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Capitolo 1 Introduzione al diritto islamico
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Sommario 冟 1. Premessa. - 2. Cenni storici. - 3. Caratteri generali del diritto islamico.
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1. Premessa
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Il diritto islamico costituisce, per diffusione, accanto ai sistemi di common e
civil law, il terzo grande sistema giuridico mondiale.
All’Islām (1) attualmente fanno capo milioni di fedeli di religione musulmana
presenti nelle varie parti del mondo (v. infra), uniti da vincoli di solidarietà e
fratellanza, che costituiscono una comunità islamica di carattere sovranazionale.
Non essendo infatti nell’Islām la sfera religiosa distinta dalla sfera giuridica,
il diritto islamico rappresenta un momento di coinvolgimento globale e di regole di vita con le quali ogni musulmano è chiamato a confrontarsi, a prescindere dallo Stato o dall’etnia di appartenenza, e la sua evoluzione è strettamente
correlata allo sviluppo del pensiero religioso, per cui la scienza giuridica è
intimamente legata alla teologia.
Inoltre, anche se non tutti i musulmani sono arabi, resta il fatto che, secondo la
tradizione, Allah scelse Maometto, un arabo, per inviare il Suo messaggio, che la
lingua depositaria dello stesso fu l’arabo e che dall’Arabia partì la spinta universalista che sollevò l’Islām da religione locale e nazionale a fede sovranazionale.
Oggi si parla di «diritto degli Stati musulmani» in quanto, pur essendo ampiamente ispirate al Corano e ai precetti giuridici in esso contenuti, le norme vigenti nei diversi Paesi arabi, adeguate alle esigenze giuridiche e sociali attuali,
differiscono a seconda di ciascun ordinamento che è frutto della sovrapposizione alle «norme del Libro» di altre norme successive, ispirate soprattutto alle
codificazioni europee del XIX secolo (ad esempio in Turchia, Tunisia e Alba-
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(1) «Islām» significa «totale sottomissione a Dio » ed ha la stessa radice delle parole Silm e Salām, «pace». I
suoi dettami sono composti essenzialmente dai principi rivelati dall’Arcangelo Gabriele nel 610 d.C. a Maometto
successivamente raccolti nel Corano.
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nia è vietata la poligamia, ammessa in altri Stati arabi, pur essendo questo un
istituto legittimato, a certe condizioni, dal Corano: v. cap. 4, §3, lett. e).
2. Cenni storici
A) Arabia e Medio Oriente preislamici
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La penisola arabica, all’epoca di Maometto, era una vasta pianura arida e in parte
desertica, povera di risorse, popolata da tribù disorganizzate, spesso nomadi, che
vivevano per lo più di pastorizia. Isolata rispetto alle grandi vie di comunicazione, essa rappresentava comunque un punto di partenza ideale per la diffusione di
nuove idee, grazie anche alla sua particolare collocazione geografica tra Maghreb e Mashreq, tra Mar Mediterraneo e Oceano Indiano.
In generale, il Medio Oriente costituiva a quel tempo un grande crocevia di
commerci internazionali attraversato dalle Vie della seta e dalle Vie delle spezie, che permettevano di raggiungere, rispettivamente, la Cina e l’Indonesia.
Lungo queste grandi vie di comunicazione erano fiorite numerose città carovaniere, quali Palmira, Petra, Damasco e Antiochia.
Il sistema giuridico delle popolazioni beduine era imperniato su norme di
tipo consuetudinario caratterizzato, da un lato, da procedure sacrali come la
divinazione, dall’altro, da una visione estremamente concreta del diritto positivo, come testimonia la riduzione dei delitti a fatti illeciti transigibili tra le
parti (es.: legge del taglione).
L’antico sistema tribale arabo, in forza del quale l’individuo non riceveva alcuna protezione al di fuori della tribù, permeava il diritto delle persone, penale, della famiglia e delle successioni all’interno di tutta la società araba preislamica.
Non esisteva, infine, un sistema giudiziario strutturato e la risoluzione delle
controversie veniva affidata ad un arbitro (h· akam) (2), scelto in base alle sue
doti personali, al prestigio e alla provenienza familiare, la cui decisione era
inappellabile ma non esecutiva e rappresentava sostanzialmente un’affermazione autorevole sulla consuetudine normativa (Schacht).
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B) Vita di Maometto
Secondo alcune fonti tradizionali Maometto (Muh·ammad) nasce tra il 562 e il
572 a Mecca, un importante centro commerciale e cosmopolita dell’Arabia
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(2) Avviso: la traslitterazione nei nostri caratteri data la differenza dei suoni e delle lettere dell’alfabeto arabo non
sempre consente al lettore l’esatta pronuncia delle parole arabe.
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Introduzione al diritto islamico
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dove convivevano diverse comunità religiose, da un importante famiglia di mercanti. Rimasto orfano in tenera età, viene affidato inizialmente al nonno ‘Abd
al-Muttalı̄b (capo dei Quraysh) e, in seguito alla morte di quest’ultimo, allo zio
Abū T· alı̄b.
I numerosi viaggi intrapresi, dapprima con lo zio e successivamente alle dipendenze della ricca vedova Khadı̄ja (che qualche anno dopo diventerà sua sposa), gli permettono di entrare in contatto con le diverse realtà sociali e religiose
del Medio Oriente.
Sempre secondo la tradizione, nel 610, durante un ritiro sul monte Hira, gli
appare l’arcangelo Gabriele che lo esorta a diventare Messaggero (rasūl) e
Profeta, incaricato da Dio di rivelare agli uomini la Propria volontà: è questa la
fatidica «Notte del destino», che cade in pieno mese di Ramadān.
Il Corano (Qur-ān: recitazione, testo da salmodiare) rappresenta dunque per i
musulmani la diretta e letterale trascrizione della parola di Dio che, in quanto
espressione di tale Suprema, l’uomo non può modificare.
Le Rivelazioni hanno luogo in diversi momenti nell’arco della vita di Maometto e vengono in seguito trascritte sotto forma di versetti (ayāt), ordinati
all’interno di capitoli (Sure), dai suoi discepoli. Maometto ne inizia la predicazione, esortando i propri concittadini (perlopiù pagani e politeisti) ad abbandonare le altre divinità per sottomettersi ai comandamenti di Allah, unico Dio
(Allah e Dio sono sinonimi), nella sua città natale dove ottiene, però, uno scarso consenso. Tra i primi discepoli, oltre alla moglie Khadı̄ja, il suo amico Abū
Bakr ed il cugino ‘Ali ibn Abū T·alı̄b, entrambi destinati a succedergli, rispettivamente, come primo e quarto califfo.
Perseguitato dai propri parenti e concittadini, Maometto, accompagnato da una
settantina di correligionari, si rifugia a Yathrib, città natale della madre, successivamente rinominata Medina (Città del Profeta). È il 622, l’anno dell’Egira (Emigrazione), che diverrà in seguito il primo anno del calendario islamico. Qui egli
fonda l’Umma, la prima comunità politica di credenti, il cui fondamento giuridico poggia sul consenso dei membri come inderogabile presupposto di legittimazione del potere di colui che ne assume la guida. Alla comunità tribale chiusa,
fondata su vincoli di sangue, si sostituisce dunque una nuova forma di aggregazione sociale aperta e fondata sulla comunanza di ideali religiosi.
In seguito ad un periodo di lotte tra Mecca e Medina, nel 630 il Profeta ritorna
alla Mecca in testa ad un esercito e la conquista. Due anni dopo Maometto
muore prematuramente a Medina, senza precisare chi debba succedergli nel
governo dell’Umma. Ciò spiega perché, successivamente, si verificano una serie di contrasti e scissioni all’interno della Comunità islamica destinate a protrarsi fino ai giorni nostri.
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Capitolo 1
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C) Nascita del Califfato
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La scissione tra Sunniti (coloro che si riconoscono nella Sunnah) e Sciiti (shı̄’a,
partito di ‘Ali) risale all’assassinio di ‘Ali, quarto califfo dopo Abū Bakr, ‘Umar
e ‘Uthmān, e alle controversie insorte alla morte di Maometto sui criteri di
successione.
Per i Sunniti, con Maometto (definito «Sigillo dei Profeti») termina la Rivelazione, nessuno può succedergli in quanto profeta e il Califfo (Kh·alı̄fa), suo
vicario, è il custode dell’eredità profetica che deve essere scelto nel novero dei
più fedeli al Profeta stesso per guidare i credenti e amministrare la comunità
secondo i dettami del Corano.
D) Le dinastie successive ai califfi
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Gli Sciiti, concentrati soprattutto in Iran e nell’attuale territorio dell’Iraq e appartenenti principalmente alla scuola duodecimana o imamita (la più diffusa) rivendicano, invece, la successione su base ereditaria in quanto ‘Ali, cugino e genero
di Maometto, sarebbe stato da lui istruito poco prima di morire sui più profondi
segreti dell’Islām e indicato come suo successore. Secondo la tradizione sciita,
alla luce di una più attenta lettura di alcuni versetti poco espliciti del Corano (3),
la sapienza ricevuta da ‘Ali sarebbe stata trasmessa ai suoi discendenti, che
sono pertanto considerati guide (Imām) dotati di incontrastata autorità.
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Con i primi quattro califfi elettivi (i cosiddetti «ben Guidati») ha inizio l’espansione dell’Islām oltre i confini dell’Arabia, fino a raggiungere a oriente le rive
dell’Indo e a occidente la Spagna durante i califfati successivi.
Dai califfi successivi originano quattro principali dinastie.
La dinastia degli Omayydi, che sposta la capitale a Damasco e mantiene il
potere fino al 750 d.C., quando viene rovesciata dalla dinastia degli Abbasidi
(che trasferiscono nuovamente la capitale a Baghdad). Questa, come la dinastia dei Fatimidi, la più importante dinastia sciita ismailita con capitale in
Egitto che deve il suo nome alla sua discendenza da Fāt· ima, figlia di Maometto,
viene soppiantata dalla dinastia dei Turchi Selgiuchidi tra la fine del X e la metà
dell’XI secolo. Al loro dominio pone fine l’invasione mongola in seguito alla quale
le tribù turcomanne sono costrette a spostarsi ai confini dell’Impero bizantino.
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(3) Nel Corano sono presenti vari versetti che alludono alla «sacralità della Famiglia del Profeta», «Gente della Casa»
o «Ahl Al-Bayt», di cui ‘Ali fa parte in quanto cugino e genero di Maometto.
Secondo gli Sciiti , uno dei principali versetti che designano ‘Ali come successore del Profeta recita: «In verità tu
non sei che un ammonitore e ogni popolo ha la sua guida» (Corano XIII, 7). Dopo tale Rivelazione, Maometto
avrebbe ripetuto: «Io sono un ammonitore, e ogni popolo ha la sua guida »; indicando ‘Ali, avrebbe poi aggiunto
«O ‘Ali, dopo di me i Credenti saranno guidati da te».
