Anno XXX, 1/30 settembre 2008, n. 1 11 LA RIVISTA DELLA SCUOLA La storia dell’arte alla Pinacoteca di Brera Documenti trecenteschi del Gotico internazionale D urante i secoli XI e XII la pittura italiana risentì in pieno l’influsso dell’arte bizantina, che si sviluppò in modo particolare nelle città costiere dove gli scambi commerciali erano piú intensi. A Venezia, nei mosaici di San Marco e in Sicilia, a Monreale e nella Cappella Palatina, sugli splendenti fondi oro delle volte, spiccano le figure umane dal contorto linearismo, alla ricerca di effetti profondamente drammatici. Nel secolo XIII, invece, la linea si fa più armonica e la pittura può bene interpretare quelli che sono gli ideali mistico-contemplativi della religione di S.Francesco. Alla grande decorazione parietale si aggiunge ora l’uso della pittura su tavola con le cosiddette pale d’altare. Soltanto però nella seconda metà del Duecento, sorgono quelle grandi individualità che porranno poi le basi per lo sviluppo e l’affermarsi della grande pittura italiana. A Roma nella basilica di S. Maria Maggiore, Jacopo Torriti, nello stupendo mosaico dell’abside si rivela ancora sostanzialmente attaccato alla tradizione bizantina; Pietro Cavallini, suo contemporaneo riesce invece a fondere gli elementi bizantini con quelli classici di S. Maria in Trastevere e nei cicli di affreschi di S. Cecilia, l’umanità della sua opera prelude già al verbo giottesco. Fu Cimabue però che, ponendosi i problemi dello spazio, ricercando una linea di contorno che dia volume ai corpi, indagando nella psicologia dei personaggi, è riuscito a superare la tradizione bizantina. E Giotto, che studiò in primo luogo ad Assisi, poté quindi unire al classicismo dei maestri romani, che colà lavoravano nella basilica inferiore, il plasticismo allora nascente di Cimabue. L’arte di Giotto si diffuse ovunque in Italia rappresentando la base della nuova cultura pittorica. Frattanto a Siena, quasi in antagonismo all’arte giottesca, sorgeva una nuova scuola di pittura. Allora la repubblica senese, il cui potere era passato nel 1287 nelle mani della borghesia, poteva considerasi uno dei maggiori centri italiani dal punto di vista commerciale economico. Dall’oriente arrivavano stoffe superbamente decorate e dalla Francia giungevano gli echi della grande civiltà oltremontana attraverso i continui scambi commerciali e culturali. Gli avvenimenti artistici facevano parte della vita della popolazione, mentre i pittori stessi avevano per legge di essere “manifestatori agli uomini grossi che non sanno lectera”. Nella costruzione della grande cattedrale i senesi sentirono l’influenza del gotico francese, prendendo esempio dal convento dei monaci cistercensi di S. Galgano; essi affidarono poi a Duccio di Buoninsegna l’incarico di dipingere la tavola con la Maestà; e non appena terminata l’opera, la portarono in solenne processione sino al centro del Duomo. Con Duccio sono già evidenti le caratteristiche dell’arte senese: prima di tutto di rendere in un mondo di sogno la realta terrena, usando la luce come fisso splendore e il colore come preziosa superficie; in secondo luogo di evitare il chiaroscuro per dare importanza solo alla linea di contorno. Duccio rappresenta il caposcuola, e il suo insegnamento fu infatti fondamentale. Ed anche i grandi pittori che lo seguirono. Se Simone può essere considerato l’artista della grazia femminile, dei colori vivaci e preziosissimi, della realtà vista sempre come fiaba, i Lorenzetti cominciano a scavare in profondità nei sentimenti. Se Pietro conserva una visione più austera e staccata dell’umanità, Ambrogio si accosta più intimamente a quello che è il singolo individuo, ritraendo il più delle volte la gente della sua città, con un fare caldo ed espansivo. Le sue madonne sono infatti donne del popolo sorprese in adorazione del proprio piccolo, che si attacca a sua volta con vivace spontaneità infantile al collo o al seno materno; ma la scena pur così naturale è immersa in una calma sovrumana. La Madonna di Brera ne è uno dei tanti bellissimi esempi. La squadratura del gruppo, l’eleganza della linea, il raffinato splendore dei colori, la sfumatura delle carnagioni grigiastre degradanti all’esterno, le mani affusolate che sembrano in atto di cullare il bambino, i particolari decorativi sul manto e sullo