Prezzi, valori, valutazioni

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Prezzi, valori, valutazioni
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• I prezzi sono dati espressi dai mercati; i valori sono grandezze stimate a mezzo
della previsione dei flussi attesi e dell’apprezzamento dei rischi (e quindi dei tassi):
sono perciò in parte opinioni, frutto di un processo complesso.
• I valori assoluti sono sempre più stabili dei valori relativi, poiché i primi risentono solo delle variabili fondamentali (flussi attesi e tassi), mentre i multipli risentono anche delle vicende dei mercati: con l’alternarsi di fasi di euforia e di depressione, con il succedersi di alti e bassi dei processi di concentrazione tra imprese,
e così via.
• La misura del valore è oggi specialmente rilevante in quattro ambiti applicativi:
– l’ambito delle garanzie societarie, tipico delle operazioni di finanza straordinaria (con particolare riguardo alla tutela degli azionisti e di tutti gli stakeholders
privi di poteri di controllo);
– l’ambito delle acquisizioni e cessioni di imprese (mergers and acquisitions);
– l’ambito della formazione del bilancio;
– l’ambito delle stime periodiche di performance delle imprese.
• Le valutazioni fondate sui flussi attesi sono le sole sicuramente razionali e universali.
• Non si valuta in modo credibile un’impresa se non la si conosce e se non la si
capisce a fondo. È pura illusione l’idea che l’applicazione di poche formule a grandezze non adeguatamente elaborate, analizzate e ponderate significhi valutare
un’impresa.
Un quadro logico:
il Giudizio Integrato
di Valutazione
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• La valutazione dell’azienda va concepita come un articolato sistema (il cosiddetto processo valutativo), nel quale informazioni (input), modelli e risultati vengono
composti in un unico quadro logico (il Giudizio Integrato di Valutazione, GIV).
• Nel GIV valutazioni assolute e relative vengono associate, saldamente ancorate
a un’idonea base informativa, elaborata mediante l’analisi fondamentale.
• Il GIV si fonda così su tre «pilastri»: i valori assoluti (collegati a «modelli» e «formule»), i valori relativi (i moltiplicatori) e la base informativa (ordinata con l’analisi
fondamentale).
• Essi si scambiano mutui appoggi. Per esempio, l’analisi a mezzo di moltiplicatori (valori relativi) può contribuire a migliorare i risultati delle valutazioni assolute, fornendo indicazioni utili sulle scelte attinenti ad alcuni parametri chiave, quali il costo
del capitale, il fattore di crescita «g», l’attendibilità dei ROE attesi ecc. D’altro lato, il
pilastro dei multipli richiede l’ausilio dei valori assoluti, nel senso che le differenze
tra i vari multipli devono essere spiegabili sulla base di modelli e formule di valutazione assoluta.
Le basi informative
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• La base informativa costituisce (con l’analisi fondamentale) la condizione necessaria per tradurre i modelli assoluti e i multipli in valutazioni efficaci, cioè affidabili e
dimostrabili.
• La base informativa per le valutazioni assolute comprende:
– l’analisi strategica, cioè il quadro macroeconomico, il quadro di settore e l’analisi delle risorse e delle competenze per l’impresa-target;
– l’analisi storica, riguardante i risultati contabili del passato (almeno a 3-5
anni), sia assoluti (E, EBIT, EBITDA ecc.) sia relativi (ROE, ROI ecc.), nonché le
grandezze contabili essenziali; i dati e i flussi finanziari;
– l’informazione patrimoniale (che viene specificamente trattata al capitolo 5);
– l’informazione riguardante i tassi, e in particolare i costi del capitale (che viene trattata nei capitoli da 7 a 9);
– la base informativa per le acquisizioni, comprendente i potenziali «latenti» o
«dormienti» dell’azienda-target; l’analisi delle sinergie (di mercato, di efficienza
operativa, finanziarie, tributarie ecc.); gli eventuali «differenziali di tasso»;
– i piani pluriennali, dei quali viene sottolineata la rilevanza ai fini della previsione efficiente dei flussi futuri.
• La base informativa per le valutazioni relative è trattata per cenni nel presente
capitolo e viene ampiamente esaminata nei capitoli 13 e 14.
