Barbari e Germani fra tardo antico e alto medioevo: reviùsione concettuale Il mondo antico come un sistema caratterizzato da un centro ricco e da una periferia povera (l’impero e il mondo barbarico, rispettivamente): il secondo viene strutturato, modificato e trasformato da quanto accade al centro. Secondo P. Geary, «i germani sono stati la più grande creazione di Roma» (popolazioni che vivono in simbiosi col mondo romano, sempre funzionali allo scopo, e che condividono col mondo romano valori, simboli di prestigio, religione, lingua) Concetto di etnogenesi Apertura anche dal punto di vista etnico Processi di identificazione talvolta favoriti dai Romani stessi (fonti archeologiche, approccio antropologico come motori di questa revisione storiografica) superamento dell’idea dell’alto medioevo come risultanza dell’incontro di ‘latinità’ e ‘germanesimo’ come entità distinte, marcate, riconoscibili, chiuse in se stesse I barbari e la cultura europea Il ruolo dei barbari, e specialmente dei germani, nel processo che condusse alla caduta dell’Impero romano e alla nascita dell’Europa medievale è stato uno dei temi più discussi fin dalle origini della storiografia moderna. Un dissenso di fondo sul senso di questa presenza ha animato il dibattito nel corso di vari secoli, dissenso che si rispecchia in una terminologia che è rimasta sempre la stessa: il fenomeno delle «invasioni barbariche», come furono definite dagli storici italiani e francesi, assumeva infatti nel linguaggio storiografico tedesco l’etichetta di «migrazione dei popoli» (Völkerwanderung). Anzi, generazioni di tedeschi, dall’Umanesimo quattrocentesco al 1945, hanno elaborato la propria identità e la propria peculiarità culturale come radicate nei tempi dei primi germani. I «nobili selvaggi» descritti, intorno al 100 d.C., da Tacito nella Germania, furono assunti a modello di una vita semplice, pura, non corrotta da influssi della civiltà urbana e mediterranea. Questa costruzione ideologica ha assunto nel corso del tempo e a seconda dei contesti storici valori ben diversi nella storia moderna dell’Europa, attirando l’attenzione anche di intellettuali di altri paesi. Nella prospettiva di un illuminista come Montesquieu, nel Settecento, la Germania antica serviva come esempio di una vita libera e democratica; nella letteratura romantica del primo Ottocento tedesco, simbolizzava i valori comuni e profondi di una nazione culturale che non poteva diventare Stato nazionale; nel nazionalismo tedesco intorno al 1900, stava al centro di un’ideologia antimoderna e militaristica; e, infine, durante il nazismo, entrò in relazione con le teorie pseudo-scientifiche della superiorità della razza germanica che avrebbero istigato alla guerra e all’Olocausto. Solo nel dopoguerra furono gradualmente smantellate le costruzioni ideologiche delle quali i barbari del passato costituivano un punto di riferimento. Oggi quei barbari non vengono più concepiti come facenti parte di una realtà nettamente definita, dotata di un’unica, autentica matrice identitaria, più pura della civiltà classica, o magari della nostra. Non è più possibile guardare alle società barbariche come modello di una vita incorrotta e più vicina alla natura, anche se nella cultura comune ancora oggi può succedere di registrare immagini di questo tipo, magari attribuite più frequentemente, in ambienti che coltivano culture mistico-esoteriche, ai celti. Per gli storici di oggi, anche il mondo barbarico è un fenomeno storico, dinamico, pieno di rotture e contraddizioni, da analizzare innanzitutto come spazio periferico della civiltà antica e non più come espressione di una perduta età dell’oro. Eppure, negli studi storici si sente ancora il peso, molto più forte di quanto si creda, delle antiche ideologie. Chiunque si occupi dei germani, infatti, deve anche tornare a leggere le molte interpretazioni che sono state date nel corso del tempo e che si sono sovrapposte su questo tema, determinando, come accade con ogni grande questione storica, un intreccio difficilmente districabile. Una lettura innocente, non ideologica, ad esempio della Germania di Tacito, è diventata impossibile. La realtà del passato da una parte e le sue percezioni antiche e moderne dall’altra sono piani inseparabili. Ci chiederemo dunque che ruolo giocano nella formazione dell’Europa altomedievale le tradizioni culturali, religiose e politiche delle popolazioni germaniche e nomadi che si confrontano con il mondo romano e cristiano; quali di queste culture resistono meglio e quali vengono cancellate; come conosciamo le civiltà che non ci hanno lasciato (in linea di massima) fonti scritte. Ma c’è un interrogativo del tutto preliminare. Qual era, presso i contemporanei, la percezioni dell’alterità etnica nel mondo tardoantico? Le fonti scritte sul barbari e i germani Per noi, i barbari tardoantichi restano più o meno muti. A parte qualche iscrizione runica, spesso molto breve ed enigmatica, le culture barbariche non hanno lasciato fonti scritte dirette. L’unico testo germanico esteso è la traduzione gotica della Bibbia, elaborata da vescovo Ulfila nel secolo IV e fatta copiare in un lussuoso codice purpureo dal re ostrogoto Teodorico nell’Italia del secolo VI (il cosiddetto Codex argenteus, oggi a Uppsala). Gli storici di origine barbarica, come il goto Jordanes (sec. VI), il burgundo-franco Fredegario (sec. VII), l’anglosassone Beda e il longobardo Paolo Diacono (sec. VIII), scriveranno la storia dei Regni romano-barbarici adottando il latino e un punto di vista che, più o meno, riprendeva quello degli autori classici. Solo più tardi cominceranno ad apparire i primi testi non frammentari in lingua germanica, dapprima, dal secolo VII, in Inghilterra (tra l’altro, leggi e poemi epici come Beowulf), e poi, dal secolo VIII, anche nel mondo franco. Trascorsero altri secoli prima che nascessero due distinte tradizioni letterarie, spesso considerate come autenticamente germaniche: da una parte le saghe nordiche, dall’altra i poemi epici di ambientazione feudale. La tradizione delle saghe – leggende costruite attorno alle vicende di personaggi eroici si sviluppa fra l’Islanda e la Scandinavia. Il frutto principale è l’Edda, raccolta di storie epiche scandinave che contiene molte notizie sui dei ed eroi pagani. I racconti dell’Edda furono scritti tuttavia nei secoli XII-XIII in un ambiente già cristianizzato e l’autore più famoso, Snorri Sturlusson, che aveva studiato a Parigi, apparteneva all’élite intellettuale dell’Europa cristiana. Anche per questo i testi nordici difficilmente possono essere considerati una chiave per accedere al mondo germanico continentale del primo