24 Sabato 16 gennaio 2010 IL CINEMA CHE FA DISCUTERE È APPENA ARRIVATO NELLE SALE ITALIANE E HA GIÀ SUCCHIATO TUTTO L’INCHIOSTRO POSSIBILE DELLA STAMPA «Avatar», il dibattito sceso sul pianeta blu Giudizi pro e contro (e qualche polemica) sul film di James Cameron. Che fa, però, riflettere La fantascienza ha nuovi omini azzurrognoli, eppure si ripete Dall’amore extraterrestre all’ibridazione planetaria . La nuova fantascienza cinematografica, ricca di grafica computerizzata e tecniche tridimensionali, non fa che riproporre temi esplorati in anticipo dalla letteratura con ben altre soluzioni di contenuti e stili. L’innesto fra umani ed extraterrestri fa esplodere un autentico caso nel romanzo «Un amore a Siddo» di Philip José Farmer. Vi si narra per la prima volta della possibilità di un rapporto erotico fra creature differenti, come il terrestre Hal Yarrow e la lalitha Jeannette Rastignac. Fino ad allora, inizio anni ’50, il sesso era bandito dalla fantascienza. In «Torre di cristallo» di Robert Silverberg il problema viene riproposto nella relazione fra un uomo e una donna artificiale. Cosa ne nascerà? Un cyborg come Robocop? di GIOVANNI PASCUZZI G li studi sul funzionamento del cervello hanno propiziato la nascita di nuovi saperi che trovano nel prefisso «neuro» il denominatore comune: neuroeconomia, neuromarketing, neurodesign, ma anche neuroestetica, neuroetica sino ad arrivare addirittura alla neuroteologia. Di questo fenomeno si sono occupati in un interessante volumetto, Neuro-mania, Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (edito dal Mulino, euro 9). I due noti psicologi appaiono preoccupati dalla deriva biologico-riduzionista alla base di questi nuovi approcci scientifici: se nel ’68 si ripeteva che l’uomo era il mero riflesso della società e della cultura in cui ci si trova a vivere (svuotando Struggente e lirica e tutta virtuale l’ibridazione inscenata da Mauro Gaffo in «Nel fondo dell’oceano». Un pilota destinato al viaggio interstellare viene convinto per induzione ipnotica di essere diventato un delfino, mammifero adatto alla vasca di liquido quasi amniotico nel quale attraverserà il cosmo. L’ibridazione approda al cinema con inesorabile efficacia in «Alien. Resurrection», quarto episodio della saga, diretto nel 1997 da Jean-Pierre Jeunet. Ellen Ripley, alter ego di Sigourney Weaver, viene clonata con la creatura mostruosa già frammista al suo codice genetico. E l’indomita astronauta dovrà ancora una volta battersi da guerriera, unendo la violenza umana alla ferocia extraterrestre. [e. verr.] di ENZO VERRENGIA A vatar o avatara in sanscrito significa letteralmente «disceso», e nell’induismo indica l’incarnazione di Dio o uno dei Suoi aspetti in una forma reale, percepibile dagli esseri umani. Per i praticanti del digitale nell’epoca di Internet, l’avatar costituisce l’icona personale che ci si configura all’interno dei social network, i siti di aggregazione virtuale, come fu per «Second Life». In ambedue i casi, il termine calza alla creatura ibrida, dall’animo umano e dalla biologia aliena, cui si collega per interfaccia il marine paraplegico Jake Sully, interpretato da Sam Worthington nel film di James Cameron, che si svolge sul pianeta Pandora. Naturalmente, il dibattito che ne scaturisce non si ferma agli ascendenti filosofici e antropologici della trama. Anzi, è proprio quest’ultima che, semmai, li semplifica. Almeno secondo Michele Serra, che scrive: «L’estasi spettacolare, le montagne di denaro speso, l’alea di “salto d’epoca” dal punto di vista tecnologico, sono l’involucro rutilante di un buon vecchio film d’avventura a lieto fine». Per lo scrittore e giornalista, insomma, Avatar alla fine può apparire, paradossalmente, come un avatar dello schema più tradizionale che rende una storia carica di