L’analisi fondamentale
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• L’analisi fondamentale è il processo che organizza tutte le informazioni (compresi i piani pluriennali), le seleziona, le controlla, le elabora, le interpreta, ne compone
le eventuali contraddizioni; le traduce in strumenti anche formali idonei ai fini della
proiezione dei flussi (reddituali e finanziari) attesi.
• Le fasi principali di cui essa si compone sono:
– la normalizzazione dei dati contabili storici;
– l’allineamento ai principi contabili internazionali;
– l’integrazione economica dei risultati contabili;
– la verifica di affidabilità dei Piani poliennali (individuazione e controllo delle
ipotesi assunte);
– la capacità di implementazione dei Piani. L’affidabilità di un piano è infatti
strettamente legata all’effettiva partecipazione dei manager all’elaborazione
della strategia sottesa;
– l’analisi pro forma, intesa come la proiezione sugli anni futuri (compresi nel
periodo di previsione «analitica») dei tre documenti che compongono il bilancio
annuale: stato patrimoniale, conto economico, prospetto dei flussi finanziari;
– l’analisi dei trend, il cui aspetto più significativo è il confronto, per singole
voci, tra dati storici e previsioni.
• L’analisi fondamentale riguardante il costo del capitale (c.o.e. e WACC) è svolta
ai capitoli 7-9.
• L’analisi fondamentale per le valutazioni relative è considerata per cenni (multipli
adjusted e clean; cautele nell’uso dei deal prices) e ripresa ai capitoli 13 e 14.
L’analisi patrimoniale
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• L’analisi patrimoniale è una componente rilevante dell’analisi fondamentale. Anche da quando lo storico metodo patrimoniale non viene più annoverato tra i
modelli valutativi, l’informazione e l’analisi patrimoniale conservano un ruolo per
nulla secondario nel processo valutativo.
• L’analisi patrimoniale comprende:
– la revisione e la correzione dei valori contabili di attività e di passività. La revisione (normalmente omessa quando il bilancio è certificato) riguarda l’accertamento della rispondenza delle grandezze di bilancio a corrette regole contabili;
– la stima a valori correnti delle attività materiali. In larga parte questa materia
riguarda categorie di attività (immobilizzazioni tecniche, immobili civili, aree edificabili ecc.) che esigono talvolta il concorso di professionalità specifiche;
– la stima dei titoli a reddito fisso o delle partecipazioni;
– la stima dei crediti (con l’eventuale attualizzazione per taluni di essi);
– l’attualizzazione (eventuale) dei debiti finanziari. Essa si riferisce tipicamente
ai debiti a medio-lungo termine con tassi «non in linea» con i mercati;
– la posizione finanziaria netta, indispensabile nelle valutazioni asset side. Essa
è generalmente intesa come differenza tra le passività finanziarie (attualizzate) e
le attività finanziarie liquide;
– la misura degli oneri fiscali potenziali sulle plusvalenze che emergono dall’espressione a valori correnti di specifiche attività.
• Oggi sono poche le situazioni in cui le «formule» patrimoniali vengono assunte
tal quali per definire un compiuto modello valutativo. Si tratta delle società immobiliari di gestione e delle holding pure. Anche il criterio cosiddetto di «somma per parti» (SOP), usato nella stima delle società multibusiness, quale ne sia la struttura giuridica, è un caso tipico di applicazione di modello patrimoniale (infatti i veri processi
valutativi si applicano «a monte» rispetto alla «somma di parti»).
Gli intangibili
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• La pratica professionale si occupa di intangibili in riferimento a quattro principali fini:
1. misure di performance economica (cioè risultato economico di periodo a
fronte di quello «contabile»);
2. base informativa (economica e patrimoniale) nella valutazione delle aziende;
3. nuovi principi contabili internazionali;
4. comunicazione volontaria.
• Per assumere consapevoli decisioni sulla convenienza degli investimenti in intangibili occorre misurare la dinamica dei loro valori. Si possono produrre redditi
contabili anche «distruggendo valore» (e viceversa).
• La logica che questo libro propone si articola su tre punti:
– scelta di criteri e metodi di valutazione rispondenti a specifici requisiti;
– vincolo di «scenario reddituale»: il valore degli intangibili specifici non può
superare un valore-limite aziendale condizionato dallo «scenario reddituale» (tipicamente il valore potenziale controllabile, Wpc).
