LA SICILIA 24. VENERDÌ 21 MAGGIO 2010 Cultura società SCAFFALE MOSTRE La cortigiana di Siviglia a Venezia Esercizi sulla lingua del mare Chissà come è venuto in mente a Flavio Soriga, l’autore di ’Sardinia Blues’ di scrivere un libro come ’Il cuore dei briganti’ (Bompiani), ambientato alla fine Settecento, lontano dai suoi ragazzi che abitano in Sardegna e bevono mojito, sempre alla ricerca di biglietti low cost per Londra. Qui si tratta di tutt’altra cosa, cioè niente meno che del figlio secondogenito del marchese di Rosacroce. Protagonista di un libro complicato, con cui l’autore dice di essersi preso una vacanza dalla sua isola, la Sardegna appunto. Un libro divertente che riprende in costume tanto della nostra società contemporanea, scritto soprattutto per il personaggio della cortigiana Anna Sofia di cui Soriga si dichiara perdutamente innamorato, pur senza averla mai incontrata. Lei è una cortigiana di Siviglia che esercita a Venezia, città che nel Settecento vive come oggi di turismo di massa, intorno al suo carnevale. Tutti si divertono e c’è un gran traffico di donne ed è un tempo in cui tutti si declamano, e anche per questo non è una realtà così lontana da quella che conosciamo: insomma un romanzo di briganti e gentiluomini, ammiccante a tutti gli ingredienti dei romanzi d’avventura! CARLOTTA ROMANO Nell’incantevole scenario di: "Forte San Salvatore", gioiello situato in uno degli angoli più pregiati di Messina, si è svolta sabato 15 maggio la settima edizione di "Gemine Muse 2010, L’arte dei giovani invade le città italiane" - eventi di arte contemporanea in un percorso che svela l’armonia tra tradizione e innovazione, in esposizione fino al 26 giugno. Nell’ambito del progetto nazionale, Messina propone il percorso dal titolo "La lingua del mare" a cura di Enrica Carnazza. L’iniziativa è stata possibile grazie all’intesa tra Comune, Marina Militare e Sopraintendenza ai Beni Culturali. Protagonisti dell’evento sono: Art’iL - Giorgia Di Giovanni e Marvan Danza, Cinzia Ferrara, N2o studio, Maria Fausta Rizzo insieme a Tarkus project, Nino Rizzo, Arturo Russo e Demetrio Savasta. Artisti poliedrici per le loro continue sperimentazioni sulla possibilità del movimento e della luce, grazie anche a un’attenzione particolare alla ricerca sulle forme della visione e le infinite possibilità percettive che ne derivano. Opere in cui è possibile assaporare il sottile piacere di immaginare cosa ci potrebbe essere oltre: ogni autore regala la possibilità di farlo in modo diverso. ANTONELLA LA ROSA Il significato di «Avatar» L’incarnazione della divinità nell’induismo Guido Baragli, particolare di un’opera esposta alla Galleria Orizzonti di Catania nella mostra «Nature vive» GIORGIO MONTAUDO vatar è il titolo del favoloso film che ha riscosso un entusiastico successo di pubblico, battendo tutti i record di incassi. Girato in 3D digitale, grandioso spettacolo di fantascienza, ha segnato una svolta nella cinematografia di animazione ed ha lasciato tutti in attesa dell’annunziato prosieguo. Un racconto affascinante, spesso volutamente un po’ oscuro, dove non tutto viene spiegato, dalla titolazione marcatamente criptica, Avatar, un titolo che racchiude però il senso più profondo del film. C’è da scommettere che molti avranno ammirato le suggestive sequenze del film di Cameron senza chiedersi il significato di questa parola, Avatar, possibilmente attribuendola al nome di un luogo o di un personaggio del film. Invece, Avatar significa incarnazione, e nel film si riferisce alla vicenda del marine mutilato che prende il posto del gemello morto e si incarna per dare vita al corpo artificiale di un abitante del pianeta Pandora. In realtà, Avatar è un termine che trova origine nella religione induista e si riferisce all’assunzione di un corpo fisico da parte di un dio, al fine di svolgere dei compiti precisi. Avatar viene di solito usato per