Quella di Abuso del diritto, fu, insieme a Principio di equità e a

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IRENE STOLZI
L’abuso del diritto: Salvatore Romano e la necessaria struttura plurale dell’esperienza giuridica.
1. L’ abuso del diritto tra continuità e cesure
Quella di Abuso del diritto, fu, insieme a Principio di equità e a Buona fede, una delle voci
scritte da Salvatore Romano per l’Enciclopedia del diritto tra la fine degli anni Cinquanta e la metà
degli anni Sessanta1. Voci quanto mai intonate al timbro della intera sua riflessione scientifica, per
vari motivi. Anzitutto perché in esse viene affermata con decisione l’esigenza di recuperare al piano
della giuridicità concetti e nozioni frequentemente attribuiti all’area del metagiuridico. Abuso,
buona fede ed equità escono, nelle pagine di Romano, dal limbo scomodo delle incrinature, delle
aperture votate a vulnerare la (presunta) compattezza del sistema privatistico per assumere le
opposte sembianze di strumenti indispensabili a una adeguata intellezione del fenomeno giuridico e
della sua irrinunciabile vocazione ordinativa. Valutati alla stregua di indicatori sensibili, più di altri
capaci di sollevare il problema della identità e dei compiti del diritto, questi concetti non assumono
mai, in Romano, la veste delle deroghe, dei temperamenti chiamati a moderare la rigidità del
sistema normativo, presentandosi piuttosto come risorse idonee a definire, di quel sistema,
fisionomia e funzioni. Nella lunga e non ancora conclusa disputa tra ‘favorevoli’ e ‘contrari’2, la
posizione di Romano si colloca dunque tra quelle che hanno ritenuto possibile e necessaria la
repressione delle condotte abusive, ovvero delle condotte che, pur concretandosi nell’esercizio di un
diritto riconosciuto dall’ordinamento al suo titolare, tuttavia si presentano, per i motivi che si vedrà,
passibili di censura e fonte di responsabilità per il soggetto.
Non solo: Salvatore Romano appartiene a quella generazione di civilisti impegnata a
conferire alle condotte abusive un fondamento tendenzialmente autonomo, obiettivo, non risultante,
almeno immediate, dalla commistione del diritto con elementi morali, etici, economici o dalla
esigenza di adeguare il diritto alle mutate richieste dei tempi. Non che questi nessi vengano
trascurati; semplicemente essi vengono reputati fisiologicamente appartenenti alla genesi e agli
svolgimenti della dimensione giuridica, di una dimensione che nasce e si sviluppa dalla incessante
ricerca di un punto di equilibrio tra i tanti aspetti – morale, economico, sociale – che contribuiscono
a disegnarne i contorni.
1
Si tratta appunto delle voci Abuso del diritto, La buona fede nel diritto privato e Principio di equità, pubblicate
rispettivamente nel 1958, nel 1959 e nel 1966. Sono state poi raccolte in S. ROMANO, Scritti minori, Milano, Giuffrè
1980, rispettivamente nel tomo II (pp. 825 sgg. e pp. 837 sgg.) e tomo III (pp. 1157 sgg.). Una lettura congiunta di
queste voci è stata fatta da G. ALPA in Salvatore Romano giurista degli ordinamenti e delle azioni, Milano, Giuffrè
2007, pp. 37 sgg.; a questo volume, che raccoglie gli atti della giornata di studi dedicata a Salvatore Romano dalla
facoltà giuridica fiorentina nel 2004 si rinvia, in generale, per la ricostruzione del profilo scientifico del Nostro.
2
A testimoniare l’attualità del dibattito in tema di abuso, si veda il recentissimo volume collettaneo L’abuso del diritto,
teoria, storia e ambiti disciplinari, a cura di V. VELLUZZI, edizioni ETS, Pisa 2012; e, all’interno di questo volume, si
veda, in particolare, G. CAZZETTA, Responsabilità civile e abuso del diritto fra otto e novecento, pp. 51-104 per l’ampia
bibliografia ivi richiamata anche in riferimento a una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 20106 del 18
settembre 2009); ugualmente interessante è la ricognizione, ricchissima di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali,
effettuata da G. PINO, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in Eguaglianza,
ragionevolezza e logica giuridica, a cura di G. Maniaci, Milano, Giuffrè 2006, pp. 115 sgg.; si veda anche F. MACARIO,
Le forme del diritto nella storia presente: il nuovo diritto europeo dei contratti tra ordine, ragione e decisione (in corso
di stampa per i Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno); si ricorda poi, per il riuscito taglio
interdisciplinare e per la qualità dei contributi ospitati, il volume monografico della rivista diretta da Furgiuele, Diritto
privato, III, 1997, appunto dedicata interamente al problema dell’abuso del diritto.
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Spetta soprattutto a un recente e notevole saggio di Giovanni Cazzetta il merito di aver
ripercorso le tappe che, storicamente, hanno segnato il dibattito civilistico in tema di abuso del
diritto, e di aver sottolineato la solo «apparent[e] continuità»3 delle argomentazioni nei vari tempi
utilizzate per ammettere o contestare l’utilità del riferimento a questa figura di illecito atipico4.
Uniformità apparente proprio perché tanto il fronte dei contrari che quello dei favorevoli ha
appoggiato le opposte letture in tema di abuso a retroterra ideali e culturali diversi, inevitabilmente
segnati dall’avvicendarsi di mentalità e problemi che la storia ha di volta in volta consegnato ai
giuristi. Pare tuttavia possibile sottolineare, all’interno di tale, complessa vicenda – che non spetta a
queste poche pagine ripercorrere – sia un importante momento di cesura che alcuni aspetti di
continuità sostanziale, non apparente. La cesura sta soprattutto in questo: che a partire da un certo
momento – approssimativamente dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso – i riferimenti
all’abuso del diritto hanno cessato di incarnare il luogo della giustapposizione-contrapposizione tra
due sistemi di valori ritenuti distanti, l’uno – incarnante l’ossatura del sistema – imperniato su una
concezione astratta dell’uguaglianza e potestativa dei diritti soggettivi, l’altro – quello nel quale
doveva trovar spazio il riferimento all’abuso – viceversa orientato a moderare la spietatezza
individualistica dell’impianto normativo in omaggio a sempre più incalzanti esigenze, in senso
ampio, sociali, economiche, etiche.
