5. Barbari e Germani fra tardo antico e alto medioevo: revisione
concettuale
Il mondo antico come un sistema caratterizzato da un centro ricco e
da una periferia povera (l’impero e il mondo barbarico,
rispettivamente): il secondo viene strutturato, modificato e
trasformato da quanto accade al centro.
Secondo P. Geary, «i germani sono stati la più grande creazione di
Roma» (popolazioni che vivono in simbiosi col mondo romano,
sempre funzionali allo scopo, e che condividono col mondo romano
valori, simboli di prestigio, religione, lingua)
Concetto di etnogenesi
Apertura anche dal punto di vista etnico
Processi di identificazione talvolta favoriti dai Romani stessi
(fonti archeologiche, approccio antropologico come motori di questa
revisione storiografica)
superamento dell’idea dell’alto medioevo come risultanza
dell’incontro di ‘latinità’ e ‘germanesimo’ come entità distinte,
marcate, riconoscibili, chiuse in se stesse
I barbari e la cultura europea
Il ruolo dei barbari, e specialmente dei germani, nel processo che condusse
alla caduta dell’Impero romano e alla nascita dell’Europa medievale è stato
uno dei temi più discussi fin dalle origini della storiografia moderna. Un
dissenso di fondo sul senso di questa presenza ha animato il dibattito nel
corso di vari secoli, dissenso che si rispecchia in una terminologia che è
rimasta sempre la stessa: il fenomeno delle «invasioni barbariche», come
furono definite dagli storici italiani e francesi, assumeva infatti nel linguaggio
storiografico
tedesco
l’etichetta
di «migrazione dei
popoli»
(Völkerwanderung).
Anzi, generazioni di tedeschi, dall’Umanesimo quattrocentesco al 1945,
hanno elaborato la propria identità e la propria peculiarità culturale come
radicate nei tempi dei primi germani. I «nobili selvaggi» descritti, intorno al
100 d.C., da Tacito nella Germania, furono assunti a modello di una vita
semplice, pura, non corrotta da influssi della civiltà urbana e mediterranea.
Questa costruzione ideologica ha assunto nel corso del tempo e a seconda
dei contesti storici valori ben diversi nella storia moderna dell’Europa,
attirando l’attenzione anche di intellettuali di altri paesi. Nella prospettiva di
un illuminista come Montesquieu, nel Settecento, la Germania antica serviva
come esempio di una vita libera e democratica; nella letteratura romantica del
primo Ottocento tedesco, simbolizzava i valori comuni e profondi di una
nazione culturale che non poteva diventare Stato nazionale; nel nazionalismo
tedesco intorno al 1900, stava al centro di un’ideologia antimoderna e
militaristica; e, infine, durante il nazismo, entrò in relazione con le teorie
pseudo-scientifiche della superiorità della razza germanica che avrebbero
istigato alla guerra e all’Olocausto.
Solo nel dopoguerra furono gradualmente smantellate le costruzioni
ideologiche delle quali i barbari del passato costituivano un punto di
riferimento. Oggi quei barbari non vengono più concepiti come facenti parte
di una realtà nettamente definita, dotata di un’unica, autentica matrice
identitaria, più pura della civiltà classica, o magari della nostra. Non è più
possibile guardare alle società barbariche come modello di una vita incorrotta
e più vicina alla natura, anche se nella cultura comune ancora oggi può
succedere di registrare immagini di questo tipo, magari attribuite più
frequentemente, in ambienti che coltivano culture mistico-esoteriche, ai celti.
Per gli storici di oggi, anche il mondo barbarico è un fenomeno storico,
dinamico, pieno di rotture e contraddizioni, da analizzare innanzitutto come
spazio periferico della civiltà antica e non più come espressione di una
perduta età dell’oro.
Eppure, negli studi storici si sente ancora il peso, molto più forte di quanto si
creda, delle antiche ideologie. Chiunque si occupi dei germani, infatti, deve
anche tornare a leggere le molte interpretazioni che sono state date nel corso
del tempo e che si sono sovrapposte su questo tema, determinando, come
accade con ogni grande questione storica, un intreccio difficilmente
districabile. Una lettura innocente, non ideologica, ad esempio della
Germania di Tacito, è diventata impossibile. La realtà del passato da una
parte e le sue percezioni antiche e moderne dall’altra sono piani inseparabili.
Ci chiederemo dunque che ruolo giocano nella formazione dell’Europa
altomedievale le tradizioni culturali, religiose e politiche delle popolazioni
germaniche e nomadi che si confrontano con il mondo romano e cristiano;
quali di queste culture resistono meglio e quali vengono cancellate; come
conosciamo le civiltà che non ci hanno lasciato (in linea di massima) fonti
scritte. Ma c’è un interrogativo del tutto preliminare. Qual era, presso i
contemporanei, la percezioni dell’alterità etnica nel mondo tardoantico?
Le fonti scritte sul barbari e i germani
Per noi, i barbari tardoantichi restano più o meno muti. A parte qualche
iscrizione runica, spesso molto breve ed enigmatica, le culture barbariche
non hanno lasciato fonti scritte dirette. L’unico testo germanico esteso è la
traduzione gotica della Bibbia, elaborata da vescovo Ulfila nel secolo IV e
fatta copiare in un lussuoso codice purpureo dal re ostrogoto Teodorico
nell’Italia del secolo VI (il cosiddetto Codex argenteus, oggi a Uppsala). Gli
storici di origine barbarica, come il goto Jordanes (sec. VI), il burgundofranco Fredegario (sec. VII), l’anglosassone Beda e il longobardo Paolo
Diacono (sec. VIII), scriveranno la storia dei Regni romano-barbarici
adottando il latino e un punto di vista che, più o meno, riprendeva quello
degli autori classici.
Solo più tardi cominceranno ad apparire i primi testi non frammentari in
lingua germanica, dapprima, dal secolo VII, in Inghilterra (tra l’altro, leggi e
poemi epici come Beowulf), e poi, dal secolo VIII, anche nel mondo franco.
Trascorsero altri secoli prima che nascessero due distinte tradizioni letterarie,
spesso considerate come autenticamente germaniche: da una parte le saghe
nordiche, dall’altra i poemi epici di ambientazione feudale. La tradizione delle
saghe – leggende costruite attorno alle vicende di personaggi eroici si
sviluppa fra l’Islanda e la Scandinavia. Il frutto principale è l’Edda, raccolta di
storie epiche scandinave che contiene molte notizie sui dei ed eroi pagani. I
racconti dell’Edda furono scritti tuttavia nei secoli XII-XIII in un ambiente
già cristianizzato e l’autore più famoso, Snorri Sturlusson, che aveva studiato
a Parigi, apparteneva all’élite intellettuale dell’Europa cristiana. Anche per
questo i testi nordici difficilmente possono essere considerati una chiave per
accedere al mondo germanico continentale del primo millennio.
Più o meno nello stesso periodo, l’Europa feudale elaborava una letteratura
epica, che narrava storie remote con soggetti mitici come i nibelunghi, o di
origine storica come Teodorico/Dietrich o Attila/Etzel. Anche queste
leggende hanno più a che fare con la cultura del Duecento e del Trecento che
non con quella barbarica di molti secoli prima. Il quadro è simile per la
cultura celtica, che trovava espressione scritta principalmente nella cultura
cristiana irlandese.
In realtà, ciò che sappiamo sul mondo barbarico prima dei carolingi proviene
in gran parte dagli scrittori greci e latini. Il termine stesso, «barbaro», è una
parola greca che significava in origine «straniero» e che alludendo al gergo
incomprensibile dei non elleni assunse nel corso del tempo, nella cultura
greco-romana, risonanze negative e di disprezzo. Nella storiografia
contemporanea esso viene ancora adoperato, ma in modo neutrale,
puramente descrittivo. L’immagine del barbaro era costruita su
generalizzazioni e stereotipi e qualche volta si colorava di dettagli suggestivi: i
barbari erano selvaggi, più simili ad animali che a uomini, erano nomadi privi
di case, spesso giravano nudi o coperti di pelli, erano sporchi e puzzavano.
Spesso venivano rappresentati con corporature gigantesche, con barbe folte e
lunghi capelli incolti. L’immaginario poteva arricchirsi di toni inverosimili:
ecco allora i guerrieri che mangiano carne cruda e talvolta bevono sangue,
anche umano. Gli autori antichi sottolineavano il loro coraggio, che poteva
trasformarsi in folle temerarietà, e il loro terribile furore bellico: ma contro
un esercito romano ben disciplinato emergeva la loro fragilità e la loro scarsa
resistenza psicologica. Lo stereotipo guerriero non lascia da parte le donne:
esse accompagnano gli uomini al campo di battaglia per incitarli o magari per
lottare anche loro; e se i loro uomini fuggissero, esse reagirebbero duramente
fino a ucciderli, per poi sacrificare se stesse per non cadere nelle mani dei
nemici. Tali comportamenti sono determinati – dicono queste
rappresentazioni – dal clima freddo, che a sua volta riscalda il sangue degli
uomini rendendoli irascibili. Nella prospettiva della cultura mediterranea il
Settentrione d’Europa era abitato allora da popolazioni numerose,
costantemente minacciose, sempre in cerca di luoghi più miti e fecondi in cui
trasferirsi e pronte per questo ad abbandonare il suolo patrio per invadere le
regioni occupate da altri popoli.