millennio. Più o meno nello stesso periodo, l’Europa feudale elaborava una letteratura epica, che narrava storie remote con soggetti mitici come i nibelunghi, o di origine storica come Teodorico/Dietrich o Attila/Etzel. Anche queste leggende hanno più a che fare con la cultura del Duecento e del Trecento che non con quella barbarica di molti secoli prima. Il quadro è simile per la cultura celtica, che trovava espressione scritta principalmente nella cultura cristiana irlandese. In realtà, ciò che sappiamo sul mondo barbarico prima dei carolingi proviene in gran parte dagli scrittori greci e latini. Il termine stesso, «barbaro», è una parola greca che significava in origine «straniero» e che alludendo al gergo incomprensibile dei non elleni assunse nel corso del tempo, nella cultura greco-romana, risonanze negative e di disprezzo. Nella storiografia contemporanea esso viene ancora adoperato, ma in modo neutrale, puramente descrittivo. L’immagine del barbaro era costruita su generalizzazioni e stereotipi e qualche volta si colorava di dettagli suggestivi: i barbari erano selvaggi, più simili ad animali che a uomini, erano nomadi privi di case, spesso giravano nudi o coperti di pelli, erano sporchi e puzzavano. Spesso venivano rappresentati con corporature gigantesche, con barbe folte e lunghi capelli incolti. L’immaginario poteva arricchirsi di toni inverosimili: ecco allora i guerrieri che mangiano carne cruda e talvolta bevono sangue, anche umano. Gli autori antichi sottolineavano il loro coraggio, che poteva trasformarsi in folle temerarietà, e il loro terribile furore bellico: ma contro un esercito romano ben disciplinato emergeva la loro fragilità e la loro scarsa resistenza psicologica. Lo stereotipo guerriero non lascia da parte le donne: esse accompagnano gli uomini al campo di battaglia per incitarli o magari per lottare anche loro; e se i loro uomini fuggissero, esse reagirebbero duramente fino a ucciderli, per poi sacrificare se stesse per non cadere nelle mani dei nemici. Tali comportamenti sono determinati – dicono queste rappresentazioni – dal clima freddo, che a sua volta riscalda il sangue degli uomini rendendoli irascibili. Nella prospettiva della cultura mediterranea il Settentrione d’Europa era abitato allora da popolazioni numerose, costantemente minacciose, sempre in cerca di luoghi più miti e fecondi in cui trasferirsi e pronte per questo ad abbandonare il suolo patrio per invadere le regioni occupate da altri popoli. L’immagine dei barbari può comunque assumere anche un carattere più positivo. Essi possono essere evocati come nobili selvaggi, ad esempio da Tacito che descrive i germani, o da Pompeo Trogo e Giustino che riflettono sugli sciti. Questi ritratti dell’Altro dipingono in modo moralizzante un mondo opposto alla civiltà mediterranea, ma rievocandolo ritrovano in esso alcune delle virtù della Roma arcaica. Elogiano così il pudore dei popoli non civilizzati: non viene praticato il sesso prematuro e gli sposi si mantengono fedeli. Sottolineano altresì che i barbari non hanno bisogno del circo, del teatro e degli spettacoli, del lusso e dei gusti raffinati. Sono questi i tratti della Germania di Tacito nei quali generazioni di tedeschi hanno trovato la prova della propria superiorità morale, e attraverso i quali hanno formulato il richiamo alle virtù primordiali dell’anima del popolo (Volksseele), un’anima pura da restituire, in uno sforzo morale guidato dagli antichi modelli, ai corrotti tempi moderni. In realtà ora sappiamo che queste immagini spesso ci dicono di più della cultura mediterranea che le elaborava che non del mondo barbarico che vorrebbero descrivere. Certo, negli stereotipi c’è spesso un’elemento di verità, e i greci e i romani erano capaci di percezioni molto acute. Ma comparando i diversi testi che parlano dei barbari, si nota anche quante incertezze e contraddizioni essi contenessero. Nemmeno gli elementi fondamentali di questi immagini erano senza ambiguità: erano biondi i germani, come vuole anche il mito moderno, oppure rossicci, come sostenevano altri autori? Erano avidi d’oro o piuttosto così primitivi che con l’oro non sapevano nemmeno che fare? Erano tenaci e lungimiranti oppure i loro tremendi furori ne fiaccavano facilmente l’azione? Questi, e molti esempi simili, dimostrano che l’immagine del barbaro era un’astrazione non adatta a descrivere correttamente le molteplici forme di vita alle periferia del mondo romano. I processi di acculturazione L’archeologia conferma questa prospettiva aiutando a mettere in luce la diversità e la ricchezza culturale di tutte le presenze collocate fuori dell’Impero e con le quali i romani entravano in contatto. Ad esempio, le ricchissime tombe trovate in aree diverse dimostrano che i guerrieri barbari, si servivano di vasellame d’argento, di oggetti in vetro, di cinture militari di fattura romana, non diversi in questo dall’élite imperiale dello stesso periodo. In realtà, attraverso complessi processi di acculturazione e di romanizzazione il mondo barbarico si trasformò ben prima dell’avvio della stagione delle invasioni. D’altra parte, entro i confini dell’Impero, per esempio in molte regioni di montagna, sono attestate forme di vita che si differenziavano dallo splendore classico delle metropoli, e che alterano l’apparente uniformità di cultura e stili di vita della società romana. Ciò significa che la frontiera imperiale, nonostante tutta la sua impressionante architettura difensiva, non era affatto un confine che separava con nettezza due spazi omogenei, civiltà e barbaritas, come sosteneva l’ideologia imperiale. Studi recenti hanno sottolineato questa differenza fra la «frontiera immaginaria» e le molte funzioni delle strutture reali del limes. Quest’ultimo era in realtà un simbolo imperiale; era una linea di controllo militare e civile, ma anche una zona di scambio e di comunicazioni; ed era pertanto, lo spazio di confine, un canale di forte penetrazione dei modelli di vita romani, modelli che forse non bisogna assimilare alle immagini classicistiche dell’antico trasmesse a noi a partire dal Rinascimento, ma che comunque esercitavano un’attrazione molto intensa. La recente archeologia ha messo in luce molti aspetti dell’influenza del mondo romano sulle culture materiali barbariche, come ad esempio nel modo di vestire, nonché sull’arte e l’iconografia dei popoli confinanti: si pensi ai bratteati nordici, i medaglioni d’oro con uomini e animali stilizzati che seguono modelli di monete romane anche quando raffigurano scene della mitologia germanica. Lo spazio barbarico non era dunque quel mondo tanto diverso e incomprensibile, dipinto dagli