deriva giusto limite: il «nobile» omerico (esthlós) è capace
da pais, «fanciullo», e signi- di rispettare l’avversario, di riconoscerne l’onorabifica educazione, formazione lità. In questo senso l’areté si trasforma anche suculturale e spirituale in senso
bito kalokagathía, cioè intreccio di splendore fisigenerale, oltre che trasmissione
del sapere e delle norme di co (kalós) e altezza spirituale (agathós). L’eroe è
comportamento all’interno di un pervaso dall’aspirazione ad una saggezza profonda,
sistema di credenze e di valori che importa il dominio di sé, il controllo delle
condivisi.
passioni: elementi centrali della storia dell’educazione greca e dalla nozione di paidéia.
Parte Prima: Dalla fisolofia antica alla crisi della scolastica
5) Apollo, Dioniso, Afrodite
Oltre alle Muse cantate dagli dèi, nel pantheon greco, due grandi figure
divine si impongono sulle altre, Apollo e Dionisio.
Apollo. Dio del sole, dell’equilibrio, dell’armonia musicale ma soprattutto
dio della mantica, cioè della divinazione (il cui culto partendo dal tempio di
Apollo di Delfi si diffuse ovunque attorno al 700 a.C).
La mantica consisteva principalmente nella previsione del futuro: secondo la formula omerica l’esperto di questa «arte» è in grado di conoscere
«sia ciò che è, sia ciò che sarà, sia ciò che è stato» (Iliade).
Il rapporto di Apollo con il mántis viene inteso dai Greci come una qualità
in grado di stimolare la conoscenza della realtà nella sua interezza. Platone
al riguardo, ci fornisce qui un passo esemplare sul lato irrazionale della religiosità mantica:
I maggiori beni ci giungono per mezzo di una follia (manía), concessa
per un dono divino. Nel momento della «follia» la profetessa di Delfi e
le sacerdotesse di Dodòna, hanno regalato alla Grecia molte belle cose,
mentre invece quando erano «assennate» poco o nulla.
Anche tra gli antichi, quelli che imposero i nomi non giudicarono la follia
un male o una vergogna, altrimenti non avrebbero chiamato proprio con
il nome di «folle» (maniké) l’arte più bella, quella per cui si giudica il
futuro. (…)
8
Così l’indagine del futuro gli uomini «assennati» lo realizzano attraverso
l’interpretazione del volo d’uccelli e svelando altri segni, poiché con la
ragione cercano di dare alla congettura umana intuizione e conoscenza, la
chiamarono «conoscitivo-congetturale». (…) Ora, quanto è degna di lode è
l’arte «folle» (…) di tanto gli antichi testimoniano che la follia che è divina
è più bella dell’assennatezza (Fedro, 244 a6 d5).
L’altro dio che ha influenzato la cultura dalla Grecia a Nietzsche, nell’immaginario collettivo, nell’arte e nella psicologia dei greci è Dioniso che è
opposto al luminoso, equilibrato, rasserenante Apollo in ragione dei suoi
tratti oscuri e misteriosi.
I due dei vengono spesso rappresentati in stretta connessione: è storicamente provato che nei mesi invernali Dioniso sostituiva regolarmente Apollo
nel santuario di Delfi, ed è altrettanto certo che alcune tradizioni giungono
addirittura all’identificazione delle due divinità.
Come Apollo è il dio della mantica, così Dioniso è il dio della possessione
«iniziatica», trasgressiva, musicale esercitata nei riti collettivi. Tale possessione viene vissuta anzitutto dalle «baccanti» (o «mènadi»), figure femminili che
onorano il dio in uno stato estatico, caratterizzate da una notevole alterazione
della loro psiche.
A livello della religiosità popolare, il primato non spetta tuttavia né ad Apollo né a Dioniso, quanto ad Afrodìte, dea dell’amore, ed alla sua controparte
maschile, Eros. Quest’ultimo viene annoverato (ad esempio) da Esiodo tra le
divinità primordiali, e definito come «il più bello tra gli immortali, che scioglie
le membra, e di tutti gli dèi e tutti gli uomini sovrasta nel petto il pensiero e il
saggio consiglio» (Teogonia): ad eros non viene infatti attribuita una genealogia
propria a dimostrazione della sua universalità, della sua capacità di esprimete
la forza cosmica, il principio vitale di tutti i viventi.