L’immagine dei barbari può comunque assumere anche un carattere più
positivo. Essi possono essere evocati come nobili selvaggi, ad esempio da
Tacito che descrive i germani, o da Pompeo Trogo e Giustino che riflettono
sugli sciti. Questi ritratti dell’Altro dipingono in modo moralizzante un
mondo opposto alla civiltà mediterranea, ma rievocandolo ritrovano in esso
alcune delle virtù della Roma arcaica. Elogiano così il pudore dei popoli non
civilizzati: non viene praticato il sesso prematuro e gli sposi si mantengono
fedeli. Sottolineano altresì che i barbari non hanno bisogno del circo, del
teatro e degli spettacoli, del lusso e dei gusti raffinati. Sono questi i tratti della
Germania di Tacito nei quali generazioni di tedeschi hanno trovato la prova
della propria superiorità morale, e attraverso i quali hanno formulato il
richiamo alle virtù primordiali dell’anima del popolo (Volksseele), un’anima
pura da restituire, in uno sforzo morale guidato dagli antichi modelli, ai
corrotti tempi moderni.
In realtà ora sappiamo che queste immagini spesso ci dicono di più della
cultura mediterranea che le elaborava che non del mondo barbarico che
vorrebbero descrivere. Certo, negli stereotipi c’è spesso un’elemento di
verità, e i greci e i romani erano capaci di percezioni molto acute. Ma
comparando i diversi testi che parlano dei barbari, si nota anche quante
incertezze e contraddizioni essi contenessero. Nemmeno gli elementi
fondamentali di questi immagini erano senza ambiguità: erano biondi i
germani, come vuole anche il mito moderno, oppure rossicci, come
sostenevano altri autori? Erano avidi d’oro o piuttosto così primitivi che con
l’oro non sapevano nemmeno che fare? Erano tenaci e lungimiranti oppure i
loro tremendi furori ne fiaccavano facilmente l’azione? Questi, e molti
esempi simili, dimostrano che l’immagine del barbaro era un’astrazione non
adatta a descrivere correttamente le molteplici forme di vita alle periferia del
mondo romano.
I processi di acculturazione
L’archeologia conferma questa prospettiva aiutando a mettere in luce la
diversità e la ricchezza culturale di tutte le presenze collocate fuori
dell’Impero e con le quali i romani entravano in contatto.
Ad esempio, le ricchissime tombe trovate in aree diverse dimostrano che i
guerrieri barbari, si servivano di vasellame d’argento, di oggetti in vetro, di
cinture militari di fattura romana, non diversi in questo dall’élite imperiale
dello stesso periodo. In realtà, attraverso complessi processi di
acculturazione e di romanizzazione il mondo barbarico si trasformò ben
prima dell’avvio della stagione delle invasioni. D’altra parte, entro i confini
dell’Impero, per esempio in molte regioni di montagna, sono attestate forme
di vita che si differenziavano dallo splendore classico delle metropoli, e che
alterano l’apparente uniformità di cultura e stili di vita della società romana.
Ciò significa che la frontiera imperiale, nonostante tutta la sua
impressionante architettura difensiva, non era affatto un confine che
separava con nettezza due spazi omogenei, civiltà e barbaritas, come
sosteneva l’ideologia imperiale. Studi recenti hanno sottolineato questa
differenza fra la «frontiera immaginaria» e le molte funzioni delle strutture
reali del limes. Quest’ultimo era in realtà un simbolo imperiale; era una linea
di controllo militare e civile, ma anche una zona di scambio e di
comunicazioni; ed era pertanto, lo spazio di confine, un canale di forte
penetrazione dei modelli di vita romani, modelli che forse non bisogna
assimilare alle immagini classicistiche dell’antico trasmesse a noi a partire dal
Rinascimento, ma che comunque esercitavano un’attrazione molto intensa.
La recente archeologia ha messo in luce molti aspetti dell’influenza del
mondo romano sulle culture materiali barbariche, come ad esempio nel
modo di vestire, nonché sull’arte e l’iconografia dei popoli confinanti: si
pensi ai bratteati nordici, i medaglioni d’oro con uomini e animali stilizzati
che seguono modelli di monete romane anche quando raffigurano scene
della mitologia germanica.
Lo spazio barbarico non era dunque quel mondo tanto diverso e
incomprensibile, dipinto dagli scrittori romani, ma parte integrante
dell’universo tardoantico. Era la periferia di un sistema del quale Roma e
l’Italia, e più tardi Costantinopoli, erano i centri. Questa osservazione
fondamentale non implica, come abbiamo già accennato, che non ci fossero
differenze culturali entro questo immenso spazio periferico. Variavano molto
la qualità delle relazioni fra i diversi gruppi barbarici e il mondo romano, e il
grado di integrazione all’interno di quest’ultimo delle popolazioni che
avevano accettato la convivenza. La disponibilità al contatto, allo scambio e
anche all’integrazione non era una meccanica funzione della distanza
geografica, come ipotizzavano gli autori romani, per cui le popolazioni più
lontane dai confini dell’Impero, ambientate in climi più freddi, erano anche
quelle più barbariche. Non ci sono, per esempio, altri luoghi al mondo dove
sono state ritrovate tante armi romane come in certe paludi scandinave (ad
esempio, a Illerup in Danimarca), dove, forse per ragioni di culto, finivano
sommerse centinaia di spade e lance romane. Simili rinvenimenti fanno
pensare alla diffusione di manufatti e di modelli culturali provenienti dal
mondo romano presso nuclei di guerrieri che vivevano anche a grande
distanza dal limes: per costoro imitare le forme militari romane era
evidentemente un modo per accrescere il proprio prestigio.
Questo sistema di relazioni era dunque molto dinamico, e finiva per
trasformare entrambi i mondi in contatto, ossia il centro e la periferia
dell’universo tardoantico. Alla base di tale sistema vi erano interessi reciproci
alla cooperazione, e la possibilità che fra i capi delle etnie barbariche e
l’Impero avvenissero precisi scambi politici. Nel corso delle loro conquiste,
ad esempio, i Romani tendevano a mantenere l’equilibrio politico
preesistente, preservando il dominio delle élites barbariche sulle città e sulle
comunità sottomesse. Fu in questo modo che la Gallia divenne parte
integrante dell’Impero, attraverso cioè la cooperazione attiva dei capi delle
popolazioni locali. In questo senso, l’Impero assomigliava più a un’alleanza
di migliaia di comunità locali che a una monarchia assoluta, premesso che
non era in discussione né il pieno controllo militare da parte dell’Impero
delle regioni conquistate né l’inglobamento di queste ultime nel sistema
fiscale dello Stato. Una soluzione di questo tipo era sufficientemente elastica:
inevitabilmente facilitava una concentrazione formidabile di potere e di
ricchezza; ma offriva al contempo ai soggetti più ambiziosi delle élites
regionali significative prospettive di carriera nell’apparato centrale, specie
nell’ambito dell’esercito.
Quando, nel 16 d.C., l’imperatore Tiberio interruppe le offensive militari al di
là del Reno, fino a quel momento incessanti, la diplomazia romana costruì
una rete di rapporti privilegiati con molti capi di popoli e tribù germanici. A
questo fine esistevano strumenti molto efficaci: a parte la stipulazione di
alleanze formali, veniva praticata l’offerta di doni ai capi con i quali l’Impero
desiderava avviare relazioni; e talora si provava a scegliere, fra gli ostaggi o i
profughi barbari che vivevano in Italia, qualcuno da elevare alle condizioni
regia (?) con il sostegno imperiale e da rispedire in questa veste al suo
popolo. Le buone relazioni con i barbari servivano all’Impero soprattutto per
soddisfare la continua necessità di armati da inserire nelle proprie unità
militari, tanto nelle vere e proprie legioni dell’esercito quanto nelle
formazioni ausiliarie che partecipavano solo ad alcune bataaglie. Questa
richiesta costante di guerrieri barbari s’intensificava a seguito delle numerose
guerre, interne ed esterne, che furono combattute negli ultimi secoli
dell’Impero, a partire dal III d.C. Dal punto di vista dei barbari, l’ingresso
nelle potenti armate romane rappresentava un motivo di prestigio e di potere
che non aveva eguali. Molti, dopo una carriera nell’esercito imperiale,
tornavano a casa, nelle foreste della Germania, portando con sé armi e altre
insegne che rappresentavano le prove visibili di un successo a cui coloro che
erano rimasti a casa non avrebbero potuto potuto ambire. Reperti militari di
provenienza romana si trovano ancora, per esempio, nelle ricche tombe del
iii e iv secolo nell’ambito del cosiddetto «gruppo Hassleben-Leuna» della
Germania centrale.
Da questi fenomeni di assimilazione, l’Impero romano sicuramente trasse
grandi vantaggi: per molte generazioni, infatti, migliaia di barbari diedero la
vita nelle guerre romane. Ma a lungo termine, quegli stessi fenomeni
stimolarono una dinamica ben diversa. Fin dall’inizio, gruppi di barbari
avevano tentato di conquistare con la forza ciò che le autorità romane non
sempre erano pronte o disponibili a offrire loro. E questa pressione aumentò
gradualmente nella misura in cui pezzi di società barbariche entravano a far
parte del sistema imperiale.
