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Sabato 16 gennaio 2010
IL CINEMA CHE FA DISCUTERE È APPENA ARRIVATO NELLE SALE ITALIANE E HA GIÀ SUCCHIATO TUTTO L’INCHIOSTRO POSSIBILE DELLA STAMPA
«Avatar», il dibattito
sceso sul pianeta blu
Giudizi pro e contro
(e qualche polemica) sul
film di James Cameron.
Che fa, però, riflettere
La fantascienza ha nuovi omini azzurrognoli, eppure si ripete
Dall’amore extraterrestre
all’ibridazione planetaria
.
La nuova fantascienza cinematografica, ricca di grafica computerizzata
e tecniche tridimensionali, non fa che
riproporre temi esplorati in anticipo
dalla letteratura con ben altre soluzioni
di contenuti e stili.
L’innesto fra umani ed extraterrestri fa
esplodere un autentico caso nel romanzo «Un amore a Siddo» di Philip
José Farmer. Vi si narra per la prima
volta della possibilità di un rapporto
erotico fra creature differenti, come il
terrestre Hal Yarrow e la lalitha Jeannette Rastignac. Fino ad allora, inizio
anni ’50, il sesso era bandito dalla fantascienza.
In «Torre di cristallo» di Robert Silverberg il problema viene riproposto nella
relazione fra un uomo e una donna artificiale. Cosa ne nascerà? Un cyborg come Robocop?
di GIOVANNI PASCUZZI
G
li studi sul funzionamento del cervello hanno
propiziato la nascita di
nuovi saperi che trovano
nel prefisso «neuro» il denominatore comune: neuroeconomia, neuromarketing, neurodesign, ma anche neuroestetica, neuroetica sino
ad arrivare addirittura alla neuroteologia.
Di questo fenomeno si sono occupati in un interessante volumetto, Neuro-mania, Paolo Legrenzi e
Carlo Umiltà (edito dal Mulino, euro 9). I due noti psicologi appaiono
preoccupati dalla deriva biologico-riduzionista alla base di questi
nuovi approcci scientifici: se nel ’68
si ripeteva che l’uomo era il mero
riflesso della società e della cultura
in cui ci si trova a vivere (svuotando
Struggente e lirica e tutta virtuale l’ibridazione inscenata da Mauro Gaffo in
«Nel fondo dell’oceano». Un pilota destinato al viaggio interstellare viene
convinto per induzione ipnotica di essere diventato un delfino, mammifero
adatto alla vasca di liquido quasi amniotico nel quale attraverserà il cosmo.
L’ibridazione approda al cinema con
inesorabile efficacia in «Alien. Resurrection», quarto episodio della saga,
diretto nel 1997 da Jean-Pierre Jeunet.
Ellen Ripley, alter ego di Sigourney
Weaver, viene clonata con la creatura
mostruosa già frammista al suo codice
genetico. E l’indomita astronauta dovrà ancora una volta battersi da guerriera, unendo la violenza umana alla ferocia extraterrestre.
[e. verr.]
di ENZO VERRENGIA
A
vatar o avatara in sanscrito significa
letteralmente «disceso», e nell’induismo indica l’incarnazione di Dio o uno
dei Suoi aspetti in una forma reale,
percepibile dagli esseri umani. Per i praticanti del
digitale nell’epoca di Internet, l’avatar costituisce
l’icona personale che ci si configura all’interno dei
social network, i siti di aggregazione virtuale, come fu per «Second Life».
In ambedue i casi, il termine calza alla creatura
ibrida, dall’animo umano e dalla biologia aliena,
cui si collega per interfaccia il marine paraplegico
Jake Sully, interpretato da Sam Worthington nel
film di James Cameron, che si svolge sul pianeta
Pandora. Naturalmente, il dibattito che ne scaturisce non si ferma agli ascendenti filosofici e
antropologici della trama. Anzi, è proprio quest’ultima che, semmai, li semplifica. Almeno secondo Michele Serra, che scrive: «L’estasi spettacolare, le montagne di denaro speso, l’alea di
“salto d’epoca” dal punto di vista tecnologico, sono
l’involucro rutilante di un buon vecchio film d’avventura a lieto fine». Per lo scrittore e giornalista,
insomma, Avatar alla fine può apparire, paradossalmente, come un avatar dello schema più
tradizionale che rende una storia carica di interesse. Conclude Serra: «Il vuoto e il silenzio, la
riflessione e l’elaborazione psicologica sono gli
unici effetti speciali che mancano in Avatar, ma
probabilmente questo è un problema solo per chi
non ha i neuroni già impostati per l’iperbole sensoriale nella quale vivono e crescono i nostri fi-
gli».