Il culto di Dioniso presenta intensi legami con alcuni riti celebrati presso
Elèusi (e per questo detti eleusini) sotto la protezione delle dèe Demetra e
Persefone, riti che prendevano il nome di mystéria.
Si tratta di sostanzialmente di riti di passaggio, presenti in molte civiltà
primitive, cioè manifestazioni sacrali finalizzate a consentire il transito, dalla
fanciullezza all’età matura. La più antica testimonianza di questo genere di
religiosità misterica si trova nell’Inno a Demetra attribuito ad Omero, nel
9
1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione
6) La religione dei misteri e l’orfismo
quale viene anche esplicitato il carattere di rigorosa segretezza che doveva
circondare i mystéria:
Demetra a tutti mostrò i riti (órgia) santi, che non è permesso trasgredire
né apprendere né dire, ché il grande rispetto per gli dèi impedisce la voce.
Felice chi tra gli uomini terrestri ha visto queste cose. Ma chi è senza iniziazione ai sacri riti e senza questa sorte, mai avrà uguale destino, da morto,
nelle umide tenebre (Inno a Demetra, 476-482).
7) Dall’eroe alla giustizia
7.1) Le virtù degli eroi omerici
Parte Prima: Dalla fisolofia antica alla crisi della scolastica
I modelli di virtù presenti nella Grecia antica vengono espressi per la prima
volta da Omero. L’Iliade e l’Odissea, infatti, costituiscono due strumenti privilegiati per l’educazione dei giovani e presentano una didattica etica basata sulla
nobiltà d’animo e sulla virtù universale dei singoli protagonisti, a prescindere
dalla loro «appartenenza» politica.
I due poemi descrivono, però, anche un sistema di valori complesso e fragile.
La morale eroica, fondata sulla forza fisica, astuzia e onore, risulta
inconciliabile con il concetto di razionalità del diritto e dello Stato.
Una prima risposta alla contrapposizione tra la forza del singolo eroe e la virtù razionale si trova nel lento e graduale affermarsi dell’idea di giustizia.
Themis (giustizia) incarna un ordine, una regola comune sia al macrocosmo che al
microcosmo ed esprime un ordine giuridico che è nello stesso tempo divino e religioso.
Questa visione, ancora mitologica, viene progressivamente sostituita da una concezione della giustizia come dike: ragione oggettiva, consolidata nella memoria collettiva
(cioè comune a tutti gli esseri umani) in grado di risolvere i conflitti attraverso un compromesso dialettico tra posizioni contrastanti.
La laicizzazione dell’idea di giustizia si accompagna al sorgere dell’idea di colpa individuale. Non dovendo più farsi carico dei destini di tutta la sua stirpe, il singolo individuo è responsabile solo di sé e delle sue azioni, venendo così meno la concezione dello «ftonos ton téon» in base alla quale, spesso, i figli nella vita terrena scontavano la colpa degli antenati.
7.2) L’ideale di «giustizia» da Esiodo a Solone
Un definitivo abbandono della morale eroica si trova in Esiodo. Il sistema
di valori proposto nelle Opere e i giorni, esalta la funzione etica delle attività
produttive, forma una sorta di epos del mondo contadino e trova nell’idea
di giustizia la caratteristica principale dell’essere umano.
10
La necessità di far venir meno la concezione della «giustizia» fondata sull’«ordine divino» si afferma decisamente con Eschilo. Il carattere paradossale dell’idea di giustizia
divina è rappresentato nell’Orestea, un ciclo di tragedie che narra del ritorno in patria
di Agamennone e si conclude con l’istituzione di un tribunale umano – l’aeropago –
che lascia prevalere la saggezza giuridico-politica della città sulla «giustizia divina».
Lo scopo di Eschilo è quello di magnificare le istituzioni politiche di Atene e mostrare
come esse, pur essendo di natura laica, avessero origine divina.
L’idea di Eschilo si conferma nell’ordinamento politico della città di Atene
proposto da uno dei sette sapienti: Solone, arconte nell’anno 594 a.C.
Lo statista, noto per le sue coraggiose scelte legislative democratiche,
rappresenta l’alfiere della cosiddetta eunomia (buon governo), in cui la legge
(nomos) di Atene viene definita «buona» (eu) perché, pur presentandosi come
legge umana, è somigliante a quella naturale o divina.