– finalità della stima: quest’ultima può influenzare sia le caratteristiche dei criteri e metodi adottabili, sia la misura-limite del valore aziendale che costituisce il
punto di partenza dei calcoli.
Il tema del «vincolo reddituale» è il punto focale di questa costruzione logica.
• I metodi di stima degli intangibili specifici sono suddivisi in quattro «famiglie»:
– criterio del costo (metodo dominante: costo di riproduzione);
– criterio dei risultati differenziali (metodo dominante: attualizzazione dei risultati differenziali);
– criterio comparativo (metodi dominanti: royalty rate, o relief of royalties; e
multipli impliciti nei deals);
– criterio delle ricerche di mercato.
I tassi per le esperienze
professionali non specialistiche
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• Gli obiettivi proposti a questo capitolo, dedicato agli operatori e consulenti non
specialisti, sono affrontati mediante due approcci:
1. la presentazione di una serie di esempi, tratti da casi concreti, in cui l’argomento dei tassi viene affrontato con differenti gradi di completezza. Si rendono
così innanzitutto evidenti due fatti:
– la diversità degli apparati metodologici con cui il problema viene affrontato
(da apparati semplici, fino ad apparati raffinati);
– la necessità, per tutti gli operatori anche non specialisti (ma che, in varie forme, si occupano di «valore»), di mettersi in condizione di comprendere l’essenza
degli apparati metodologici complessi; quanto meno al fine di apprezzarne il
funzionamento e di rendersi conto delle premesse e delle ipotesi sulle quali fondano le loro decisioni;
2. la rielaborazione, in termini semplificati (e possibilmente di agevole lettura),
di alcuni concetti-base che reggono la strumentazione metodologica fondamentale sul costo del capitale. Sono trattati i temi della coerenza tra tassi e flussi attesi; e il concetto di «tasso aggiustato per il rischio» (RADR), nelle componenti del costo-opportunità del capitale (c.o.e. e WACC) e degli aggiustamenti ai
tassi per la specifica azienda (aggiustamenti dei coefficienti beta e aggiustamenti «per fattori»).
• Nell’ambito dei criteri per la stima del costo del capitale viene esaminato il
modello teorico fondamentale (il CAPM) e per cenni vengono visti l’approccio dell’«estrazione diretta dai prezzi correnti di società comparabili» e i criteri empirici.
• Particolari attenzioni sono dedicate ai tassi per la stima degli intangibili specifici,
ove appare fondamentale la distinzione tra intangibili «a vita definita» e «a vita indefinita». Per i primi la scelta è a favore dell’utilizzo del WACC (o del c.o.e.); per i
secondi, i tassi sono inferiori o superiori al WACC, a seconda dell’importanza dei
marchi.
• In presenza di una pluralità di intangibili, è necessario il ricorso ad approcci convenzionali, tra i quali i più noti sono la stima autonoma del beta dell’asset, l’estrazione del tasso implicito nel costo del capitale di società quotate comparabili, l’utilizzo degli «equivalenti certi» nella stima del reddito di pertinenza dell’asset.
I principi logici
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• La scelta del tasso di attualizzazione va intesa come una fase integrante del processo valutativo. Per essere coerente con l’analisi fondamentale, essa deve rispondere a quattro principi:
1. il principio dell’avversione al rischio: a parità di risultati attesi, il tasso dev’essere in grado di attribuire maggiore valore all’impresa i cui risultati sono di
migliore qualità;
2. il principio della coerenza con l’analisi fondamentale: la scelta del tasso deve
evitare duplicazioni rispetto al processo di normalizzazione dei flussi di risultato
attesi;
3. il principio dell’affidabilità: la scelta del tasso deve seguire un processo che
riduca al minimo gli spazi di discrezionalità dell’esperto;
4. il principio della verificabilità: la scelta del tasso deve rispondere al requisito
della razionalità; deve cioè essere ispirata a un processo logico chiaro e convincente, ripercorribile in tutte le sue fasi.