Analogo il parere di Gaetano Vallini, su «L’Osservatore Romano»: «Sotto le immagini (…) c’è
tanta stupefacente tecnologia da incantare, ma
poche emozioni vere, emozioni umane per intendersi, in un mondo di alieni pur eccezionalmente
immaginato e rappresentato».
Considerazioni che sembrano sfatare i presupposti di James Cameron. Il quale, determinato a
soddisfare le aspettative dei tanti appassionati,
dichiarava a suo tempo della pellicola in preparazione: «Avatar è un film fantascientifico molto
ambizioso. L’aspirazione ovviamente è raccontare
una storia sul piano mitologico. Quello che io
cerco sempre è qualcosa di mentalmente intrigante». Queste parole non evocano soltanto il blockbuster, espressione che negli Stati Uniti designa
un grande successo cinematografico al botteghino. Piuttosto rimandano alle attese sulle quali si
reggeva il capolavoro di Stanley Kubrik, 2001 Odissea nello spazio, per nulla deluse quando la prima
epopea spaziale rigorosa e priva di ogni luogo
comune (al contrario di Avatar) portò sugli schermi di tutto il mondo le note deflagranti di Così
parlò Zarathustra.
Nel caso del film di Cameron, però, è difficile
prevedere argomentazioni del livello che si toccò
per quella tragedia tecnologica in cui un’intelligenza extraterrestre attira l’umanità verso l’evoluzione e il viaggio interstellare mediante un monolito nero. Comunque, negli Stati Uniti Avatar ha
la classificazione PG, parental guide, visibile per i
minori di 13 con la presenza dei genitori. Infatti il
presidente Obama ha dovuto accompagnavi di
Conosci te stesso nei colori del cervello?
«Neuro-mania», un pamphlet di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà contro un diffuso fenomeno scientifico
di significato - ma anche di responsabilità - l’agire del singolo), oggi
sembra prevalere l’idea che il nostro comportamento dipenda dal
modo in cui funziona il nostro cervello e da come reagiscono i singoli
neuroni.
Sempre più spesso leggiamo sui
giornali che gli scienziati hanno individuato il luogo del cervello deputato all’innamoramento, o l’agglomerato di materia grigia che si
attiva quando guardiamo un quadro o quello che genera il pensiero
di Dio. Queste affermazioni fanno
leva sulle tecnologie che permettono di «vedere» il cervello al lavoro: le
cosiddette neuroimmagini (generate, ad esempio, dalla risonanza magnetica funzionale o dalla tomografia a emissione di positroni) fotografano le porzioni di cervello attive
mentre il soggetto esaminato pensa
a qualcosa o svolge un compito. Effettivamente gli articoli ricordati
spesso sono corredati da immagini
che riproducono zone colorate del
cervello. Ovviamente quest’ultimo
colorato non è. Si tratta di un artificio utile a segnalare un maggior
afflusso di sangue in un determinato punto che di regola viene considerato la prova della maggiore attivazione di quel punto nello svol-
gimento di un certo compito.
Gli autori sottolineano, però, un
aspetto: per arrivare alla rappresentazione di una zona attiva attraverso una colorazione sono necessari
molti passaggi e ciascun passaggio
si basa su assunzioni non sempre
solidissime (ad esempio, si deve ricorrere alla cosiddetta «sottrazione
cognitiva» per espungere dai risultati ciò che di diverso dal compito
analizzato produce l’attivazione
della medesima zona: inutile dire
che tutto ciò lascia ampi margini di
errore e discrezionalità).
Malgrado queste avvertenze, è innegabile che nella percezione co-
TAVOLOZZA Vari colori per varie funzioni nel cervello
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