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Tra esse, la tribù di Otsman i cui seguaci, gli Ottomani, danno vita all’Impero
turco che, dopo la presa di Costantinopoli nel 1453, estenderà la propria dominazione fino al cuore dell’Europa attraverso i Balcani, mantenendo il potere fino
alla prima guerra mondiale. Esso rappresenta la realtà statuale di tradizione islamica tra le più significative con la quale l’Europa si è confrontata per secoli.
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E) L’espansione dell’Islām
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L’espansione territoriale dell’Islām costituisce un fenomeno complesso, in
quanto non determina il semplice rovesciamento delle istituzioni politico-amministrative dei territori conquistati, ma comporta una serie di conseguenze legate
alla conversione dei sudditi alla fede musulmana (proselitismo). L’adesione all’Islām è favorita soprattutto nei territori degli Imperi bizantino e persiano, caratterizzati da ancestrali inconciliabili differenze sociali, perché conferisce alle
popolazioni assoggettate gli stessi diritti di cui sono titolari i conquistatori, permettendo così ai nuovi adepti di aderire ad un ideale di fratellanza e di fare
parte di una comunità che ignora le differenze di razza e di casta.
In secondo luogo, essa determina l’adozione dell’arabo (classico) in quanto
lingua sia ufficiale che liturgica e impone l’assoggettamento ad uno stile di
vita e a regole sociali e giuridiche scandite dai precetti religiosi del Corano (4)
che permeano l’intera esistenza, pubblica e privata, dei convertiti.
Con l’Islām i confini tra potere temporale e potere spirituale si sfumano, le
cariche pubbliche hanno anche una natura confessionale e coloro che le ricoprono debbono professare la fede musulmana ed assumere atteggiamenti conformi al dettato coranico.
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Premettendo che esistono differenze terminologiche tra le diverse regioni e delle evoluzioni nel loro uso nel corso del tempo, si distinguono le seguenti figure
di vertice dell’Islām:
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— il sultano, ovvero il sovrano di uno Stato indipendente, che gode del titolo di
«Comandante dei credenti» sul quale fonda la propria legittimità (come in
Marocco);
— il vicerè o delegato del sovrano (il dey di Algeri, il bey di Tunisi, chedivè in Egitto);
— il pascià o governatore della città;
— lo sceicco, governatore della provincia, o meglio, dei territori tribali della
provincia;
— il capo del villaggio (muqaddam);
— i visir, che sono i ministri del governo.
Si veda il cap. 7, §3, lett. D), per l’analisi dei rapporti Califfo-Sultano.
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(4) L’adesione di tutti indistintamente ai principi del Corano costituisce una garanzia per le classi più deboli che, in
ossequio ai precetti religiosi, possono controllare e imporre ai governanti condotte conformi allo spirito e alla lettera
del «Gran Libro».
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F) La diffusione dell’Islām nel mondo: situazione attuale
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Regola basilare dell’Islām è una generale tolleranza nei confronti della Gente del Libro (ahl al-kitāb), ovvero le comunità monoteiste, che trova la propria
fonte nel Corano (5).
Le comunità degli ebrei e dei cristiani, infatti, godono della dhimma, ovvero
di un patto di protezione illimitato in cambio del pagamento di un tributo,
grazie al quale ad esse viene altresì riconosciuta piena libertà religiosa. Ancora
oggi in alcuni Paesi musulmani come la Giordania, il Libano, la Siria, l’Iraq, le
comunità non musulmane possiedono i propri tribunali e le proprie leggi nelle
materie rientranti nello statuto personale.
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Oggi il numero dei musulmani nel mondo è stimato intorno a 1200 milioni di
seguaci (il 19,4% della popolazione mondiale) di cui 780 in Asia, 380 in Africa, 32 in Europa, 6 in America del Nord, 1,3 in America Latina, 0,3 in Oceania.
In 43 Paesi i musulmani rappresentano più del 50% della popolazione e 57
Paesi fanno parte dell’Organizzazione della Conferenza Islamica.
In questo quadro, gli Sciiti rappresentano circa il 10% del totale dei musulmani, i Sunniti la schiacciante maggioranza.
Forniamo di seguito alcuni dati in dettaglio:
Paesi a maggioranza musulmana che applicano la Sharı̄’ah:
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— Penisola arabica: Arabia Saudita, Kuwait, Yemen, Emirati del Golfo Persico
(Mascate, Oman, Bahrein, Qatar);
— Africa: Tunisia, Libia, Algeria, Marocco, Egitto, Sudan, Mauritania, Eritrea,
Somalia, Mali, Niger, Nigeria, Guinea etc.;
— Repubbliche dell’ex Unione sovietica, con assetti istituzionali in evoluzione e
non ancora rigidamente definiti: Arzebaigian, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan etc.
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Un cenno a parte meritano Turchia e Albania, Paesi a maggioranza musulmana
e facenti parte dell’Organizzazione della Conferenza Islamica ma con ordinamenti costituzionali ispirati a principi di laicità.
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Paesi non musulmani con popolazioni autoctone di fede musulmana:
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Israele, Cipro (metà turca e metà greca), Etiopia, Eritrea, Ciad, Madagascar,
Repubblica sudafricana, Comore, Cina (Yunnah, Mongolia), Repubbliche africane affacciate sull’oceano Indiano, Gibuti, Kenya, Zimbawe, India, Borneo, alcuni stati malesi, minoranze in Tailandia, Vietnam e Filippine, Balcani (Serbia,
Bosnia, Bulgaria, Macedonia, Montenegro, Croazia).
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(5) Il rispetto verso i seguaci della Torah e della Bibbia deriva dal fatto che il Corano si ispira in larga parte a
questi «Libri sacri» e ne rappresenta una continuazione che conclude la Rivelazione divina, tanto che venera la
figura di Gesù, considerato il buon Profeta, e sua madre Maria cui dedica la sūra XIV.
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Minoranze musulmane immigrate in Europa:
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— La Gran Bretagna ha accolto, in seguito alla concessione dell’indipendenza
all’India, un numero considerevole di immigrati provenienti dal Bangladesh e
dal Pakistan. Dal 1989 esiste un partito politico islamico e dal 1996 è entrata
in vigore una norma sui cd. «tribunali d’arbitrato», che sancisce l’applicabilità del diritto islamico alle controversie che le parti vogliano affidare ad un
terzo detto, appunto, « arbitro» (in materia di dispute finanziarie, eredità, divorzi, etc.). Dal settembre 2008, inoltre, la Sharı̄’ah è ufficialmente applicabile dai Tribunali civili inglesi.
— La Germania ha accolto musulmani provenienti da diversi Paesi, tra i quali
spicca la Turchia. Il fenomeno risente delle difficoltà derivanti sia dalla non
facile integrazione con la popolazione locale che dalla scarsa coesione interna della comunità musulmana (ostilità tra turchi e kurdi).
— In Francia la popolazione musulmana proviene per lo più dalle ex colonie o
protettorati francesi. Il processo di integrazione è favorito dalla comunanza
della lingua e i musulmani, in gran parte regolarizzati, rappresentano la seconda religione (assieme ai protestanti) presente sul territorio francese.
— La Svizzera ha contenuto il fenomeno dell’immigrazione attraverso l’emanazione di norme molto restrittive.
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L’Islām non è soltanto la seconda religione mondiale, ma rappresenta anche la
seconda confessione religiosa per numero di fedeli presente in Italia. Esistono infatti Paesi a maggioranza non musulmana in cui vivono minoranze musulmane, come in Italia, e viceversa.
I movimenti islamisti rivendicano nei Paesi arabo-musulmani l’applicazione
integrale del diritto islamico, ma anche le minoranze musulmane dei Paesi
occidentali, in continuo aumento per i flussi migratori e grazie al tasso di natalità superiore alla media della popolazione europea, chiedono sempre più insistentemente che le legislazioni nazionali tengano conto delle esigenze religiose delle comunità islamiche.
Tutto questo e le problematiche che ne derivano sul piano della compatibilità
culturale, sociale e giuridica (si pensi, ad esempio, a quella parte delle norme
di diritto islamico ritenute inconciliabili con la nozione di diritti fondamentali
dell’uomo di tradizione occidentale) impone al mondo occidentale una riflessione e un approfondimento in ordine alla natura e ai principali fondamenti del
diritto islamico quali necessari presupposti per la costruzione di un dialogo
costruttivo con l’Islām, oggi non più rimandabile.
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3. Caratteri generali del diritto islamico
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A) Diritto islamico come diritto sacro
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Il termine Islām significa totale sottomissione a Dio, una sottomissione che
coinvolge ogni aspetto della vita di un musulmano, dalla vita privata a quella
sociale, dai rapporti giuridici a quelli economici.
Il diritto islamico è, anzi, considerato il cuore dell’Islām e rappresenta la scienza
religiosa per eccellenza.
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Nel diritto islamico ritroviamo:
— una teologia (Aquı̄da) che fissa i dogmi e stabilisce ciò in cui ogni musulmano deve o non deve credere;
— una Legge rivelata (Sharı̄’ah o Via da seguire) che prescrive cosa un musulmano deve o non deve fare;
— una scienza del diritto (Fiqh), intesa come l’esatta interpretazione e comprensione della Sharı̄’ah (6).
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Mentre nei sistemi di common e civil law (v. glossario) la norma giuridica è
concepita come prodotto della ragione umana, nel diritto islamico il legislatore per eccellenza è Dio che ha rivelato la Legge al Profeta.
La norma giuridica riceve, dunque, la sua legittimazione dal fatto che è emanata direttamente da Dio e metterla in discussione equivale a mettere in dubbio
la parola di Dio.
Il fatto di essere un diritto confessionale rende, quello islamico, uno strumento
che mira non solo al conseguimento di una pacifica convivenza sociale, ma
anche e soprattutto al perseguimento di fini di natura ultraterrena.
Strettamente legato ad un testo sacro (il Corano), il diritto islamico è dunque
subordinato al rituale religioso e risente dello spirito, della lingua e della cultura araba. Per questi motivi esso presenta caratteri propri e peculiari che lo
rendono difficilmente assimilabile e comparabile agli altri sistemi giuridici in
generale e al diritto canonico in particolare.
B) Differenza con il diritto canonico
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Mentre in Europa il processo di laicizzazione (v. glossario in appendice al
capitolo) ha permesso l’integrazione tra diversi sistemi religiosi, etici e filoso-
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(6) È ad essa o alla sua potenziale evoluzione che si guarda con fiducia perché adotti tutti i metodi esegetici per
modernizzare il modo di pensare della comunità islamica, abbandonando quelle regole coraniche che sono solo
uno storico retaggio della vita sociale del VII secolo, e riaffermare, invece, i grandi principi universali di fratellanza,
pacifismo, solidarietà e buon senso che hanno ispirato i credenti e che costituiscono le idee guida dell’Islām.
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fici e ne ha riconosciuto la legittimità, la visione olistica della Legge sacra che
caratterizza il diritto islamico permea ogni aspetto dell’esistenza dei fedeli e
dell’Umma (comunità dei credenti) e non consente nessun travisamento di quella
che è considerata la parola di Dio, rivelata attraverso il Corano.