• I rendimenti attesi (e quindi i tassi) non sono direttamente osservabili sul mercato. L’esperto deve perciò seguire un processo rigoroso nell’identificazione dei parametri che conferiscono a un generico tasso la qualifica di costo-opportunità del
capitale (cioè di rendimento ritraibile da investimenti di qualità comparabile). In
questo senso, i tassi debbono esprimere misure di mercato, senza tuttavia introdurre nell’analisi gli elementi di volatilità tipici delle valutazioni relative.
Modelli e parametri
per il costo-opportunità
del capitale
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• I criteri di stima del costo del capitale si dividono in due grandi «famiglie»: i criteri senza teoria economica e i criteri che si fondano su modelli teorici.
• Il modello di gran lunga più utilizzato nella stima è il CAPM (Capital Asset Pricing
Model). È stato definito il gold standard dei modelli di stima del costo del capitale. Il
suo successo è legato alla sua facilità d’uso: è infatti un modello lineare monofattoriale che consente con relativa facilità di risalire al costo del capitale proprio di
un’impresa (il c.o.e.).
• Nel mondo anglosassone è molto diffusa anche una versione modificata del
CAPM, che tende a limitare le distorsioni del modello originario, quando sia applicato a imprese di piccole dimensioni e che non presentino una storia significativa.
• I criteri senza teoria economica si possono ripartire in tre principali categorie:
– i criteri di estrazione diretta dai prezzi di borsa di società quotate comparabili;
– i criteri empirici, che desumono dall’esperienza, o dai report degli analisti di
mercato, la misura appropriata del costo del capitale;
– i criteri misti, fra i quali figura il criterio delle opzioni.
• La stima del costo del capitale con il Capital Asset Pricing Model (CAPM) richiede la scelta dei parametri di input più appropriati. Essa riguarda:
– le modalità di calcolo del coefficiente beta;
– la selezione delle società comparabili;
– il ricorso a misure di premio per il rischio di mercato (Equity Risk Premium,
ERP): storiche, aggiustate o ex ante.
Il modello reddituale
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• Il modello reddituale può essere declinato in quattro «famiglie» di metodi:
– i valori economici (o di capitale economico), il nocciolo storico del modello
(We);
– i valori potenziali puri (Wp);
– i valori potenziali controllabili (Wpc);
– i valori potenziali d’acquisizione (WA).
• Tutte queste «famiglie» di metodi fanno ricorso a formule nelle quali le componenti fondamentali sono:
– i flussi reddituali attesi, nelle versioni dei flussi annuali attesi per i primi n anni
(periodo di «previsione analitica») e dei flussi successivi, sintetizzati nel «valore
terminale»; in alternativa, del flusso medio atteso, a partire da subito o dall’anno
m-esimo;
– il tasso di attualizzazione, tipicamente il costo del capitale proprio, c.o.e., che
nelle formule asset side diventa il WACC;
– il fattore di crescita «g», che entra principalmente nella formula del «valore
terminale».
• Il modello reddituale, pur nato storicamente nell’ottica dell’equity side, cioè al
fine di esprimere direttamente il valore del capitale, può essere utilizzato, con alcuni adattamenti, anche per valutazioni asset side. Una necessità, quest’ultima, che
discende anche dalla circostanza che gran parte degli altri modelli valutativi, sia
assoluti sia relativi, accordano sempre più chiaramente la loro preferenza alle valutazioni asset side, che sul piano internazionale sono diventate ormai dominanti.
Il modello finanziario
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• Il più rilevante vantaggio attribuito dai pratici al modello finanziario (DCF) consiste nella maggiore oggettività rispetto al modello reddituale, in quanto esso esclude le voci di costo e di ricavo non aventi natura monetaria (i cosiddetti accruals nella terminologia anglosassone), la cui stima è esposta a giudizi soggettivi.
• I flussi di cassa nel breve termine sono peraltro stimatori spesso distorti della
capacità dell’impresa di generare flussi di cassa nel lungo termine. Ne deriva per il
DCF il rischio di errori, collegati alla difficoltà di distinguere fra componenti transitorie e componenti permanenti dei flussi attesi nel periodo di previsione analitica;
distinzione essenziale anche ai fini della stima del terminal value.