indicare le incarnazioni più note del dio Visnù, Rama e Krishna, che non sono però gli unici Avatar della tradizione mitologica induista, la quale vuole che il Divino abbia preso forma umana in diverse epoche storiche, anche priUNA SCENA DI «AVATAR» ma che l’uomo comparisse sulla Terra. In uno dei libri sacri dell’induismo, il Mahabharata, Krishna annunzia con enfasi: "Per la protezione dei giusti, per la distruzione dei demoni e dei malvagi, per ristabilire i principi della giustizia divina, io mi incarno di era in era". Gli Avatar, nell’epica induista sono gli intermediari umani tra l’Essere Supremo e i mortali. Questa dottrina ha avuto un grande impatto sulla vita religiosa degli induisti, infatti il dio ha manifestato se stesso in una forma che può essere compresa e apprezzata persino dalle persone più umili. Nel corso di migliaia di anni, Rama e Krishna sono state la manifestazioni del Divino più adorate e venerate tra gli induisti. Il concetto di sottomissione e rispetto verso l’unità di Brahman, è considerato la massima espressione del pensiero induista, e ha fornito a quella religione la base teologica per affermare che nelle epoche oscure viene in aiuto all’umanità la divinità, l’Avatar. L’Induismo è la più antica delle religioni del mondo, con una storia plurimillenaria risalente ad oltre 6000 anni addietro. Contrariamente all’opinione popolare, il vero Induismo non è né politeista né monoteista. I diversi aspetti della Divinità : la Trimurti, ovvero l’insieme di Brahma, Vishnu e Shiva, rispettivamente il Creatore, il Preservatore e il Distruttore, e gli Avatar (Rama e Krishna), sono considerati come diverse forme o emanazioni dell’Uno l’Assoluto o Brahman (principio impersonale e fondante di ogni realtà, da cui scaturiscono tutti gli esseri), sono forme adottate per rendere Dio accessibile all’uomo. Il ciclo di creazione e distruzione postulato dalla dottrina induista contiene l’essenza dell’idea di "Avatar" e fa affidamento sull’ultimo Avatar, che verrà a dare l’ultima spallata al degrado etico dell’umanità. Fin qui arrivano le fonti induiste. Il suggerimento del film, che si richiama al mistico Avatar della mitologia induista per raccontare l’intricata e fantasiosa incarnazione del marine in un corpo estraneo, è suggestivo e, in retrospezione, risulta di grande effetto. Esso aggiunge un inaspettato spessore poetico e filosofico ad uno spettacolo davvero affascinante. A Baragli, il tormento della luce Il pittore siciliano sa sottilmente trasformare l’ordinario in straordinario FRANCESCO GALLO Guido Baragli appartiene alla nuova generazione dei pittori siciliani che ha completamente assimilato la lezione delle "avanguardie" e dei "ritorni all’ordine", ed ha acquistato una consapevolezza teorica ed una qualità poetica che lo pongono di fronte ad ogni confronto con sicurezza e forza, che gli vengono da una esperienza di forte protagonismo. Questo gli consente di essere, nello stesso tempo, sperimentatore e classico, investendo l’evidente paradosso, con l’autorevolezza di una raggiunta e consolidata artisticità. L’essere pittore, per Guido Baragli - la cui mostra «Nature vive» si apre oggi alla galleria d’arte Orizzonti a Catania - è uno stato di necessaria esuberanza fantastica, che lo porta a scegliere ora una tematica, ora l’altra e portarla a termine come si fa come i capitoli di un romanzo, che qui è assolutamente visivo, ma arricchito di una trama che si sviluppa e da termini formali di assoluta suggestione: così è stato per la stagione delle "nature silenti", di singolare e morandiana forza espressiva, come è adesso per le sue "nature marine", la cui modernità sprezzante è pari al senso della tradizione che si portano dentro. Costante è, nell’opera di Guido Baragli, la capacità di immergersi nel tormento della luce e nell’ineffabile bisbiglio dell’ombra, ricavando un senso plastico, una rotondità che gli viene