Anche il diritto canonico nei Paesi occidentali si configura come un diritto
«sacro», finalizzato al raggiungimento di fini ultraterreni ma, pur riposando sui
principi della fede rivelata e della morale cristiana, esso non costituisce in alcun
modo un diritto «rivelato» che si contrappone al diritto statuale, e non ha mai
preteso di costituire un sistema giuridico completo e chiuso, bensì sempre in
evoluzione sotto l’autorevole guida autocratica del Papa.
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C) Peculiarità e tratti distintivi dell’Islām rispetto ai sistemi giuridici occidentali
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A differenza del diritto romano, con il quale presenta alcune analogie in materia di diritti reali e di possesso, il diritto islamico non è strutturato intorno ad
un corpo di leggi.
Premesso che le norme giuridiche non vengono prodotte dall’uomo, bensì
ricavate dal Corano e dalla Sunnah (che si rifà, essenzialmente, ai «detti» e
alle «azioni» del Profeta), i principi fondamentali per l’individuazione delle
norme stesse sono l’esegesi e, in riferimento alle fattispecie nuove, il ragionamento autonomo o ijtihād, di tipo analogico, che procede per paratassi e associazioni di idee e viene preferito a quello analitico, tipico della tradizione
giuridica europea continentale.
Anche il metodo casistico rappresenta una delle particolarità del diritto islamico: il suo scopo non è tanto quello di analizzare separatamente gli elementi
giuridicamente rilevanti per ricondurli a regole generali, quanto quello di stabilire delle serie graduali di casi.
Le stesse categorie giuridiche sono più sfumate rispetto a quelle europee, nei cui
ordinamenti vige la logica binaria del lecito e dell’illecito: per il diritto islamico l’atto dell’uomo può essere caratterizzato da diverse valutazioni, può essere
obbligatorio, raccomandato, permesso, riprovato o vietato.
Invece che un’antitesi tra due concetti (il permesso e il vietato) come in Occidente, ritroviamo nell’Islām una serie di passaggi graduali che conducono dal
nucleo principale del primo concetto al secondo. A tali concetti intermedi corrispondono altrettanti effetti graduali anche sul piano giuridico.
Un altro elemento di tipicità, connesso al modo di ragionare per analogia, è
costituito dal carattere privato e individualistico del diritto islamico, concepito, sotto il profilo formale, come la somma dei diritti soggettivi (o privilegi) e dei doveri degli individui.
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Questa visione pervade anche la sfera del diritto pubblico (v. cap. 7) dove
non esiste una definizione giuridica dei pubblici poteri, che vengono, invece,
descritti in termini di diritti e doveri di privati chiamati ad una funzione istituzionale (ad esempio, i diritti e doveri delle persone che hanno il compito di
nominare un califfo e i diritti e doveri di quest’ultimo). Anche le istituzioni
fondamentali dello Stato islamico non sono definite in quanto funzioni, ma in
termini di doveri che fanno capo a tutti gli individui investiti di pubblici poteri
in nome di Allah.
Non esiste una suddivisione sistematica per materie nell’ambito del diritto
islamico. Accanto a norme procedurali possiamo trovare norme sostanziali e
anche le norme di diritto privato sono frammiste a norme fiscali, penali, o di
diritto bellico.
Infine, se la molteplicità di casi particolari, la mancanza di principi generali e le
modalità con le quali le sue fonti scritte vengono integrate dalle opinioni dei
dottori delle leggi, avvicinano il sistema giuridico islamico ai sistemi di common law (v. glossario), retti dal principio giurisprudenziale dello «stare decisis»
(v. glossario), non è comunque possibile assimilarlo ad essi dal momento che si
configura più come un diritto di produzione dottrinale, fondato imprescindibilmente sulla lettura ed interpretazione dei principi coranici, che come un diritto di
produzione di nuovi precetti derivanti dall’attività giurisprudenziale.
D) Immutabilità e capacità di adeguamento
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Se da un lato è vero che il diritto islamico, in quanto riflesso dell’ordine divino
sulla condotta umana, è considerato intangibile per definizione, caratteristica
che lo porrebbe in contrasto con il naturale e necessario adeguamento al mutare dei tempi (cd. immobilismo del diritto islamico), è anche vero che al suo
interno si rinvengono una molteplicità di istituti e procedure quali la consuetudine, le convenzioni tra le parti, le finzioni giuridiche o l’intervento del principe, che gli hanno permesso di evolversi almeno in parte, integrando, così, le
disposizioni coraniche formalmente non modificabili, disposizioni che risentono di un retaggio di una società civile e religiosa sviluppatasi oltre 14 secoli
fa.
Inoltre, esso ha potuto sopravvivere nel corso del tempo grazie anche alla sua
capacità di poter convivere senza contrasti con altri ordinamenti. Il diritto
islamico, infatti, non pretende di avere validità universale: mostrando di tenere conto della propria natura sacrale, è pienamente vincolante solo per i musulmani residenti nel territorio dello Stato islamico, mentre lo è in misura leggermente minore per i musulmani residenti nello Stato non islamico, e solo limitatamente applicabile ai non musulmani residenti in territorio islamico.
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Questo aspetto ha dato luogo nel tempo a fenomeni di co-vigenza di ordinamenti, come è avvenuto per esempio nella penisola iberica successivamente
all’invasione e alla cacciata degli arabi (X sec. d.C.), dove ai musulmani rimasti è stato consentito di vivere pacificamente nel territorio conquistato dai cristiani e viceversa.
Glossario
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Abū Bakr: primo califfo dell’Islām dal 632 al 634, il suo vero nome era Abdullah, ma veniva meglio
conosciuto come «Siddı̄q» (il veritiero). Ricco mercante e membro del clan coreiscita dei Banu Taym, fu
il primo compagno di Maometto a convertirsi all’Islām dopo la moglie Khadı̄ja ed il cugino ‘Ali. Fu
eletto al califfato secondo due criteri innovativi rispetto al Corano e alla Sunnah, ovvero la Qarāba
(prossimità al profeta) e la Sābiqa (antichità della conversione). Una volta a capo dell’Umma, intraprese
la cd. guerra della ridda per combattere l’apostasia di alcune tribù e completare, così, la conquista della
Penisola arabica.
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‘Ali ibn Abū Talib: nato alla Mecca nel 600 ca., era cugino di Maometto, e nel 622 ne divenne anche
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genero sposando la figlia Fāt·ima. Fu quarto califfo dell’Islām e primo imām per lo Sciismo. Partecipò a
tutte le campagne militari intraprese dai musulmani, ad eccezione della battaglia di Tabuk, quando Maometto volle che ‘Ali rimanesse come suo rappresentante a Medina. Alla morte del Profeta, nel 632, fu lui
a compiere il rito funebre del lavacro del cadavere, e per tale ragione non partecipò alla riunione che lo
escluse dal primo califfato designando Abū Bakr. Diventato califfo solo alla morte di Uthmān, dovette
fronteggiare le proteste alla sua elezione prima da parte di due compagni di Maometto (che sconfisse
nella cd. «battaglia del Cammello» nel 656), e in seguito da parte dell’allora governatore della Siria. I più
duri oppositori furono però i Kharijiti, che lo uccisero a Kufa (Iraq) nel 661 per vendicarsi dopo una dura
sconfitta subita a Nahrawan nel 658.
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Civil law: termine con cui viene indicato, nei Paesi di common law, il diritto fondato sulla tradizione
giuridica romanistica e germanica. Corrisponde, in pratica, a quella tradizione giuridica che costituisce
il fondamento del diritto dei Paesi dell’Europa continentale e dell’America latina
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Common law: sistema giuridico inglese (e dei paesi anglosassoni, in genere) sviluppatosi ad opera delle
Corti regie di giustizia. La struttura giuridica elaborata dalle Corti è profondamente diversa da quella di
tradizione romanistica. La (—) si è sviluppata essenzialmente come diritto giurisprudenziale per cui
sono gli stessi giudici, attraverso le loro pronunce, a creare il diritto, vincolando anche le decisioni
giurisprudenziali successive (cd. case law). Caratteristico dei sistemi di (—) è l’inesistenza della tradizionale partizione romanistica tra diritto privato e diritto pubblico.
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Diritto canonico: è costituito dall’insieme delle norme giuridiche formulate dalla Chiesa cattolica, che
regolano l’attività dei fedeli nel mondo nonché le relazioni interecclesiastiche e quelle con la società
esterna. Poiché la Chiesa costituisce un’unica realtà composta da un elemento divino e da un elemento
umano, il (—) si compone di norme di origine divina, il diritto divino (es.: la Rivelazione), che si ritiene
siano assolutamente inderogabili da leggi umane, civili o ecclesiastiche, e norme di diritto umano che
scaturiscono, invece, dal volere delle autorità costituite dalla Chiesa per il governo della comunità dei
fedeli, quali ad esempio il Pontefice e il Concilio Ecumenico.
C
op
Diritto romano: la storia del diritto dei Paesi di tradizione latino-germanica ha come punto di partenza il
sistema giuridico romano. I principali lemmi giuspubblicistici e giusprivatistici odierni (potestà, legge,
giustizia, giurisprudenza, persona, beni, obbligazioni, contratti, rapporto debitorio, etc.) derivano dal diritto
romano che, accanto al diritto naturale e fino alla nascita del Code Civil (1804), ha costituito il fondamentale referente di ogni ricerca giuridica. Per la tradizione giuridica «colta» il diritto romano, soprattutto
quello che ha dato origine al sistema del Corpus iuris civilis giustinianeo, è la fonte per eccellenza, ove
l’anteriorità e l’autorevolezza hanno addirittura prevalso sul «potere» costituito (Thomas).
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Capitolo 3 Gli strumenti della conservazione
e dell’adeguamento
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Sommario 冟 1. La cristallizzazione del diritto islamico. - 2. Le fonti «non canoniche» del
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diritto islamico.
A) La chiusura della porta dell’ijtihād
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1. La cristallizzazione del diritto islamico
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L’ortodossia musulmana considera compiuta l’elaborazione del diritto islamico nei suoi tratti fondamentali intorno all’XI secolo. Tale fenomeno è definito
«chiusura della porta dell’ijtihād» (interpretazione).
In questo periodo si affermò la convinzione che le fondamentali questioni giurisprudenziali fossero tutte già state risolte ad opera dei grandi dotti del passato, gli unici a possedere le qualità necessarie all’esercizio dell’ijtihād e a poter
proporre ragionamenti autonomi su questioni giuridiche.
Mentre per i primi esperti del diritto islamico lo sforzo interpretativo e d’integrazione delle norme coraniche coincideva con l’esercizio indipendente del
ragionamento e dell’opinione personale (rāy), successivamente tale libertà
venne progressivamente ad essere compressa da una serie di altri fattori, quali
l’importanza attribuita al consenso (ijmā') e al principio d’infallibilità dello
stesso, il formarsi di gruppi di opinione all’interno delle scuole, la comparsa di
tradizioni (sunnah) attribuite al Profeta o ai suoi compagni, la definizione di
una serie di rigorose limitazioni all’esercizio dell’ijtihād.