Ma determinavano le relazioni di tipo militare fra romani e barbari ben più
profonde conseguenza nelle società di questi ultimi. Le opportunità di
promozione offerte dal mondo romano mettevano in moto al loro interno
processi che incrementavano infatti le diseguaglianze sociali. Abbandonare le
occupazioni e i lavori tradizionali e seguire il modello prestigioso del
guerriero specializzato diventava una prospettiva sempre più attraente. Le
società barbariche militarizzate che affrontarono l’Impero nei secoli tra il IV
e il VI erano dunque in larga misura realtà diverse da quelle dei secoli
precedenti, frutto in parte di esigenze espresse dall’Impero. Nel mondo
barbarico, amici e avversari dei romani appartenevano tutti agli stessi gruppi
di guerrieri, sempre alla ricerca di opportunità per inserirsi nel sistema
militare e istituzionale romano, in cui circolavano onori e ricchezze che
nessuna delle società barbariche poteva offrire. Il contatto prolungato con il
mondo romano aveva profondamente mutato le realtà barbariche e il
processo di trasformazione del primo aveva determinato anche una
trasformazione parallela nelle seconde.
Per una revisione dei concetti di etnicità
Chi erano questi barbari? A questa domanda tanto la storiografia antica
quanto quella moderna hanno risposto fornendo, innanzitutto, definizioni di
carattere etnico. Secondo questa logica, i barbari erano celti o germani, goti o
franchi, avari o slavi. Fino a non molti anni fa, nessuno dubitava che queste
classificazioni etniche riflettessero un ordine quasi naturale di tribù e di
popoli. Nelle ideologie nazionalistiche dell’Ottocento e del primo
Novecento, le radici nazionali nelle etnie del primo millennio venivano
gelosamente difese. I tedeschi vantavano così la propria origine germanica,
gli ungheresi erano fieri di richiamarsi al re unno Attila come loro
progenitore, croati e serbi tentavano (e tentano ancora) di collocare l’inizio
della propria storia in un periodo ancora più remoto. Oggi un modello di
questi tipo, che assicuri l’esistenza di identità etniche coerenti e omogenee, è
al centro di accesi dibattiti. Vediamo alcuni dei problemi principali che questa
discussione solleva.
Innanzitutto si pone una questione metodologica. Nei primi decenni del
Novecento sembrava chiaro (e veniva esplicitamente sottolineato dalla scuola
di Gustav Kossinna) che le tracce nelle fonti scritte, nell’analisi filologica e
nelle scoperte archeologiche dovessero essere espressione della stessa realtà
etnica: un popolo cioè doveva per forza parlare la stessa lingua, avere la
stessa cultura, e vivere in un’unica, ben determinata comunità politica;
situazioni diverse rappresentavano anomalie, giudicate spesso transitorie e di
cui era necessario rintracciare il superamento; veniva applicata in tal modo
una logica non dissimile da quella adoperata per la descrizione delle nazioni
moderne. Oggi, invece, è diventato chiaro che un caso di questo tipo – un
popolo come unità linguistica, culturale e politica chiaramente delineata –
non rappresenta la norma ma piuttosto l’eccezione. L’archeologia
altomedievale ci dice che ben difficilmente a un’area insediativa
circoscrivibile corrispondeva un’unità etnica definita. E le fonti scritte di
regola non consentono di delimitare una regione abitata dalle etnie delle quali
parlano. Ambedue le discipline insomma, l’archeologia e la filologia, non
possono attribuire i propri materiali a raggruppamenti umani «naturali», a
comunità preesistenti.
La distribuzione geografica di gran parte dei reperti archeologici non
corrisponde alla geografia delle supposte etnie. Spesso, le attribuzioni etniche
che ancora oggi molti studiosi propongono si riferiscono a pochi tipi di
oggetti, a certe forme di fibbie o di ceramica. Ma anche queste interpretazioni
poggiano su idee preesistenti, spesso avanzate non da archeologi ma da
studiosi, storici o filologi, che utilizzano fonti letterarie tradizionali. Simili
interpretazioni, che danno l’illusione di una ricognizione interdisciplinaria di
un problema complesso, lasciano sempre aperta la possibilità di letture
alternative. Questo non vuol dire che sia impossibile l’attribuzione etnica di
reperti archeologici. Qualche volta, come nel caso degli avari, il profilo
culturale di una comunità etno-politica è abbastanza riconoscibile. In altri
casi (come quello degli unni) gli oggetti trovati nelle tombe testimoniano non
l’esistenza di una cultura etnica, ma di una civiltà internazionale, diffusa dal
Mar Nero alla Gallia. Paradossalmente, se la tomba del re franco Childerico
(morto nel 482) a Tournai, nell’odierno Belgio, fosse stata scoperta in
Ucraina, avrebbe potuto tranquillamente essere scambiata per il corredo di
un re unno. La definizione etnica può dunque essere, a volte, il risultato di
studi molto dettagliati, ma non può costituire il presupposto «normale» delle
indagini sulla realtà barbarica.
Passiamo al secondo problema. È difficile individuare in cosa consista
l’etnicità altomedievale, il carattere etnico di una comunità. Che cos’è un
popolo? Dall’etnografia antica fino alla sociologia moderna sono stati offerti
nutriti elenchi di tratti distintivi dell’etnia come la lingua, il costume, i modi di
vestire e di combattere. Ma tutti questi criteri oggettivi sono validi solo in
qualche caso, e non validi in altri; non sono veramente applicabili neppure
alle nazioni moderne, anche dopo lunghi processi di unificazione politica e
istituzionale. Negli studi altomedievali, è stato Reinhard Wenskus negli anni
sessanta a rinunciare per primo all’impiego di questi cataloghi oggettivi,
fondando l’identità etnica esclusivamente su fattori soggettivi: qualcuno
appartiene a un’etnia se sente di farne parte. Questa appartenenza può
esprimersi attraverso segni esteriori, che tuttavia non sono sempre della
stessa natura. Dal punto di vista semiotico possiamo dire che il segno
«etnico» può solo essere interpretato come parte di un discorso etnico, un
sistema culturale complesso e variabile, che non sempre è facile ricostruire.
Terzo problema. Non possiamo assumere automaticamente l’identità etnica
come un dato culturale condiviso da un’intera popolazione. In larga misura
infatti i barbari si distribuivano in gruppi molto localizzati e molto ristretti,
simili a quelli che gli antropologi chiamano face-to-face-groups,
all’interno dei quali, secondo modalità specifiche, gli condividevano
un’identità culturale e sentivano di appartenere a una comunità unitaria.
Sembra che nel mondo barbarico del tardoantico e dell’alto medioevo solo
nuclei socialmente ristretti di capi e di guerrieri, e forse di sacerdoti o di
sapienti, si muovessero all’interno di ambiti più ampi. I franchi, ancora nel
secolo VIII, non erano, nel senso stretto della parola, tutta la popolazione
riconducibile a questa sigla, ma solo i potenti che s’incontravano ogni anno
per decidere le guerre e le vicende politiche del Regno: era questo un
esempio di face-to-face-group, come fuoco di un’identità etnico-politica più
ampia ed eterogenea. Reinhard Wenskus ha chiamato questi gruppi «nuclei di
tradizione», dai quali dipendeva la coesione di «popoli» come i goti o i
franchi.
Etnie, dunque, come realtà soggettive. Ma si pone un quarto problema. Le
testimonianze di cui disponiamo non offrono, di solito, autodefinizioni, ma
percezioni esterne. È lecito ritenere, come si faceva una volta, che queste
percezioni romane o greche (o, più tardi, franche) descrivessero fedelmente
le realtà barbariche? In realtà sembra piuttosto che quelle letture
contenessero lo sforzo di inquadrare una situazione confusa e dinamica
all’interno di schemi riconoscibili e ordinati. Per questo dobbiamo essere
prudenti a proposito delle specifiche denominazioni con le quali la politica
romana individuava i gruppi concreti con i quali aveva contatti: possiamo
fidarci fino d un certo punto della terminologia latina. Erano due,
principalmente, le strategie cognitive di cui disponevano gli scrittori latini per
mettere ordine nella confusa percezione della complessa realtà barbarica. La
prima era fondata sull’idea, che in varie forme sopravvive quasi fino ad oggi,
sicuramente fino al primo Novecento, secondo cui i popoli in fondo non
cambiavano, ma cambiavano solo i nomi (al fine di ingannare i romani).
Dunque era lecito recuperare denominazioni in uso centinaia di anni prima.
Per questo gli unni furono chiamati sciti (come il popolo delle steppe di un
millennio fa), poi gli avari, gli unni, e ancora più tardi gli ungheresi furono
tutti assimilati all’interno della stessa tradizione etnica, posta di volta in volta
sotto le denominazioni tradizionali: sciti, unni e avari. In modo analogo, i
franchi furono chiamati anche sugambri (un popolo disperso dalle guerre di
Augusto), e i goti geti (un popolo di nome simile, che viveva vicino ai
Carpazi orientali intorno agli inizi della nostra era). La seconda strategia
consisteva nell’adoperare denominazioni generali che designassero la
popolazione di un territorio ampio, con forme di vita più o meno simili.
Questi erano nomi generici, che però venivano usati come nomi etnici,
perché individuavano un popolo concreto. È il caso, soprattutto, dei
germani. Qui siamo di fronte a un fenomeno sconcertante. La storiografia
moderna ha letto i testi antichi come prove che si riferissero a di popoli
concreti. Ma gli autori antichi, come Tacito o Strabone, sapevano che il
nome dei germani era stato dato dagli stessi romani per designare una realtà
di cui poco si sapeva e si comprendeva, fatta di popoli e tribù insediati in un
certo territorio.
Il caso ‘particolare’ dei Germani
Un popolo che si chiamava «germani» forse non c’è mai stato. In ogni caso,
se c’era, non corrispondeva a quello che gli studiosi moderni chiamano così.