Lo scopo dell’ordinamento di Solone è la concordia cioè conciliare gli
interessi e le posizioni contrastanti tra le classi sociali evitando in tal modo
la guerra civile e le continue lotte tra aristocrazia e popolo (demos).
1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione
Solone, dunque, oscilla tra un mantenimento dello status quo e una serie di riforme che tutelano gli strati più bassi della comunità: liberazione della terra, abolizione
della schiavitù e abolizione delle ipoteche per debiti.
Il governo di Solone spinge i membri della città a riconoscere la supremazia impersonale di una legge ed evidenzia il problema della pluralità delle forme di governo e
quello della scelta della forma ottimale per governare una città.
11
2. Il pensiero ionico e l’origine della filosofia
Di cosa parleremo
Parte Prima: Dalla fisolofia antica alla crisi della scolastica
La parola filosofia significa etimologicamente «amore della sapienza» ed indica
comunemente la riflessione sui principi generali (fisici, logici, etici) del mondo.
Il pensiero filosofico nacque e si sviluppò nelle colonie delle Ionia situate sulle coste
dell’Asia Minore (l’attuale Turchia) perché le località coloniali poste ai confini del
mare furono segnate da un crescente dinamismo intellettuale, agevolato dall’incremento delle attività commerciali e da una mentalità più duttile e aperta.
Con la nascita della filosofia e della scienza al centro della cultura greca viene posta
la razionalità, l’uso metodico dell’intelletto che si sviluppa in forme critiche e che
viene a collocarsi al centro di ogni attività sociale.
I primi filosofi, esponenti della «scuola ionica», sono anche i primi scienziati del
pensiero occidentale («fisici e fisiologi» li chiamerà Aristotele) e la loro riflessione si
rivolge, a spiegare le cause prime dei fenomeni naturali.
In particolare: nei paragrafi 2 e 3 analizzeremo:
— i filosofi ionici ricercano le cause materiali dell’univeso e l’elemento primordiale
(archetipo) che ad esso ha dato origine;
— pitagorici si rifanno ad un elemento più astratto: il numero, introducendo così,
il concetto che la matematica e la musica (scienze astratte) nell’ordine universale della realtà;
— gli eleatici (Parmenide, Zenone, Melissa) hanno introdotto il problema «ontologico», lo studio dell’Essere in quanto le «cose» prima di tutto «sono» e «si
manifestano» nella loro statica universalità;
— Eraclito che nega la staticità dell’essere e identifica la vita nel divenire e nel
fuoco l’archetipo della vita e come elemento primordiale.
Seguono poi tre altre scuole di pensiero (Empedocle, Anassagora e gli anatomisti:
Democrito e Leucippo) che tentano di conciliare l’essere eleatico con il divenire di
Eraclito.
Il merito di queste ultime correnti è di avere spostato il problema centrale filosofico
dal come e quali sono gli elementi primordiali (dei primi filosofi ilozoisti), al perché
tali elementi esistono, si conciliano, si contrappongono.
Le risposte sono differenti: dal contrato dell’«Amore con l’odio» (Empedocle), all’esistenza di una «mente superiore» alla superiorità dell’«uno» come elemento immateriale (Pitagora).
Non si cerca, dunque, più solo la mera «materialità» degli archetipi, ma soprattutto
le cause prima dell’ordine e l’armonia delle cose che ci circondano.
12
1) Talete: l’acqua come fonte e foce di vita
Nacque e visse a Mileto tra il VII ed il VI secolo a.C. Di lui si hanno solo
testimonianze orali indirette poiché probabilmente non scrisse alcuna opera.
Nel primo libro della Metafisica, Aristotele scrive che Talete è il primo
pensatore che si sia rivolto alla ricerca delle cause e del principio (arché)
da cui sarebbe derivata l’intera realtà nelle sue molteplici manifestazioni.
Secondo Talete, l’archetipo, il principio di tutto è costituito dall’acqua.
Oggi non riusciamo con precisione a determinare cosa Talete intendesse
con questa affermazione. Probabilmente si riferiva ad un principio di valore
universale che vivifica le cose e le trasforma, rendendole molteplici, pur
rimanendo sempre unico e identico a se stesso.
L’acqua, in particolare, è da un lato sostanza (in greco: «ciò che sta sotto»,
upokéimenon) dall’altro essenza (in greco «ciò che è», ousia): l’acqua, infatti,
al di là del continuo mutamento (dal ghiaccio al vapore all’umidità, ecc.) permane identica. L’acqua, per il pensatore di Mileto, è fonte e foce di tutte le
cose. Tale principio originario pervade la natura; di qui la celebre affermazione
attribuita a Talete: «Tutto è pieno di dèi».