sfondo dorato, tutto sembra voler rendere irreale quel tenero colloquio di sguardi tra madre e figlio. Mentre a Siena l’influenza di queste grandi personalità permarrà anche dopo la morte dei due Lorenzetti (ultime notizie intorno al 1348) fino alla fine del XIV secolo, e manterrà così l’arte senese in un clima tutto particolare, pur risentendo l’influsso del mondo giottesco, nell’Italia del Nord diversa era la situazione. Milano, dal 1330 sotto la signoria dei Visconti, iniziò dopo la prima metà del XIV secolo la costruzione del Duomo mentre ignoti pittori affrescavano gli oratori di Viboldone, Solaro e Lentate, unendo il vecchio linguaggio bizantino al nuovo verbo che arrivava da Firenze. Giovanni da Milano è tra i pochi pittori il cui nome è giunto sino a noi e rappresenta per questo la personalità più importante nella pittura lombarda della seconda metà del 1300. Egli visse gran di ANGELA RAVÀ parte della sua vita a Firenze, dove dipinse nella cappella della sagrestia di S. Croce degli affreschi con influssi logicamente giotteschi. Di un seguace lombardo sono gli affreschi, una volta a Moccchirolo presso Lentate sul sul Seveso, e trasportati dopo l’ultima guerra a Brera. Fasce con ornamenti, di foglie qua e là intramezzate da geometriche decorazioni, inquadrano le scene sulle pareti e sulla volta. A sinistra nel S. Ambrogio che caccia gli eretici, si nota quel realismo sempre caro alla pittura lombarda. Nella scena vicina in un mirabile accordo di sacro e di profano, è rappresentato il matrimonio mistico di S. Caterina. La Santa inginocchiata davanti alla Madonna col bimbo in trono, ci appare come una delle più belle figure della pittura lombarda del ‘300. Il suo portamento aristocratico, l’eleganza della sue vesti rappresentate con particolare ricchezza decorativa dalla tunica trapunta d’oro con disegni di melograni, al manto di ermellino, gentilmente cascante dalle spalle, si avvicinano a quel mondo delle corti che rappresenterà lo spirito del gotico internazionale. Al centro, nella scena della crocifissione, evidenti sono lo caratteristiche dell’arte di Giovanni nella tecnica del chiaroscuro, ma minore è l’equilibrio compositivo. Il drammatico verismo della Maddalena, reso con colori caldi e accesi ci avvicina alla scuola emiliana e padovana che interpretarono, il verbo di Giotto con accenti particolarmente tragici e realistici. Sulla parete di destra la Madonna seduta su un ricco trono gotico accoglie 1’omaggio della Cappella dal Conte Porro committente della chiesina, in compagnia della famiglia. Questa iconografia, molto frequente anche posteriormente, sembra quasi, un pretesto per rappresentare i costumi eleganti dell’epoca, e per soffermarsi sulla minuzia ritrattistica dei personaggi. Nella volta, il Cristo, nella tradizionale mandorla, è di qualità assai inferiore all’arte di Giovanni. A Venezia fino alla seconda metà del ‘300 permase ferma la tradizione bizantina. Vicino alla scuola dei mosaici, sorgeva quella dei cosiddetti “madonneri”, pittori bizantineggianti dell’isola di Rialto, che, seguendo l’esempio del mosaici balcani dipingevano immagini sacre sempre con lo stesso stile fortemente orientale. Erano quasi delle vere e proprie “icone”. I primi pittori che cominciarono a staccarsi da questi indirizzi e a subire gli influssi del continente, furono dapprima Paolo Veneziano e quindi il suo discepolo Lorenzo Veneziano (notizie 1356-1373). Nella sua Incoronazione della Vergine, in Brera, la decorazione rappresenta l’elemento essenziale, e tutto è in sua funzione: dai brillantissimi colori, alla linea, alla ricerca di simmetria nei gruppi angelici. La vesti sembrano preziosi broccati finemente lavorati e ricordano gli smalti persiani. I motivi dell’arte orientale si alternano con quelli bizantini e gotici. L’effetto é quasi di astrazione idealistica, tanto da farcela ravvicinare ad alcune opere senesi. Frattanto nell’Italia del Nord, verso la fine del XIV secolo, molto frequenti erano gli scambi con la Francia e specialmente con la corte di Parigi. Dobbiamo ricordare che Simone Martini visse e lavorò per lungo tempo ad Avignone, e che tutta la pittura francese ne fu profondamente influenzata. Allora erano molto in voga i libri miniati che facilmente si potevano trasportare da una corte all’altra. Sorse così in Italia verso l’ultima