L’origine dei germani è ancora poco nota, e rimane al centro di dibattiti
accesi. Due cose invece sono chiare. L’antico termine «germani», come
designazione della popolazione insediata nell’ampio territorio che si
estendeva al di là del Reno, termine usato nell’antichità e nell’alto medioevo,
fu introdotto da Giulio Cesare. Prima di lui, dal punto di vista romano
c’erano solo due grandi complessi di popoli barbarici: i celti (o galli a Ovest,
galati a Est), che abitavano nelle foreste della Gallia, della Britannia e
dell’Europa centrale; e gli sciti, acclimatati nelle steppe dell’Europa orientale.
I romani, fino al i secolo a.C., non avevano rapporti con i celti, che
dominavano tutte le regioni a nord dell’Italia, da quelle dell’area danubiana
fino a quelle prospicienti l’Oceano Atlantico. Anche nell’invasione tremenda
dei cimbri e teutoni, alla fine del secondo secolo a.C., era percepita, dai
contemporanei, una matrice gallica. Solo quando conquistò la Gallia Giulio
Cesare si accorse del fatto che proprio dal punto di vista dei celti gallici
c’erano dei popoli al di là del Reno che erano diversi, più primitivi.
Corrispondeva ai disegni politici di Cesare accentuare questa diversità, così
da giustificare da una parte la necessità di sottomettere la Gallia (per
proteggerla dagli attacchi dei germani), e dall’altra l’opportunità di non
sottoporre a inutili rischi gli eserciti romani avanzando oltre il Reno, dove
abitava una popolazione più barbarica dei già barbari galli. Cesare introdusse
dunque una netta distinzione fra Gallia e la Germania: nacque allora la
Germania come spazio geografico delimitato a ovest dal Reno, a sud dal
Danubio, a est dalla Vistola, e a nord dal Mar Baltico. La definizione non era
priva di contraddizioni, perché c’erano germani anche a ovest del basso
Reno: questa presenza derivava probabilmente dal fatto che nuclei germanici
avevano in precedenza attraversato il Reno per cercare in Gallia regioni più
prospere. Può darsi che appunto questi germani collocati fuori del sistema
territoriale immaginato da Cesare fossero i primi a essere chiamati così: ma
non sappiamo se il nome sia di origine gallica o sia un’autodefinizione.
In ogni caso, attraverso Cesare, l’immagine e il nome dei germani
diventarono corrente nella letteratura antica. Abbiamo però scarse prove che
per i popoli ai quali si riferiva il termine «germani» fosse un’autodesignazione
significativa. A quanto pare esso circolava fra le fila dell’esercito romano, in
particolare fra le unità ausiliarie d’origine «germanica». Ma nelle popolazioni
al di là del Reno e del Danubio erano adoperati maggiormente altri nomi,
riferiti a specifiche realtà tribali. Nella tarda antichità, con l’apparizione di
altri due nomi assai generici, franchi e alemanni, la designazione «germani»
perse significato anche per i romani. È importante sottolineare un altro fatto
poco considerato: avendo una connotazione
territoriale, il termine
«germani», non includeva i popoli «gotici» che, dal III secolo d.C., erano
stanziati presso il Mar Nero e il basso Danubio. Gli osservatori romani
assimilavano piuttosto questi ultimi agli sciti, i popoli delle steppe, oppure li
identificavano con i geti.
La seconda definizione dei germani, quella moderna, è fondata
principalmente sulla lingua. Esempio classico è quello relativo alla Bibbia
gotica di Ulfila, dalla cui analisi si può facilmente dedurre che il gotico era
una lingua germanica: dunque i goti erano germani. È questa modalità di
individuazione che ha dominato tutte le ideologie germanofile dell’Ottocento
e del Novecento. Oggi i goti vengono annoverati nell’ambito dei «germani in
Italia», una definizione bene accetta in ambito scientifico, ma si deve tenere
presente che anche questa è un’astrazione, e non corrisponde affatto
all’identità dei popoli dell’alto medioevo. Non è affatto chiaro infatti se fra
tutti coloro che parlavano una lingua germanica esistesse la consapevolezza
di servirsi di una lingua comune. Isidoro di Siviglia, nel secolo VII, quando
enumera diversi popoli della Germania, nota che hanno costumi e lingue
diverse. Solo nell’epoca dei carolingi (per esempio nell’opera del longobardo
Paolo Diacono), si sviluppa la coscienza che le lingue germaniche fossero
apparentate. Questa lingua vernacolare viene chiamata teotisca, che
significa «popolare»: è la parola dalla quale deriva il nome «tedesco», e che
originariamente designava anche la lingua longobarda e quella anglosassone.
È dunque molto importante rendersi conto che non c’è uno sviluppo diretto
dai germani antichi ai tedeschi moderni. Le rotture e le contraddizioni nella
terminologia riflettono i movimenti dei popoli e li fluttuazioni della loro
identità. Lo dimostrano anche i diversi nomi adoperati nelle lingue moderne
per individuare i tedeschi. Gli inglesi li chiamano Germans, nonostante
siano essi stessi di prevalente origine germanica; i francesi (e, in modo simile,
gli spagnoli) allemands, termine derivato da uno dei principali popoli
tedeschi, gli alemanni; i popoli slavi adottano nemeci, che certi filologi
spiegano come «i muti», in contrasto con gli slavi stessi, «quelli chi parlano».
Etnogenesi
Soltanto oggi siamo in grado di capire, almeno fino a un certo punto, come
sono complicati i processi etnici, le «etnogenesi». Gli scrittori medievali
offrivano un modello più semplice:
1. l’albero genealogico. Secondo il modello dell’albero tutti i popoli avevano
un progenitore, da cui spesso derivava anche l’origine del nome. Lo
schema più famoso di diramazione dei popoli da un unico ceppo è quello
contenuto nella Bibbia, uno schema che ebbe, peraltro, un’influenza
straordinaria nel medioevo. Secondo il libro della Genesi, tutti i popoli del
mondo discendevano dai tre figli di Noè: Sem (da cui provengono i
semiti), Cham e Japhet. Isidoro di Siviglia attualizzò questo modello,
inserendovi molti popoli del suo tempo.
2. Questo modello si alternava, senza contraddizione, con un secondo tipo
di genealogia, di derivazione classica, che seguiva l’esempio delle leggende
sull’origine dei romani. Così, ad esempio, i franchi credevano che anche i
loro progenitori fossero arrivati da Troia, come Enea.
3. Per noi, comunque, il terzo tipo di genealogie è quello più interessante.
L’esempio più famoso si riferisce ai longobardi: si tratta del tema
dell’origo gentis, l’origine del popolo, elaborato nel Regno longobardo del
secolo VII e sviluppato poi da Paolo Diacono in quello successivo, ma
che forse trae origine da una tradizione orale più antica. In questo mito
d’origine, i longobardi partono dalla Scandinavia, sotto la guida della
saggia Gambara, e il dio germanico Wodan dà loro il nome. Un’origine
chiaramente non cristiana e non classica, dunque. Una storia simile, anche
se più frammentaria,si ritrova nella storia dei goti di Jordanes (secolo VI),
i quali, secondo questo autore, giungono anch’essi dalla Scandinavia, a
bordo di tre navi. L’immagine delle tre navi ritorna anche nella storia degli
anglosassoni, che attraversarono la Manica sotto la guida di Hengist e
Horsa.
La discussione sull’attendibilità di quei miti non si è ancora conclusa. È
accertato tuttavia che queste leggende non possono essere interpretate come
fonti storiche, come repertori di eventi reali. Esse non possono provare, per
esempio, che longobardi e goti siano veramente venuti dalla Scandinavia, sei
o sette secoli prima che queste informazioni fossero messe per iscritto. Il
dibattito recente si è sviluppato piuttosto a proposito dell’autenticità o meno
delle leggende sulle origini «germaniche» come miti arcaici. Le opinioni
divergono. C’è chi pensa, come Herwig Wolfram e Stefano Gasparri, che
quei racconti contengano informazioni sulla religione e sulla «cultura
tradizionale», precristiana, dei popoli di cui raccontano le gesta. All’opposto,
il punto di vista di Walter Goffart è che tali miti esprimano essenzialmente le
idee e le preoccupazioni di coloro che li hanno descritti (Jordanes o Paolo
Diacono) e non riflettano veramente le credenze dei tempi pagani a cui si
riferiscono.
Quest’ultima posizione, fondata spesso su argomentazioni persuasive, è
legata alle idee del cosiddetto linguistic turn (svolta linguistica), un
movimento teorico sviluppatosi nelle scienze sociali innanzitutto in America
durante gli anni ottanta, che tende a giudicare i testi della storiografia
(medievale o moderna) come prodotti letterari più che come fonti per la
storia dei fatti. Quando i ragionamenti ispirati al linguistic turn si
radicalizzano, producono però interpretazioni discutibili perché tendono a
cancellare completamente la dimensione storica delle scritture, leggendo tutti
i testi come espressione del solo presente, e non del passato. Per il medioevo
questa posizione è quanto meno riduttiva, perché quasi tutti i testi storici
riflettono un passato ricco e complesso. Certo essi vengono riscritti e
riconcepiti a ogni generazione, la loro funzione culturale e politica varia come
pure le «verità» che essi esprimono. Ma, d’altra parte, essi mantengono
sempre una fondamentale dimensione diacronica: si può capire che funzione
assolvono nel presente nel quale si collocano solo decifrando il passato che
riscrivono. Per comprendere queste dinamiche, più utili del concetto
dell’autore-creatore autonomo offerto da Goffart, sono le idee sulla memoria
sociale, ad esempio di Chris Wickham, e quelle sui meccanismi di memory
and oblivion (memoria e oblio) di Patrick Geary. Queste prospettive
consentono non solo di percepire il continuo variare della memoria che una
società ha di se stessa, ma anche di interpretare queste variazioni come
attività culturale, come produzione del proprio passato e quindi della propria
identità.