Dall’ultimo scorcio di Ottocento l’abuso del diritto ha infatti rappresentato, con moto che
dalla giurisprudenza e dottrina francesi si è esteso al resto dell’Europa continentale, uno dei varchi
che ha permesso di mettere in agenda il problema dell’esercizio dei diritti, che ha permesso, cioè, di
guardare ai diritti anche sotto il profilo delle loro effettive condizioni di esistenza e di scorgere nella
privatezza una zona abitata (anche) da relazioni (tra) ineguali 5. Che poi si ritenesse che l’innato
«egoismo»6 della competizione intersubiettiva desse luogo a diseguaglianze non solo inevitabili ma
addirittura benefiche perché originate dal bisogno di tutelare la libertà nell’unico modo in cui ciò
era possibile, salvaguardandone, cioè, la veste individualistico-competitiva7, o che invece si
ritenessero meritevoli di traduzione giuridica i lieviti sociali prodotti dalla nuova realtà industriale,
in ogni caso il discorso scientifico, anche quello favorevole alla declinazione del tema dell’abuso,
sembra incardinato su questo contrappunto regola-eccezione e ugualmente interessato – come
brillantemente rileva Cazzetta – a non disperdere la centralità e l’autonomia dello statuto civilistico.
Di uno statuto che si riusciva a preservare, a seconda dei punti di vista, seguitando a tributare
3
.CAZZETTA, Responsabilità civile, cit. p. 55.
L’uso di questa terminologia si deve, come noto, al fortunato volume di M. ATIENZA – J.R. MANIERO, Illeciti atipici.
L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, trad. it., il Mulino 2004 (edizione originale: 2000).
5
Non a caso, sarà soprattutto attraverso i riferimenti al recesso ad nutum dal contratto di lavoro e al (diverso?)
trattamento da riservare alle coalizioni operaie e ai trusts imprenditoriali che il tema dell’abuso prenderà forma nel
dibattito giuridico italiano tra la fine del 1800 e gli inizi del Novecento; sul punto v. CAZZETTA, Responsabilità civile,
cit., pp. 80-92 e anche P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, saggio originariamente pubblicato nel 1965 sulla Rivista di
diritto civile e poi raccolto insieme ad altri in Id., L’abuso del diritto, Bologna, il Mulino 1998, pp. 28 sgg.
6
Così Ludovico Barassi nel 1901 (ma si tratta di posizioni cui rimarrà fedele fino al secondo dopoguerra) in CAZZETTA,
Responsabilità civile, cit., p. 87.
7
In questo senso, come noto, anche i molti interventi dedicati al tema da V. SCIALOJA; tra i tanti si segnalano: Del
divieto degli atti emulativi in materia d’acque (1879), ID., Sopra alcune limitazioni dell’esercizio della proprietà e di
nuovo sull’emulazione (1879), ID., Aemulatio, voce redatta nel 1892 per l’Enciclopedia giuridica italiana. Si tratta di
contributi tutti raccolti in Id., Studi giuridici, vol. III – Diritto privato, Anonima romana editoriale, 1932,
rispettivamente alle pp. 210 sgg., 207 sgg., 216 sgg. Come è facile rilevare anche a partire dai titoli appena citati, il
problema dell’abuso viene legato a quello della legittimità – di cui Scialoja non dubita – degli atti emulativi. Quello
della aemulatio è stato infatti il tema che, per molto tempo, ha assorbito i riferimenti all’abuso, e li ha assorbiti non
casualmente, essendo, quello della emulazione, l’osservatorio che consentiva di pronunciarsi sulla sorte del più privato
e potestativo dei diritti, il diritto di proprietà, appunto.
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incontrastata fiducia al modello di convivenza consacrato dai codici ottocenteschi oppure
ampliando le maglie del sistema in direzione dei nuovi compiti sociali del diritto privato.
Scorrendo rapidamente la letteratura giuridica dalla fine del XIX secolo alla metà del
Novecento, a emergere è proprio questa costante tensione tra l’individualismo potestativo e le
(paventate o auspicate) aperture sociali del diritto privato. In un simile quadro, i riferimenti
all’abuso del diritto vengono presentati come il trionfo della «concezione veramente sociale del
diritto soggettivo»8 e anche chi tenta di legare il tema dell’abuso a un «parametro oggettivo»9, insito
«nel diritto stesso» e rappresentato dall’ «uso normale» che ognuno deve fare dei propri diritti, non
può fare a meno di richiamarsi alla necessità di considerare la diversa «posizione economico sociale
dei soggetti»10 e la loro diversa possibilità di accedere a una efficace tutela della propria sfera
giuridica. Questione sociale e adeguamento diritto alla mutata sensibilità dei tempi sono dunque i
due temi strettamente intrecciati, incaricati di fondare, anche tramite i richiami all’abuso, la
relazione tra conservazione e innovazione, tra l’universo – vecchio – delle relazioni astratte e
formali e l’universo – nuovo – più sensibile al «procédé d’adaptation du droit aux besoins
sociaux»11.
Con un necessario e obbligato corollario, costituito dall’indagine sui poteri del giudice e sul
rapporto immaginabile tra giudice e legislatore. Finché si rimane all’interno dello schema del
temperamento/evoluzione, finché l’abuso è visto come strumento idoneo a mettere il diritto in linea
con lo spirito dei tempi, si tenderà infatti a collegare il rilievo di questa figura a una certa
distribuzione di competenze tra il ruolo (evolutivo) del giudice e quello del legislatore12. Lo stesso,
ricorrente, appello al legislatore, all’unico soggetto reputato in grado di modificare ab imis
l’ossatura regolativa di un determinato sistema giuridico, risulterà diversamente modulato a seconda
che si ritenga orientato a sancire un divieto generale di abuso ovvero a incrementare il novero delle
singole previsioni normative ammettendo specifiche (idest: eccezionali) ipotesi di esercizio abusivo.
Non è quindi contraddittorio che nei primi anni Venti un giurista come Rotondi, disposto ad
ammettere l’evenienza dell’esercizio abusivo dei diritti ma allo stesso tempo tenacemente
convinto13 che quello di abuso fosse un «fenomeno sociale, non un concetto giuridico»14, arrivasse a
8
Così G. SOLARI, Socialismo e diritto privato. Influenza delle odierne dottrine socialiste nel diritto privato (1906); si
tratta di un riferimento tratto da CAZZETTA, Responsabilità civile, cit., pp. 71.
9
CAZZETTA, Responsabilità civile, cit., p. 77
10
È questa la posizione di G.P. Chironi espressa a cavallo tra Otto e Novecento e sulla quale ugualmente, v. ivi, pp. 7779.
11
Si tratta di parole di Josserand tratte da ivi, Responsabilità civile, cit., p. 69.