scrittori romani, ma parte integrante dell’universo tardoantico. Era la periferia di un sistema del quale Roma e l’Italia, e più tardi Costantinopoli, erano i centri. Questa osservazione fondamentale non implica, come abbiamo già accennato, che non ci fossero differenze culturali entro questo immenso spazio periferico. Variavano molto la qualità delle relazioni fra i diversi gruppi barbarici e il mondo romano, e il grado di integrazione all’interno di quest’ultimo delle popolazioni che avevano accettato la convivenza. La disponibilità al contatto, allo scambio e anche all’integrazione non era una meccanica funzione della distanza geografica, come ipotizzavano gli autori romani, per cui le popolazioni più lontane dai confini dell’Impero, ambientate in climi più freddi, erano anche quelle più barbariche. Non ci sono, per esempio, altri luoghi al mondo dove sono state ritrovate tante armi romane come in certe paludi scandinave (ad esempio, a Illerup in Danimarca), dove, forse per ragioni di culto, finivano sommerse centinaia di spade e lance romane. Simili rinvenimenti fanno pensare alla diffusione di manufatti e di modelli culturali provenienti dal mondo romano presso nuclei di guerrieri che vivevano anche a grande distanza dal limes: per costoro imitare le forme militari romane era evidentemente un modo per accrescere il proprio prestigio. Questo sistema di relazioni era dunque molto dinamico, e finiva per trasformare entrambi i mondi in contatto, ossia il centro e la periferia dell’universo tardoantico. Alla base di tale sistema vi erano interessi reciproci alla cooperazione, e la possibilità che fra i capi delle etnie barbariche e l’Impero avvenissero precisi scambi politici. Nel corso delle loro conquiste, ad esempio, i Romani tendevano a mantenere l’equilibrio politico preesistente, preservando il dominio delle élites barbariche sulle città e sulle comunità sottomesse. Fu in questo modo che la Gallia divenne parte integrante dell’Impero, attraverso cioè la cooperazione attiva dei capi delle popolazioni locali. In questo senso, l’Impero assomigliava più a un’alleanza di migliaia di comunità locali che a una monarchia assoluta, premesso che non era in discussione né il pieno controllo militare da parte dell’Impero delle regioni conquistate né l’inglobamento di queste ultime nel sistema fiscale dello Stato. Una soluzione di questo tipo era sufficientemente elastica: inevitabilmente facilitava una concentrazione formidabile di potere e di ricchezza; ma offriva al contempo ai soggetti più ambiziosi delle élites regionali significative prospettive di carriera nell’apparato centrale, specie nell’ambito dell’esercito. Quando, nel 16 d.C., l’imperatore Tiberio interruppe le offensive militari al di là del Reno, fino a quel momento incessanti, la diplomazia romana costruì una rete di rapporti privilegiati con molti capi di popoli e tribù germanici. A questo fine esistevano strumenti molto efficaci: a parte la stipulazione di alleanze formali, veniva praticata l’offerta di doni ai capi con i quali l’Impero desiderava avviare relazioni; e talora si provava a scegliere, fra gli ostaggi o i profughi barbari che vivevano in Italia, qualcuno da elevare alle condizioni regia (?) con il sostegno imperiale e da rispedire in questa veste al suo popolo. Le buone relazioni con i barbari servivano all’Impero soprattutto per soddisfare la continua necessità di armati da inserire nelle proprie unità militari, tanto nelle vere e proprie legioni dell’esercito quanto nelle formazioni ausiliarie che partecipavano solo ad alcune bataaglie. Questa richiesta costante di guerrieri barbari s’intensificava a seguito delle numerose guerre, interne ed esterne, che furono combattute negli ultimi secoli dell’Impero, a partire dal III d.C. Dal punto di vista dei barbari, l’ingresso nelle potenti armate romane rappresentava un motivo di prestigio e di potere che non aveva eguali. Molti, dopo una carriera nell’esercito imperiale, tornavano a casa, nelle foreste della Germania, portando con sé armi e altre insegne che rappresentavano le prove visibili di un successo a cui coloro che erano rimasti a casa non avrebbero potuto potuto ambire. Reperti militari di provenienza romana si trovano ancora, per esempio, nelle ricche tombe del iii e iv secolo nell’ambito del cosiddetto «gruppo Hassleben-Leuna» della Germania centrale. Da questi fenomeni di assimilazione, l’Impero romano sicuramente trasse grandi vantaggi: per molte generazioni, infatti, migliaia di barbari diedero la vita nelle guerre romane. Ma a lungo termine, quegli stessi fenomeni stimolarono una dinamica ben diversa. Fin dall’inizio, gruppi di barbari avevano tentato di conquistare con la forza ciò che le autorità romane non sempre erano pronte o disponibili a offrire loro. E questa pressione aumentò gradualmente nella misura in cui pezzi di società barbariche entravano a far parte del sistema imperiale. Ma determinavano le relazioni di tipo militare fra romani e barbari ben più profonde conseguenza nelle società di questi ultimi. Le opportunità di promozione offerte dal mondo romano mettevano in moto al loro interno processi che incrementavano infatti le diseguaglianze sociali. Abbandonare le occupazioni e i lavori tradizionali e seguire il modello prestigioso del guerriero specializzato diventava una prospettiva sempre più attraente. Le società barbariche militarizzate che affrontarono l’Impero nei secoli tra il IV e il VI erano dunque in larga misura realtà diverse da quelle dei secoli precedenti, frutto in parte di esigenze espresse dall’Impero. Nel mondo barbarico, amici e avversari dei romani appartenevano tutti agli stessi gruppi di guerrieri, sempre alla ricerca di opportunità per inserirsi nel sistema militare e istituzionale romano, in cui circolavano onori e ricchezze che nessuna delle società barbariche poteva offrire. Il contatto prolungato con il mondo romano aveva profondamente mutato le realtà barbariche e il processo di trasformazione del primo aveva determinato anche una trasformazione parallela nelle seconde. Per una revisione dei concetti di etnicità Chi erano questi barbari? A questa domanda tanto la storiografia antica quanto quella moderna hanno risposto fornendo, innanzitutto, definizioni di carattere etnico. Secondo questa logica, i barbari erano celti o germani, goti o franchi, avari o slavi. Fino a non molti anni fa, nessuno dubitava che queste classificazioni etniche riflettessero un ordine quasi naturale di tribù e di popoli. Nelle ideologie nazionalistiche dell’Ottocento e del primo Novecento, le radici nazionali nelle etnie del primo millennio venivano gelosamente difese. I tedeschi