Possiamo tornare così ai testi frammentari che parlano delle origini di un
popolo, e analizzarne in particolare due aspetti. Il primo si riferisce alla loro
«profondità» cronologica, alla stratificazione di livelli testuali diversi in essi
contenuta e dunque ai diversi caratteri di questi vari livelli. Tale analisi non ci
conduce mai a un testo autentico e puro, ma aiuta a scoprire delle tracce
anteriori o posteriori (anteriori, per esempio, alla cristianizzazione, o alla
monarchia). Il secondo richiama il contesto «materiale» della forma
manoscritta di un testo, più o meno databile: facendo luce, attraverso le
forme della scrittura, non solo sulle preoccupazioni dell’autore, ma anche
sulla funzione politica della scrittura, sul suo significato per il pubblico e per
l’identità di un gruppo. Ad esempio, quando Paolo Diacono, monaco
longobardo di Montecassino, racconta dell’origine pagana dei longobardi, egli
osserva che si tratta di una «ridicola favola». Una simile espressione lascia
trasparire l’esistenza di un problema affrontato dall’autore: che ci fosse cioè
un pubblico che forse già conosceva queste favole, e che si aspettava
probabilmente di ritrovarle nella storia scritta, e che dunque anche il pio
monaco si sentisse obbligato a dare notizia di miti pagani che altrimenti
difficilmente avrebbe avuto ragione di riportare o di inventare. È possibile
dunque leggere questi testi antichi come testi storici, e non solo come
letteratura. Tuttavia, l’accesso al passato barbarico che descrivono è
comunque molto indiretto, sempre ipotetico. Siamo lontani della disinvoltura
con cui gli studiosi dell’Ottocento guardavano a testi di questo tipo come
all’espressione diretta di un’autentica cultura «germanica».
Potere e regalità nella società germanica altomedievale
Mettiamo a confronto, per un attimo, i miti d’origine di popoli barbarici,
nella forma in cui sono stati tramandati dagli scrittori latini dei secoli VIVIII, e la storiografia moderna su questi popoli, soprattutto quella
dell’Ottocento e del primo Novecento. Anche quest’ultima ha la sua
profondità diacronica: parla infatti di un passato di millecinquecento anni
attraverso la riflessione su una serie di testi intermedi. Ed è legata, in modo
forse difficilmente percepibile ma spesso verificabile, al proprio contesto,
vale a dire alle esigenze del presente (ottocentesco e primo novecento), al
quale essa vuole fornire le proprie verità. C’è però una fondamentale
differenza metodologica: nella loro opera gli studiosi moderni indicano,
almeno fino a un certo grado, le fonti adoperate e il metodo prescelto, e ciò
consente di controllare le loro strategie cognitive.
Per quanto riguarda le realtà barbariche altomedievali, disponiamo tutti delle
stesse fonti scritte. Dal primo Ottocento a oggi sono state infatti rarissime le
scoperte di nuovi testi. E tutte queste fonti parlano poco della società e della
vita dei barbari. Da ciò deriva che la possibilità di dire qualcosa di nuovo e di
approfondire la conoscenza di quel passato (indipendentemente dal
contributo delle fonti non scritte, come quelle archeologiche) dipende in
larga misura dalle interpretazioni, e dal modello generale in cui esse si
collocano. Occorre esserne consapevoli quando incontriamo, nella
storiografia ottocentesca ma talvolta ancora in quella dei decenni scorsi,
ricostruzioni dettagliate delle società germaniche, o barbariche. I modelli di
riferimento cui si ispirano queste ricostruzioni hanno infatti un’origine, un
proprio contesto storico e culturale, una funzione, spesso ideologica.
Non c’è da meravigliarsi, ad esempio, che fossero soprattutto gli studiosi
tedeschi a esplorare in profondità il sistema giuridico e istituzionale dei
germani (che, in tedesco, rientra nella categoria di Verfassung, ossia
costituzione). Anche in questo campo, dunque, s’incrociano la storia dell’alto
medioevo e quella dei nostri tempi. Vediamo alcuni esempi.
L’istituzione più tipica degli stati barbarici era il regno. I re dei goti, come
Alarico o Teoderico, dei franchi come Clodoveo, degli unni come Attila sono
personaggi ben noti, anche fuori dalla cultura specializzata degli storici. In
passato c’erano opinioni differenti riguardo alle origini dei regni, di quei
regni barbarici che caratterizzano il tempo delle invasioni, se fossero cioè
istituzioni arcaiche oppure relativamente recenti. Ora, tanto nel pensiero
degli illuministi del Settecento quanto nella storiografia romantica del primo
Ottocento era consueto vedere quella germanica come una società
democratica: un punto di vista che venne poi fatto proprio, per il tramite di
Friedrich Engels, dal pensiero marxista. Secondo le teorie del materialismo
storico, la società germanica conobbe il passaggio dall’epoca
dell’Urkommunismus (comunismo primitivo) a quella della
«democrazia militare», rimanendo caratterizzata da forme associative di
tipo comunitario: il possesso comune della terra, una società in larga misura
egualitaria, assemblee popolari e decisioni collettive. Così i germani potevano
costituire un fattore progressivo, di spinta alla rivoluzione antischiavistica e
di accelerazione del processo che diede origine al feudalesimo. Anche gran
parte degli studiosi non marxisti dell’Ottocento contrapponeva la «libertà
germanica» alla schiavitù romana. Una parola chiave per la descrizione di
queste forme comunitarie e collettive era Genossenschaft, con cui si
intendeva un’istituzione sociale collettiva chiaramente individuata e la cui
coesione risultava assicurata da una forte solidarietà interna: una solidarietà
tanto intensa da assumere una matrice di sacralità e da presuppone la natura
delittuosa di ogni sua lesione.
Nella storiografia tedesca del primo Novecento questo paradigma assunse
caratteri nuovi, nel contesto della diffusione di ideologie autoritarie.
Importante, a questo proposito, è il pensiero di Otto Höfler, che esercitò una
notevole influenza fino al secondo dopoguerra. Secondo Höfler le società
barbariche conoscevano due tipi di re: uno, arcaico, era il re sacrale
(Sakralkönig), che era allo stesso tempo la massima autorità politica e il
sacerdote supremo. L’altro tipo era quello del re militare, il potere del quale
era fondato sulla capacità di guidare al successo in guerra: era quest’ultimo
già il caso di Ariovisto, nemico di Giulio Cesare, o di Arminio, colui che nel
9 d.C. nella foresta di Teutoburgo sconfisse l’esercito imperiale, ma
soprattutto di Teoderico o Clodoveo. Attraverso la conversione al
cristianesimo questi re militari avrebbero poi assunto una nuova
legittimazione sacrale. Questa tipologia corrispondeva al modello elaborato
dallo storico delle religioni francese Georges Dumézil: secondo tale modello
tutte le società indoeuropee erano organizzate attorno a tre elementari
funzioni sociali: quella sacrale-religiosa rappresentata dai sacerdoti, quella
politico-militare rappresentata dai guerrieri, quella economico-produttiva
rappresentata dai contadini. Che appartenessero al tipo del guerriero o del
sacerdote, i re posti a capo dei regni dei goti o dei franchi si caratterizzano,
all’interno di queste ricostruzioni, come figure che fanno pienamente parte
della tradizione germanica.
Ed è questo uno degli elementi di giudizio in seguito più frequentemente
contestati. Oggi infatti i fattori di origine romana nella costituzione dei
regni romano-barbarici sono considerati molto più significativi. Le
influenze romane sulla struttura politica delle società barbariche sono visibili,
in realtà, molto prima dell’insediamento di questi popoli nelle province
dell’Impero. Ariovisto era stato riconosciuto come re dal Senato romano,
mentre Arminio e quasi tutti i re del tempo delle invasioni erano alti
ufficiali dell’esercito romano o godevano di altre posizioni d’onore.
Ulteriore elemento di debolezza del modello di Höfler è costituito dal fatto
che le prove dell’esistenza di responsabilità religioso-sacrali dei re arcaici
sono molto scarse.
Questioni simili, anche se più complicate, dominavano la discussione sulle
strutture della società barbarica nel suo complesso. Le ideologie autoritarie
sottolineavano in particolare il ruolo delle clientele, specie nel campo
militare. L’ipotesi tradizionale era fondata sulla Germania di Tacito che
contiene una descrizione abbastanza chiara della clientela, un legame
personale attraverso cui i giovani guerrieri sceglievano un signore, che dava
loro protezione, i mezzi per vivere, spesso le armi, e parte del bottino, e che
essi dovevano seguire in guerra, fino a sacrificare la propria vita; secondo
Tacito, sopravvivere al signore caduto in battaglia era considerato un
disonore per i membri del suo seguito. Sono appunto questi alcuni degli
elementi peculiari dell’immagine degli antichi germani privilegiata
dall’ideologia nazista e usati dalla propaganda di regime con effetti disastrosi.
Oggi sappiamo di più sul clima culturale in cui si inseriva il discorso di
Tacito. E vediamo più chiaramente quanti elementi dell’organizzazione della
clientela germanica in effetti non trovi
no riscontro nel testo di Tacito: per quanto riguarda ad esempio il tema della
fedeltà, è facilmente dimostrabile che, contrariamente all’idea secondo cui chi
giurava fedeltà a un capo poi doveva seguirlo per tutta la vita, i guerrieri
spesso cambiavano signore, secondo le opportunità che venivano loro
offerte e le prospettive di successo.