Assistiamo dunque qui ad una prima, embrionale, espressione di astrazione
del pensiero filosofico nel tentativo di chiarire razionalmente e scientificamente
il sostrato comune degli infiniti fenomeni della natura.
La tradizione vuole che Anassimandro fosse discepolo di Talete.
Nacque a Mileto nel 610 circa a.C. e morì intorno alla metà del VI secolo
a.C. Come Talete, il pensatore di Mileto si volge alla ricerca dell’elemento
primordiale dell’universo, o arché.
Tuttavia, a differenza di Talete, Anassimandro considera come principio
primo l’apeiron, che letteralmente significa «senza» (-a) «limite» (-péras) e
che possiamo tradurre con l’«illimitato», l’«indeterminato» l’«inconoscibile».
Anassimandro ha il pregio di aver individuato la genesi dei fenomeni non
in un qualche elemento fisico (come l’acqua di Talete) o materiale, bensì in
una realtà soprasensibile, non delimitabile, una sorta di origine comune
dei fenomeni.
L’apeiron è all’origine delle «qualità contrarie» che determinano tutti i
fenomeni (pensiamo al contrasto caldo/freddo, secco/umido, ecc.), proprio
in quanto ad ogni elemento naturale corrisponde una determinata qualità (il
fuoco rimanda al caldo, l’acqua al freddo e così via).
13
2. Il pensiero ionico e l’origine della filosofia
2) Anassimandro e l’apeiron
Non è un caso che nell’universo secondo Anassimandro ogni cosa sia
dotata di limiti precisi: dalla realtà illimitata (apeiron) prendono vita, infatti
i vari elementi, ciascuno dei quali diventa, nascendo, un limite per tutti gli
altri. Possiamo pertanto intendere l’apeiron come quel sostrato originario da
cui provengono tutte le distinzioni e le determinazioni della realtà: in quanto
essa rappresenta principio da cui tutto deriva.
Parte Prima: Dalla fisolofia antica alla crisi della scolastica
3) Anassimene e l’aria (nebulosità)
Discepolo e amico di Anassimandro, Anassimene di Mileto visse tra il
585/80 e il 528/4 a.C. Secondo i pochi frammenti pervenutici, l’arché da cui
tutto deriva è qui rinvenuta nell’aria, o meglio (se guardiamo all’accezione
predominante nel termine greco arcaico) nella nebulosità.
Secondo Anassimene, l’aria opera sia a livello cosmico/fisico, sia a livello
umano e costituisce la nascita e la vivificazione tanto degli uomini quanto
l’universo nella sua totalità.
Per spiegare il processo di derivazione degli altri elementi (terra, acqua,
fuoco) dall’aria, il filosofo di Mileto fa riferimento a due processi contrari: la
rarefazione e la condensazione. Il caldo e il freddo non sono qualità autonome (come nell’ipotesi di Anassimandro), ma esiti
Meccanicismo: concezione
filosofica ed epistemologica, del movimento: in questo senso Anassimene sembra
tipica della filosofia moderna anticipare una concezione meccanicistica* dell’unitra il XVII e il XVIII secolo, verso, riducendo le differenze qualitative tra gli
che riduce la realtà a due soli
elementi a pure differenze quantitative. (La Terra,
elementi: materia e movimento.
ad esempio, vista come risultato della condensazione, è una superficie piatta sospesa nell’aria, attorno a cui ruotano gli astri,
a loro volta interpretati come risultato della rarefazione).
Anassimene, porta alle estreme conseguenze il motivo della forza cosmica
dell’universo già presente in Anassimandro. Cioè la concezione di un tutto
ordinato organicamente in cui ciascuna parte è in funzione dell’altra e del
tutto. Il concetto di «aria» rimanda in questo senso anche a profondi significato
cosmico-religiosi: essa è interpretabile come pneuma, cioè come «soffio vitale», «anima del mondo», proprio a convalidare l’ipotesi di un principio vitale e
organico, in perenne movimento, da cui tutto si origina e sviluppa.