vantavano così la propria origine germanica, gli ungheresi erano fieri di richiamarsi al re unno Attila come loro progenitore, croati e serbi tentavano (e tentano ancora) di collocare l’inizio della propria storia in un periodo ancora più remoto. Oggi un modello di questi tipo, che assicuri l’esistenza di identità etniche coerenti e omogenee, è al centro di accesi dibattiti. Vediamo alcuni dei problemi principali che questa discussione solleva. Innanzitutto si pone una questione metodologica. Nei primi decenni del Novecento sembrava chiaro (e veniva esplicitamente sottolineato dalla scuola di Gustav Kossinna) che le tracce nelle fonti scritte, nell’analisi filologica e nelle scoperte archeologiche dovessero essere espressione della stessa realtà etnica: un popolo cioè doveva per forza parlare la stessa lingua, avere la stessa cultura, e vivere in un’unica, ben determinata comunità politica; situazioni diverse rappresentavano anomalie, giudicate spesso transitorie e di cui era necessario rintracciare il superamento; veniva applicata in tal modo una logica non dissimile da quella adoperata per la descrizione delle nazioni moderne. Oggi, invece, è diventato chiaro che un caso di questo tipo – un popolo come unità linguistica, culturale e politica chiaramente delineata – non rappresenta la norma ma piuttosto l’eccezione. L’archeologia altomedievale ci dice che ben difficilmente a un’area insediativa circoscrivibile corrispondeva un’unità etnica definita. E le fonti scritte di regola non consentono di delimitare una regione abitata dalle etnie delle quali parlano. Ambedue le discipline insomma, l’archeologia e la filologia, non possono attribuire i propri materiali a raggruppamenti umani «naturali», a comunità preesistenti. La distribuzione geografica di gran parte dei reperti archeologici non corrisponde alla geografia delle supposte etnie. Spesso, le attribuzioni etniche che ancora oggi molti studiosi propongono si riferiscono a pochi tipi di oggetti, a certe forme di fibbie o di ceramica. Ma anche queste interpretazioni poggiano su idee preesistenti, spesso avanzate non da archeologi ma da studiosi, storici o filologi, che utilizzano fonti letterarie tradizionali. Simili interpretazioni, che danno l’illusione di una ricognizione interdisciplinaria di un problema complesso, lasciano sempre aperta la possibilità di letture alternative. Questo non vuol dire che sia impossibile l’attribuzione etnica di reperti archeologici. Qualche volta, come nel caso degli avari, il profilo culturale di una comunità etno-politica è abbastanza riconoscibile. In altri casi (come quello degli unni) gli oggetti trovati nelle tombe testimoniano non l’esistenza di una cultura etnica, ma di una civiltà internazionale, diffusa dal Mar Nero alla Gallia. Paradossalmente, se la tomba del re franco Childerico (morto nel 482) a Tournai, nell’odierno Belgio, fosse stata scoperta in Ucraina, avrebbe potuto tranquillamente essere scambiata per il corredo di un re unno. La definizione etnica può dunque essere, a volte, il risultato di studi molto dettagliati, ma non può costituire il presupposto «normale» delle indagini sulla realtà barbarica. Passiamo al secondo problema. È difficile individuare in cosa consista l’etnicità altomedievale, il carattere etnico di una comunità. Che cos’è un popolo? Dall’etnografia antica fino alla sociologia moderna sono stati offerti nutriti elenchi di tratti distintivi dell’etnia come la lingua, il costume, i modi di vestire e di combattere. Ma tutti questi criteri oggettivi sono validi solo in qualche caso, e non validi in altri; non sono veramente applicabili neppure alle nazioni moderne, anche dopo lunghi processi di unificazione politica e istituzionale. Negli studi altomedievali, è stato Reinhard Wenskus negli anni sessanta a rinunciare per primo all’impiego di questi cataloghi oggettivi, fondando l’identità etnica esclusivamente su fattori soggettivi: qualcuno appartiene a un’etnia se sente di farne parte. Questa appartenenza può esprimersi attraverso segni esteriori, che tuttavia non sono sempre della stessa natura. Dal punto di vista semiotico possiamo dire che il segno «etnico» può solo essere interpretato come parte di un discorso etnico, un sistema culturale complesso e variabile, che non sempre è facile ricostruire. Terzo problema. Non possiamo assumere automaticamente l’identità etnica come un dato culturale condiviso da un’intera popolazione. In larga misura infatti i barbari si distribuivano in gruppi molto localizzati e molto ristretti, simili a quelli che gli antropologi chiamano faceto-face-groups, all’interno dei quali, secondo modalità specifiche, gli condividevano un’identità culturale e sentivano di appartenere a una comunità unitaria. Sembra che nel mondo barbarico del tardoantico e dell’alto medioevo solo nuclei socialmente ristretti di capi e di guerrieri, e forse di sacerdoti o di sapienti, si muovessero all’interno di ambiti più ampi. I franchi, ancora nel secolo VIII, non erano, nel senso stretto della parola, tutta la popolazione riconducibile a questa sigla, ma solo i potenti che s’incontravano ogni anno per decidere le guerre e le vicende politiche del Regno: era questo un esempio di face-to-face- group, come fuoco di un’identità etnico-politica più ampia ed eterogenea. Reinhard Wenskus ha chiamato questi gruppi «nuclei di tradizione», dai quali dipendeva la coesione di «popoli» come i goti o i franchi. Etnie, dunque, come realtà soggettive. Ma si pone un quarto problema. Le testimonianze di cui disponiamo non offrono, di solito, autodefinizioni, ma percezioni esterne. È lecito ritenere, come si faceva una volta, che queste percezioni romane o greche (o, più tardi, franche) descrivessero fedelmente le realtà barbariche? In realtà sembra piuttosto che quelle letture contenessero lo sforzo di inquadrare una situazione confusa e dinamica all’interno di schemi riconoscibili e ordinati. Per questo dobbiamo essere prudenti a proposito delle specifiche denominazioni con le quali la politica romana individuava i gruppi concreti con i quali aveva contatti: possiamo fidarci fino d un certo punto della terminologia latina. Erano due, principalmente, le strategie cognitive di cui disponevano gli scrittori latini per mettere ordine nella confusa percezione della complessa realtà barbarica. La prima era fondata sull’idea, che in varie forme sopravvive quasi fino ad oggi, sicuramente fino al primo Novecento, secondo cui i popoli in fondo non cambiavano, ma cambiavano solo i nomi (al fine di ingannare i romani). Dunque era lecito recuperare denominazioni in uso centinaia di anni prima. Per questo gli unni furono chiamati