In realtà appare chiaro oggi che il carattere istituzionale delle strutture
sociali è stato sopravvalutato da generazioni di studiosi. La dignità che
le nostre fonti denominano «re» (rex) non è infatti un’istituzione fissa, che
ricorre secondo alcune tipologie regolari, ma la designazione comune data
dai romani a vari fenomeni: capi di gruppi locali o di piccole tribù,
comandanti di eserciti piccoli o grandi, sovrani di grandi imperi di steppa
come Attila, o reggenti di regni potenti sul suolo romano come Teoderico o
Clodoveo. La situazione è simile con le clientele, che potevano essere di
carattere esclusivamente militare o anche civile, di breve o lunga durata;
potevano essere dominate da una gerarchia forte o essere il risultato di una
libera associazione; potevano apparire strutturate e resistenti oppure
agglomerati temporanei di guerrieri.
Una conclusione analoga si può trarre per quanto riguarda le strutture di
parentela, le famiglie e i clan. Anche qui l’interpretazione dipende molto da
una questione metodologica ancora irrisolta, relativa al carattere più o meno
arcaico di queste strutture. Le leggi altomedievali, quelle dei goti, franchi,
longobardi, alemanni o bavaresi, contengono molte clausole relative a
questioni legate alla parentela, e soprattutto ai diritti di successione. È ovvio
che per molti aspetti si tratta di regole divergenti dal diritto romano, ed è
dunque plausibile che riflettano le consuetudini più arcaiche delle società
barbariche. Le leggi altomedievali concordano inoltre nell’evocare la
centralità della solidarietà familiare quando consentono il giuramento di un
certo numero di parenti per difendere l’innocenza di un consanguineo
accusato di un crimine. Nonostante tutto questo, per un verso rimane
largamente ipotetico il carattere arcaico di una legge scritta in latino e
probabilmente influenzata, in più punti, da modelli giuridici romani; per un
altro, scorrendo i casi previsti dalle leggi non emerge un chiaro modello delle
strutture di parentela. Erano agnatizi o cognatizi i clan? Le relazioni agnatizie
caratterizzano le strutture di parentela definite dalla prevalenza della
successione maschile, mentre il termine «cognatizio» (o bilaterale) implica
una dimensione della parentela che include le linee femminili. La
supposizione tradizionale era che i clan dei germani fossero agnatizi, e
dunque che le genealogie fossero chiaramente definite su questa base.
Alexander Murray ha sviluppato di recente, fondandosi su un riesame
complessivo delle leggi barbariche, una posizione contraria: la struttura della
parentela non escluderebbe la cognazione, e il clan non sarebbe un
organismo omogeneo, ma piuttosto una struttura fluida. L’articolazione
concreta della parentela e l’intensità del sentimento di solidarietà sarebbe
dipesa dalla percezione di individui e di gruppi, che era variabile e che
lasciava trasparire l’esistenza di spazi di parentela più stretti o più ampi.
Osservazioni ulteriori derivano dall’analisi non solo delle fonti narrative, ma
anche delle carte giuridiche private: le quali rivelano che le famiglie e i clan
non erano, come pretendevano gli studiosi dell’Ottocento, un rifugio di pace
e di mutua solidarietà. Erano invece frequenti i conflitti all’interno degli
ambiti parentali, basti pensare ai molti membri della dinastia franca dei
merovingi ammazzati da fratelli, figli o mogli.
Un’occasione in cui la parentela giocava un ruolo decisivo era comunque
rappresentata dalla faida: nel caso di crimini di sangue, ma anche di altri tipi
di offesa, la vendetta toccava infatti alla famiglia della vittima. In alcuni casi
queste vendette potevano protrarsi per anni, con un numero considerevole di
vittime da ambedue le parti. Lo storiografo e vescovo Gregorio di Tours
racconta esempi clamorosi; ma i materiali più ricchi per studiare questo
fenomeno si trovano nelle saghe dell’Islanda. Eppure le faide, con le loro
lunghe code sanguinose, non sono affatto un monopolio delle società
barbariche o arcaiche, ma ricorrono in tutte le società – anche moderne e
contemporanee – in cui lo stato non è in grado d’imporre la propria autorità
(di assumere il monopolio della violenza, come disse Max Weber). La faida
è dunque diffusa, come ha mostrato Otto Brunner, durante tutto il
medioevo.
In ogni caso già i regni romano-barbarici tentarono di stabilire un’alternativa
giuridica alla faida, attraverso il pagamento di compensazioni, il cosiddetto
wergeld (guidrigildo). Il wergeld era una somma di denaro che stabiliva il
valore teorico di un uomo o di una donna, all’interno di un sistema assai
elaborato che fissava le differenze fra diverse categorie di soggetti: un uomo
libero valeva più di uno schiavo, una donna più di un uomo, chi era al
servizio del re più di un uomo normale, e così via. Nella legge longobarda
venne persino stabilito che il porcarius, lo schiavo che si occupava dei porci
(li doveva cioè condurre nei boschi, e aveva per questo una maggiore
responsabilità), valesse più di schiavi normali. Chiunque uccideva doveva
pagare il prezzo intero dell’ucciso; le lesioni o le offese erano definite in
frazioni del wergeld, descritte spesso in elenchi molto dettagliati, che arrivano
ad enumerare, in alcuni testi, il prezzo delle singole dita. Non sappiamo però
se questa ricca casistica avesse di precedenti nelle consuetudini più arcaiche.
Se la famiglia offesa accettava il prezzo, rinunciava alla faida, altrimenti
doveva vendicarsi. Alla base della faida era la nozione di onore, da
ripristinare dopo un’offesa che metteva a repentaglio il prestigio d’una
famiglia. Altra domanda fondamentale è quella relativa a chi, in concreto,
toccasse la vendetta, quali fossero cioè i confini del gruppo familiare
responsabile della faida. Come al solito, il conflitto metteva alla prova le
strutture e le relazioni sociali. Dalle nostre fonti narrative sembra che
l’impatto della faida dipendesse molto più dai rapporti concreti che non dalla
applicazione di regole rigide e predefinite.
Dalle etnie ai regni
Regni romano – barbarici
Ostrogoti in Italia 489-559
Visigoti in Spagna
Siagrio, poi Franchi nella Gallia
Burgundi
Longobardi 569-774
Vandali
Il III secolo d.C. fu un tempo di crisi per l’Impero romano, anche se oggi
non vediamo più questa rottura, nel senso di Michael Rostovcev, come inizio
fatale di una lunga decadenza, ma, con Peter Brown, come nascita di una
nuova cultura molto dinamica, quella tardoantica.
Comunque sia, quello fu un periodo di crisi tremenda anche nel mondo
barbarico. Nei primi due secoli dell’era cristiana, i vasti territori al di là del
Reno e del Danubio erano abitati da gruppi abbastanza ristretti. Tacito e
Tolomeo enumerano dozzine di popoli. E i tentativi di alcuni i essi, come i
cherusci o i marcomanni, di stabilire una superiorità egemonica non ebbero
effetti permanenti; i gruppi locali mantennero, più o meno, la loro
autonomia.
Nel III secolo gran parte di questi nomi etnici spariscono. Da questo
momento in poi, sono pochi i nomi ricorrono nei racconti delle guerre dei
romani contro i barbari. I movimenti iniziano nella parte più distante della
Germania, vicino alla Vistola, dove abitava un gruppo di gutoni, o goti. La
loro espansione verso sud-est determinò la formazione di una nuova cultura
mista, quella che gli archeologi chiamano la cultura di Cerniakhov, nell’
odierna Ucraina. Nei secoli III-IV, diversi gruppi gotici dominavano un
ambiente sottoposto a forti influenze provenienti dalla cultura delle steppe e
delle foreste dell’Europa orientale. A partire da quest’epoca, i goti non
appaiono più un popolo unitario, ma piuttosto una tradizione prestigiosa che
ispirava di volta in volta la creazione di vari gruppi di guerrieri. Nel III
secolo, saccheggiarono, via mare o via terra le province balcaniche e quelle
dell’Asia minore. Nel IV, il re ostrogoto Ermanarico dominava le steppe al
nord del Mar Nero, mentre i goti tervingi vivevano a nord del basso
Danubio, già in rapporti stretti con i romani. Ma il periodo più splendido
della storia dei goti inizia con le sconfitte inflitte agli unni intorno al 375.
Diversi gruppi gotici attraversarono allora il Danubio e divennero
protagonisti dell’integrazione di interi eserciti/popoli barbarici, sotto il
comando dei propri capi, sul suolo romano. Arrivarono in Italia prima i
visigoti (sotto Alarico i, che saccheggia Roma nel 410) e poi gli ostrogoti
(sotto Teodorico, che vi giunge nel 489 e fonda il suo regno gotico a
Ravenna). Un altro popolo proveniente dalla regione a nord dei Carpazi che
attraverso lunghe migrazioni arriva sulle sponde del Mediterraneo è quello
dei vandali.
Nella Germania occidentale, nella regione renana si distinguono, sempre nel
III secolo, due grandi gruppi etnici: i franchi, a nord del Meno, e gli alemanni
a sud. Il processo attraverso cui diventarono popoli veri e propri fu
molto più lento di quanto si pensava fino a poco tempo fa. Anche in
questo contesto possiamo ipotizzare che la nostra immagine di questi
fenomeni risenta fortemente del punto di vista romano: i franchi erano visti
infatti dai romani come i barbari dislocati oltre il confine della provincia
imperiale della Germania inferiore, gli alemanni come quelli insediati nella
Germania superiore. Mentre, fino al secolo V, non abbiamo prove che
franchi e alemanni si autodefinissero in questo modo, e che questi nomi
designassero concrete unità etniche, dotate di strutture politiche comuni.