dall’essere, da sempre, immerso nella spazialità della scultura, nel suo essere "pienezza" che entra nello spazio reale e lo feconda con la sua presenza. Questa "realtà" spaziale, Baragli la fa entrare nei gangli della sua pittoricità, con una invenzione formale che gli è propria, come versione di tutte le lezioni storiche della forma e dalla sua particolare elezione all’elogio della solitudine, come pienezza della visibilità, che diventa visione, che diventa contemplazione. La presenza di Guido Baragli, nell’arte contemporanea, italiana, è un fattore di assoluta distinguibilità per la nettezza delle sue scelte formali, per l’autorevolezza della sua originalità, nell’affrontare tematiche che in apparenza sono consolidate e storiche, ma che sotto la qualità vivificante del suo pennello, diventano delle novità forma- li, notevoli, tanto lui le sa scaricare fortemente del mito del tempo passato, di cui riesce a distillare l’essenziale della forma e caricare del mito eterno della poeticità di uno sguardo, che dopo l’ornamentalità dell’interrogativo, sul come (una cosa è fatta) fa precipitare la forza del colore, la sfumatura delle sue tonalità e quindi tutta l’intensità dell’opera, intesa come singolarità dell’uno, che si confronta con l’altro, come complessità di una totalità, che è fatta di unità ma anche di totalità. Nella sua intensità di vita artistica, esistenziale e culturale, Guido Baragli ha fatto l’attraversatore, il nomade e tutto ciò che gli ha permesso di assimilare le lezioni della figurazione e dell’astrazione, che gli consen- tono , oggi, una sintesi fantastica che è difficilmente riscontrabile, tanto più che la sua attenzione alla tradizione si fa sempre più accentuata e questo gli permette una libertà e una irriverenza che è difficilmente riscontrabile in altri artisti e che da lui viene "naturalmente" , senza forzature. Forse è per questo che Guido Baragli non segue nessun percorso pittorico di moda e si lascia trasportare solo dalla sua inclinazione particolare, dal prevalere di un suo momento dionisiaco o da un suo momento apollineo, che, per la verità, non si separano mai nettamente, ma hanno un confine poroso e frequentemente contaminato, portando una gestualità liberatrice in un momento classicheggiante, oppure, specular- Frutta, ortaggi e prodotti della terra innalzati a una assolutezza formale; vedute e barche con l’esuberanza degli ormeggi e dei primi piani; l’elogio della solitudine che diventa contemplazione ALLA GALLERIA NAZIONALE A ROMA «TAGLI D'ARTISTA» La consapevolezza dello spazio Invece del cielo un soffitto, invece di un soffitto un taglio. Lo spazio sopra di noi e intorno a noi è tutto lacerabile per Lucio Fontana, tutto feribile, tutto da scoprire tra le pieghe di quei tagli. Dunque da un soffitto "tagliato" si può anche cominciare: a esplorare tutto un secolo di guerra e d’arte, come il Novecento. E da qui , dal grande soffitto "Ambiente spaziale con tagli", parte la mostra appena inaugurata alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, visitabile sino al 7 gennaio 2011 e titolata "Tagli d’artista". Per l’appunto. Tagli qui fissati nella prima applicazione su ambiente del "Concetto spaziale Attese", il soffitto "a tagli" creato appositamente per l’appartamento milanese di Antonio Melandri. Una sorpresa, per il visitatore, e una conferma: sei tagli sei lunghi ma brevi su fondo bianco, sintesi di quello stato dell’animo (e del corpo pure) che spingeva Fontana davanti alla tela, così come all’oggetto, abbandonato e pronto a concentrarsi su di sé per far esplodere, appena la scintilla scattava e qualcosa accadeva, in gesti netti e definiti l’energia tutta stretta nella mente e nella pancia. In tagli che partono dal cielo per arrivare sottoterra, tagli che attraversano il secolo scorso, sintesi e grido. Tagli lungo cui si evolve l’arte novecentesca e che in questa mostra sono ordinati