sciti (come il popolo delle steppe di un millennio fa), poi gli avari, gli unni, e ancora più tardi gli ungheresi furono tutti assimilati all’interno della stessa tradizione etnica, posta di volta in volta sotto le denominazioni tradizionali: sciti, unni e avari. In modo analogo, i franchi furono chiamati anche sugambri (un popolo disperso dalle guerre di Augusto), e i goti geti (un popolo di nome simile, che viveva vicino ai Carpazi orientali intorno agli inizi della nostra era). La seconda strategia consisteva nell’adoperare denominazioni generali che designassero la popolazione di un territorio ampio, con forme di vita più o meno simili. Questi erano nomi generici, che però venivano usati come nomi etnici, perché individuavano un popolo concreto. È il caso, soprattutto, dei germani. Qui siamo di fronte a un fenomeno sconcertante. La storiografia moderna ha letto i testi antichi come prove che si riferissero a di popoli concreti. Ma gli autori antichi, come Tacito o Strabone, sapevano che il nome dei germani era stato dato dagli stessi romani per designare una realtà di cui poco si sapeva e si comprendeva, fatta di popoli e tribù insediati in un certo territorio. Il caso ‘particolare’ dei Germani Un popolo che si chiamava «germani» forse non c’è mai stato. In ogni caso, se c’era, non corrispondeva a quello che gli studiosi moderni chiamano così. L’origine dei germani è ancora poco nota, e rimane al centro di dibattiti accesi. Due cose invece sono chiare. L’antico termine «germani», come designazione della popolazione insediata nell’ampio territorio che si estendeva al di là del Reno, termine usato nell’antichità e nell’alto medioevo, fu introdotto da Giulio Cesare. Prima di lui, dal punto di vista romano c’erano solo due grandi complessi di popoli barbarici: i celti (o galli a Ovest, galati a Est), che abitavano nelle foreste della Gallia, della Britannia e dell’Europa centrale; e gli sciti, acclimatati nelle steppe dell’Europa orientale. I romani, fino al i secolo a.C., non avevano rapporti con i celti, che dominavano tutte le regioni a nord dell’Italia, da quelle dell’area danubiana fino a quelle prospicienti l’Oceano Atlantico. Anche nell’invasione tremenda dei cimbri e teutoni, alla fine del secondo secolo a.C., era percepita, dai contemporanei, una matrice gallica. Solo quando conquistò la Gallia Giulio Cesare si accorse del fatto che proprio dal punto di vista dei celti gallici c’erano dei popoli al di là del Reno che erano diversi, più primitivi. Corrispondeva ai disegni politici di Cesare accentuare questa diversità, così da giustificare da una parte la necessità di sottomettere la Gallia (per proteggerla dagli attacchi dei germani), e dall’altra l’opportunità di non sottoporre a inutili rischi gli eserciti romani avanzando oltre il Reno, dove abitava una popolazione più barbarica dei già barbari galli. Cesare introdusse dunque una netta distinzione fra Gallia e la Germania: nacque allora la Germania come spazio geografico delimitato a ovest dal Reno, a sud dal Danubio, a est dalla Vistola, e a nord dal Mar Baltico. La definizione non era priva di contraddizioni, perché c’erano germani anche a ovest del basso Reno: questa presenza derivava probabilmente dal fatto che nuclei germanici avevano in precedenza attraversato il Reno per cercare in Gallia regioni più prospere. Può darsi che appunto questi germani collocati fuori del sistema territoriale immaginato da Cesare fossero i primi a essere chiamati così: ma non sappiamo se il nome sia di origine gallica o sia un’autodefinizione. In ogni caso, attraverso Cesare, l’immagine e il nome dei germani diventarono corrente nella letteratura antica. Abbiamo però scarse prove che per i popoli ai quali si riferiva il termine «germani» fosse un’autodesignazione significativa. A quanto pare esso circolava fra le fila dell’esercito romano, in particolare fra le unità ausiliarie d’origine «germanica». Ma nelle popolazioni al di là del Reno e del Danubio erano adoperati maggiormente altri nomi, riferiti a specifiche realtà tribali. Nella tarda antichità, con l’apparizione di altri due nomi assai generici, franchi e alemanni, la designazione «germani» perse significato anche per i romani. È importante sottolineare un altro fatto poco considerato: avendo una connotazione territoriale, il termine «germani», non includeva i popoli «gotici» che, dal III secolo d.C., erano stanziati presso il Mar Nero e il basso Danubio. Gli osservatori romani assimilavano piuttosto questi ultimi agli sciti, i popoli delle steppe, oppure li identificavano con i geti. La seconda definizione dei germani, quella moderna, è fondata principalmente sulla lingua. Esempio classico è quello relativo alla Bibbia gotica di Ulfila, dalla cui analisi si può facilmente dedurre che il gotico era una lingua germanica: dunque i goti erano germani. È questa modalità di individuazione che ha dominato tutte le ideologie germanofile dell’Ottocento e del Novecento. Oggi i goti vengono annoverati nell’ambito dei «germani in Italia», una definizione bene accetta in ambito scientifico, ma si deve tenere presente che anche questa è un’astrazione, e non corrisponde affatto all’identità dei popoli dell’alto medioevo. Non è affatto chiaro infatti se fra tutti coloro che parlavano una lingua germanica esistesse la consapevolezza di servirsi di una lingua comune. Isidoro di Siviglia, nel secolo VII, quando enumera diversi popoli della Germania, nota che hanno costumi e lingue diverse. Solo nell’epoca dei carolingi (per esempio nell’opera del longobardo Paolo Diacono), si sviluppa la coscienza che le lingue germaniche fossero apparentate. Questa lingua vernacolare viene chiamata teotisca, che significa «popolare»: è la parola dalla quale deriva il nome «tedesco», e che originariamente designava anche la lingua longobarda e quella anglosassone. È dunque molto importante rendersi conto che non c’è uno sviluppo diretto dai germani antichi ai tedeschi moderni. Le rotture e le contraddizioni nella terminologia riflettono i movimenti dei popoli e li fluttuazioni della loro identità. Lo dimostrano anche i diversi nomi adoperati nelle lingue moderne per individuare i tedeschi. Gli inglesi li chiamano Germans, nonostante siano essi stessi di prevalente origine germanica; i francesi (e, in modo simile, gli spagnoli) allemands, termine derivato da uno dei principali popoli tedeschi, gli alemanni; i popoli slavi adottano nemeci, che certi filologi spiegano come «i muti», in contrasto con gli slavi stessi, «quelli chi parlano». Etnogenesi Soltanto oggi siamo in grado di capire, almeno fino a un certo punto, come sono complicati i processi etnici, le «etnogenesi». Gli scrittori medievali offrivano un modello più semplice: 1. l’albero genealogico. Secondo il modello dell’albero tutti i popoli avevano un progenitore, da cui spesso derivava anche l’origine del nome. Lo schema più famoso di diramazione dei popoli da un unico ceppo è quello contenuto nella Bibbia, uno schema che ebbe, peraltro, un’influenza straordinaria nel medioevo. Secondo il libro della Genesi, tutti i popoli del mondo discendevano dai tre figli di Noè: Sem (da cui provengono i semiti), Cham e Japhet. Isidoro di Siviglia attualizzò questo modello, inserendovi molti popoli del suo tempo. 