C`era una volta un pianeta di nome Pandora

C’era una volta un pianeta di nome Pandora
Le favole iniziano da secoli con c’era una volta, ma nella fantascienza spesso questa convenzione si
ribalta e il racconto della trama del film Avatar (2010) di James Francis Cameron potrebbe iniziare
con ci sarà una volta… Nel lontano 2154, nella costellazione australe del Centauro, nel sistema
solare più prossimo al nostro, l’Alpha Centauri, una luna boscosa del pianeta Polifemo chiamata
Pandora e abitato da forme aliene umanoidi, i Na’vi. Le loro vite sono in armonica connessione con
una specie di rete neuronale esterna attraverso la quale sono collegati, insieme a tutti gli altri esseri
viventi, all’attività vitale dell’intero pianeta (in una specie di sistema omeostatico e simbiotico che
ricorda l’ipotesi Gaia di Lovelock). Ed è qui che il visionario regista ha deciso di far approdare un
gruppo di “alieni” provenienti da un pianeta, la Terra. Gli invasori umani trasportano su Pandora,
con le loro astronavi cariche di innovazioni tecnologiche e scientifiche avanzatissime, intenzioni e
atteggiamenti antichi, archetipi del genere umano che si dividono in volontà di aggressione e
sfruttamento delle risorse e (seppur in misura minore) interesse e fascino per l’incontro con l’”altro”.
Date queste premesse e sorvolando sullo svolgimento immaginabile della storia che rispolvera la
trama rassicurante e collaudata di tanti film e narrazioni precedenti, possiamo focalizzarci sugli
aspetti più godibili e innovativi che giustificando l’entrata a pieno titolo di questo film nella storia del
cinema.
Frame dal film Avatar
Il pianeta Pandora può essere esplorato dagli esseri umani solo in due modi: attraverso la tecnologia
meccanica (elicotteri e robot dall’aspetto volutamente familiare e riconducibile a film come il
secondo Alien o ad eventi storici impressi nella memoria collettiva) o attraverso le biotecnologie, in
grado di dotare i protagonisti umani di un avatar in “carne e ossa” alieni. Frutto dell’ibridazione
genetica tra DNA umano e quello Na’vi, l’avatar funge da secondo corpo comandabile attraverso un
sistema di controllo a distanza, basato sul collegamento col sistema nervoso dell’uomo. In una
proiezione fantascientifica in grado di introdurre una vera e propria novità in questo genere
cinematografico, l’avatar è un corpo reale e non più virtuale come accade nelle simulazioni dei
videogiochi o nelle trame di precedenti film. L’avatar, il corpo disseminato (Antonio Caronia) si
incarna e l’idea della vita simulata in un mondo virtuale, lascia spazio alla presentazione di esistenze
altre minuziosamente descritte attraverso una forma rappresentativa inedita. Cameron, oltre ad
arricchire la narrazione con echi lontani di riferimenti a immaginari culturali di ogni tipo, illustra e
fa vivere un intero pianeta in cui nulla viene trascurato, dalla lingua dei suoi abitanti, al variopinto
elenco di animali e piante, ai ritrovati tecnologici degli umani. Il tutto studiato per ottenere il più
coerente e credibile dei mondi extraterresti possibile, grazie all’aiuto di glottologi, scienziati,
ingegneri, fisici, biologi e ovviamente menti creative. Eppure questo non basta a spiegare il fascino
di questa avventura cinematografica. Anche l’aspetto della visione stereoscopica, che rafforza con
decisione le sensazioni tattili e di prossimità delle immagini, risulta secondario, anche se realizzato
e impiegato modo ineccepibile e giustamente contenuto nelle scene. Ad esso va aggiunta un’altra
componente fondamentale: la resa epidermica e incredibilmente realistica di tutto quanto scorre
davanti ai nostri occhi, ma che spesso non è frutto di immagini referenziali. Mi riferisco non solo alle
ambientazioni virtuali (già eccellentemente realizzate in altri film) ma soprattutto ai Na’vi, alla loro
pelle, alla credibilità dei loro movimenti e delle loro espressioni, alla resa dei particolari e alle
sensazioni materiche che questi trasmettono. Un indimenticabile precedente aveva conquistato il
pubblico ne Il Signore degli Anelli di George Lucas con il personaggio di Gollum. I motivi del suo
fascino vanno individuati nella capacità dei suoi creatori di far convivere il personaggio realizzato al
computer, con gli altri elementi fotografici del film (immagini referenziali), tale da competere con la
sua mimica facciale sul piano dell’espressività con i personaggi interpretati da attori reali. Un
metodo analogo di performance capture (o motion capture) che ha permesso la riuscita di questo
personaggio, è stato utilizzato per i Na’vi. Il sistema consiste nella registrazione dei movimenti degli
attori attraverso dei sensori in grado di trasmettere queste performance al computer con il quale
verranno poi animate le creature virtuali. Ricalcando i movimenti umani, risultano così del tutto
credibili nei gesti e nell’espressività. Oggetti costruiti al computer raggiungono il più alto grado di
simulazione e mimesi non solo del reale, ma della vita stessa.
Tuttavia in Avatar c’è di più. Un intero sistema tecnologico sviluppato in anni di lavoro da James
Cameron, insieme a ricercatori e ingegneri sollecitati dalla necessità del regista di ottenere una
maggiore realisticità delle immagini. Differentemente dai film precedenti, dove i movimenti degli
attori catturati dai sensori venivano assemblati nelle scene virtuali solo nel momento della
post-produzione, con Avatar questi vengono visualizzati dal regista in presa diretta in uno schermo.
Grazie allo sviluppo di una videocamera per la ripresa stereoscopica sollecitata da Cameron alla
giapponese Sony, il regista può vedere nel computer a questa collegato, non solo il set del film, ma
anche gli scenari e i personaggi tridimensionali (e non) in azione durante le riprese. Tutto questo,
oltre a facilitare di molto il lavoro del regista, comporta la realizzazione di scene in cui immagini
referenziali, ambientazioni virtuali e personaggi costruiti al computer convivono perfettamente. Il
lavoro di mimesi del reale si completa poi negli studi della ditta neozelandese Weta, che lavora alla
realizzazione di effetti speciali ed elaborazioni 3D, realizzando rendering di immagini così piene di
informazioni da rendere la consistenza materica anche del più piccolo dei particolari. E’ in questa
fase che la costruzione dell’anima del film si realizza nella sua completezza: dalla fusione di tutti gli
elementi tridimensionali in un unico ambiente che ci ingloba ancora prima di raggiungerci nel nostro
spazio di spettatori.
James Cameron durante le riprese del film Avatar
La rappresentazione virtuale nelle mani di Cameron e degli artisti della Weta risulta perfezionata a
tal punto da potersi dichiarare l’avvenuto completamento del processo di emancipazione dal
referente reale del cinema. Si realizza la scissione della rappresentazione cinematografica in due
direzioni, fotografica e sintetica, intimamente diverse e non paragonabili tra loro.
Ritornano prepotentemente con questo film, alcune delle caratteristiche originarie del cinema: la
spettacolarità come nei film di Méliès o in quelli dei fratelli Lumière, in cui il potere e la magia di
rocambolesche invenzioni da baraccone, stavano nella capacità di stupire e far sognare ad occhi
aperti un pubblico di certo meno sofisticato e disilluso di quello di oggi. Un cinema che, come forse
di nuovo in Avatar, poteva permettersi di ignorare quasi del tutto la necessità del “contratto di
sospensione di incredulità” (Peter Jackson).
Martina Coletti
D’ARS year 50/nr 201/spring 2010