• Il DCF richiede pertanto la stima dei cosiddetti free cash flows, una configurazione di flussi di cassa «aggiustati» (il free cash flow è, infatti, un flusso di cassa
espresso al netto degli investimenti capaci di rigenerarlo nel tempo). Contrariamente alle opinioni più diffuse, il modello finanziario esige dunque un considerevole
impegno di normalizzazione dei risultati.
• Questo limite del DCF è spesso trascurato in letteratura, in quanto si è soliti fare
riferimento a casi in cui gli investimenti di mantenimento (i capex) coincidono con
gli ammortamenti: circostanza che riduce al minimo le differenze fra flussi di reddito
e flussi di cassa.
• Il modello finanziario genera valutazioni più aggressive e meno verificabili del
modello reddituale. Le soluzioni usate dalla pratica per ridurre tale aggressività delle stime sono sostanzialmente tre:
– le maggiorazioni al costo del capitale per scontare i più elevati rischi connessi
ai flussi oltre il periodo di piano;
– l’uso dei flussi di reddito nella stima del terminal value, eventualmente in congiunzione con l’impiego di multipli;
– un DCF a più stadi, con stima sintetica dei saggi di crescita dei flussi di cassa, così da ridurre il peso del terminal value.
• Gli ambiti di applicazione in cui il modello finanziario consente di giungere a
risultati affidabili sono perciò piuttosto limitati:
– le imprese steady state, con capacità di reddito costante nel tempo e investimenti di mantenimento allineati agli ammortamenti;
– le imprese in rapida crescita, che non abbiano ancora raggiunto il pareggio
economico, né siano in grado di realizzare nell’orizzonte di previsione analitica
flussi di reddito significativi;
– le imprese in declino, per le quali si possa adottare una prospettiva di vita
limitata nel tempo.
Il modello misto
patrimoniale-reddituale
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• Il modello «misto» è definito, nella versione-base con «stima autonoma del
goodwill», come somma di due addendi:
1. il capitale netto rettificato, espresso a valori correnti (K, che diviene K′ se si
comprendono anche gli intangibili specifici);
2. il goodwill, inteso come reddito medio differenziale atteso su n anni, attualizzato; dove il concetto di reddito differenziale corrisponde ai risultati medio-normali attesi, ridotti del costo del capitale, c.o.e., sul capitale investito (K o K′).
• Un punto centrale del modello riguarda la scelta dei tassi (i′ e i′′). Mentre i′′ viene
identificato nel c.o.e., il tasso i′ viene identificato alternativamente nel «tasso senza
rischio» rf (in presenza di redditi differenziali negativi) e rf + EPR (per redditi differenziali positivi).
• Il modello misto può assumere la formulazione cosiddetta «finanziaria», che è
tipicamente una formula asset side, intesa come somma delle attività correnti (C0),
del goodwill derivante dai redditi differenziali e diminuita dei debiti attualizzati. Con
questa formulazione il modello si avvicina all’approccio dell’EVA (Economic Value
Added).
• Il modello viene anche utilizzato per scopi professionali difficilmente perseguibili
con altri modelli valutativi. Le applicazioni più rilevanti sono le seguenti:
– come mezzo per una «verifica reddituale semplificata» delle stime patrimoniali analitiche, nei casi in cui sono necessarie (si pensi all’«apporto» di un’azienda o di un ramo d’azienda in una società di capitali);
– come metodo di rivalutazione «controllata» (si intende in relazione allo scenario reddituale) dei beni ammortizzabili di aziende industriali;
– per la valutazione delle aziende «in perdita»: un tema sul quale i modelli reddituali si rivelano sostanzialmente scoperti;
– per la valutazione del badwill.
I multipli
nella pratica professionale
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• Il ricorso alle valutazioni relative, a mezzo dei multipli, ha registrato negli ultimi
decenni una grande diffusione, che fa di questo strumento (e della complessa metodologia che ne sta alla base) una conoscenza indispensabile per tutti gli operatori.
• Un uso troppo disinvolto dei multipli significa peraltro assumere implicitamente
che i prezzi di mercato delle società comparabili rappresentino una stima non
distorta del loro valore fondamentale e che quest’ultimo possa essere spiegato da
un’unica variabile rilevante (utile netto, EBIT, EBITDA, valore di libro, fatturato ecc.).
Tale circostanza è peraltro da verificare caso per caso e non può essere assunta
acriticamente.