12
Chiarissimo sul punto, F. SANTORO PASSARELLI, Il diritto civile nell’ora presente e le idee di Vittorio Polacco (1933),
in Id., Saggi di diritto civile, Napoli, Jovene, 1961, vol. I, specialmente p. 61. Interessante anche la posizione espressa
da B. BRUGI, L’abuso del diritto nel progetto di codice delle obbligazioni e dei contratti, in Studi in onore di Alfredo
Ascoli, Messina, Principato, 1931, pp. 79 sgg.; commentando il disposto dell’art. 74 del progetto di codice delle
obbligazioni italo-francese che espressamente prevedeva l’obbligo di risarcimento del danno in capo a chi avesse
ecceduto «nell’esercizio del proprio diritto, i limiti posti dalla buona fede o dallo scopo per il quale il diritto gli fu
riconosciuto», Brugi plaudeva alla introduzione di questa norma, vedendovi soprattutto il rimedio per adeguare – in via
interpretativa – il diritto ai tempi. Val la pena riportare per esteso il suo pensiero: «l’opera dell’interprete nella
determinazione delle facoltà costituenti un diritto non potrà mai – dice Brugi – essere eliminata da elenchi legislativi di
essi, perché, in questo punto, è più che mai utile quella che siamo soliti dire interpretazione storica del diritto. Il
legislatore usa parole che, per propria virtù, si prestano a spiegazioni e interpretazioni diverse: l’interprete le spiega e le
interpreta con le idee del suo tempo; ed è poi questo il miglior rimedio allo invecchiare della parola del legislatore se si
volesse stare rigorosamente attaccati al significato che esso volle ancora ascriverle. Non è dunque un paradosso
affermare che le facoltà contenute in un diritto si determinano con le idee del nostro tempo» (ivi, p. 81-82).
13
M. ROTONDI, L’abuso del diritto, in Id., L’abuso del diritto – Aemulatio, Padova, Cedam 1979, pp. 5 sgg.; si tratta del
testo della sua tesi di laurea del 1922, ripubblicata nel 1979, appunto a testimonianza dell’intatto permanere di
convinzioni espresse un cinquantennio addietro; si veda anche ID. (a cura di), L’abus de droit, l’abuso del diritto, the
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sostenere come «alla soppressione della maggior parte dei casi possibili possa giungere con la sua
stessa opera la giurisprudenza […] quando fossero in parte dissipate certe diffidenze troppo gelose
che vorrebbero costringere il giudice ad un mero strumento materiale di esecuzione della volontà di
un remoto legislatore»15. Certo, l’opera del giudice era valutata alla stregua di «medicazioni di
pronto soccorso»16, non alternative rispetto all’intervento, questo sì risolutivo, del legislatore, di un
legislatore che però non avrebbe dovuto codificare un generale divieto dell’abuso ma intervenire
con una «regolare, continua, opera di revisione dei singoli istituti del diritto»17; in ogni caso, a
essere prospettata era una sorta di divisione del lavoro tra la dottrina, custode della ortodossia
positivistica e perciò impegnata in un’opera «saviamente, gelosamente, recisamente
conservatrice»18 e la giurisprudenza, chiamata a esprimere una opzione mediana tra gli estremi del
diritto libero e le claustrofobiche quanto chimeriche immagini di un tessuto normativo privo di
lacune e perciò insuscettibile di invecchiamento.
Analogamente non sorprende rilevare come Levi, che un decennio prima di Rotondi aveva
con intelligenza legato il problema dell’abuso a quello della buona fede e rintracciato nell’esercizio
in buona fede dei diritti il «normale limite etico del diritto soggettivo»19, pur plaudendo all’operato
di una giurisprudenza che si era sobbarcata l’onere di adeguare il diritto allo «spirito […] sociale» e
alla sempre più diffusa «aspirazione ad un più equo contemperamento reciproco dei legittimi
interessi»20 e pur essendo, da filosofo del diritto, meno condizionato dal peso dell’abito
positivistico, ritenesse che solo un intervento espresso del legislatore, orientato a dare «piena
cittadinanza giuridica a questo limite»21, ma generale, nell’esercizio dei diritti, potesse trasformare
in giuridici i doveri morali22.
E se è vero, come ha acutamente notato Gambaro, che la riduzione della questione
dell’abuso al problema del rapporto tra giudice e legislatore ha rappresentato più la via per eludere
che per affrontare i nodi teorici a essa sottesi, dal momento che «non si evita il ruolo creativo della
giurisprudenza ripudiando la teoria dell’abuso» né, d’altro canto, «si promuove un ruolo creativo
dell’interprete e del giudice […] abbracciando la stessa teoria»23, è anche vero che questo
abuse of rights, el abuso del derecho, der Rechtsmissbrauch, Padova, Cedam 1979; si tratta, in questo caso, di una
raccolta di scritti di autori italiani e stranieri, introdotta da una Prefazione di Rotondi che riproduce, letteralmente, la
prefazione del volume citato appena sopra.
14
ROTONDI, L’abuso del diritto, cit., p. 24.
15
Ivi, p. 198-199.
16
Ivi, p. 203.
17
Ivi, p. 202; nello stesso senso anche SANTORO PASSARELLI, Il diritto civile nell’ora presente, cit., p. 57-58.
18
ROTONDI, L’abuso del diritto, cit., p. 220.
19
A. LEVI, Sul concetto di buona fede – appunti – intorno ai limiti etici del diritto soggettivo, Genova, Formiggini,
1912, p. 17; si soffermano sulla posizione di questo giurista CAZZETTA, La responsabilità civile, cit., p. 74 e RESCIGNO,
L’abuso del diritto, cit., p. 64.
20
LEVI, Sul concetto di buona fede, cit., p. 94.
21
Ivi, p. 99.
22
Ivi, p. 97.
23
A. GAMBARO, Abuso del diritto (diritto comparato e straniero), in Enciclopedia giuridica italiana, Roma 1988, vol.
I, p. 4. Il problema – prosegue Gambaro – «concerne la cultura diffusa nel ceto degli interpreti non la legittimazione che
essi ricevono dalle fonti ufficiali. Se gli interpreti condividono un ideale burocratico non vi sarà modo semplice di
indurli ad utilizzare spazi di libertà in cui essi inevitabilmente si sentiranno smarriti. In questa situazione le clausole
generali saranno neglette. La stessa codificazione del divieto di abuso rimarrà senza eccessive conseguenze» (ibidem).