interesse. Conclude Serra: «Il vuoto e il silenzio, la riflessione e l’elaborazione psicologica sono gli unici effetti speciali che mancano in Avatar, ma probabilmente questo è un problema solo per chi non ha i neuroni già impostati per l’iperbole sensoriale nella quale vivono e crescono i nostri fi- gli». Analogo il parere di Gaetano Vallini, su «L’Osservatore Romano»: «Sotto le immagini (…) c’è tanta stupefacente tecnologia da incantare, ma poche emozioni vere, emozioni umane per intendersi, in un mondo di alieni pur eccezionalmente immaginato e rappresentato». Considerazioni che sembrano sfatare i presupposti di James Cameron. Il quale, determinato a soddisfare le aspettative dei tanti appassionati, dichiarava a suo tempo della pellicola in preparazione: «Avatar è un film fantascientifico molto ambizioso. L’aspirazione ovviamente è raccontare una storia sul piano mitologico. Quello che io cerco sempre è qualcosa di mentalmente intrigante». Queste parole non evocano soltanto il blockbuster, espressione che negli Stati Uniti designa un grande successo cinematografico al botteghino. Piuttosto rimandano alle attese sulle quali si reggeva il capolavoro di Stanley Kubrik, 2001 Odissea nello spazio, per nulla deluse quando la prima epopea spaziale rigorosa e priva di ogni luogo comune (al contrario di Avatar) portò sugli schermi di tutto il mondo le note deflagranti di Così parlò Zarathustra. Nel caso del film di Cameron, però, è difficile prevedere argomentazioni del livello che si toccò per quella tragedia tecnologica in cui un’intelligenza extraterrestre attira l’umanità verso l’evoluzione e il viaggio interstellare mediante un monolito nero. Comunque, negli Stati Uniti Avatar ha la classificazione PG, parental guide, visibile per i minori di 13 con la presenza dei genitori. Infatti il presidente Obama ha dovuto accompagnavi di Conosci te stesso nei colori del cervello? «Neuro-mania», un pamphlet di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà contro un diffuso fenomeno scientifico di significato - ma anche di responsabilità - l’agire del singolo), oggi sembra prevalere l’idea che il nostro comportamento dipenda dal modo in cui funziona il nostro cervello e da come reagiscono i singoli neuroni. Sempre più spesso leggiamo sui giornali che gli scienziati hanno individuato il luogo del cervello deputato all’innamoramento, o l’agglomerato di materia grigia che si attiva quando guardiamo un quadro o quello che genera il pensiero di Dio. Queste affermazioni fanno leva sulle tecnologie che permettono di «vedere» il cervello al lavoro: le cosiddette neuroimmagini (generate, ad esempio, dalla risonanza magnetica funzionale o dalla tomografia a emissione di positroni) fotografano le porzioni di cervello attive mentre il soggetto esaminato pensa a qualcosa o svolge un compito. Effettivamente gli articoli ricordati spesso sono corredati da immagini che riproducono zone colorate del cervello. Ovviamente quest’ultimo colorato non è. Si tratta di un artificio utile a segnalare un maggior afflusso di sangue in un determinato punto che di regola viene considerato la prova della maggiore attivazione di quel punto nello svol- gimento di un certo compito. Gli autori sottolineano, però, un aspetto: per arrivare alla rappresentazione di una zona attiva attraverso una colorazione sono necessari molti passaggi e ciascun passaggio si basa su assunzioni non sempre solidissime (ad esempio, si deve ricorrere alla cosiddetta «sottrazione cognitiva» per espungere dai risultati ciò che di diverso dal compito analizzato produce l’attivazione della medesima zona: inutile dire che tutto ciò lascia ampi margini di errore e discrezionalità). Malgrado queste avvertenze, è innegabile che nella percezione co- TAVOLOZZA Vari colori per varie funzioni nel cervello