decade del XIV secolo quella corrente pittorica cosiddetta del gotico internazionale, appunto perché si basava su quelle che erano le concezioni allora dominanti nell’Europa del nord e che trovarono vasto campo di diffusione in Italia settentrionale, specialmente presso le grandi signorie di Milano e di Verona. Questa arte non sorgeva da profondi bisogni dello spirito e quindi si basava più che altro sulle appa- renze superficiali; hanno quindi importanza la decorazione, l’accurata rappresentazione delle vesti, degli animali, dei fiori. Lo spazio è appena suggerito, il colorito è tenue e la scena ha come un clima di fiaba. Stefano da Zevio (n.1393 vivo nel 1463), di cui Brera possiede una deliziosa ed importante tavoletta firmata e datata 1435, è il rappresentante più nordico di questa corrente. Forse per la posizione di Verona sulle rive dell’Adige, egli risentì anche dell’influsso della scuola tedesca. Nella deliziosa Adorazione dei Magi il corteo si snoda dall’alto verso il basso, quasi l’artista volesse raccontare pittoricamente una novella. Il mondo della miniatura è molto vicino, basta osservare i motivi decorativi delle corone d’oro, con gemme di smalto, i fiorellini aggraziati ed i manti dei re che sembrano convergere tutti su un punto. I corpi sono quasi appiattiti e tutta la scena è soffusa di un clima di sogno dai colori tenui e sfumati. Vicini assai a Stefano e al suo concittadino Pisanello furono i pittori lombardi che si alternarono dalla fine del 1300 sino alla seconda metà del 1400: Giovannino de’ Grassi, che operò anche per il Duomo di Milano, Michelino da Besozzo, Belbello da Pavia e Cristoforo Moretti. Poi questa corrente cosiddetta tardo gotica (pensiamo che a Firenze si era già in pieno Rinascimento), che si era sviluppata in modo particolare a Milano e a Pavia, si spostò verso Cremona per l’opera dei due fratelli Bembo. Di Bonifacio (notizie dal 1449 a11478) possediamo a Brera due tavolette con le figure dei due santi Alessio e Giuliano. L’artista rappresenta i due santi come personaggi di corte, dal comportamento altamente aristocratico, mentre le facce emaciate manifestano un senso di noia. I capelli, i riccioli delle barbe le pieghe delle vesti sono composti in un ritmo speciale. Il fondo oro, i colori preziosissimi, le tenui variazioni di luci dimostrano la squisita sensibilità pittorica di Bonifacio che, qui più mai ha saputo rappresentare il decadentismo di quel mondo che ormai stava volgendo verso altri ideali, quelli del Rinascimento. Rappresentante invece della pittura dell’Italia Centrale nella corrente del Gotico Internazionale è Gentile da Fabriano (1378 circa-1428). Pittore proveniente dalle Marche, dove i turbamenti delle fazioni non permettevano il sorgere di una scuola di pittura, egli vagò da Venezia alla Lombardia, a Roma, a Firenze, a Siena, e risentì quindi delle più svariate influenze, che egli seppe però filtrare attraverso quella sua costante serenità morale e potè quindi raggiungere altissimi livelli artistici. Nel Polittico eseguito per i Minori Osservanti di Valle Romita presso Fabriano ed ora a Brera, databile intorno al 1400, egli ha rappresentato nel centro l’Incoronazione della Madonna. La scena del Cristo e la Vergine sospesi su una nube d’oro sotto all’Eterno e ai Cherubini, dominando dall’alto l’universo stellato è una rappresentazione cara al mondo medioevale, ma che ricorda da vicino la miniatura ed in particolar modo quella lombarda di Michelino da Besozzo. Il senso del colore così raffinato e la luce così pura ci riportano invece alla scuola senese. La composizione è armonicamente ritmica con quegli angeli musicanti nel basso che, determinano come un senso di ascesi in un mondo di irreale spazialitá. Quel naturalismo caro al mondo del gotico internazionale è qui rappresentato con somma eleganza dal praticello fiorito, calcato dai piedi degli splendidi santi. Ma la fantasia del giovane Gentile si esprime, come in un puro sogno, nelle quattro scenette delle predette superiori; un mondo semplice e silenzioso, che invita all’umiltà e alla preghiera, schivo da ogni effetto drammatico. Gli ateniesi contro Siracusa di N VINCENZO TEODORO el 427 a. C. la ionica Leontini, assediata da Siracusa, inviò in Atene il filosofo Gorgia in cerca di aiuti. Sua alleata era Segesta, minacciata da Selinunte. Gli