Per riassumere, diamo uno schema che propone i principi generatori del
mondo secondo i protagonisti della scuola di Mileto sono:
Talete ➝ acqua
Anassimandro ➝ ápeiron
Anassimene ➝ aria (nebulosità)
14
La scuola pitagorica prende il nome da Pitagora (571-697 a.C. circa) che,
nato a Samo (isola ionica), si trasferì nella Magna Grecia, a Crotone, dove
fondò una comunità religiosa che coltivava interessi filosofici e scientifici.
La tradizione lo descrive circondato da un fascino misterioso, quasi divino,
come il «maestro al quale si deve assoluta riverenza e obbedienza».
I discepoli di Pitagora si attenevano rigorosamente all’autorità della dottrina professata dal maestro. Secondo la tradizione, i Pitagorici conducevano
vita in comune, osservavano particolari norme condivise nel modo di vestire
e nell’astinenza da alcuni cibi e rispettavano il principio della comunione
dei beni.
Il numero, considerato il principio primordiale (archétipo) secondo questa
dottrina, pur non essendo una realtà intellettiva, esprime un maggior livello
di astrazione rispetto e agli altri «archetipi» della filosofia ionica. Secondo i
pitagorici, infatti, il principio fondamentale delle cose non può essere costituito
da un elemento materiale.
La realtà, però, non è statica come quella eleatica (v. infra), ma è in
continuo mutamento come in eraclito, così come le sue qualità.
Di conseguenza, il principio fondante dell’universo non può avere natura
qualitativa, ma quantitativa. Ciò significa che al di là dei mutamenti qualitativi,
permane immutato nella realtà un rapporto quantitativo, che è espressione
dell’armonia di tutto l’universo.
Le cose dunque si differenziano in base al loro numero e alla loro misurabilità: razionale è tutto ciò che è misurabile, calcolabile; irrazionale tutto
ciò che resta incommensurabile, incalcolabile.
Di qui il nascere degli opposti: pari/dispari, limitato/illimitato, quiete/
movimento. E poiché l’unità, il dispari, è principio di misura e di armonia
(armonia intesa come «rapporto» tra numeri) viene identificato con il bene;
all’opposto, dal pari, nasce la molteplicità, la disarmonia, e dunque il male.
L’armonia a livello universale si riflette a livello particolare nell’idea che
l’anima costituisca un’essenza armonica e immortale.
L’anima, che nel corpo è prigioniera, si purifica attraverso successive trasmigrazioni da un corpo a un altro (secondo la Metempsicosi: credenza neldottrina della metempsicosi*) finché non diventa la trasmigrazione, purificazione
reincarnazione delle anime
degna di ricongiungersi all’Uno, principio divino di edopo
la morte.
tutta la realtà.
Di pitagorici si deve anche l’introduzione del concetto di Kosmos (cosmo),
per definire l’universo ove tutto è ordine perché determinato del numero e
nel quale l’uno è Dio.
15
2. Il pensiero ionico e l’origine della filosofia
4) Pitagora, la scuola pitagorica e il numero
I «numeri» per i pitagorici:
—sono l’archétipo di tutte le cose perché misurano tutto ciò che ci circonda e giustificano le qualità del mondo;
—hanno valore simbolico, magico e armonico: la loro armonia genera
la musica.
5) Eraclito: il logos e il fuoco
La tradizione ci ha tramandato la figura di un Eraclito filosofo oscuro e
solitario, cinico e anticonformista il cui pensiero, complesso ed enigmatico,
ha affascinato gli interpreti di tutti i tempi.
Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra sia nato ad Efeso, città della Ionia, e che
sia vissuto tra il 540 e il 475 a.C. circa. Discendente dai re di Efeso, si ritirò dalla vita
politica della sua città, dominata dai persiani, quando gli abitanti di efeso si ribellarono all’aristocratico Ermodoro, del partito di Dario, amico di Eraclito.
Parte Prima: Dalla fisolofia antica alla crisi della scolastica
Del suo scritto, Sulla natura (perì fuseos), composto probabilmente non
prima del 478 a.C., sono rimasti 140 frammenti. Ancora oggi risulta estremamente difficoltoso comprendere l’essenza, o il messaggio autentico, di
quest’opera costituita da aforismi. Con Eraclito, infatti, ha inizio quell’intreccio di forma e contenuto che caratterizzerà la storia «stilistica» della filosofia
occidentale: contenuti complessi vengono espressi attraverso uno stile a tratti
quasi inafferrabile.