2. Questo modello si alternava, senza contraddizione, con un secondo tipo di genealogia, di derivazione classica, che seguiva l’esempio delle leggende sull’origine dei romani. Così, ad esempio, i franchi credevano che anche i loro progenitori fossero arrivati da Troia, come Enea. 3. Per noi, comunque, il terzo tipo di genealogie è quello più interessante. L’esempio più famoso si riferisce ai longobardi: si tratta del tema dell’origo gentis, l’origine del popolo, elaborato nel Regno longobardo del secolo VII e sviluppato poi da Paolo Diacono in quello successivo, ma che forse trae origine da una tradizione orale più antica. In questo mito d’origine, i longobardi partono dalla Scandinavia, sotto la guida della saggia Gambara, e il dio germanico Wodan dà loro il nome. Un’origine chiaramente non cristiana e non classica, dunque. Una storia simile, anche se più frammentaria,si ritrova nella storia dei goti di Jordanes (secolo VI), i quali, secondo questo autore, giungono anch’essi dalla Scandinavia, a bordo di tre navi. L’immagine delle tre navi ritorna anche nella storia degli anglosassoni, che attraversarono la Manica sotto la guida di Hengist e Horsa. La discussione sull’attendibilità di quei miti non si è ancora conclusa. È accertato tuttavia che queste leggende non possono essere interpretate come fonti storiche, come repertori di eventi reali. Esse non possono provare, per esempio, che longobardi e goti siano veramente venuti dalla Scandinavia, sei o sette secoli prima che queste informazioni fossero messe per iscritto. Il dibattito recente si è sviluppato piuttosto a proposito dell’autenticità o meno delle leggende sulle origini «germaniche» come miti arcaici. Le opinioni divergono. C’è chi pensa, come Herwig Wolfram e Stefano Gasparri, che quei racconti contengano informazioni sulla religione e sulla «cultura tradizionale», precristiana, dei popoli di cui raccontano le gesta. All’opposto, il punto di vista di Walter Goffart è che tali miti esprimano essenzialmente le idee e le preoccupazioni di coloro che li hanno descritti (Jordanes o Paolo Diacono) e non riflettano veramente le credenze dei tempi pagani a cui si riferiscono. Quest’ultima posizione, fondata spesso su argomentazioni persuasive, è legata alle idee del cosiddetto linguistic turn (svolta linguistica), un movimento teorico sviluppatosi nelle scienze sociali innanzitutto in America durante gli anni ottanta, che tende a giudicare i testi della storiografia (medievale o moderna) come prodotti letterari più che come fonti per la storia dei fatti. Quando i ragionamenti ispirati al linguistic turn si radicalizzano, producono però interpretazioni discutibili perché tendono a cancellare completamente la dimensione storica delle scritture, leggendo tutti i testi come espressione del solo presente, e non del passato. Per il medioevo questa posizione è quanto meno riduttiva, perché quasi tutti i testi storici riflettono un passato ricco e complesso. Certo essi vengono riscritti e riconcepiti a ogni generazione, la loro funzione culturale e politica varia come pure le «verità» che essi esprimono. Ma, d’altra parte, essi mantengono sempre una fondamentale dimensione diacronica: si può capire che funzione assolvono nel presente nel quale si collocano solo decifrando il passato che riscrivono. Per comprendere queste dinamiche, più utili del concetto dell’autore-creatore autonomo offerto da Goffart, sono le idee sulla memoria sociale, ad esempio di Chris Wickham, e quelle sui meccanismi di memory and oblivion (memoria e oblio) di Patrick Geary. Queste prospettive consentono non solo di percepire il continuo variare della memoria che una società ha di se stessa, ma anche di interpretare queste variazioni come attività culturale, come produzione del proprio passato e quindi della propria identità. Possiamo tornare così ai testi frammentari che parlano delle origini di un popolo, e analizzarne in particolare due aspetti. Il primo si riferisce alla loro «profondità» cronologica, alla stratificazione di livelli testuali diversi in essi contenuta e dunque ai diversi caratteri di questi vari livelli. Tale analisi non ci conduce mai a un testo autentico e puro, ma aiuta a scoprire delle tracce anteriori o posteriori (anteriori, per esempio, alla cristianizzazione, o alla monarchia). Il secondo richiama il contesto «materiale» della forma manoscritta di un testo, più o meno databile: facendo luce, attraverso le forme della scrittura, non solo sulle preoccupazioni dell’autore, ma anche sulla funzione politica della scrittura, sul suo significato per il pubblico e per l’identità di un gruppo. Ad esempio, quando Paolo Diacono, monaco longobardo di Montecassino, racconta dell’origine pagana dei longobardi, egli osserva che si tratta di una «ridicola favola». Una simile espressione lascia trasparire l’esistenza di un problema affrontato dall’autore: che ci fosse cioè un pubblico che forse già conosceva queste favole, e che si aspettava probabilmente di ritrovarle nella storia scritta, e che dunque anche il pio monaco si sentisse obbligato a dare notizia di miti pagani che altrimenti difficilmente avrebbe avuto ragione di riportare o di inventare. È possibile dunque leggere questi testi antichi come testi storici, e non solo come letteratura. Tuttavia, l’accesso al passato barbarico che descrivono è comunque molto indiretto, sempre ipotetico. Siamo lontani della disinvoltura con cui gli studiosi dell’Ottocento guardavano a testi di questo tipo come all’espressione diretta di un’autentica cultura «germanica». Potere e regalità nella società germanica altomedievale Mettiamo a confronto, per un attimo, i miti d’origine di popoli barbarici, nella forma in cui sono stati tramandati dagli scrittori latini dei secoli VI-VIII, e la storiografia moderna su questi popoli, soprattutto quella dell’Ottocento e del primo Novecento. Anche quest’ultima ha la sua profondità diacronica: parla infatti di un passato di millecinquecento anni attraverso la riflessione su una serie di testi intermedi. Ed è legata, in modo