• L’uso dei multipli va dunque inserito in un processo di valutazione in grado di
garantire che:
– sia individuabile un nesso causale fra quantità aziendale e prezzo;
– tale nesso sia spiegabile sulla base di una formula di valutazione;
– il multiplo sia ragionevolmente stabile nel tempo;
– siano identificabili gli elementi in grado di spiegare le differenze nei multipli
fra imprese comparabili.
• Il presente capitolo è dedicato a una presentazione del tema nelle linee generali,
a uso principalmente dei professionisti non specialisti di valutazioni.
La teoria dei multipli
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• La complessa strumentazione metodologica e l’ampio materiale empirico riguardanti i multipli di società comparabili possono essere tradotti in un organico
corpus di principi e di regole, che costituiscono la teoria dei multipli. È necessario
prendere atto che l’analisi per multipli è il fondamentale strumento di stima in contesti in cui i risultati economici sono difficilmente prevedibili e in cui la volatilità dei
prezzi delle società comparabili è elevata.
• Di fondamentale importanza è la distinzione tra veri multipli (causali) e falsi multipli. Al fine di disporre di un vero multiplo di valore occorre che siano rispettate quattro condizioni:
1. che il denominatore del multiplo sia la variabile-chiave per eccellenza;
2. che esista un chiaro nesso fra denominatore del multiplo e variabili residue
(cioè che queste ultime siano spiegabili);
3. che la variabile a denominatore del multiplo sia espressa in forma standardizzata (cioè con i medesimi criteri per tutte le società comparabili);
4. che sia (possibilmente) identificabile un appropriato algoritmo di scomposizione del multiplo.
• Al fine di migliorare la qualità e l’utilità dei multipli, il numeratore e il denominatore vengono assoggettati a un processo di adattamento, che conduce dai multipli
grezzi ai multipli adjusted e clean.
• Oltre ai multipli tradizionali (cosiddetti di «primo livello), la prassi ha messo a
punto una serie di multipli di «secondo livello». Essi sono calcolati rapportando
multipli di primo livello a una quantità esplicativa di un nesso fondamentale. Il loro
intento consiste nel fornire all’analista un’immediata indicazione della ragionevolezza dei multipli di primo livello. Si hanno così i multipli to-growth, i multipli relative,
il multiplo REP, rating of economic profit.
• Va richiamata l’importanza della deduzione dai multipli (cosiddetta «estrazione»)
di alcuni parametri di sicura utilità per le valutazioni assolute: in particolare si tratta
del fattore di crescita «g», del ROE di lungo termine, del costo del capitale impliciti
nei multipli.
• I deal prices (usati nella costruzione dei multipli di transazioni comparabili) presentano alcune peculiarità. In particolare, si osserva che quando i multipli di transazioni comparabili sono molto più elevati dei multipli di società comparabili, i deal
prices vedono limitato il loro significato allo specifico affare (sono cioè firm specific)
e dunque non hanno un significato generalizzabile.
Il valore per le operazioni
di finanza straordinaria
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• Le valutazioni di finanza straordinaria comportano una serie di stime anche
sostanzialmente diverse, ma legate dal comune denominatore di esigere peculiari
cautele, in quanto ispirate da scopi «di garanzia societaria», cioè di tutela degli
azionisti minoritari e di altri stakeholders estranei al controllo delle società.
• Come sempre accade per le valutazioni che ricadono nell’ambito delle «garanzie societarie», le scelte sono condizionate dai vincoli legali e dai regolamenti
nazionali. Nell’ambito di norme spesso generiche, vanno peraltro costruite regole
concettuali e operative, che possano offrire garanzie di correttezza ed equità.
• Per ciascuna delle principali operazioni di finanza straordinaria sono state predisposte apposite tavole, che individuano:
– l’importanza attribuibile a «modelli» e a «formule» di valutazione, in tal modo
componendoli in un vero e proprio processo valutativo;
– le combinazioni consigliate di «modelli e formule», cioè giudicate idonee, o
minimali, cioè adeguate o appena sufficienti.