Non è casuale, pertanto, che il problema della «teoria del divieto di abuso» si sia posto «là dove più decisamente
l’autorità del legislatore politico ha avocato a sé il monopolio dell’universo normativo», là dove, come nei paesi
dell’Europa che hanno conosciuto la codificazione, «l’autorità del testo è stata considerata non direttamente
controvertibile dai suoi interpreti», là dove, insomma, si è tentato, da un certo punto in poi, di riequilibrare il rapporto
tra legge e giuristi. Mentre negli ordinamenti, «in cui interi settori della convivenza sociale sono affidati alla prudenza
di un ceto di tecnici chiamati giuristi […] lo stimolo a teorizzare il divieto di abuso sarà scarso» dal momento che «non
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costituisce un osservatorio utile a tracciare – lo si diceva poco sopra – il panorama delle cesure e
delle continuità. In particolare, sembra sia possibile rintracciare un aspetto di continuità sostanziale,
non apparente, negli argomenti messi in campo dal fronte dei contrari, compatto nel denunciare,
dalla fine dell’Ottocento al presente24, i rischi di uno sgretolamento per via giudiziale del sistema
giuridico, rischi appunto legati alla possibilità di ammettere un divieto generale di abuso, altamente
lesivo per la certezza del diritto, per un valore, cioè, che si riteneva conseguibile solo con il mezzo
legislativo e solo in virtù di previsioni normative puntuali. Per un verso, quindi, diviene possibile
registrare, anche sul versante degli scettici, significative correzioni di rotta (la continuità apparente):
dalla asserita intangibilità del principio qui iure suo utitur neminem laedit, e dal correlato richiamo
all’idea che la presenza di un diritto escludesse automaticamente la configurabilità dell’abuso, si
arriva ad ammettere che l’esercizio di un diritto possa, per le più varie ragioni, risultare molesto
all’ordinato svolgersi di una convivenza. Certo, non mancano anche nella letteratura giuridica più
recente interpretazioni del primo tipo, ancora orientate a sostenere l’impossibilità logica di
avvicinare le nozioni di abuso e diritto, magari attraverso il perdurante richiamo a Planiol25, ma la
evoluzione dottrinale sembra sia andata nel senso di riconoscere progressivamente la rilevanza
dell’abuso. Di riconoscere, per dir meglio, nell’abuso un «fenomeno sociale», o «addirittura» una
«costante ineliminabile dell’esperienza»26. Ma, per l’altro verso, è stato proprio l’incombente timore
di aprire le porte all’arbitrio giudiziale e a una insana commistione tra diritto e morale, tra diritto ed
economia ecc., è stato il riferimento a un’alternativa, che si immaginava radicale, «tra un sistema
che rimane […] fedele alle scelte effettuate» «ed un sistema che [invece] ammette dei correttivi in
base alle circostanze del caso, sacrificando così un certo grado di certezza alle superiori esigenze
della giustizia»27 ad aver costantemente spiegato gli scetticismi in materia di abuso del diritto
finendo per delegare ai singoli interventi del legislatore il compito di segnare, al modo tradizionale,
i confini tra lecito ed illecito, tra condotte ammesse e condotte vietate. Pur arrivando a riconoscere
l’esigenza di ampliare il «contenuto etico del diritto»28, si è insomma ritenuto che la strada da
percorrere fosse quella, abituale, di una diversa mappatura dei limiti del diritto soggettivo, limiti
espressamente risultanti dalle disposizioni legislative e coincidenti con la «restri[zione] della sfera
giuridica del soggetto […] attivo» e/o con l’estensione della sfera giuridica del soggetto
«passivo»29.
2. Abuso del diritto e definizione per relationem della privatezza
Da un simile punto di vista, è indubbio che le voci favorevoli a una autonoma enucleazione
della figura dell’abuso, si sono caratterizzate – e questo è l’altro fronte di continuità sostanziale –
per aver espresso «progetti di metodologia giuridica in senso ampio antiformalistici»30, ma è
sussiste alcuna necessità di ricercare il fondamento teorico di regole che possono facilmente ricavarsi dallo strumentario
con cui si è abituati ad operare» e che consente «di distribuire e di conformare in astratto le situazioni soggettive di
vantaggio e quello di giudicare a posteriori sulla legittimità dei comportamenti individuali concretatisi» (ivi, p. 2).
24
Sul punto, si rinvia di nuovo a CAZZETTA, Responsabilità civile, cit., specialmente alle pp. 52-53 nelle quali si
ricostruiscono, con copiosi riferimenti bibliografici, le più recenti perplessità dottrinali in materia di abuso.
25
ivi, p. 52.
26
RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., p. 25.
27
S. PATTI, Abuso del diritto, in Digesto delle discipline privatistiche, vol. I, Utet 1987, p. 1.
28
A. D’EMILIA, Una media sententia sul problema dell’abuso del diritto, in Studia et documenta historiae et iuris, XI,
1945, p. 299.
29
Ivi, p. 296. Per il riferimento a posizioni dottrinali più risalenti, come quelle di Enrico Lai e di Carlo Francesco
Gabba, formulate nell’ultimo ventennio dell’Ottocento e ugualmente tese ad ammettere la possibilità di condotte
abusive ma allo stesso tempo orientate a escludere che esse potessero acquistare rilievo giuridico per via giudiziale, si
rinvia sempre a CAZZETTA, Responsabilità civile, cit., rispettivamente alle pp. 61-62 e 75-76.
30
PINO, L’abuso del diritto, cit., p. 117.
5
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altrettanto indubbio che sarebbe riduttivo racchiudere il dibattito dottrinale nelle strettoie di
un’alternativa secca tra sostenitori e avversari della centralità della fonte legislativa. Lo si è visto
prima affiancando schematicamente due posizioni distanti come quella di Levi e Rotondi, e lo si
può vedere, ancor meglio, considerando la cesura, cui ugualmente si accennava poco sopra, che si
registra a partire dalla fine degli anni Cinquanta, cesura che ha portato a individuare nell’abuso del
diritto una figura coerente con la complessiva ispirazione dell’ordinamento, chiamata, in quanto
tale, «(non a minare) ma a garantire la coerenza del sistema»31. Segno di un rinnovamento
dogmatico e culturale che ha coinvolto parte della civilistica italiana e che ha trovato in Salvatore
Romano una delle sue espressioni più qualificate, la ripresa dell’interesse intorno al tema dell’abuso
del diritto ha testimoniato, certo, una significativa emancipazione del pensiero giuridico dalle
strettoie della logica positivistica, e della obbligata sudditanza della scienza giuridica alle previsioni
risultanti dal tessuto normativo, senza tuttavia dar vita ad atteggiamenti iconoclasti nei confronti del
ruolo del legislatore e del diritto positivo in genere.