In ogni caso, il concetto di «chiusura della porta dell’ijtihād» non è stato unanimamente accettato e definito all’interno del mondo giuridico musulmano,
così come da parte di giudici e muftı̄ si è continuato a praticare lo sforzo interpretativo in parallelo con l’evoluzione della società dei credenti.
C
Il muftı̄ è una sorta di consulente giuridico, un esperto privato del diritto islamico in
grado di emettere pareri (fatwā) di carattere pratico speculativo relativamente a casi
concreti accettati come autorevoli dalla comunità e dai suoi rappresentanti.
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Capitolo 3
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Il carattere essenzialmente pratico della sua attività contrappone questa figura a quella
dei fuqahā', impegnati sul piano teorico.
Accanto a muftı¯ non ufficiali o riconosciuti dalla sola opinione pubblica, si sono dati nel
corso del tempo anche muftı¯ ufficiali che hanno rivestito un ruolo nodale nell’ambito
dell’ordinamento amministrativo dell’Impero Ottomano.
Grazie alle loro risposte la dottrina ha potuto, nel corso dei secoli, adattarsi al nuove
problematiche e ancora oggi l’uso dell’ijtihād si esprime attraverso i loro pareri o responsi.
Ad essi possono fare ricorso, oltre ai privati cittadini, i pubblici poteri, generalmente
prima di promulgare una legge o in caso di importanti decisioni politiche, ma anche i
tribunali (che però non sono tenuti a conformarvisi). Al giorno d’oggi i comuni cittadini
possono richiedere il parere di un muftı̄ attraverso i servizi di consultazione giuridicoreligiosa messi generalmente a disposizione da giornali, radio e televisioni (1).
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B) Taqlı̄d (conformismo)
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Contemporaneamente alla rilettura del concetto di ijtihād (sforzo interpretativo) in senso restrittivo, acquisiva un’importanza crescente il principio del taqlı̄d
o imitazione (letteralmente «mettersi un collare»).
Tale concetto veniva rivisitato nel senso che la dottrina non potesse essere autonomamente dedotta dal Corano e dalla Sunnah, ma dovesse essere accettata nella versione definitiva così come riconosciuta da una delle scuole ufficiali.
I successivi apporti alla costruzione del diritto islamico in termini di originalità non
hanno quindi potuto significativamente scalfire la teoria classica degli ussūl alfiqh e le norme fondamentali di diritto positivo che risentono sul piano giuridico
del quadro delle condizioni economico-sociali del primo periodo abbàsside.
Non tutti i giuristi successivi hanno però accettato questa versione del concetto
di taqlı̄d e, in particolare, essa è stata respinta da quei movimenti o singoli pensatori tradizionali che, a partire dal diciottesimo e dal diciannovesimo secolo,
hanno sostenuto la necessità di un’interpretazione restrittiva dei principi dell’Islām, come i riformisti integralisti della Salafı̄ya, o di un rinnovamento alla
luce delle nuove idee importate dall’occidente, come i modernisti (cfr. cap. 8).
C) Sopravvivenza del diritto islamico
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La rigidità sostanziale del diritto islamico rappresenta uno dei fattori che ne
hanno permesso la sopravvivenza e hanno consentito il mantenimento dell’unità
del mondo musulmano anche dopo il disgregarsi delle sue istituzioni politiche,
a partire dalla caduta del califfato abbasside con la presa di Baghdad da parte
dei Mongoli nel 1258.
C
(1) Nel diritto romano veniva riconosciuta ai giuristi di un certo valore un ius publicae respondendi, una specie di
patente di «buon giurista» attraverso la quale tali giuristi esercitavano un’attività similare a quella esercitata in
seguito dai muftı̄.
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Gli strumenti della conservazione e dell’adeguamento
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Ancora oggi, anche dopo l’avvento delle codificazioni, il diritto islamico continua a rappresentare uno dei più grandi sistemi giuridici mondiali, tanto che i
testi delle Costituzioni di diversi Paesi arabi contengono un richiamo esplicito
ai suoi principi (Marocco, Tunisia, Algeria, Mauritania, Yemen, Iran, Pakistan,
Sudan, Egitto).
Alcuni codici civili (Egitto 1948, Siria 1949, Iraq 1951, Algeria 1975) contengono l’invito rivolto ai giudici di colmare le lacune del diritto seguendo i principi del diritto islamico; allo stesso modo, ad essi devono conformarsi leggi e
istituzioni di molti Paesi (cfr. cap. 8).
Il fenomeno si è potuto verificare anche perchè, accanto all’immobilismo strutturale del diritto islamico, lo stesso contiene al proprio interno altri strumenti
giuridici, capaci di permettere, almeno in parte, l’adattamento del fiqh alle
diverse realtà territoriali e sociali con le quali è stato chiamato a confrontarsi
nel tempo.
Tali strumenti individuano quelle che sono state definite come le fonti non
canoniche del diritto islamico (v. paragrafo seguente).
2. Le fonti «non canoniche» del diritto islamico
A) La consuetudine (‘urf)
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Uno degli elementi che hanno facilitato l’espansione dell’Islām è costituito
dall’atteggiamento tollerante dello stesso rispetto al mantenimento delle usanze locali che non fossero in contrasto con la Legge Sacra.
Le consuetudini o usanze (‘urf) rappresentavano in epoca preislamica la principale fonte del diritto; in seguito, esse sono comunque state utilizzate nella
prassi giuridica purché non contrarie alla Sharı̄’ah, rispetto alla quale hanno
svolto una funzione integratrice e complementare.
Si distingue tra consuetudini generali (‘urf ‘āmm), specifiche (‘urf khāss) e
locali (‘urf mahallı̄).
Per essere giuridicamente invocabile, la consuetudine non deve violare il Corano
e la Sunnah, deve essere accettata dalla maggioranza della comunità, non può
avere effetto retroattivo, non deve essere contraria all’accordo delle parti.
In riferimento alla classificazione degli atti umani in cinque categorie (v. ante
cap. 2, §1, lett. C), si può affermare che la consuetudine, per essere lecita e
rivestire valore legale, non può prescrivere un atto illecito o vietato né vietare
un atto obbligatorio, ma può prescrivere un atto raccomandato o permesso
e può vietare un atto riprovevole o permesso.
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Capitolo 3
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Rispetto al consenso (ijmā') (v. cap. 2, §3, lett. E), mentre quest’ultimo esige
formalmente l’unanimità dei mujtahid (giuristi) dell’epoca in cui la norma è
stata definita, la consuetudine, per affermarsi giuridicamente, necessita della
sola maggioranza della comunità. Il consenso ha valore universale, mentre la
consuetudine può essere cambiata da un diverso atteggiamento del corpo dei
credenti.
Premesse queste caratteristiche generali, le modalità e la forza con le quali il
diritto consuetudinario locale è stato capace d’integrarsi e talvolta di sovrapporsi alla legge islamica varia da zona a zona. In alcuni casi, come nei territori
berberi del Maghreb e dell’Indonesia, esso ha dato prova di una capacità di
resistenza maggiore, in altri la Sharı̄’ah si è potuta sostituire in tutto o in parte
alle tradizioni locali.
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B) Le decisioni giudiziarie (‘amal)
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Si distingue tra prassi giudiziaria o ‘amal (azione, procedura) locale, relativa
ad un solo Paese, e prassi giudiziaria generale, comune a più Paesi o a tutta la
comunità islamica.
Il ruolo della prassi giudiziaria come fonte di produzione giuridica è particolarmente rilevante nel Maghreb e segnatamente in Marocco, area di diffusione
della scuola malichita (v. cap. 2, §4, lett. B), caratterizzata da un ampio ricorso
alla sunnah e ai criteri ermeneutici sussidiari.
Qui, a partire dal XV secolo, hanno iniziato a formalizzarsi delle procedure
grazie alle quali il qāddı̄ (giudice) veniva legittimato a scegliere, tra le opinioni dei giuristi, quella ritenuta più adeguata alle usanze locali (‘urf), indipendentemente dal consenso dei dotti. Tali prassi giuridiche sono state oggetto di
formalizzazione da parte della dottrina all’interno di raccolte di formulari, pareri
astratti e responsi che tengono conto della giurisprudenza forense. In tal modo
sono anche state introdotte delle innovazioni rispetto al diritto cristallizzato
nel fiqh la cui portata, liceità e valore in quanto fonti di produzione del diritto
hanno costituito un importante argomento di riflessione per la dottrina musulmana.
Sempre nel Maghreb, la scuola malichita ha riconosciuto che dovessero essere
seguite le innovazioni della giurisprudenza locale fondate sull’interesse generale (mas·lah·a), o quantomeno sulla necessità, e confermate dall’opinione di
un giurisperito qualificato; ovvero il cui uso fosse dimostrato da due testimoni
accreditati.
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Gli strumenti della conservazione e dell’adeguamento
C) Criteri ermeneutici sussidiari
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Le differenti scuole giuridiche hanno fatto ricorso a diversi criteri interpretativi sussidiari all’argomentazione giuridica, principi ermeneutici che guidano
l’operato del mujtahid nell’esercizio dell’ijtihād, tra i quali ricordiamo:
— l’istih
· sān, o preferenza giuridica, utilizzato dalla scuola hanafita, si sostanzia in un principio che permette di adottare un criterio di scelta tra le
varie soluzioni possibili nel caso in cui il ricorso all’analogia porti ad un
risultato ritenuto non appropriato al contesto, alla luce di ciò che si considera più adeguato; anche la scuola malichita fa uso di questo strumento
rivisitato, però, in base al principio della mas· lah
· a o utilità generale;
— la maslaha o utilità generale, concepita dai malichiti come il vero scopo del
· ·
fiqh, è un principio generale la cui operatività è delimitata da un lato dal
rispetto delle fonti (Corano, Sunnah, retta analogia) e dall’altro dai fini generali della legge (preservazione della fede, delle persone, delle menti, delle
stirpi e dei beni) espressi secondo un ordine rigorosamente gerarchico. Un
altro criterio che segue questo principio è quello per cui «il generale precede
il particolare», per cui, ad esempio, è lecito sacrificare la libertà di opinione
del singolo a vantaggio della preservazione della fede della comunità;
— l’istish· āb o presunzione di continuità, privilegiato dalla scuola hanbalita
(v. cap. 2, §4, lett. B), in base alla quale l’accertamento sullo stato o la
qualità di una cosa perdura nella sua efficacia fino a prova contraria (per
es.: chi contrae un debito rimane impegnato fino a prova contraria, una
persona è presunta innocente fino a prova contraria, qualsiasi norma si presume di applicabilità generale se non è altrimenti specificato).
D) Gli espedienti o finzioni giuridiche (hiyal )
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Il termine hiyal (sing.‘hi’lla) o ‘astuzie’ in origine designava gli stratagemmi
di guerra. Successivamente è stato utilizzato per indicare le «cautele legali» o
«espedienti» che si realizzano spesso attraverso delle finzioni giuridiche e fanno
parte integrante della prassi giuridica, soprattutto in ambito commerciale.