Molti ritengono che esistessero al loro interno forme di confederazione fra
le varie tribù e comunità. Ma anche nella battaglia di Argentoratum
(Strasburgo) nel 357, quando il cesare Giuliano (associato al trono imperiale
da Costanzo II) sconfisse un esercito imponente di alemanni, quell’esercito
barbarico fu riunito non da qualche istituzione centrale, ma attraverso un
complicato processo di trattative travari gruppi tribali.
Sta di fatto che il regno unitario franco non nacque in territorio
barbarico, ma su suolo romano. Il re Clodoveo, governatore franco della
provincia Belgica ii, sottomise, attraverso azioni anche molto violente tutti gli
altri re di origine franca o romana residenti nelle città romane come Colonia
o Soissons. A quel punto, il retroterra franco a est del Reno non ebbe più un
ruolo decisivo in tali lotte. Diversa la situazione degli alemanni, che malgrado
l’espansione verso le province della Raetia e della Germania superiore non
avevano ottenuto un grado d’integrazione nell’Impero romano simile a
quello dei franchi. Non c’è da meravigliarsi che nella lotta fra franchi e
alemanni per l’egemonia sulla Gallia e la Germania occidentale dovessero
prevalere i franchi, che disponevano di un’infrastruttura statale imperiale
ancora parzialmente in funzione, e godevano del sostegno dell’aristocrazia
romana (senatoria e vescovile) della Gallia. Nel racconto posteriore del
vescovo Gregorio di Tours, la vittoria di Clodoveo sugli alemanni pagani e il
suo battesimo (datato tradizionalmente nel 496) appaiono eventi
direttamente connessi. Al livello della ricostruzione dei fatti questo legame è
poco credibile (malgrado le grandi celebrazioni in Francia, nel 1996, in
occasione del supposto 1500° anniversario della conversione). Ma la
centralità simbolica della cristianizzazione sottolinea il fatto che i
barbari più disponibili all’integrazione e al compromesso con i ceti
dirigenti romani avevano prevalso su quelli un po’ più barbari e pagani.
Dietro i franchi e gli alemanni apparivano altri popoli, anche loro in parte
nuovi. Alle sponde dell’Elba c’erano i longobardi, già noti nel I secolo d.C.,
ma di cui si sa ben poco prima del 500, quando comparvero sul medio
Danubio. Da qui, come è noto, migrarono in Italia nell’anno 568. Sulla
Germania centrale si estendeva il potere dei turingi, che conobbe il
momento di massima forza nella prima metà del VI secolo quando essi
furono alleati di Teoderico; dopo di che dovettero riconoscere la supremazia
dei franchi. La stessa fine, ma dopo una storia più agitata, conobbero i
burgundi, attestati nell’odierna Polonia già nei primi secoli dell’era cristiana.
Nel IV secolo migrarono verso il fiume Meno, e nel V, dopo alcune gravi
sconfitte, il generale romano Aezio li insediò in Gallia, intorno al lago di
Ginevra. In questa zona il loro regno mantenne la propria indipendenza per
alcuni decenni e poi, dal VI secolo, dovette subire la dominazione franca.
L’etnia germanica di nascita più recente era quella dei bavari, che si
formarono agli inizi del VI secolo, subendo anche essi a intermittenza il
controllo dei franchi.
Nel VI secolo la Germania cessava d’essere la periferia del mondo romano, e
dunque di un sistema mediterraneo che aveva il suo centro in Italia, e
diventava la periferia della Gallia franca. Si trattava di un riorientamento della
geografia politica graduale ma profondo. E paradossalmente, legandosi al
regno romano-barbarico più potente, le regioni germaniche finivano con
l’essere meno barbariche di quanto lo erano state sotto l’influenza diretta
dell’Impero romano. Anche questo fu un processo lento, in cui le missioni
cristiane giocarono un ruolo importante. Il risultato maturo emerge solo nel
periodo carolingio, alla fine del secolo VIII, quando i monasteri e i vescovi
colonizzarono una Germania diventata ormai quasi tutta cristiana.
Un altro processo paradossale caratterizza la periferia del regno franco ed è
quello relativo al consolidamento etnico dei popoli da questo
sottomessi. Le sconfitte degli alemanni, dei turingi, dei bavari non ebbero
come conseguenza la cancellazione della loro identità etnica, e i loro
assorbimento tra le fila dei franchi, come spesso succedeva in tali situazioni.
Al contrario, si ha l’impressione che le identità particolari si
rafforzassero sotto il dominio franco. Questo dimostra abbastanza bene
ciò che abbiamo più volte ricordato: e cioè che i processi etnici nel medioevo
non seguivano una logica organica e lineare, ma conoscevano rotture
frequenti ed esiti apparentemente paradossali. Il risultato sarebbe stato la
nascita di un popolo romanzo, i francesi, che traeva il proprio nome
dal popolo germanico dei franchi, mentre nella parte germanica del
regno franco, dal secolo X si sarebbe attestata la presenza di gruppi
derivanti da popoli originariamente sottomessi dai franchi: bavaresi,
alemanni, e sassoni.
Ai confini dell’Europa
Questi sassoni si diffusero lentamente nella Germania settentrionale nei
primi secoli della nostra era. Erano noti come pirati che agivano lungo le
coste galliche nei secoli IV e V, e intorno alla metà del V secolo iniziarono la
loro migrazione in Britannia, assieme agli angli. La popolazione britannica nei
secoli V-VII era assai composita. Gran parte dell’isola era appartenuta
all’Impero romano fino agli inizi del secolo V, quando le truppe vennero
ritirate. Restò allora la popolazione parzialmente romanizzata di prevalente
origine celtica, che soffriva della pressione dei picti che dominavano l’odierna
Scozia. Contro di loro i britanni cercarono il sostegno dei guerrieri angli e
sassoni, i quali colsero questa occasione per cominciare ben presto a
costruire proprie dominazioni nell’isola. I regni germanici gradualmente si
estesero in tutta la parte orientale della Britannia, e quelli più piccoli furono
sottomessi a poco a poco da quelli più grandi come Wessex, Mercia, e
Northumberland. La famosa tomba regia del secolo VII di Sutton Hoo, con i
ricchissimi corredi esposti al British Museum di Londra, illustra bene il
potere del re di East Anglia. L’Ovest rimase sotto il controllo dei regni
britannici. Gli anglo-sassoni denominavano queste popolazioni più o meno
indigene Welsh, con un termine derivato da una parola germanica con cui si
indicavano dappertutto le popolazioni romane (termini equivalenti sono i
nomi di regioni come Wallis in Svizzera, Wallonia in Belgia, Valachia in
Romania, Welschtirol in Tirolo per indicare il Sudtirolo ecc.). La traduzione
italiana (Galles), invece, sottolinea più il carattere celtico di queste regioni
non passate sotto il controllo degli angli e dei sassoni.
L’Irlanda, invece, non era mai stata una provincia romana, ed era popolata da
celti chiamati scotti. Questo nome venne più tardi trasferito alla Scozia,
quando nel secolo IX gruppi irlandesi sottomisero i picti e fondarono un
regno scozzese. Anche sulle isole britanniche, dunque, si nota come i
processi etnici e la formazione delle identità regionali non seguissero un
percorso lineare. Lo sviluppo culturale e religioso fu ugualmente pieno di
paradossi. Mentre in Bretagna, già più o meno cristianizzata dai romani,
l’arrivo di angli e sassoni aveva determinato il recupero del paganesimo (e
solo con la missione romana ispirata dal papa Gregorio Magno, intorno al
600, sarebbe iniziata una nuova evangelizzazione), l’Irlanda pagana divenne
presto uno dei centri propulsori della religione cristiana. Con san Patrizio
(Patrick), già nel secolo V ebbe inizio la storia del cristianesimo irlandese, con
la sua distinta matrice celtica, caratterizzata da un monachesimo molto
ascetico, nel quale era centrale l’idea di pellegrinaggio e di missione. Dal VI
secolo fino all’VIII, la presenza di missionari irlandesi, e poi anche anglosassoni, nell’Europa centrale risultò più importante dell’attività
evangelizzatrice della Chiesa romana. È uno degli aspetti significativi di un
fenomeno nuovo e tipico di tutto l’alto medioevo: le relazioni periferiche,
dentro l’universo barbarico, diventavano sempre più importanti, mentre
quelle radiali, quelle, cioè che legavano un centro alle periferie,
perdevano significato.
Anche la Scandinavia conobbe processi simili. Le fonti scritte parlano ben
poco di quella regione, anche se fu considerata la terra di origine di molti
popoli, fra cui i goti e i longobardi. Ma l’archeologia dà anche prova di
rapporti precoci con la cultura mediterranea. Abbiamo già parlato dei
depositi rituali di armi e oggetti romani, e dei bratteati d’oro, medaglioni con
rappresentazioni di carattere mitico. D’interesse particolare sono anche le
iscrizioni runiche. I recenti scavi a Gudme, in Danimarca, hanno messo in
luce l’esistenza di un centro politico-religioso del V e VI secolo, con propri
spazi sacri, ma anche con un porto e tracce di relazioni commerciali
internazionali. Nel corso del VI secolo, il Mare del Nord divenne l’asse di
scambi sempre più intensi fra il continente, le isole britanniche e la
Scandinavia, con il vik – l’insediamento commerciale costiero – come nuovo
tipo di nodo di una rete di relazioni marittime. Fu solo dopo la fine del
secolo VIII che i vichinghi, pirati dalla Scandinavia, cominciarono a
depredare le navi dei commercianti.