I segni di questo rinnovamento hanno seguito, è ovvio, strade diverse, come diversissimi –
per formazione e orientamenti ideali – sono stati i nomi che lo hanno espresso32; limitando
l’indagine a chi si è espressamente occupato, negli anni Cinquanta e Sessanta, di abuso del diritto –
da Mariano D’Amelio33 a Ugo Natoli34, da Virgilio Giorgianni35 a Salvatore Romano fino a Pietro
Rescigno36 – è però possibile individuare alcuni motivi comuni che ci permettono di introdurre il
discorso sulla peculiare visione romaniana; comune in primo luogo la convinzione che la mancata
previsione legislativa del divieto di abuso non fosse «ostativ[a]»37 rispetto alla possibilità di
conferire, al concetto di abuso, adeguata formulazione tecnica38. Senza che questo, peraltro, valesse
a pretermettere la considerazione del disposto positivo: se infatti era indubbio che il problema
dell’abuso si ponesse proprio nei casi in cui «il limite del diritto non è fissato dalla legge»39, se
dunque, l’abuso tendeva ad acquistare rilievo in virtù di una «considerazione complessiva del
sistema»40, dei suoi principi ispiratori, la ricerca di indizi (anche) positivi rimaneva centrale nel
discorso di questi giuristi e rimaneva centrale proprio per corroborare l’idea che l’abuso fosse una
figura chiamata a definire e non a sbavare i contorni di un determinato ordinamento normativo41.
31
CAZZETTA, Responsabilità civile, cit., p. 103.
V. P. GROSSI, La cultura del civilista italiano, Milano, Giuffrè, 2002, specialmente pp. 121 sgg. e F. MACARIO – M.
LO BUONO, Il diritto civile nel pensiero dei giuristi, Padova, Cedam, 2010, specialmente le pp. 85 sgg.
33
M. D’AMELIO, Abuso del diritto, in Novissimo digesto italiano, Utet 1957, vol. I, pp. 95 sgg.
34
U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile, 1958, pp. 18 sgg.
35
V. GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, Giuffrè 1963.
36
V., la già citata raccolta di saggi del 1998 appunto intitolata L’abuso del diritto.
37
CAZZETTA, Responsabilità civile, cit., p. 102.
38
«Per ciò che concerne la mancanza, nel codice di una norma di carattere generale in merito all’abuso del diritto,
rileviamo che essa ci sembra giustificata: si tratta di un problema di teoria generale la cui soluzione di principio si lascia
difficilmente tradurre in termini precettivi»; «ciò nonostante esprimiamo l’opinione che il concetto di abuso possa
essere tecnicamente formulato»; sono parole di ROMANO, Abuso del diritto, cit., rispettivamente p. 826 e p. 828.
39
D’AMELIO, Abuso del diritto, cit., p. 96.
40
NATOLI, Note preliminari, cit., p. 26.
41
Sia NATOLI che GIORGIANNI, a esempio, richiamano l’attenzione sul disposto dell’art. 1438 del codice civile
(minaccia di far valere un diritto); se questo articolo, si dice, «prevede e tende a reprimere l’ipotesi specifica della
minaccia di far valere un diritto intesa a conseguire vantaggi ingiusti, con ciò stesso prospetta la più generale possibilità
che il soggetto si valga di diritti, che l’ordinamento giuridico gli riconosce, per fini ulteriori, cioè diversi da quelli
oggettivamente assegnati a quei diritti, e contemporaneamente dimostra che lo stesso ordinamento non tollera la
riduzione di questi – che, per loro natura sono strumenti tipicamente di difesa – a strumenti che, invece, dovrebbero
avere funzione essenzialmente di offesa»; così NATOLI, Note preliminari, cit. p. 33; in senso analogo anche
GIORGIANNI, L’abuso del diritto, cit., p. 23.
32
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A mutare e a complicarsi era, semmai, il quadro all’interno del quale cercare e interpretare le
disposizioni munite di «valore sintomatico»42 dal momento che le stesse previsioni del codice civile
e della legge in genere – ecco un altro aspetto comune – tendevano a essere considerate quale parte
di un universo regolativo più ampio, abitato anche da altre fonti parimenti rilevanti per la
definizione della privatezza, di una privatezza che doveva riuscire a lasciarsi alle spalle
quell’isolamento autoreferenziale in cui troppo spesso era stato rinserrata. Costituiscono, in tal
senso, eloquenti testimonianze l’attenzione prestata per le acquisizioni dottrinali sviluppate in
campi disciplinari limitrofi – diritto pubblico e amministrativo in testa –, la disponibilità ad
ammettere la rilevanza degli interessi legittimi43 nel diritto privato e, soprattutto, il ruolo decisivo
riconosciuto alle disposizioni della Carta costituzionale44 nel tracciare contorni e identità del
momento privato. In simili contesti argomentativi, il ricorrente richiamo alla necessità di elaborare
una teoria generale45 del diritto privato non esprimeva altro che questa esigenza di pervenire a una
valutazione prospettica del diritto privato medesimo, l’esigenza di vedere in esso la risultante di una
tela di relazioni a partire dalla quale attingere la stessa, eventuale, centralità della fonte legislativa.
Sono state soprattutto alcune dense, importanti pagine di Virgilio Giorgianni ad aver
chiarito, nel 1963, come abuso del diritto e teoria normativa non fossero grandezze necessariamente
collidenti: a esser contestato non era infatti il legame dell’interprete col diritto positivo, quanto una
certa lettura, ‘deformante’, di quel legame, lettura scaturente da «determinate presupposizioni
ideologiche, pur se inconsapevoli»46, orientate a vedere nella norma una superficie piatta, svincolata
dal riferimento al complesso «di valori o interessi integranti e costitutivi della stessa forma o
specifica struttura qualificativa della norma»47. Non la dottrina normativa, dunque, ma il
«formalismo giuridico» si presentava come incompatibile con la costruzione di una «teoria
generale»48 del diritto, con una teoria appunto incaricata di restituire l’articolato panorama delle
relazioni da cui risultava (anche) la privatezza e a partire dal quale diventava possibile, senza
contraddizione, sostenere la stessa infungibile centralità/autonomia del diritto privato (e del lavoro
scientifico che su di esso si svolgeva).
Con alcune importanti conseguenze, ugualmente condivise da questo lato della riflessione
giuridica: la certezza del diritto rimaneva un riferimento centrale ma ancorato a valutazioni
speculari, opposte, rispetto a quelle messe in campo dal versante degli scettici. Perché infatti, se
«non è vero che ammettere la possibilità di una valutazione di congruità dell’esercizio del diritto
con lo scopo oggettivo di questo significhi spalancare la porta all’arbitrio del giudice […] è invece
incontestabile (e la pratica s’incarica di dimostrarlo quotidianamente) che la considerazione
esclusiva della esteriore e formale conformità del comportamento del soggetto, al contenuto astratto
del suo diritto, astraendo totalmente dai motivi soggettivi e dai riflessi negativi che quel
comportamento può avere sulla posizione del proximus o, addirittura, sugli interessi collettivi e
42
NATOLI, Note preliminari, cit., p. 33.