Le hiyal sono definite dai commentatori occidentali come l’impiego di mezzi
legali per fini extra-legali che non potrebbero direttamente essere conseguiti
con gli strumenti offerti dalla Sharı̄’ah (Vercellin) e che permettono di raggiungere il risultato desiderato nel rispetto formale della legge.
Un classico esempio dell’utilizzo di questi strumenti viene individuato nell’istituzione del credito nel mondo islamico.
Nella fattispecie, il divieto assoluto coranico di praticare il prestito con interesse, può essere aggirato attraverso l’uso di espedienti come la doppia vendita
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Capitolo 3
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E) Il decreto del sovrano (qānūn)
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fittizia, nella quale il soggetto che ha bisogno di liquidità vende un bene ad un
altro soggetto impegnandosi a riacquistarlo successivamente dallo stesso compratore ad un prezzo maggiore. In questo modo, mentre sul piano formale si
darebbe luogo a due contratti di vendita perfettamente legittimi per la legge coranica, in realtà la differenza di prezzo tra le due vendite costituirebbe la remunerazione dell’interesse.
Il ricorso alle hiyal, per attenuare o evitare una norma giuridica, ha una connotazione generalmente negativa all’interno del mondo giuridico islamico. Alcuni giuristi, citando argomentazioni tratte dal Corano e dalla Sunnah, ritengono tuttavia che
non tutte le hiyal siano a priori vietate e che si debbano operare delle distinzioni.
I giuristi musulmani classificano le hiyal in cinque categorie: obbligatorie
(vie legali per conseguire uno scopo conforme alla legge); raccomandate (per
evitare un atto illecito o realizzare un atto lecito); permesse (lasciate alla libera
scelta individuale, in particolare in materia di ripudio); ripugnanti (come donare parte dei beni al figlio alla scadenza dell’imposta annuale per non raggiungere la soglia del «minimo imponibile»: solo alcuni giuristi le ritengono
lecite); vietate (in cui sono illeciti il mezzo, lo scopo o entrambi). Alcune di
esse, specialmente quelle in ambito tributario, si sono sviluppate sotto la dominazione di regimi estremamente intransigenti sotto il profilo fiscale.
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Il termine qānūn, derivante dal greco kanon, (regola, norma) viene utilizzato
per indicare l’insieme degli atti e regolamenti promulgati dallo Stato, prevalentemente in ambito amministrativo, giudiziario e fiscale, per distinguerli dalle
leggi divine derivate dalla Sharı̄’ah.
Tutte le materie in cui viene riconosciuta la competenza dello Stato, sono complessivamente definite siyāsa shar’iya.
Essendo il sovrano o il detentore del potere temporale al servizio dell’Islām,
questi, pur non potendo legiferare in senso proprio, ha il dovere garantire l’amministrazione dello Stato e della giustizia conformandosi ai principi della
Sharı̄’ah. In questo quadro si colloca il riconoscimento, in capo all’autorità
temporale, di un potere di emanazione dei provvedimenti regolamentari necessari a garantire il benessere dell’Umma e la preservazione della fede islamica.
Non contenendo il fiqh che poche norme di diritto pubblico e amministrativo,
l’intervento dello Stato non solo si è reso necessario nel corso dei secoli per
colmare le lacune esistenti sotto questo profilo, ma ha anche contribuito all’adeguamento del diritto positivo alle diverse realtà territoriali e temporali
senza entrare quasi mai in conflitto con la Sharı̄’ah.
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Gli strumenti della conservazione e dell’adeguamento
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L’organizzazione statuale che ha sviluppato maggiormente il diritto di fonte
governativa è stata l’Impero ottomano, sotto la cui dominazione, a partire dal
XIX secolo, il termine qānūn ha iniziato ad essere utilizzato anche per indicare
la legislazione d’ispirazione occidentale (codici e costituzioni, cfr. cap. 8).
F) Le convenzioni
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Sulla base di un h·adı̄th che sancisce che «non vi è delitto nello stipulare convenzioni oltre ciò che la legge prescrive» sono ammesse le convenzioni tra le
parti. Grazie ad esse, ad esempio, in epoca contemporanea sono state introdotte in Siria e in altri Paesi significative innovazioni in materia di matrimonio
(cfr. cap. 4).
Ciò rappresenta una peculiarità rispetto al nostro diritto, che contempla piuttosto gli «acta legitima» o puri (cioè quegli atti come il matrimonio, l’adozione
etc. che non tollerano modifiche convenzionali: es. apposizione di un termine)
(v. glossario).
Non vi è uniformità di vedute all’interno del mondo islamico circa i limiti e la
portata delle innovazioni che possono essere introdotte mediante l’accordo tra
le parti (per i sunniti non possono essere oggetto di stipulazione elementi naturali essenziali quali, ad esempio, la durata del matrimonio, mentre gli sciiti
ammettono la categoria del nikāh·mut’a, ovvero matrimonio temporaneo o di
piacere) (v. glossario).
Glossario
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Acta legitima: sono innanzitutto negozi (o atti) giuridici, ovvero manifestazioni di volontà dirette alla
produzione di effetti giuridici riconosciuti e garantiti dall’ordinamento. La loro peculiarità consiste nell’essere, più precisamente, atti giuridici puri, vale a dire atti che non ammettono l’apposizione di elementi accidentali (quali la condizione o il termine) onde evitare l’insorgenza di dubbi circa la loro esistenza e durata. Si tratta di atti di grande rilevanza sociale, e tra essi rientrano il matrimonio, il riconoscimento del figlio naturale, l’adozione, l’accettazione e la rinunzia all’eredità.
Taluni negozi tollerano l’apposizione solo di alcune clausole accidentali (ad es. l’istituzione dell’erede,
che sopporta la condizione, ma non il termine).
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Nikāh mut’a: traducibile dall’arabo come «matrimonio di piacere», consiste in un contratto matrimoniale ·a termine, che gli Sciiti duodecimani considerano mustahabb (raccomandato) e reso lecito dallo
stesso Corano (IV, 24). Come il Nikāh (matrimonio permanente), consiste in un contratto obbligatorio
·
tra le parti e prevede per la donna, il rispetto dell’idda (ritiro prima di contrarre un nuovo matrimonio); si
differenzia però da esso perché, ad esempio, impone ai coniugi di prestabilire un termine e non contempla il divorzio, né il mantenimento della moglie a carico del marito.
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Capitolo 6 Il diritto penale e processuale
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Sommario 冟 1. I reati e le pene. - 2. Tavole riassuntive dei reati coranici. - 3. L’organiz-
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zazione giudiziaria. - 4. Il processo.
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1. I reati e le pene
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A) Generalità: il valore delle pene nel diritto islamico
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Il diritto penale islamico, in quanto diritto religioso, non distingue il concetto
di «peccato» da quello di «reato» ed in quanto applicabile alla «fratellanza
islamica» (Corano XLIX, 10: «in verità i credenti sono fratelli») vige nella sua
unitarietà nei confronti di tutti i musulmani.
Le norme di diritto penale vengono desunte innanzitutto dai versetti legali del
Corano, a cui si aggiunge, con funzione integrativa sia della disciplina in sé
che della sua ratio, la Sunnah di Maometto. Su queste basi, però, non è stata
elaborata una teoria generale del diritto penale, che pertanto non costituisce
una branca autonoma del diritto.
Ciò premesso, il diritto islamico classico definisce come reato sia la commissione di un atto illecito, sia l’omissione di un atto obbligatorio, a cui fa seguito
una pena inflitta dall’autorità pubblica.
È opportuno ricordare che il diritto penale islamico non è stato quasi mai applicato nella sua forma originaria: in alcuni casi, esso è stato manipolato da regimi autoritari e repressivi; in altri, ovvero nella maggior parte dei Paesi musulmani contemporanei, sono stati emanati codici di diritto penale ispirati alla
tradizione giuridica europea (cfr. cap. 8).
Oltre alle ragioni legate a fattori storici (es. colonizzazione) o a scelte politiche, intervengono considerazioni a carattere più propriamente teologico: l’applicazione delle norme penali non dovrebbe prescindere da quella di tutti gli
altri precetti islamici. Secondo parte della dottrina, ad esempio, non è ammissibile ricorrere tout court alla pena prevista dalla Sharı̄’ah in caso di furto
se prima non si rende obbligatoria la norma sciaraitica sul versamento obbligatorio della zakāt, quale strumento di redistribuzione capace di ridurre, se
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Capitolo 6
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non di estinguere, le cause che spingono all’atto illecito (indigenza, povertà,
necessità).
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B) La tipologia dei reati e delle pene
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Il diritto penale islamico contempla tre tipi di reati:
— crimini di sangue (jināyāt), punibili mediante il taglione (qissās) o la composizione legale (diya), tra cui l’omicidio (volontario — con o senza premeditazione — e involontario);
— reati propriamente contro la religione (crimina publica), punibili con
pene contemplate dalla Sharı̄’ah (cd. pene legali, h·udūd): furto, brigantaggio, fornicazione, ribellione, assunzione di vino, ingiuria e diffamazione;
— reati a cui corrisponde una pena discrezionale del giudice (ta’dhı̄r).
se
In questo caso, l’arbitrio del giudice è però limitato dai regolamenti governativi (qānūn siyāsı̄) o, in sostituzione, dalle consuetudini (‘urf), e in nessun caso
può disapplicare la legge religiosa (se esiste per il caso di specie) o violarne i
principi.
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I reati del primo tipo sussistevano già nel diritto penale pre-islamico, ma fu Maometto a
razionalizzare la materia: circoscrisse la vendetta privata a fattispecie ben determinate
(evitando, inoltre, che si trasformasse in una guerra tra clan), sancì che fosse proporzionale al danno subìto e invitò a ricorrere agli strumenti alternativi della composizione
legale, della moderazione e del perdono (Corano XVI, 126: «Se punite, fatelo nella
misura del torto subito. Se sopporterete con pazienza ciò sarà ancor meglio per coloro
che sono stati pazienti»).
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Le pene legali sono quelle definite dalla Sharı̄’ ah in relazione a fattispecie
criminose contemplate dalla stessa. Esse consistono in: lapidazione; decapitazione, crocifissione o impiccagione; amputazione di un arto, flagellazione,
emenda; esilio; taglione (o contrappasso); composizione legale (o convenzionale).
Le pene arbitrarie hanno come obiettivo la correzione del reo e il suo reinserimento nel corpo sociale; tra di esse troviamo l’emenda, la detenzione, la flagellazione, l’esilio.
Spetta al giudice determinarle nelle sole ipotesi non previste dalla legge religiosa e tenendo in considerazione fattori oggettivi (es. gravità del reato) e soggettivi (che richiedono un’attenta analisi sulla persona del reo).
La ratio delle pene consiste nel compensare la vittima, ristabilire l’ordine compromesso dall’atto illecito, correggere la condotta del reo (anche incitandolo
al pentimento di fronte a Dio), ma soprattutto nel prevenire la commissione del
reato: detto altrimenti, il diritto penale islamico dà rilievo al valore deterrente
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Il diritto penale e processuale
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delle pene e si prefigge come obiettivo la difesa della morale e dell’ordine
sociale.