Ateniesi intervennero una prima volta ma furono respinti. Nel 415 Alcibiade, famoso per l’eloquenza irresistibile, sostenne che bisognava riprendere le armi contro l’espansionismo della metropoli siciliana e si unì a Nicia (d’origini siracusane) e a Lamaco (valoroso combattente nella guerra del Peloponneso) per guidare una spedizione di 250 unità navali e 25 mila uomini. Ma gli andò male perché lui, appena sbarcato in Sicilia, fu richiamato in patria per rispondere ad accuse di empietà. Nel 414 gli invasori, sopraffatte le truppe locali di Ermocrate e quelle spartane di Gilippo, suo alleato giunto dalla Beozia, riuscirono con uno stratagemma a spingere il grosso della loro flotta nel Porto Grande e ad assediare la città dalle parti dell’Epipoli presso l’Olimpeion, nella piana dell’Anapo. Gli eserciti di Siracusa e Sparta rischiavano di essere accerchiati nella morsa, se non fossero intervenuti i i rinforzi da Gela, Camarina, Imera, Selinunte (e forse pure dalla vicina Akrai ?), grazie ai quali i marinai immobilizzarono le imbarcazioni nemiche, con uno sbarramento di barche legate l’una all’altra. Il blocco si protrasse per qualche tempo e a nulla valse l’arrivo di Demostene da Atene a capo di un’armata di 73 navi e 20 mila uomini: Nicia, che non spiccava per ingegno militare, si trovò di colpo in una situazione disperata, e non potendo fuggire per mare, optò per la terraferma, ma esitò ad ordinare la ritirata a causa dell’eclissi lunare del 27 agosto del 413, che spaventò i suoi soldati, consentendo così ai Siracusani di attestarsi in agguato; infatti, quando egli apparve sulle rive dell’Assinaro (Kakyparis oggi Cassibile), finì imbottigliato con l’esercito nelle gole di Cava Grande, dove perì in battaglia lo stesso Lamaco e dove, dopo la resa di Demostene, fu costretto a deporre le armi. La tragica vicenda è così descritta da Tucidide: nella notte i fuggiaschi accesero dei fuochi e procedettero non verso Cata- ne, bensì dall’altro lato in direzione di Camarina e Gela. Durante la marcia i soldati superstiti di Nicia rimasero uniti e acquistarono molto vantaggio; non altrettanto fecero quelli di Demostene, che invece andarono sparpagliati e in gran disordine, e superata una palizzata nemica sul Cacipari, si scontrarono con i Siracusani e gli Spartani che li spinsero verso un campo di ulivi, dove finirono bersagliati da una pioggia di frecce e giavellotti. In breve le acque dell’Assinaro si coprirono di mucchi di cadaveri e divennero un misto di sangue e fango. Nicia, che distava una cinquantina di stadi (uno stadio = 185 m., corrispondeva alla lunghezza dello Stadio di Olimpia) e si era accampato su una collina presso l’Erineo, venuto a conoscenza della morte di Lamaco e della cattura di Demostene, offrì ai vincitori il risarcimento delle spese militari a condizione che i suoi uomini superstiti venissero lasciati liberi; e ciò detto, si consegnò al generale spartano Gilippo, che godeva fama di umana clemenza, ma i Siracusani furono irremovibili e come traditore lo giustiziarono assieme a Demostene. Dei settemila prigionieri rinchiusi tra le pareti ripide e strette delle latomie, molti morirono di stenti e di malattie tra il fetore degli escrementi e l’afa irrespirabile. Invece gli Ateniesi, i Sicelioti e gli Italioti furono venduti come schiavi col marchio dei cavalli sulla fronte. La vittoria sugli Ateniesi fu celebrata a Siracusa con l’emissione delle più belle monete della Magna Grecia e la guerra della spedizione in Sicilia, scrisse Polibio, si rivelò come “la più gloriosa per i vincitori, la più fatale per i vinti”. Tra il 412 e il 410 a. C. Ermocrate riprese le armi contro Atene in difesa di Sparta, ma nella battaglia di Cizico perdette la flotta e i democratici suoi concittadini lo bandirono dalla città. Nel 408 combattè contro i Cartaginesi e tentò di rientrare a Siracusa per deporre Cleone, che però lo uccise in battaglia (407 a. C.). Fu un bravo generale e Platone lo esaltò nei dialoghi di Timeo e Crizia come un modello di statista. Una sua figlia fu moglie di Dionisio I (il Vecchio) che gli successe nel governo e del quale egli aveva sposato una sorella. OCCHIO ALLA SCADENZA DELL’ABBONAMENTO Ricordiamo a tutti gli Abbonati che la scadenza dell’abbonamento è indicata nell’etichetta dell’indirizzo con cui viene spedita la Rivista