Il problema della rilevanza degli interessi legittimi del diritto privato si poneva in primo luogo in riferimento ai
comportamenti emulativi che non richiedevano, per la loro repressione, la lesione di un diritto soggettivo altrui da parte
del proprietario. E se Zanobini, da cultore del diritto pubblico, scorgeva nell’articolo 833 il segno dell’ingresso degli
interessi legittimi nel diritto privato, Jemolo collegava la scarsa o nulla applicazione dello stesso articolo da parte della
giurisprudenza proprio alla impossibilità di prevedere la rilevanza degli interessi accanto a quella dei diritti nel sistema
del diritto privato italiano. Il rinvio è a G. ZANOBINI, Interessi legittimi nel diritto privato (1943), in Id., Scritti vari di
diritto pubblico, Milano, Giuffrè 1955, pp. 345 sgg. e a A.C. JEMOLO, Il giudice dei diritti ed il giudice degli interessi,
in Studi in onore di Emilio Betti, Milano, Giuffrè 1962, p. 260.
44
V., a es., RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., pp. 131 sgg.
45
V., a es., NATOLI, Note preliminari, cit., p. 26.
46
GIORGIANNI, L’abuso del diritto, cit. p. 343.
47
Ivi, p. 328-329.
48
Ivi, p. 195.
43
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generali, che sono alla base di tutto l’ordinamento giuridico, si esaurisce nell’affermazione del
dominio incontrastato dell’arbitrio individuale e nella correlativa negazione di ogni autorità alla
legge»49.
Ulteriore conseguenza: nel momento in cui il rispetto della certezza non escludeva ma al
contrario imponeva la sanzione delle condotte abusive, il problema dell’abuso avrebbe cessato di
essere rappreso nelle maglie della contrapposizione secca tra fedeltà al disposto normativo e
apertura a istanze ermeneutiche variamente orientate in senso evolutivo. L’abuso insomma non si
sarebbe presentato come «una figura giuridica che appaia o scompaia a seconda del procedimento
interpretativo che [… ]si decida di adottare»: «se il comportamento abusivo determina, infatti,
l’insorgenza di una responsabilità e viene denunciato dinanzi ai tribunali, ciò è possibile […] pel
fatto che esso si trova disciplinato da una esplicita norma giuridica, o da un principio generale
(come suol dirsi) che implicitamente stabilisce il divieto dell’abuso del diritto. E’, insomma,
unicamente sulla base di tale divieto normativo – esplicito o implicito – che può essere rilevata la
difformità di un determinato esercizio del diritto, dal valore che sta a criterio della qualificazione
che di quel comportamento fa appunto un esercizio del diritto»50.
Rilevante non solo e non tanto come strumento di adattamento del sistema giuridico alla
evoluzione storica, ma necessario per la comprensione dello stesso presente e del complesso di
indici normativi ed epistemologici da cui risultavano gli ordinamenti, l’abuso diventava dunque un
riferimento importante per interrogarsi sulla funzione degli istituti privatistici e dei diritti soggettivi
in specie. Non l’indagine sull’ animus (nocendi), né sulle finalità perseguite dall’azione soggettiva
o dal legislatore nel dettare una certa disciplina sarebbe quindi valso a segnare il discrimine tra
condotte lecite e condotte abusive; mentre il richiamo alla funzione, all’idea che fosse possibile
rintracciare una funzione tipica degli istituti, di tutti gli istituti, anche di quelli sorti e creati nel
grande terreno della atipicità, diventava il modo per portare alla luce il complesso di valori, principi,
orientamenti da cui risultava la stessa disciplina del diritto privato, valori, principi, orientamenti
oggettivamente rilevanti perché esplicitati (o quanto meno esplicitabili) nei molteplici luoghi
incaricati di definire e strutturare un determinato sistema giuridico.
Con una ulteriore e conclusiva conseguenza: il tema dell’abuso finiva per svincolarsi
definitivamente dalla questione della aemulatio che aveva occupato, per molto tempo, la scena del
dibattito dottrinale, dapprima attraverso l’interpretazione del silenzio del legislatore del 1865 e poi
attraverso le letture dell’art. 833 del codice vigente, espressamente dedicato alla repressione degli
atti emulativi51. Fu infatti a partire dalla posizione di questi giuristi interessati a calare il diritto
privato in un più articolato quadro di riferimenti normativi e dottrinali che diventava possibile
individuare le condizioni di esercizio abusivo del diritto di proprietà oltre l’angustia della previsione
ex art. 833, previsione che, come è noto, qualifica come emulativo il comportamento tenuto
all’unico scopo di nuocere ad altri52. Che si ritenesse di poter leggere nell’art. 833 un’ipotesi di
deviazione dal solco funzionale in cui l’ordinamento collocava la stessa proprietà53, o che si facesse
49
NATOLI, Note preliminari, cit., p. 32, nello stesso senso anche GIORGIANNI, L’abuso del diritto, cit., p. 167.
GIORGIANNI, L’abuso del diritto, cit., p. 171.
51
Sul punto si rinvia sempre a CAZZETTA, Responsabilità civile, cit., specialmente le pp. 56-57; val la pena ricordare
come il progetto di codice civile italiano del 1937 ricalcasse il disposto del progetto di codice italo-francese delle
obbligazioni in materia di abuso (su cui vedi retro, nota 12). La disposizione fu poi eliminata dal testo definitivo del
codice del 1942.
52
Da tale punto di vista, l’art. 833 sembrerebbe voler «assicurare piuttosto la tutela della libertà dell’autore che la tutela
del destinatario dell’atto», confermando, così, il carattere tradizionalmente egoista del diritto di proprietà; così
RESCIGNO, Prefazione a L’abuso del diritto, cit., p. 12.
53
V. ROMANO, Abuso del diritto, cit., p. 826; si richiama espressamente a questa concezione C. M. MAZZONI, Atti
emulativi, utilità sociale e abuso del diritto, in Rivista di diritto civile, XV, 1969, p. 615.
50
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riferimento al necessario e «costitutivo» legame di ogni diritto con il complesso di interessi che
valevano a legittimarne l’esercizio54, in ogni caso diventava indispensabile la considerazione di quei
«caratteri funzionali» che soli parevano idonei a riportare ogni condotta «ad un concetto di misura
insito nella stessa nozione di diritto»55, diventava centrale l’idea che il riferimento alla funzione
non fosse qualcosa di esterno o di aggiunto alla definizione singoli diritti soggettivi, ma ciò che ne
consentiva la «qualifica[zione] in senso [autenticamente] giuridico»56.