Per alcune fattispecie sono previste espiazioni, come il digiuno, l’elemosina o,
in passato, l’affrancamento dello schiavo.
C) I delitti contro la religione e le pene h· udūd
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Nonostante tutti i reati rappresentino, nell’Islām, un’offesa alla religione e una
violazione della volontà di Dio, rientrano in questo gruppo i reati che destano
un allarme sociale collettivo e sono considerati più gravi (crimina publica),
come i rapporti sessuali illeciti (zinā), la falsa accusa di rapporti sessuali
illeciti (qadf), il bere vino (shurb al-khamr), il furto (sariqa), il brigantaggio
(qatt’ al-tarı̄q).
Tali fattispecie criminose sono tutte direttamente disciplinate e sanzionate dal
Corano e nei loro confronti, pertanto, il giudice dispone di un potere discrezionale molto limitato nell’irrogazione e nelle modalità di esecuzione della pena.
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I dotti musulmani li suddividono in tre categorie:
— reati che offendono la morale, ma soprattutto ledono il privato (es. diffamazione).
L’azione penale è iniziata dalla vittima e/o dal suo ‘aqila, che possono eventualmente chiedere la grazia verso il reo;
— reati che costituiscono offese dirette all’Islām e a Dio (es. ubriachezza e
bestemmia). Per essi la grazia è inammissibile, e l’azione penale può essere
iniziata da qualsiasi musulmano (che gode, dunque, della h·isba, ossia del
diritto/dovere di intervento e protezione della religione);
— reati che ledono in ugual misura l’ordine pubblico e il soggetto privato (es.
fornicazione). L’azione legale spetta al giudice, alla vittima o ad un membro dell’aqila di quest’ultimo.
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La tendenza attualmente dominante, tranne che per la fattispecie della falsa accusa di rapporti sessuali, è tuttavia quella di restringere l’ambito di applicazione delle pene associate a tali reati. Vi sono pertanto casi (furto, brigantaggio) in
cui il pentimento attivo del reo può comportare la decadenza della pena h·add,
mentre nell’ipotesi di commissione di più reati dello stesso genere viene applicata una sola pena in quanto non è contemplato l’istituto della recidiva.
Per alcune fattispecie, inoltre (es. consumazione di bevande alcoliche), sono
previste prove di flagranza e termini di prescrizione molto brevi.
La tendenza a limitare il campo di applicazione di queste pene risulta altresì
evidente in virtù della rilevanza accordata alla presunzione di buona fede in
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Capitolo 6
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caso di shubha (assenza di prove) o somiglianza dell’atto illegale con un atto
legale.
Il regime delle prove, infine, è caratterizzato da norme specifiche e rigorose
riguardanti le modalità della confessione, il numero e la qualità dei testimoni,
nonché il contenuto delle testimonianze.
Esaminiamo singolarmente le figure criminose:
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1) Il rapporto sessuale illecito (zinā)
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Questo reato è integrato da ogni atto sessuale compiuto al di fuori del rapporto
matrimoniale valido o di concubinato con una propria schiava.
La presunzione di buona fede per somiglianza opera in alcuni casi come, ad
esempio, relativamente al matrimonio fāsid (irregolare, viziato) che il marito
riteneva valido o alla comproprietà della schiava. In molte di queste ipotesi la
pena h·add è sostituita da un’obbligazione pecuniaria come corrispettivo del
rapporto sessuale (mahr equo alla donna libera e risarcimento al comproprietario della schiava).
La formulazione del Corano prevede delle condizioni che rendono la perseguibilità di tale atto quasi impossibile, volendone sottolineare piuttosto la natura
riprovevole.
L’atto deve essere volontario ed è punibile solo a seguito di confessione del reo o
quadruplice testimonianza oculare. I quattro testimoni devono essere di sesso
maschile; puberi; devono aver assistito all’atto sessuale illecito, fornendo dettagli e circostanze senza alcuna contraddizione, né inesattezza; devono essere nel
pieno delle loro facoltà mentali; non devono avere legami di parentela o rapporti
di inimicizia con l’imputato; sono chiamati a ripetere la testimonianza in quattro
differenti occasioni, ne devono essere accertate l’onorabilità e la condotta irreprensibile mediante criteri minuziosamente previsti dai giuristi.
A volte, il giudice può richiedere l’intervento di un terzo che, conoscendo e
frequentando il testimone, ne confermi l’onorabilità.
L’ipotesi di falsa accusa di rapporti sessuali illeciti integra il reato di qadf, a
propria volta sanzionabile con pena h·add, e può essere riconosciuta in diverse
circostanze, quali ad esempio la ritrattazione di un testimone o la discrepanza
tra le diverse testimonianze.
La pena hadd per una persona libera e validamente sposata consiste nella
·
lapidazione. Le prime pietre devono essere lanciate dai testi: anche questo
espediente serve a scoraggiare la falsa accusa, poiché i testi, oltre ad incorrere
nel reato di qadf, si macchierebbero dell’omicidio di un innocente. Per una
persona libera non sposata la pena h·add è meno grave e consiste in cento
frustate.
.
A
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p.
Il diritto penale e processuale
2) La falsa accusa di rapporto sessuale illecito (qadf)
S.
Lo schiavo (in quanto considerato un bene economico) non è soggetto a lapidazione ma alla pena di cinquanta frustate in ogni caso.
È controverso se la pena h·add sia applicabile ai rapporti omosessuali. Nelle
ipotesi in cui non possa applicarsi la pena h·add, si applica comunque una pena
discrezionale fissata dal giudice (ta’dhı̄r).
Es
3) Bere vino (shurb al-khamr)
se
li
br
i
Per scoraggiare le false accuse il Corano comporta la pena h·add di 80 frustate
per l’uomo libero e di quaranta frustate per lo schiavo (1). Durante la fustigazione il reo deve indossare indumenti leggeri affinché le frustate provochino la
giusta sofferenza.
In caso di disconoscimento della paternità di un figlio da parte del padre, con
conseguente denuncia implicita di rapporti sessuali illeciti da parte della moglie,
il Corano prescrive di fare ricorso alla procedura del li’ān (giuramento imprecatorio) (2). In questo modo si evita che ad uno dei due coniugi possa essere applicata una pena h·add (per zinā alla moglie oppure per qadf al marito).
yr
ig
ht
©
Questo reato viene commesso non solo in caso di assunzione in qualsiasi quantità di vino (e, per analogia, di qualsiasi altra sostanza inebriante); ma anche se
ci si trova in stato di ubriachezza e d’incapacità per qualsivoglia causa. Tuttavia, perché possa essere applicata la pena h·add, consistente in ottanta frustate
per l’uomo libero (quaranta per la scuola sciafiita) e quaranta per lo schiavo,
deve essere provata l’intenzionalità dell’atto.
Inoltre, secondo la dottrina prevalente, la prova del reato deve essere data finché permane l’odore del vino nell’alito del colpevole o lo stato di ubriachezza.
Esistono norme minuziose in ordine alla modalità della fustigazione (lo strumento utilizzato, la forza dei colpi, le parti del corpo sulle quali devono essere
diretti, l’abbigliamento del fustigato — che deve essere leggero per dar effetto
alla sanzione — etc.) che deve avvenire ad opera di un esperto di Sharı̄’ah in
modo da essere correttamente comminata.
C
op
(1) Corano XXIV, 4-5: « E coloro che accusano le donne oneste senza produrre quattro testimoni, siano fustigati
con ottanta colpi di frusta e non sia mai più accettata la loro testimonianza. Essi sono i corruttori, eccetto coloro
che in seguito si saranno pentiti ed emendati. In verità Dio è perdonatore, misericordioso».
(2) Corano XXIV, 6-9: «Quanto a coloro che accusano le loro spose senza aver altri testimoni che se stessi, la
loro testimonianza sia una quadruplice attestazione in [nome] di Dio testimoniante la loro veridicità, e con la
quinta [il marito invochi] la maledizione di Dio su se stesso se è tra i mentitori. E sia risparmiata [la punizione alla
moglie] se ella attesta quattro volte in nome di Dio che egli è tra i mentitori, e la quinta [invocando] l’ira di Dio su
se stessa se egli è tra i veritieri».
.
A
冟
Capitolo 6
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4) Il furto (sariqa)
S.
Il furto è configurabile quando una persona, libera o schiava, s’impossessi di
nascosto di una cosa mobile altrui, del valore minimo di dieci dirham, che si
trovi custodita in un luogo sicuro e sulla quale ella non abbia diritto di proprietà.
L’ipotesi di furto non può dunque essere integrata:
br
i
— quando la cosa non appartenga a nessuno in particolare (es. volatile selvaggio) o si
tratti di un bene che non possa essere oggetto di proprietà (es. acqua del mare);
— quando si tratti di una cosa di cui la persona che se ne impossessa è comproprietaria;
— quando la cosa appartenga ad un parente prossimo di colui che se ne impossessa
e sia da costui prelevata all’interno di una casa alla quale egli abbia libero accesso.
ht
©
Es
se
li
La condizione della custodia (hirz) distingue questo reato dall’appropriazione
indebita (ghasb), mentre quella della furtività esclude dal suo campo di applicazione le ipotesi di rapina (nahb) e di cleptomania.
Numerose ipotesi in cui mancano uno o più presupposti per l’applicazione
della pena h·add vengono ricondotte alla fattispecie dell’usurpazione (ghasb).
La pena coranica per il reato di furto prevede il taglio della mano destra (e del
piede sinistro in caso di recidiva), ma se il ladro restituisce gli oggetti rubati
prima dell’applicazione della pena, venendo meno l’oggetto del reato, questa
non deve essere eseguita.
L’ipotesi di reato non sussiste in caso di furto dettato dalla miseria o dal bisogno e, conformemente alla Sunnah di Maometto, la giurisprudenza ha elaborato una serie di attenuanti (si narra, a tal proposito, che il califfo ‘Umar non
autorizzava l’applicazione della pena ad un ladro nella cui dimora non fossero
state ritrovate provviste alimentari per un periodo minimo di tre mesi).
In ogni caso, l’applicazione della pena h·add esclude la responsabilità patrimoniale, in quanto le due sanzioni sono alternative e non possono cumularsi.
ig
5) Il brigantaggio (qatt’ al-tarı̄q)
yr
Costituisce fattispecie criminosa a sé stante, anche se presenta dei punti di
contatto con i reati di furto e di omicidio.
Per essere classificato come qatt’ al-tarı̄q deve trattarsi di atto reiterato e intenzionale.
op
Il Corano (V, 33) parla genericamente di «corruzione sulla Terra», espressione che è
stata interpretata nel senso di atto di brigantaggio, genocidio, rapina a mano armata,
sequestro di persona a fini di riscatto.
C
Le pene previste sono graduate in relazione alle diverse fattispecie: decapitazione con la spada in caso di solo omicidio; amputazione della mano destra e
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Il diritto penale e processuale
D) Altri reati contro la religione: l’apostasia
se
li
br
i
S.
del piede sinistro in caso di saccheggio di beni (il cui valore diviso per il numero dei complici sia almeno pari al minimo previsto per il reato di furto); crocifissione nel caso di rapina associata ad omicidio.