• Anche per le operazioni di finanza straordinaria, nelle quali il ricorso ai multipli è
sostanzialmente estraneo alla cultura giuridica e amministrativa del nostro paese
(si pensi agli apporti, alle trasformazioni, al recesso, agli aumenti di capitale), il
ricorso ai multipli non è mai escluso, quanto meno mediante la verifica dei multipli
impliciti nelle valutazioni assolute.
• Tra i modelli basati sui flussi attesi (il cui peso appare sempre dominante) viene
spesso in luce, con funzioni che si manifestano di particolare rilevanza, la figura dei
valori potenziali controllabili (Wpc), mentre un peso assai più limitato viene riservato
ai valori potenziali puri (Wp).
• Permane, infine, la prevalenza – che fa parte della storia delle valutazioni del
nostro paese – dei valori di capitale economico (We): un modello che, nelle sue
varie formulazioni (compreso Wm), ha dato ampia prova di efficacia proprio nelle
valutazioni d’azienda nell’ambito delle operazioni di finanza straordinaria.
Le valutazioni per il bilancio
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• L’adozione dei nuovi principi contabili internazionali (SFAS negli Stati Uniti, IAS
in Europa), specie con la storica scelta di sostituire il principio tradizionale del
costo con quello del fair value, estende i temi del valore e della valutazione delle
aziende a una cerchia di operatori e di esperti professionali che fino a oggi ne era
stata sostanzialmente lontana.
• L’impegno che viene perseguito consiste nella definizione delle linee concettuali
e di metodo, pur assicurando i necessari collegamenti alla complessa precettistica
degli IAS, cercando tuttavia, per quanto possibile, di distinguere la trattazione
metodologica dall’abbondante manualistica che sul tema si sta riversando.
• Esempi significativi di tale orientamento sono, nel capitolo, la metodologia di
valutazione degli intangibili e la «formula tendenziale» nella valutazione delle aziende e delle Business Units ai fini dell’impairment test e della stima delle partecipazioni strategiche.
• Il contributo che il testo offre sull’argomento parte dall’individuazione delle quattro regole auree che dovrebbero sempre ispirare le valutazioni aziendali ai fini del
bilancio (anche nella formulazione del value in use); regole che almeno gli orientamenti interpretativi degli IAS non dovrebbero trascurare:
– in primo luogo, il ricorso a sole valutazioni assolute (e ancor più a sole valutazioni relative) è da evitare, in quanto non consente di articolare un vero processo
valutativo;
– in secondo luogo, modelli e formule, anche nelle migliori formulazioni e combinazioni, sono «gusci vuoti» se non hanno il supporto di un’ampia base informativa e di un’accurata analisi fondamentale, presupposti essenziali per qualsiasi valutazione;
– in terzo luogo, particolari cure vanno dedicate alla previsione dei flussi attesi
(economici o finanziari). La previsione non può mai prescindere da piani formalizzati e approvati dagli organi responsabili delle aziende, e la previsione tradotta
nei piani non può mai andare disgiunta dagli aspetti realizzativi (implementazione dei piani);
– in quarto luogo, la dimostrabilità diventa un momento essenziale quando si
tratta di valutazioni per il bilancio.
• I principi contabili internazionali obbligano a iscrivere gli intangibili specifici
acquisiti al fair value e a verificare (almeno con cadenza annuale, cosiddetto impairment test), per gli intangibili specifici a vita indefinita, che il loro valore recuperabile (il maggiore fra il value in use e il fair value less cost to sell) sia superiore al valore
contabile (carrying value).
• Se un intangibile specifico non è affidabilmente valutabile non può essere espresso separatamente dal goodwill (cioè dagli intangibili generici, la cui valutazione è
ottenuta in forma residuale rispetto al valore dell’impresa o della Cash Generating
Unit cui si riferiscono), che è pure assoggettato all’impairment test.
Dal valore dell’azienda al valore
dei pacchetti di controllo
e delle diverse categorie di titoli
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• Il prezzo di un pacchetto azionario di controllo è funzione, oltre che della capacità di reddito corrente dell’impresa (cosiddetto valore as is), anche dei miglioramenti
gestionali che l’acquirente può introdurre, delle sinergie che è in grado di generare.
Tali elementi fanno sì che il valore fondamentale di un pacchetto di controllo sia
diverso dal valore fondamentale di un pacchetto di minoranza.