Da tali osservatorii, la Carta costituzionale ripeteva la propria centralità non da criteri
meramente gerarchico-formali, ma dal fatto di costituire il luogo a partire dal quale si poteva, e
doveva, ricavare il timbro complessivo di una convivenza, il luogo dal quale ricavare il senso delle
sfide ordinanti e della specifica gerarchia, ma di valori, abbracciata da un determinato sistema
giuridico. Crocevia dei molteplici e talora contrastanti aspetti che dovevano concorrere a delineare
i tratti della vita associata, la Costituzione mostrava di porre in liquidazione, specialmente
attraverso l’assorbente riferimento ai principi di uguaglianza sostanziale e di solidarietà, la
concezione potestativa dei diritti soggettivi conferendo, così, un solido, obiettivo fondamento
positivo alla necessaria veste relazionale del diritto privato e, più in generale, di ogni lato del giure.
3. Salvatore Romano: abuso del diritto e pluralità di ordinamenti giuridici
Resta adesso, in conclusione, da esaminare più da vicino la lettura romaniana dell’abuso del
diritto muovendo da due precisazioni iniziali: a differenza di altri suoi scritti – questa è la prima
precisazione - le pagine dedicate all’abuso del diritto si distinguono per la loro singolare
stringatezza; sono dunque pagine che vanno spigolate, lette in controluce, innervate, come sono, di
richiami a nozioni e concetti essenziali alla ricostruzione dell’itinerario scientifico romaniano. Di un
itinerario – e questa è la seconda precisazione –che si presenta, quanto meno nel panorama della
giuristica nostrana, munito di significativi elementi di eccentricità dovuti essenzialmente
all’esigenza, perseguita dal Nostro, di trasferire sul piano privatistico i risultati di quella teoria
istituzionale elaborata, qualche decennio innanzi, da Santi Romano con riferimento specifico al
diritto pubblico.
Non si trattò di un mero vezzo intellettuale, né del dovuto omaggio al celebre genitore;
neppure si trattò di isolare un nucleo di questioni che, più di altre, sembravano prestarsi a
convergere nell’alveo interpretativo tracciato dalla concezione istituzionale; a essere espressa da
Salvatore Romano fu piuttosto la convinzione che la visione pluriordinamentale offrisse un
osservatorio – l’unico, a suo dire – capace sia di restituire la matrice sostanzialmente unitaria del
diritto sia di articolare la percezione dell’universo giuridico oltre la superficie delle norme
legislative. Il che ha permesso, lo si è visto poco sopra, di avvicinare Salvatore Romano alla
posizione di quei giuristi che hanno tentato, anche attraverso i riferimenti all’abuso del diritto, di
allargare l’orizzonte di indagine della civilistica collocando le stesse disposizioni codicistiche
all’interno di un più appagante quadro di riferimenti normativi e dottrinali. I motivi che si sono
indicati come comuni – attenzione per le elaborazioni teoriche dei campi disciplinari limitrofi57,
riferimento agli interessi legittimi nel diritto privato58, centralità della fonte costituzionale, asserita
54
U. RUFFOLO, Atti emulativi, abuso del diritto e interesse nel diritto, in Rivista di diritto civile, XIX, 1973, p. 41.
MAZZONI, Atti emulativi, cit., p. 611
56
Ivi, p. 612.
57
V. ROMANO, Principio di equità, cit., pp. 1204-1205 e Id., Ordinamenti giuridici privati, in Rivista trimestrale di
diritto pubblico, 1955, p. 252.
58
V., a es., ROMANO, Osservazioni sulle qualifiche di fatto e di diritto (1940), in Id., Scritti minori, cit., tomo I, p. 329.
55
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importanza di una teoria generale del diritto59 - sono quindi motivi presenti nelle stesse pagine
romaniane.
E sono motivi che hanno portato anche Romano a scorgere nella funzione, considerata
espressione del «necessario rapporto di corrispondenza tra il potere di autonomia conferito al
soggetto e l’atto di esercizio di questo potere»60, il riferimento concettuale capace di strutturare in
modo «obbiettivo»61 il problema dell’abuso, sul presupposto che ogni forma di autonomia privata,
non solo quella «cosiddetta funzionale», ma anche quella «libera», fosse riconosciuta e tutelata in
quanto «collegata alla cura di interessi»62 rilevanti per l’ordinamento.
Di abuso poteva dunque parlarsi «in tutti quei casi in cui […] si verifica[va] un’alterazione
della funzione obbiettiva dell’atto rispetto al potere di autonomia che lo configura[va]»63 o perché si
registrava un’«alterazione del fattore causale»64, come nel caso degli esempi legislativi citati da
Romano nel testo65, o perché si realizzava una «una condotta […] contraria alla buona fede o
comunque lesiva della buona fede altrui»66. In entrambi i casi, nota Romano, a rilevare era una
«funzionalità interna, strutturale», legata alla necessaria «relatività» dei diritti soggettivi, non di una
funzionalità «esterna e in senso che conduce a un affievolimento del diritto o del potere, come
accade nei generici riferimenti di alcune legislazioni alle finalità sociali ed economiche del
diritto»67.
Non dunque un temperamento dei diritti in virtù di pretese e corrosive, ma operanti ab
externo, esigenze etico-sociali; piuttosto definizione e strutturazione dei diritti a partire dal loro
legame costitutivo con interessi assunti come rilevanti dall’ordinamento, essenziali a fondare la
funzione ordinativa del diritto e a restituire il complesso gioco di connessioni che per Romano
legava il diritto, le sue molteplici espressioni, alla società e allo Stato. La concezione
pluriordinamentale entrava in gioco soprattutto attraverso il riferimento all’autonomia privata e alla
buona fede, a due concetti, cioè, reputati essenziali per chiarire i contorni dell’abuso del diritto e,
più in generale, per ricostruire il rapporto tra dimensione privata e dimensione autoritativa del
diritto.
Da un simile punto di vista, la teoria istituzionale funzionava come una sorta di
moltiplicatore delle relazioni rilevanti per la definizione del diritto e del diritto privato in specie, il
modo per coglierne e liberarne appieno le potenzialità regolative attuali e future. Mi spiego: la
teoria istituzionale e il richiamo, in essa fondamentale, alla matrice sociale del diritto non
descriveva una delle molte, possibili, variazioni sul tema dell’ibi societas ibi ius, non rappresentava
59
Tra i tanti possibili riferimenti in tal senso, v. Id., Sulla nozione di proprietà, in Rivista di diritto agrario, XXXIX,
1960, p. 28 e Id., Autonomia privata (appunti), saggio pubblicato originariamente nel 1956 sulla Rivista trimestrale di
diritto pubblico e ora in Id., Scritti minori, cit., tomo II, p. 548.
60
Id., Abuso del diritto, cit., p. 828.
61
Ibidem.
62
Ibidem.
63
Ivi, p. 830.
64
Ibidem.