tra altre opere capitoli di storia dell’arte del secolo scorso. Tra il "mobile" di Calder e gli scacchi colorati di Mondrian; tra "Ricostruzione del Dinosauro" bianco di Pascali per cui ormai i "tagli" sono un capitolo acquisito, un altro punto di partenza, e le masse bianche di Martini; tra le introspezioni cariche di luce di Giacometti e il negativo dirompente di Burri con i suoi "Sacchi", i "Ferri", i Cretti", i "Catrami"; tra l’imponente comportamentalismo di Christo e il blu totale e avvolgente di Klein. E, ancora, tra il bianco di Manzoni e le "Insidie di guerra" di Balla; tra le "Crocifissioni" di Guttuso e gli "Archeologi" di De Chirico; tra i vuoti dell’ "Antigrazioso" di Boccioni e i vuoti del marmo di Wildt; tra la materia aperta e sfondata di Moore e le certezze secessioniste di Klimt; e tra i Sessanta e Settanta cavalcati da Accardi, Lo Savio, Festa, Mochetti. Tagli a sfidare l’occhio abituato da secoli di simmetrica potenza, di compensazioni di vuoti e di pieni, di armonia di contenuto e contenitore. Soprattutto Tagli che suggeriscono tutto il superamento dell’arte figurativa, tutto lo slancio per superarla, tutto il desiderio di tradurre in visibili (se non toccabili) concetti puramemente mentali, tutto il prologo all’Arte Concettuale appena dietro l’angolo. Ma anche tutte le "Attese" di una consapevolezza dello spazio che dovrebbe arrivare, prima o poi, dal visitatore. Per Fontana era una certezza, chissà per lo spettatore di oggi che quei suoi "Tagli" sul soffitto può guardarli anche dal retro, ritagliandosi un ambiente spaziale di osservazione dell’opera alla rovescia. SILVIA DI PAOLA mente una risposta rasserenante ad un momento di tempesta e impeto. Due pittori mi vengono in mente, oltre Morandi, già citato, e Gino Rossi, il genio segreto del novecento italiano e corrispondono all’antropologia straordinaria di Renato Guttuso e alla permeabilità visionaria di Virgilio Guidi, tanto per sottolineare il riferimento necessario ad una complessità, che è ricchezza, ampiezza d’orizzonte, perché resto convinto che nessuno possa diventare maestro se non ha avuto maestri, vicini o lontani che siano, perché quello delle arti visive è un lungo, inesauribile, percorso, che va nei meandri dell’invisibile, per portare alla luce, ciò che a noi, nonostante la sua flagrante eclatanza, continua a sfuggire e che l’artista cattura inesorabilmente, per liberarlo per noi, come un dono, come una magia. Guido Baragli, nell’ultimo decennio, ha fatto un approfondimento continuo della relazione moltiplicata, tra le poetiche e le tecniche, stabilendo un punto di equilibrio che non è mai di essenzialità meccanica, perché è innanzi tutto mentale, rivelazione di un laboratorio interiore, che mette insieme la riflessione interiore, con il dialogo con gli altri, proponendo la grande fuga dal concettuale, secondo cui il percorso era tutto e l’opera nulla, con l’incessante lavorio, razionale, emozionale, fantastico, contenuto nel primato assoluto dell’opera. Nella forza debordante delle sue vedute, di frutta, di ortaggi e di altri prodotti della terra, dei suoi vassoi di oggetti commestibili, innalzati ad una assolutezza formale, si legge dell’alchimia della sua pittura, che sa sottilmente trasformare l’ordinario nello straordinario e comporre i tratti dell’inedito, anche quando lo pensiamo del tutto edito, nostro, posseduto. Nelle sue barche, nell’esuberanza degli ormeggi e dei primi piani, che non ammettono repliche, tanto sono irresistibili nella loro multiforme semplicità, si apre la querelle della bellezza e del sublime, qui ed ora, che sono separate da una instabile linea, che ora è di luce, ora è d’ombra, ma è sempre solcata, dallo stacco imprevedibile che l’artista sa dare, scegliendo il punto d’osservazione, stabilendo il ritmo della distanza, per cui il nuovo può, anche apparire ordinario e l’ordinario, l’esito di una sfida del sogno.