Le pene si applicano indistintamente a tutti i complici, indipendentemente
dal rispettivo apporto alla realizzazone delle fattispecie criminosa.
Nel caso in cui un complice sia minore di età l’applicazione della pena h·add è
esclusa. Nel diritto penale islamico, infatti, i requisiti che configurano la responsabilità penale sono la capacità giuridica, il discernimento e la capacità di
agire. Il minore non è dunque perseguibile, ma è obbligato a riparare il pregiudizio causato. Dall’età di sette anni alla pubertà, inoltre, può subire misure di
correzione.
Ugualmente, la pena non viene applicata in caso di pentimento operoso prima
dell’arresto e il reato ricadrà nella categoria delle jināyāt.
Come si evince anche dalle altre ipotesi il Corano, in più circostanze, premia il
pentimento operoso e tiene conto della minore età.
C
op
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Es
Riguardo l’apostasia, cioè l’allontamento dalla fede musulmana mostrato con
le parole e/o con i fatti (conversione alle altre religioni monoteiste, politeismo,
idolatria, ateismo), il Corano non menziona una pena specifica, ma afferma
genericamente: «E chi di voi rinnegherà la fede e morirà nella miscredenza,
ecco chi avrà fallito in questa vita e nell’altra» (II, 217).
La dottrina in proposito si divide: secondo alcuni, da vari versetti del Corano si
evince che la miscredenza e l’apostasia saranno duramente punite solo nell’aldilà (essi aggiungono che, conformemente al testo sacro, «non c’è costrizione
nella religione» - II, 256 -); per altri, che costituiscono la maggioranza, sarebbero alcuni detti attribuiti al Profeta a prevedere pene terrene, sulla base dei
quali i giuristi classici hanno elaborato le sanzioni applicabili in materia.
La punizione stabilita per il murtad (apostata) che rinnega l’Islām o cambia
religione consiste nella decapitazione (mentre per le donne è prevista la prigione a vita) se l’atto non sia avvenuto per sfuggire alla morte o a un pericolo
grave per sé o per i propri cari (dunque perché costretti) e se sia stato compiuto
con la precisa intenzione (nı̄ya) di abbandonare la fede musulmana.
Egli è, inoltre, considerato civilmente morto: per cui se è sposato con una
musulmana e abbandona la fede islamica il vincolo matrimoniale è sciolto ipso
iure, cadono anche i diritti successori e può essere ucciso da chiunque impunemente.
Le legge impone che all’apostata maschio sia concesso un periodo di ripensamento da compiere in stato di reclusione (le scuole giuridiche divergono circa
.
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Capitolo 6
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S.
la durata temporale, anche se l’orientamento generale è portato a concedere 3
giorni) prima di procedere all’esecuzione della pena.
Dalla pena è escluso chiunque si trovi in stato di insanità di mente, anche
temporanea, mentre la dottrina prevede un trattamento più lieve per la donna
per la quale è previsto che sia reclusa e battuta ogni tre giorni fino al pentimento, ciò a conferma della supposta emotività della stessa, che la indurrebbe a
lasciarsi convincere e trascinare verso l’apostasie.
br
E) Le jināyāt
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Es
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A questa categoria di reati appartengono i delitti di sangue (delitti privati), quali
le lesioni personali e l’omicidio e i reati contro il patrimonio, che rappresentano comunque una violazione del volere divino come quelli contro la religione, ma sono sottoposti ad una disciplina differenziata perché l’impatto maggiore, più che sul piano sociale, si ha a livello individuale, andando a ledere in
modo diretto i diritti personali (ad es. il diritto alla vita).
Anche per questi reati la pena è determinata dal Corano e dalla Sunnah e,
dunque, la discrezionalità del giudice è limitata dalla Legge divina.
Le pene consistono essenzialmente nel taglione, o contrappasso (qissās), e
nella composizione legale (diya): entrambe sono h·udūd, ossia pene contemplate direttamente dal Corano e dalla Sunnah, ma a differenza delle altre afferiscono all’area privatistica delle relazioni giuridiche.
Il taglione consiste nell’infliggere al colpevole lo stesso danno subìto dalla
vittima; è un istituto pre-islamico ripreso dall’Islām, seppur con rilevanti innovazioni: la pena viene inflitta dall’autorità pubblica e non dal privato, a condizione che vi sia una totale assenza di attenuanti e che la sua applicazione sia
circoscritta ad un numero limitato di fattispecie criminose particolarmente gravi.
Il Corano proibisce di commettere eccessi, torture ed efferatezze (XVII, 33),
imponendo piuttosto una risposta proporzionale al danno subìto (XXII, 60).
Tale pena viene comminata su richiesta della vittima e del suo ‘aqila, ovvero
un gruppo costituito principalmente dai parenti maschi (‘asab).
Secondo le principali scuole, il taglione può essere praticato solo a seguito di confessione da parte dell’accusato o testimonianza di due uomini (o un uomo e due donne).
La diya, o prezzo del sangue, è lo strumento legale con cui la parte lesa rinuncia alla vendetta (ovvero al taglione), ricevendo un risarcimento in denaro o di
altra natura. È fortemente raccomandata dal Corano in vari passaggi (3) e va
C
(3) Corano II, 178: «Colui che sarà stato perdonato da suo fratello, venga perseguito nella maniera più dolce e
paghi un indennizzo»; V, 45: «quanto a colui che vi rinuncia [al taglione] per amor di Dio, varrà per lui come
espiazione»; XVI, 126: «se sopporterete con pazienza, ciò sarà ancora meglio per coloro che sono stati pazienti».
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Il diritto penale e processuale
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obbligatoriamente applicata nei casi di omicidio o lesioni involontari; lesioni
volontarie che non importano il taglione; quando il taglione è materialmente
impossibile (ad es. quando una pena corporale provocherebbe la morte del reo,
non costituendo pertanto lo stesso danno subìto dalla vittima); in tutti i casi di
inapplicabilità del taglione.
La diya è interamente a carico del colpevole solo a seguito di confessione,
poiché negli altri casi viene ripartita tra il reo e i membri del suo ‘aqila secondo un principio di responsabilità collettiva (da un lato, il gruppo avrebbe potuto impedire il crimine e non lo ha fatto per negligenza; dall’altro, in una famiglia la reciproca assistenza è ritenuta necessaria sia nel bene che nel male).
Il prezzo del sangue di una donna ammonta alla metà di quello di un uomo,
sebbene il Corano taccia riguardo e la dottrina sia contraria.
se
Per quanto concerne la determinazione dell’ammontare del prezzo del sangue, si distingue tra prezzo del sangue «più alto» o «più oneroso» (diya mughāllāt), pari a cento
cammelli di una determinata qualità e elevato pregio, e prezzo del sangue «normale»
(diya muhaqqaqa) pari a cento cammelli di minore qualità, oppure a mille dı¯nār o a
diecimila dirham.
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Es
1) L’omicidio (qatl)
Rispetto alla precedente tradizione preislamica che ammetteva l’infanticidio e
consentiva, in caso di omicidio, la legale uccisione di uno più membri qualsiasi
della tribù dell’omicida, la Sharı̄’ah, pur sanzionando severamente questo delitto e mantenendo la legge del taglione (qissās) (4), introduce le seguenti
restrizioni e raccomandazioni:
— la condanna assoluta dell’infanticidio;
— si può applicare la pena dell’uccisione solo all’omicida che sia pienamente
responsabile ed abbia agito con dolo (per il radicato principio dell’intenzionalità delle azioni sanzionabili);
— si raccomanda di rinunciare al taglione a favore del pagamento del prezzo
del sangue (diya);
— si raccomanda di non eccedere nell’attuazione della vendetta.
C
op
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Sono, inoltre, introdotte le distinzioni legali tra «uccisione ingiusta» e «uccisione per giusta causa» (5) e tra i diversi gradi di colpevolezza.
(4) «O voi che credete, in materia di omicidio vi è stato prescritto il contrappasso: libero per libero, schiavo per
schiavo, donna per donna. E colui che sarà stato perdonato da suo fratello, venga perseguito nella maniera più
dolce e paghi un indennizzo: questa è una facilitazione del vostro Signore, e una misericordia. Ebbene, chi di
voi, dopo di ciò, trasgredisce la legge, avrà un doloroso castigo. Nel contrappasso c’è una possibilità di vita, per
voi che avete intelletto. Forse diventerete timorati [di Dio]» (Corano II, 178-179).
(5) «I servi del Compassionevole: sono coloro […]» (XXV, 63) «che non uccidono, se non per giustizia» (XXV, 68).
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A
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Capitolo 6
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A questo proposito il diritto islamico, con alcune differenze tra le diverse scuole, riconosce le seguenti fattispecie:
— omicidio volontario perpetrato mediante l’utilizzo, di uno strumento mortale (dolo o intenzione deliberata, ‘amd); la pena prevista è quella capitale, che può essere comminata dal qāddı̄ nel rispetto di criteri rigidi circa
l’esame delle prove, l’escussione dei testi e la valutazione complessiva delle circostanze. La vittima che sia sopravvissuta o il suo ‘aqila possono pattuire mediante transazione (s·ulh·) il pagamento di un prezzo del sangue; in
questo caso, il reo sarà anche soggetto alla pena dell’espiazione (kaffāra)
consistente nella manomissione di uno schiavo o nel digiuno prolungato
per due mesi. Anche qualora la vittima o il suo ‘aqila propendano per il
perdono, l’autorià pubblica è comunque tenuta a punire il fatto illecito, ma
potrà ricorrere esclusivamente alla diya e non alla pena di morte;
— omicidio volontario senza l’uso di uno strumento mortale (intenzione
quasi deliberata); è punito con la kaffāra per l’imputato e il pagamento del
più alto prezzo del sangue in alternativa al perdono; la scuola malichita non
lo distingue dalla precedente fattispecie;
— omicidio per fatto involontario (errore e casi assimilabili) punito con la
kaffāra per l’imputato e il pagamento del normale prezzo del sangue in
alternativa al perdono;
— omicidio indiretto, cioè senza la partecipazione diretta della persona ma
per una causa a lei attinente, punito con il pagamento del normale prezzo
del sangue.
ig
ht
In alcuni casi di minor allarme sociale (uccisione nell’esercizio della legittima
difesa di un individuo) l’omicidio doloso non dà comunque luogo all’applicazione del taglione, ma solo al pagamento del prezzo del sangue più oneroso.
Le ipotesi di omicidio volontario e per fatto involontario costituiscono impedimento a succedere dell’omicida nei confronti della vittima.
C
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2) Le lesioni personali
In materia di lesioni personali vigono, in maniera più attenuata, le distinzioni
tra i diversi gradi di colpevolezza operanti in caso di omicidio ad esclusione
delle fattispecie di intenzione deliberata e quasi deliberata che sono, in questo
caso, unificate.
Il diritto islamico prevede una dettagliata disciplina in ordine ai diversi tipi di
ferite e alle conseguenti sanzioni.