Il logos. L’idea dominante della sua filosofia è che l’intera realtà sia retta
da un principio unitario (così come per i Milesi), a cui tutto risulta collegato.
Tale principio è il logos. Si tratta di un termine dai molti significati: si
riconnette al verbo greco legein, che significa «legare» ma anche «parlare»,
«discutere», «raccordare» elementi diversi. Partendo da questa etimologia, il
termine assunse successivamente anche il significato di «discorso interiore»,
di «dialogo interno». Di qui il passaggio al significato di «ragionamento»
e soprattutto a «ragione», ossia la facoltà di effettuare connessioni logiche,
riflessioni interiori.
Per Eraclito i significati della parola logos sono essenzialmente tre, tutti
tra loro connessi. Logos è anzitutto:
1) la «ragione» che governa l’universo, la sua legge universale;
2) il «pensiero» che coglie tale ragione universale;
3) il «discorso» che esprime questa conoscenza.
16
Il fuoco. Sebbene egli affermi che il «principio è il logos», un’entità assolutamente astratta dunque, tuttavia sente ancora il bisogno, come Talete, di
concretizzare tale principio in qualcosa di empirico, di materiale: più precisamente, nel fuoco, archetipo più fluido ed etereo degli altri elementi primi.
L’universo in questo senso non è il prodotto di dei o degli uomini, ma
rappresenta un ordine universale unico ed eterno.
Il fuoco di Eraclito non costituisce, come l’acqua o l’aria, esclusivamente
un «elemento naturale», ma il segno di un ordine nel movimento naturale: il
fuoco si accende e si spegne regolarmente, come dimostra anche il sole, che
brilla (di giorno) e si spegne (di notte) e tende sempre in alto.
La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue continue trasformazioni non rappresenta un divenire disorganico o caotico, ma è regolata
secondo ritmi, regole, leggi ben precisi. Ciò si spiega anche la metafora
fondamentale di Eraclito dell’allusione al logos come polemos, cioè come
«conflitto», che diventa il simbolo di tutte le lotte e trasformazioni che accadono nell’universo, e della loro superiore unità che consiste nell’identità
degli opposti in tensione tra loro.
Questa forma di «guerra» che è ovunque («Polemos è signore di tutte le
cose», scrive Eraclito) è il segno di una incessante mutazione dell’essere:
il divenire di tutte le cose, di cui parla Eraclito, è l’esito dell’eterno conflitto
che investe il tutto e che si esprime nella continua tensione e trasformazione
di un contrario nell’altro.
Il fuoco in questo senso suggerisce l’idea di dinamicità, di trasformazione
e, infine, di armonia degli opposti: dove c’è fuoco c’è la vita ma anche morte
(similmente, in greco, il termine «bios» denota sia la vita che la sua interruzione).
Su queste basi, si apre la polemica di Eraclito contro la scuola pitagorica:
Pitagora viene giudicato «inventore di coltelli», vale a dire dell’arte pericolosa
della retorica, il cui unico scopo è affascinare e sedurre l’ascoltatore con
dialoghi raffinati ma privi di verità. Della concezione pitagorica viene, inoltre, contestata sostanzialmente l’idea di un’armonia dei contrasti che si
evidenzia nella natura e nella struttura numerica e musicale della realtà.
Al contrario di Pitagora, la vera armonia è per Eraclito sempre e costantemente tensione tra i contrasti. «Divenire» significa proprio transitare da
un opposto all’altro. Ancora in questo senso infine è da interpretare il più
celebre frammento eracliteo.
17
2. Il pensiero ionico e l’origine della filosofia
Critica a Pitagora. Nella visione di Eraclito, il divenire si esplica nel passaggio incessante da un contrario all’altro (guerra / pace, amore / odio,
fame / serietà). Nell’alternarsi, i contrari vivono in una perenne dimensione
di guerra e armonia.
Parte Prima: Dalla fisolofia antica alla crisi della scolastica
«Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo», che
va inteso come attestazione dell’eterno fluire delle cose (principio del «tutto
scorre», pànta rhèi) quanto come conferma dell’idea di coincidenza degli
opposti: immersi in un fiume, siamo e, al contempo, non siamo in esso ma
non ci bagnamo mai nella stessa acqua per il continuo fluire della stessa.
La celebre frase del pànta rhèi sintetizza la visione eraclitea di un perpetuo
divenire che procede per continui passaggi da un opposto all’altro.
18
Scarica