10. Da Oriente: i popoli delle steppe e gli slavi.
L’Europa orientale fa parte di un altro universo barbarico: le steppe
eurasiatiche, che si estendevano dalla Cina fino ai Carpazi, o piuttosto
all’Ungheria, la parte più avanzata di questa zona ecologica vasta e secca. Le
diverse forme di nomadismo, sviluppate nella prima metà del primo
millennio a.C., costituivano modi molto specializzati di sussistenza basati
sull’allevamento del bestiame in ambienti nei quali l’agricoltura era
impossibile o insufficiente. La forma dominante di nomadismo si basava sui
cavalli. Tre esigenze fondamentali spiegano la dinamica specifica dei popoli
delle steppe. La prima è quella delle migrazioni continue per trovare nuovi
pascoli e seguire il ritmo delle stagioni. La seconda è quella di difendere il
bestiame contro nemici naturali e umani; un’esigenza che contiene dunque la
spinta a una certa militarizzazione. La terza è quella di assicurarsi un canale di
scambio con gli agricoltori sedentari per ricevere prodotti non disponibili
nelle steppe.
Il risultato era la formazione di un particolare tipo di guerriero della steppa,
abituato a una vita molto semplice e dura, estremamente mobile ed esperto
negli attacchi da sorpresa non solo contro altri gruppi di nomadi, ma
soprattutto contro i vicini sedentari. Nel corso dei secoli questi guerrieri a
cavallo svilupparono anche un’abilità notevole nel controllare aree molto
ampie, unificandole dentro veri e propri imperi della steppa. Questi imperi
spesso si formavano in pochi anni, ma in genere non duravano più di due o
tre generazioni.
Nei primi tre secoli dell’era cristiana, la situazione nelle steppe dell’Europa
orientale era assai stabile: erano i sarmati a dominare la scena, anche se
avevano già perso la spinta all’espansione. Il quadro cominciò a mutare
intorno al 375 quando apparve un popolo nuovo proveniente dall’Asia
centrale: gli unni. Questi formarono un’agglomerazione ampia di tutti i
gruppi guerrieri esistenti nella regione sotto la guida del loro re e della sua
clientela. All’apice dell’impero, sotto il re Attila (intorno al 450), gli unni
dominavano quasi tutta l’Europa orientale. Una tale concentrazione
eccezionale di potere aveva bisogno di mezzi eccezionali per funzionare. Più
guerrieri seguivano Attila, più bottino e oggetti di valore erano necessari per
accontentarli. Queste ricchezze provenivano dall’Impero romano, spesso
come frutto delle guerre e dei saccheggi, ma più regolarmente in forma di
tributi pagati dai romani sulla base dei trattati conclusi sotto la pressione
unna. Lo scrittore greco Prisco, che visitò come ambasciatore il centro
politico degli unni, ci ha lasciato una descrizione vivace della vita alla corte di
Attila, un centro cosmopolita di un’aristocrazia barbarica caratterizzata da
legami stretti con il mondo romano. Ma con il successo crescevano anche le
esigenze e le pretese, e Attila dovette intraprendere operazioni sempre più
ambiziose, come la marcia in Gallia nel 451 o l’invasione in Italia nel 452,
quando fu distrutta la città di Aquileia. Dopo la morte di Attila, l’anno
seguente, tutta la struttura dell’impero nel giro crollò di pochi anni.
Un secolo più tardi, un’altra presenza dalle caratteristiche simili si formò più
o meno nella stessa regione, anche questa volta nelle steppe dell’odierna
Ungheria: gli avari. Il khagan (un titolo regale asiatico) Baian si alleò con i
longobardi contro i gepidi. Quando questi ultimi furono sconfitti e i primi
invasero l’Italia nel 568, Baian e gli avari s’impadronirono del bacino dei
Carpazi. Il suo impero conobbe la stessa dinamica di quello degli unno:
prima l’espansione e l’integrazione di molti gruppi di guerrieri; poi operazioni
sempre più ambiziose, come l’assedio di Costantinopoli nel 626; infine, dopo
il fallimento dell’impresa condotta contro la capitale bizantina, venne l’eclisse
del potere avaro. Però, a differenza dagli unni, gli avari mantennero parte del
loro potere fino all’epoca di Carlo Magno: solo allora gli eserciti franchi
distrussero l’impero dei khagan degli avari. Diverso dagli unni prima e dai
magiari poi, gli avari non invasero i paesi occidentali, con l’eccezione del
Friuli; e saccheggiarono solo le province balcaniche dell’impero bizantino.
Mentre gli avari costruivano il loro impero, un altro processo meno
appariscente ma gravido di conseguenze molto più profonde stava
cambiando il volto dell’Europa orientale: l’espansione degli slavi. È solo nel
VI secolo che questo nome comincia ad apparire nelle fonti. Ed è un nome
che non si associa a grandi imperi o a re potenti, ma alla presenza di piccoli
gruppi di contadini o di saccheggiatori. Malgrado questo profilo abbastanza
basso, solo tre generazioni dopo, nella metà del VII secolo, gran parte
dell’Europa orientale sembra popolata da slavi. Questo è uno dei misteri
ancora irrisolti della storia europea. Non siamo di fronte a grandi vittorie o a
eclatanti migrazioni di massa: si tratta invece di un’espansione lenta, non
coordinata, quasi cellulare che tuttavia trasformò l’Europa orientale più
radicalmente di quanto i germani trasformarono l’Europa occidentale.
Dall’Elba al Peloponneso, dalle Alpi orientali ai dintorni di Costantinopoli,
gli slavi imposero le loro forme di vita molto semplici, prettamente
barbariche.
La spiegazione più diffusa di questo fenomeno è che gli slavi fossero già una
popolazione numerosa quando di essi si cominciò a parlare nelle fonti
occidentali. Forse erano gli eredi degli enigmatici veneti dell’epoca
precristiana (non a caso i tedeschi chiameranno gli slavi venedi, Wenden); ma
di questo non abbiamo alcuna prova sicura. I testi tardoantichi parlano di
molti popoli attivi nella regione, ma, prima del 550 circa, non degli slavi o dei
venedi. Non possiamo sostenere dunque che gruppi numerosi di slavi
vivessero appartati in qualche regione lontana e che poi d’improvviso
invadessero le regioni dell’Europa centro-orientale, ma piuttosto che le
forme di vita e l’identità slava si diffusero rapidamente fra popolazioni
d’origine diversa. Sembra di osservare cioè un fenomeno non tanto etnicopolitico quanto sociale e culturale. Il tratto più cospicuo degli slavi è appunto
l’assenza di quella dinamica che aveva trasformato le società dei germani: e
cioè l’azione di guerrieri specializzati e ambiziosi, l’accumularsi delle
ricchezze, le crescenti ineguaglianze, l’affermazione dei re ecc.; non ci sono
tombe riccamente decorate, né insediamenti vistosi, mancano le entità
politiche sempre più vaste che invece osserviamo nel contesto germanico. La
vita degli slavi dei secoli VI-VIII, con poche eccezioni, si manteneva, cosi
semplice che in molte regioni la loro presenza risulta difficilmente
rintracciabile da parte degli archeologi perché non ci ha lasciato né tombe né
insediamenti vistosi. Questo tipo di vita era senz’altro accessibile, e forse
anche attraente, per un gran numero di gente modesta, e facilitava
l’integrazione della popolazioni nelle regioni soggette all’espansione. Solo
gradualmente, dal secolo VIII in poi, dislocate alla periferia dell’Impero
bizantino e del regno franco, anche le società slave si sarebbero aperte alle
influenze esterne, e sarebbero divenute periferia di una civiltà cristiana (cfr.
lezione ????).
La ricerca storica degli ultimi anni ha smentito l’idea che alla base dei grandi
cambiamenti che caratterizzano l’Europa tardoantica e dei primi secoli del
medioevo, e del parziale rimescolamento della geografia etnica e culturale stia
lo scontro (o il confronto, a seconda delle circostanze) fra gruppi, popoli,
nazioni nettamente individuati e dotati di caratteri etnico-culturali «oggettivi»
e stabili nel corso del tempo. Da ciò consegue che i processi di assimilazione
culturale non furono tutti della stessa natura e non andarono tutti nella stessa
direzione.
Nella parte finale del periodo qui preso in considerazione, nel VI e VII
secolo, osserviamo dunque due processi diversi e apparentemente opposti
che trasformano l’Europa tardoromana: da una parte, la romanizzazione dei
barbari, specialmente in Italia, Spagna e Gallia, dove i ceti dirigenti
d’origine barbarica furono integrati nelle strutture politico-istituzionali
romane. Dall’altra, nelle vecchie province romane dell’Europa centrale
e orientale, lungo il Danubio e fino al Mar Egeo, maturò, all’opposto,
un fenomeno di barbarizzazione della popolazione che per secoli
aveva partecipato alla civiltà del mondo mediterraneo. Sicché l’universo
barbarico s’estendeva, un millennio dopo Pericle, fino alle porte di Atene.
Non era tuttavia una forza semplicemente distruttiva quella che aveva fatto
ingresso nella storia dell’Europa, nonostante l’età moderna si senta erede del
mondo classico, e non di quello barbarico. Perché era solo nella parte
barbarica dell’Europa che potevano maturare le relazioni trasversali, le
simbiosi fra tradizioni diverse che diedero una loro identità proprio a quei
paesi che, agli occhi dei romani, erano troppo barbarici per far veramente
parte alla civiltà umana.