L’applicazione del taglione è limitata alle poche fattispecie di lesioni volontarie in cui sia possibile infliggere con esattezza lo stesso danno fisico sofferto
dalla vittima. Nella maggioranza delle ipotesi si applica il pagamento del prez-
.
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Il diritto penale e processuale
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zo del sangue che, laddove non sia predeterminato, corrisponde alla diminuzione di valore che la lesione produrrebbe su di uno schiavo. Nei casi di lesioni
volontarie il prezzo è dovuto dal colpevole, negli altri casi da quest’ultimo e
dal suo ‘aqila.
Il taglione è applicabile allo schiavo solo in caso di omicidio con intenzione
deliberata (‘amd), mentre non è comminabile in caso di lesioni.
La responsabilità penale per lesioni personali è esclusa nei casi in cui è ammessa l’autodifesa.
F) Le pene discrezionali (ta’dhı¯r )
yr
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Es
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Nelle ipotesi di comportamenti non espressamente sanzionati dal Corano o
dalla Sunnah, ma comunque considerati nocivi per la convivenza sociale (es.
disobbedienza al marito, commercio di vino, frode in atto pubblico, estorsione,
sodomia etc.), spetta al giudice (qāddı̄) stabilire discrezionalmente la pena
da applicare.
La tipologia di reati che possono rientrare nella sfera di applicazione di una
pena ta’dhı̄r è pertanto eterogenea, ampia e variabile in funzione del mutare
delle diverse circostanze temporali e spaziali.
Nella sua decisione il giudice deve considerare, come già si è detto (v. infra,
lett. B), le circostanze del fatto, ovvero fattori oggettivi e soggettivi.
L’azione penale viene promossa dal qāddı̄ d’ufficio o a seguito di denuncia da
parte di terzo (non necessariamente parte lesa) e ha una duplice natura: di repressione a tutela dell’ordine sociale e di riparazione del pregiudizio subìto
dalla vittima.
La parte lesa non può impedire l’azione giudiziaria, né chiedere la grazia a
seguito di condanna, in quanto la pena discrezionale viene pronunciata in ragione del turbamento dell’ordine pubblico apportato dalla condotta illecita.
La pena discrezionale spazia molto e può consistere nella limitazione della
libertà personale (carcere, espulsione, esilio, bando), in una sanzione socialmente infamante (es. lo strappo del turbante, la berlina, l’annerimento del
volto), patrimoniale (confisca a favore dei poveri) o corporale (es. fustigazione) ma non può sostanziarsi nell’applicazione della pena capitale, avendo
come unico fine questo tipo di sanzioni l’emenda e la correzione del reo.
C
op
Si noti che il qāddı¯ ai primordi era competente di tutte le infrazioni, compresi i piccoli
delitti che venivano sanzionati con una semplice reprimenda o qualche colpo di bastone. Successivamente, nelle grandi città (Damasco, Istanbul, Cairo, Marrakesh, Fès), i
califfi hanno affidato per i piccoli furti e reati minori la competenza alla polizia delle
dipendenze del capo della città (pasha).
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A
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Capitolo 6
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88
G) Misure coercitive e preventive
se
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i
S.
Non rientrano nel diritto penale islamico e possono consistere nell’imprigionamento (habs) che ha per finalità il pentimento del reo o nell’esecuzione di un
determinato adempimento o nella messa al bando (nafy). La loro inflizione è
generalmente dettata da ragioni di ordine pubblico.
La ribellione non prevede speciali sanzioni penali. Essa consiste nell’infrazione del principio coranico che impone obbedienza a coloro che detengono l’autorità (6).
Il ribelle, a differenza dell’apostata, è dunque un musulmano che pur rimanendo fedele all’Islām, non accetta l’autorità dell’imām. I ribelli vanno combattuti
fino alla riduzione all’obbedienza. Essi devono, comunque, essere perseguiti
usando la massima clemenza.
Per quanto riguarda i reati politici, si riscontra (almeno in linea di principio)
una generale tendenza all’indulgenza: per essi, infatti, la legislazione islamica
ha abolito la pena capitale molto prima di quella europea.
Es
2. Tavole riassuntive dei reati coranici
©
Per dare un quadro più chiaro delle fattispecie sanzionate dalla Sharı̄’ah sulla
scia del Losano (I grandi sistemi giuridici contemporanei: v. bibliografia) riportiamo le tavole di sintesi elaborate da M. Lippman - S.Mc - Coinville - M.
Yerushalmi, in Islamic criminal law - Westpoint 1988.
ht
TABELLA 1
Reati islamici che prevedono le punizioni «hudud»
Prova
Sanzione
Quattro testi
o confessioni
Persona sposata: morte per lapidazione. Il
reo è condotto in un luogo isolato. Le pietre sono gettate prima dai testi, poi dal
qāddı¯, infine dal resto della comunità.
Per le donne viene scavata una fossa per
accoglierne il corpo.
Persona non sposata: cento frustate. La
scuola malikita punisce i maschi non spo-
op
yr
ig
Reato
Adulterio
(Segue)
C
(6) «O voi che credete! Obbedite a Dio, al Suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità» (Corano IV, 59).
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A
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Reato
Prova
Sanzione
p.
Il diritto penale e processuale
S.
sati anche con un anno di prigione o di
esilio.
Accusa infondata
di adulterio
Persona libera: ottanta frustate.
Schiavo: quaranta frustate.
Il reo indossa un abito leggero durante la
fustigazione.
Apostasia
Due testi
o confessioni
Uomo: morte per decapitazione.
Donna: detenzione fino al pentimento.
Brigantaggio
Due testi
o confessioni
Se in unione con l’omicidio: morte per decapitazione. Il cadavere viene poi crocifisso ed esposto.
Senza omicidio: amputazione della mano
destra e del piede sinistro.
Se arrestato prima del compimento del reato: detenzione fino al pentimento.
Uso di bevande
alcoliche
Due testi
o confessioni
se
li
br
i
Diffamazione
Due testi
o confessioni
Al primo reato, amputazione di una mano
all’altezza del polso, effettuata da un medico.
Al secondo reato, amputazione dell’altra
mano all’altezza del polso, effettuata da
un medico.
Al terzo reato, amputazione di un piede all’altezza della caviglia, effettuata da un
medico.
Due testi
o confessioni
Se catturato: pena di morte.
Se il reo si arrende o viene arrestato: pena
ta’dhı¯r [vedi Tabella 3].
op
yr
ig
Furto
ht
©
Es
Persona libera: ottanta frustate (solo quaranta, secondo la scuola sciafiita).
Schiavo: quaranta frustate.
La fustigazione pubblica viene effettuata
con un bastone, ma senza esagerare: la
mano del fustigatore non deve superare
la sua testa, per non lacerare la pelle del
reo. È richiesta la presenza di un medico. I colpi vanno diretti a ogni parte del
corpo, ma non al volto e alla testa. Durante la punizione l’uomo sta in piedi, la
donna seduta. La fustigazione è inflitta
da un esperto di legge coranica, in modo
da essere giustamente commisurata.
C
Ribellione
.
A
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Capitolo 6
p.
90
TABELLA 2
S.
Reati islamici che prevedono le punizioni «qissās»
Prova
Sanzione
Omicidio
volontario
con un’arma
Due testi
o confessioni
Morte: secondo la pena del taglione da
parte della famiglia della vittima; indennizzo (pagamento in denaro o in beni alla
famiglia della vittima); esclusione dall’eredità; oppure perdono.
Omicidio
volontario
Due testi
o confessioni
Sanzione pecuniaria: da pagare entro tre
anni; esclusione dall’eredità; espiazione
religiosa (penitenza); oppure perdono.
Omicidio per fatto
involontario
Due testi
o confessioni
Sanzione pecuniaria: esclusione dall’eredità; espiazione religiosa (penitenza); oppure perdono.
Omicidio
indiretto
Due testi
o confessioni
Lesione corporale
volontaria
Due testi
o confessioni
Lesione corporale
involontaria
Due testi
o confessioni
se
li
br
i
Reato
Sanzione pecuniaria: perdita dell’eredità.
Es
Pena del taglione (al reo viene inflitto lo
stesso danno fisico sofferto dalla vittima);
oppure indennizzo commisurato al valore del danno fisico sofferto dalla vittima.
©
Indennizzo.
TABELLA 3
ht
Reati islamici che prevedono le punizioni «ta’dhı̄r»
ig
Fattispecie e sanzioni variano in base ai singoli Stati e non si possono quindi sintetizzare; gli esempi qui proposti sono desunti dai testi classici medievali del diritto islamico.
Prova
Sanzione
Quattro testi
o confessioni
Il reo viene ucciso per spada e cremato;
oppure è sepolto vivo; oppure viene gettato da un alto edificio e lapidato.
Due testi
o confessioni
Detenzione fino a cinque anni; fino a trenta frustate.
yr
Reato
Sodomia
C
op
Importazione,
esportazione,
trasporto,
produzione
o vendita di vino
(Segue)
.
A
冟 91
p.
Il diritto penale e processuale
Prova
Sanzione
Due testi
o confessioni
Ammonizione del qāddı¯; reprimenda con
parole e azioni; rinvio della sentenza.
Diserzione
Due testi
o confessioni
Bando (esclusione dai rapporti sociali).
Appropriazione
indebita, falsa
testimonianza
Due testi
o confessioni
Denuncia e deplorazione pubblica: esposizione del reo in vari quartieri della città,
pubblico annuncio del reato e della pena;
pene pecuniarie.
Evasione fiscale
Due testi
o confessioni
Pene pecuniarie; sequestro delle proprietà del reo.
Vari reati minori
Due testi
o confessioni
Fino a quaranta frustate con un bastone o
con una frusta senza nodi.
Reo recidivo
per un reato tazir
Due testi
o confessioni
Usura, corruzione,
violazione dei
doveri derivanti da
negozi fiduciari
Due testi
o confessioni
se
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br
i
S.
Reato
Reati minori
(disobbendienza
al marito insulti
a terzi)
Detenzione: a discrezione del qāddı¯, può
variare da un giorno di carcere alla prigione a vita.
Es
La pena è rimessa alla discrezione del
qāddı¯.
©
3. L’organizzazione giudiziaria
ht
A) Il qa¯ddı¯: origini dell’ufficio
C
op
yr
ig
Nella società tribale caratteristica dell’Arabia pre-islamica non esisteva un’autorità pubblica istituzionalmente deputata alla risoluzione dei conflitti tra i
privati cittadini.
Le parti di un litigio, infatti, che non volessero fare ricorso alla vendetta personale e non riuscissero a pervenire alla composizione amichevole della controversia, potevano richiedere l’intermediazione di un arbitro (h·akam) di loro
scelta e la cui decisione si riteneva essere vincolante solo su un piano morale.
Con l’avvento dell’Islām l’amministrazione della giustizia diventa uno di quegli obblighi religiosi reputati doverosi o necessari (fard· , wājib) e incombenti
su tutti i credenti.
Parallelamente alla sua espansione, si afferma dunque la necessità di introdurre una figura istituzionale incaricata di applicare la Sharı̄’ah su tutto il
territorio musulmano.