• Il secondo elemento che concorre a spiegare il prezzo di un pacchetto di maggioranza è legato al diritto di controllo, cioè alla possibilità di decidere sulla destinazione delle risorse, su investimenti e disinvestimenti aziendali, sulle politiche
finanziarie ecc. Questo diritto è una facoltà alla quale il mercato riconosce valore di
per sé (cosiddetto premio puro di controllo).
• I premi e gli sconti puri si applicano ai valori fondamentali. Essi differiscono dai
premi e dagli sconti desunti dal confronto fra prezzi fatti sul mercato perché questi
ultimi comprendono, a differenza dei primi, le diverse basi di valore che contraddistinguono investimenti di natura diversa, quali, per esempio, titoli di minoranza e
pacchetti di maggioranza.
• Il premio riconosciuto dall’acquirente di un pacchetto di controllo rispetto al
prezzo delle azioni di minoranza identifica il premio di acquisizione e non il premio
di controllo. Il premio di acquisizione comprende sia una stima delle sinergie e dei
miglioramenti gestionali che l’acquirente si attende di realizzare, sia il valore puro
del controllo, inteso come facoltà di gestire attivamente la società.
La valutazione dei gruppi
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• La valutazione dei gruppi e, più in generale, delle imprese multibusiness richiede
una valutazione per somma di parti (Sum of Parts, conosciuta anche con l’acronimo SoP), in quanto le singole aree di attività si caratterizzano per profili di rischio,
prospettive di crescita e società comparabili molto diverse.
• In linea di principio, le metodologie da utilizzare nella valutazione dei gruppi
seguono due schemi differenti in relazione alla natura del gruppo: economico o
finanziario.
• Nei gruppi economici prevale la valutazione fondata sui flussi proporzionali di
risultato delle controllate, dirette e indirette, appartenenti a ciascuna area di business. La logica seguita rispecchia quella del bilancio consolidato, ancorché i flussi
siano considerati su base proporzionale, anziché su base integrale. I flussi di risultato rilevanti sono i risultati operativi. La valutazione segue, pertanto, una duplice
logica asset side: dapprima sono infatti valutate le attività delle società controllate
di pertinenza del gruppo (valutazione pro-quota escluse le minoranze), la cui somma determina il cosiddetto NAV (net asset value) di gruppo; successivamente dal
NAV viene detratto il debito di pertinenza del gruppo (escludendo il debito di pertinenza delle minoranze).
• Nei gruppi finanziari prevale invece una valutazione incentrata sul bilancio individuale della capogruppo. La logica di valutazione seguita è equity side per le controllate e asset side per la capogruppo. L’esperto stima il valore economico delle
singole partecipazioni di maggioranza in una prospettiva stand alone e, quando ne
ricorrano le circostanze, aggiunge un premio di controllo. Al valore complessivo
delle partecipazioni vengono poi sommate altre eventuali attività direttamente detenute dalla capogruppo. Infine, è detratto il solo debito della capogruppo.
La relazione di valutazione
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• Negli Stati Uniti le associazioni professionali definiscono con rigore e dettaglio le
regole che vanno seguite nella definizione dei contenuti e dei principi cui debbono
ispirarsi le relazioni (business valuation standards). Si tratta di orientamenti che gli
esperti professionali di tutti i paesi dovrebbero far propri.
• L’istituto dei revisori contabili tedeschi (IdW) ha da oltre vent’anni enunciato
quattro principi che non dovrebbero essere dimenticati: il «Principio dell’analisi
storica», il «Principio della chiarezza nell’applicazione di metodi di stima», il
«Principio dell’irrilevanza della prudenza», il «Principio dell’utilizzazione di informazioni verificate».
• Al fine di risultare efficace, la relazione di valutazione deve rispondere a quattro
«regole-base»:
1. deve dimostrare la conoscenza dell’azienda, dei mercati, dei settori nei quali
essa opera;
2. deve dimostrare la conoscenza dei mercati finanziari, da cui discendono
alcuni fondamentali parametri valutativi;
3. deve essere la fedele interprete del processo valutativo;
4. deve essere una rappresentazione convincente, cioè ordinata, documentata,
comprensibile del lavoro professionale svolto e delle conclusioni cui esso è pervenuto.
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