forse difficilmente percepibile ma spesso verificabile, al proprio contesto, vale a dire alle esigenze del presente (ottocentesco e primo novecento), al quale essa vuole fornire le proprie verità. C’è però una fondamentale differenza metodologica: nella loro opera gli studiosi moderni indicano, almeno fino a un certo grado, le fonti adoperate e il metodo prescelto, e ciò consente di controllare le loro strategie cognitive. Per quanto riguarda le realtà barbariche altomedievali, disponiamo tutti delle stesse fonti scritte. Dal primo Ottocento a oggi sono state infatti rarissime le scoperte di nuovi testi. E tutte queste fonti parlano poco della società e della vita dei barbari. Da ciò deriva che la possibilità di dire qualcosa di nuovo e di approfondire la conoscenza di quel passato (indipendentemente dal contributo delle fonti non scritte, come quelle archeologiche) dipende in larga misura dalle interpretazioni, e dal modello generale in cui esse si collocano. Occorre esserne consapevoli quando incontriamo, nella storiografia ottocentesca ma talvolta ancora in quella dei decenni scorsi, ricostruzioni dettagliate delle società germaniche, o barbariche. I modelli di riferimento cui si ispirano queste ricostruzioni hanno infatti un’origine, un proprio contesto storico e culturale, una funzione, spesso ideologica. Non c’è da meravigliarsi, ad esempio, che fossero soprattutto gli studiosi tedeschi a esplorare in profondità il sistema giuridico e istituzionale dei germani (che, in tedesco, rientra nella categoria di Verfassung, ossia costituzione). Anche in questo campo, dunque, s’incrociano la storia dell’alto medioevo e quella dei nostri tempi. Vediamo alcuni esempi. L’istituzione più tipica degli stati barbarici era il regno. I re dei goti, come Alarico o Teoderico, dei franchi come Clodoveo, degli unni come Attila sono personaggi ben noti, anche fuori dalla cultura specializzata degli storici. In passato c’erano opinioni differenti riguardo alle origini dei regni, di quei regni barbarici che caratterizzano il tempo delle invasioni, se fossero cioè istituzioni arcaiche oppure relativamente recenti. Ora, tanto nel pensiero degli illuministi del Settecento quanto nella storiografia romantica del primo Ottocento era consueto vedere quella germanica come una società democratica: un punto di vista che venne poi fatto proprio, per il tramite di Friedrich Engels, dal pensiero marxista. Secondo le teorie del materialismo storico, la società germanica conobbe il passaggio dall’epoca dell’Urkommunismus (comunismo primitivo) a quella della «democrazia militare», rimanendo caratterizzata da forme associative di tipo comunitario: il possesso comune della terra, una società in larga misura egualitaria, assemblee popolari e decisioni collettive. Così i germani potevano costituire un fattore progressivo, di spinta alla rivoluzione antischiavistica e di accelerazione del processo che diede origine al feudalesimo. Anche gran parte degli studiosi non marxisti dell’Ottocento contrapponeva la «libertà germanica» alla schiavitù romana. Una parola chiave per la descrizione di queste forme comunitarie e collettive era Genossenschaft, con cui si intendeva un’istituzione sociale collettiva chiaramente individuata e la cui coesione risultava assicurata da una forte solidarietà interna: una solidarietà tanto intensa da assumere una matrice di sacralità e da presuppone la natura delittuosa di ogni sua lesione. Nella storiografia tedesca del primo Novecento questo paradigma assunse caratteri nuovi, nel contesto della diffusione di ideologie autoritarie. Importante, a questo proposito, è il pensiero di Otto Höfler, che esercitò una notevole influenza fino al secondo dopoguerra. Secondo Höfler le società barbariche conoscevano due tipi di re: uno, arcaico, era il re sacrale (Sakralkönig), che era allo stesso tempo la massima autorità politica e il sacerdote supremo. L’altro tipo era quello del re militare, il potere del quale era fondato sulla capacità di guidare al successo in guerra: era quest’ultimo già il caso di Ariovisto, nemico di Giulio Cesare, o di Arminio, colui che nel 9 d.C. nella foresta di Teutoburgo sconfisse l’esercito imperiale, ma soprattutto di Teoderico o Clodoveo. Attraverso la conversione al cristianesimo questi re militari avrebbero poi assunto una nuova legittimazione sacrale. Questa tipologia corrispondeva al modello elaborato dallo storico delle religioni francese Georges Dumézil: secondo tale modello tutte le società indoeuropee erano organizzate attorno a tre elementari funzioni sociali: quella sacrale-religiosa rappresentata dai sacerdoti, quella politico-militare rappresentata dai guerrieri, quella economico-produttiva rappresentata dai contadini. Che appartenessero al tipo del guerriero o del sacerdote, i re posti a capo dei regni dei goti o dei franchi si caratterizzano, all’interno di queste ricostruzioni, come figure che fanno pienamente parte della tradizione germanica. Ed è questo uno degli elementi di giudizio in seguito più frequentemente contestati. Oggi infatti i fattori di origine romana nella costituzione dei regni romano-barbarici sono considerati molto più significativi. Le influenze romane sulla struttura politica delle società barbariche sono visibili, in realtà, molto prima dell’insediamento di questi popoli nelle province dell’Impero. Ariovisto era stato riconosciuto come re dal Senato romano, mentre Arminio e quasi tutti i re del tempo delle invasioni erano alti ufficiali dell’esercito romano o godevano di altre posizioni d’onore. Ulteriore elemento di debolezza del modello di Höfler è costituito dal fatto che le prove dell’esistenza di responsabilità religioso-sacrali dei re arcaici sono molto scarse. Questioni simili, anche se più complicate, dominavano la discussione sulle strutture della società barbarica nel suo complesso. Le ideologie autoritarie sottolineavano in particolare il ruolo delle clientele, specie nel campo militare. L’ipotesi tradizionale era fondata sulla Germania di Tacito che contiene una descrizione abbastanza chiara della clientela, un legame personale attraverso cui i giovani guerrieri sceglievano un signore, che dava loro protezione, i mezzi per vivere, spesso le armi, e parte del bottino, e che essi dovevano seguire in guerra, fino a sacrificare la propria vita; secondo Tacito, sopravvivere al signore caduto in battaglia era considerato un disonore per i membri del suo seguito. Sono appunto questi alcuni degli elementi peculiari dell’immagine degli antichi germani privilegiata dall’ideologia nazista e usati dalla propaganda di regime con effetti disastrosi. Oggi sappiamo di più sul clima culturale in cui si inseriva il discorso di Tacito. E vediamo più chiaramente quanti elementi dell’organizzazione della clientela germanica in effetti non trovi no riscontro nel testo di Tacito: per quanto riguarda ad esempio il tema della fedeltà, è facilmente dimostrabile che, contrariamente all’idea secondo cui chi giurava fedeltà a un capo poi doveva seguirlo per tutta la vita, i guerrieri spesso cambiavano signore, secondo le opportunità che venivano loro offerte e le prospettive di successo. In realtà appare chiaro oggi che il carattere istituzionale delle strutture sociali è stato sopravvalutato da generazioni di studiosi. La dignità che le nostre fonti denominano «re» (rex) non è infatti un’istituzione fissa, che ricorre secondo alcune tipologie regolari, ma la designazione comune data dai romani a vari fenomeni: capi di gruppi locali o di piccole tribù, comandanti di eserciti piccoli o grandi, sovrani di grandi imperi di steppa come Attila, o reggenti di regni potenti sul suolo romano come Teoderico o Clodoveo. La situazione è simile con le clientele, che potevano essere di carattere esclusivamente militare o anche civile, di breve o lunga durata; potevano essere dominate da una gerarchia forte o essere il risultato di una libera associazione; potevano apparire strutturate e resistenti oppure agglomerati temporanei di guerrieri. Una conclusione analoga si può trarre per quanto riguarda le strutture di parentela, le famiglie e i clan. Anche qui l’interpretazione dipende molto da una questione metodologica ancora irrisolta, relativa al carattere più o meno arcaico di queste strutture. Le leggi altomedievali, quelle dei goti, franchi, longobardi, alemanni o bavaresi, contengono molte clausole relative a questioni legate alla parentela, e soprattutto ai diritti di successione. È ovvio che per molti aspetti si tratta di regole divergenti dal diritto romano, ed è dunque plausibile che riflettano le consuetudini più arcaiche delle società barbariche. Le leggi altomedievali concordano inoltre nell’evocare la centralità della solidarietà familiare quando consentono il giuramento di un certo numero di parenti per difendere l’innocenza di un consanguineo accusato di un crimine. Nonostante tutto questo, per un verso rimane largamente ipotetico il carattere arcaico di una legge scritta in latino e probabilmente influenzata, in più punti, da modelli giuridici romani; per un altro, scorrendo i casi previsti dalle leggi non emerge un chiaro modello delle strutture di parentela. Erano agnatizi o cognatizi i clan? Le relazioni agnatizie caratterizzano le strutture di parentela definite dalla prevalenza della successione maschile, mentre il termine «cognatizio» (o bilaterale) implica una dimensione della parentela che include le linee femminili. La supposizione tradizionale era che i clan dei germani fossero agnatizi, e dunque che le genealogie fossero chiaramente definite su questa base. Alexander Murray ha sviluppato di recente, fondandosi su un riesame complessivo delle leggi barbariche, una posizione contraria: la struttura della parentela non escluderebbe la cognazione, e il clan non sarebbe un organismo omogeneo, ma piuttosto una struttura fluida. L’articolazione concreta della parentela e l’intensità del sentimento di solidarietà sarebbe dipesa dalla percezione di individui e di gruppi, che era variabile e che lasciava trasparire l’esistenza di spazi di parentela più stretti o più ampi. Osservazioni ulteriori derivano dall’analisi non solo delle fonti narrative, ma anche delle carte giuridiche private: le quali rivelano che le famiglie e i clan non erano, come pretendevano gli studiosi dell’Ottocento, un rifugio di pace e di mutua solidarietà. Erano invece frequenti i conflitti all’interno degli ambiti parentali, basti pensare ai molti membri della dinastia franca dei merovingi ammazzati da fratelli, figli o mogli. Un’occasione in cui la parentela giocava un ruolo decisivo era comunque rappresentata dalla faida: nel caso di crimini di sangue, ma anche di altri tipi di offesa, la vendetta toccava infatti alla famiglia della vittima. In alcuni casi queste vendette potevano protrarsi per anni, con un numero considerevole di vittime da ambedue le parti. Lo storiografo e vescovo Gregorio di Tours racconta esempi clamorosi; ma i materiali più ricchi per studiare questo fenomeno si trovano nelle saghe dell’Islanda. Eppure le faide, con le loro lunghe code sanguinose, non sono affatto un monopolio delle società barbariche o arcaiche, ma ricorrono in tutte le società – anche moderne e contemporanee – in cui lo stato non è in grado d’imporre la propria autorità (di assumere il monopolio della violenza, come disse Max Weber). La faida è dunque diffusa, come ha mostrato Otto Brunner, durante tutto il medioevo. In ogni caso già i regni romano-barbarici tentarono di stabilire un’alternativa giuridica alla faida, attraverso il pagamento di compensazioni, il cosiddetto wergeld (guidrigildo). Il wergeld era una somma di denaro che stabiliva il valore teorico di un uomo o di una donna, all’interno di un sistema assai elaborato che fissava le differenze fra diverse categorie di soggetti: un uomo libero valeva più di uno schiavo, una donna più di un uomo, chi era al servizio del re più di un uomo normale, e così via. Nella legge longobarda venne persino stabilito che il porcarius, lo schiavo che si occupava dei porci (li doveva cioè condurre nei boschi, e aveva per questo una maggiore responsabilità), valesse più di schiavi normali. Chiunque uccideva doveva pagare il prezzo intero dell’ucciso; le lesioni o le offese erano definite in frazioni del wergeld, descritte spesso in elenchi molto dettagliati, che arrivano ad enumerare, in alcuni testi, il prezzo delle singole dita. Non sappiamo però se questa ricca casistica avesse di precedenti nelle consuetudini più arcaiche. Se la famiglia offesa accettava il prezzo, rinunciava alla faida, altrimenti doveva vendicarsi. Alla base della faida era la nozione di onore, da ripristinare dopo un’offesa che metteva a repentaglio il prestigio d’una famiglia. Altra domanda fondamentale è quella relativa a chi, in concreto, toccasse la vendetta, quali fossero cioè i confini del gruppo familiare responsabile della faida. Come al solito, il conflitto metteva alla prova le strutture e le relazioni sociali. Dalle nostre fonti narrative sembra che l’impatto della faida dipendesse molto più dai rapporti concreti che non dalla applicazione di regole rigide e predefinite. Dalle etnie ai regni Regni romano – barbarici Ostrogoti in Italia 489-559 Visigoti in Spagna Siagrio, poi Franchi nella Gallia Burgundi Longobardi 569-774 Vandali