65
Gli indici normativi che Salvatore Romano utilizza per dimostrare la sensibilità del diritto vigente al problema
dell’abuso sono gli art. 1447 (contratto concluso in stato di pericolo), 1448 (rescissione per lesione), 1438 (minaccia di
far valere un diritto), 1328 (revoca dell’accettazione), 81 (risarcimento del danno seguente a rottura della promessa di
matrimonio), 1341, nel caso di condizioni generali di contratto riguardanti «contraenti che non sono sullo stesso piano»
quanto a forza negoziale. A essere esaminate sono dunque ipotesi che, attraverso la tutela risarcitoria o la inibizione,
totale o parziale, degli effetti di un negozio, miravano a sanzionare un esercizio del diritto non conforme alla funzione a
esso riconosciuta dall’ordinamento con il conferimento del relativo potere. Si tratta – Romano lo ripete più volte – di
una elencazione meramente esemplificativa, non esaustiva di tutte le ipotesi in cui può darsi luogo a condotte abusive
(ivi, pp. 829-830).
66
Ivi, p. 831.
67
Ivi, p. 833.
10
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il modo per relegare tra le premesse del discorso scientifico, di un discorso che per il resto poteva
mantenersi ligio alla più vieta ortodossia positivistica, il richiamo alla origine sociale della regula
iuris, né costituiva il modo per segnalare lo scarto tra norma e storia, tra la rigidità del sistema
legislativo e l’incessante emergere di nuove istanze regolative. Non che questo aspetto venga
negletto, anzi: molte delle disposizioni dei codici – dice Romano – sono lettera morta, aggirate e
sorpassate da una realtà spesso refrattaria a essere inquadrata negli schemi predisposti dal
legislatore68; come non è difficile, dice Romano, registrare una evoluzione nel significato attribuito
alle norme codicistiche sull’onda dei cambiamenti di costume e di mentalità. Si pensi, prosegue il
Nostro, alla materia dei rapporti familiari, a tutta una serie di comportamenti un tempo ritenuti
legittimi e che progressivamente sono stati qualificati come abusivi pur non mutando il disposto
codicistico di riferimento69.
Solo che, per Romano, questi fisiologici fenomeni di evoluzione non si presentavano come
l’esito di interpretazioni adeguatrici, magari rimesse alla personale iniziativa di giudici e giuristi70,
legittimati, in questo, dalla presenza di clausole generali, valutate alla stregua di elisir di eterna
giovinezza per i codici. L’indubbio mutare del significato storicamente attribuito alle nozioni di
buona fede, buon costume, diligenza del buon padre di famiglia ecc., costituiva, in Romano, l’esito
dell’incontro tra realtà ugualmente giuridiche e, quel che più conta, ugualmente capaci di esprimere
diritto positivo, obiettivo. Ritenere che fossero «elementi positivi dell’ordinamento non solo quelli
normativi e, di questi, non solo quelli provenienti dalla fonte statuale»71, avrebbe infatti portato a
valutare diversamente la stessa presenza di clausole generali nel tessuto del codice, clausole che, dal
suo punto di vista, testimoniavano l’avvenuto riconoscimento, da parte dell’ordinamento statuale, di
una sottostante realtà di creazione del diritto facente capo agli individui e alla società. E si trattava,
per Romano, di una realtà cui non spettava solo di garantire che il diritto marciasse al pari coi
tempi, ma che consentiva, ancor più e ancor prima, di pervenire a una adeguata comprensione della
stessa struttura attuale dell’ordinamento giuridico. Buona fede, abuso, equità non costituivano,
insomma, i richiami che permettevano di trasformare elementi morali, economici o di costume in
dati giuridicamente rilevanti. Il passaggio dal pregiuridico al giuridico, per Romano, si era
consumato anteriormente 72 facendo capo a quei processi di formazione sociale del diritto che lo
Stato mostrava di presupporre e riconoscere (anche) attraverso il riferimento alle clausole
generali73. Era in virtù del richiamo a questa dimensione sociale di elaborazione del diritto che la
68
Id., Ordinamenti giuridici privati, cit., p. 282.
V., a es., Id., Principio di equità, cit., p. 1175.
70
Convinzione, questa, che costituisce il leit motiv dell’intera, e lunghissima, voce dedicata al Principio di equità, cit.
71
Ivi, p. 1169; nello stesso senso anche Id., Sulla nozione di proprietà, cit., p. 29.
72
«La legge parla di poteri nell’ordinamento familiare specie in relazione a limiti e ad un abuso nel loro esercizio, ma in
realtà è lo stesso ordinamento familiare che traccia questi limiti nel corso della evoluzione, per cui la stessa legge
consentirà al giudice di valutare come abuso – o viceversa – oggi, quel che non era tale un tempo passato»; così Id.,
Principio di equità, cit., p. 1175 (corsivo mio).
73
«Ma l’aspetto più saliente della aequabilitas del diritto obiettivo di fonte statuale è dato – val la pena di riportare per
esteso questo importante passo romaniano – dal congegno di apertura, entro un sistema, verso altri diritti obiettivi di
fonte diversa (autonomia pubblica e privata) e qui entriamo nel campo più controverso della teoria generale del diritto
privato di cui si è discorso. Allo Stato è demandato il compito di determinare le condizioni di riconoscimento degli
istituti giuridici, degli atti privati costitutivi – e regolatori – dei rapporti concreti. Ora l’avvenuto riconoscimento
esprime quella relazione […] che […] corre tra un ordinamento di fonte non statuale e quello dello Stato. La materia del
diritto privato è fondamentalmente legata a questa relazione [corsivo mio]. La conseguenza è quella di una apertura
verso una fonte creativa di diritto obiettivo di cui sono preventivamente poste le condizioni di accoglimento nel
sistema».«Lo stesso codice richiama largamente regole di correttezza, di buona fede, senza peraltro definirle: in effetti
di queste regole la fonte resta quella di un ordinamento generale – la collettività – e, come regole di azione, appaiono
inscindibili dai criteri di misura che fanno parte dell’essenza della equità»; così Id., Principio di equità, cit.,
rispettivamente p. 1174 e p. 1175.
69
11
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disposizione legislativa, inevitabilmente cristallizzata in una formula, riusciva ad acquistare
spessore e a implementare le proprie potenzialità normative oltre la puntualità della singola
previsione74. Abuso e buona fede diventavano così concetti impossibili da capire senza aver
riguardo a quella «normativa di correttezza»75, a quel complesso di regole – già fino in fondo
giuridiche – messe a punto dalla società e dagli individui nella costante ricerca di una «misura», di
una proporzione, di una «aequabilitas»76 nella disciplina dei loro rapporti.
Senza dubbio, il ruolo dello Stato e della legge risultavano ridimensionati da questa
impostazione, ma, si badi, non marginalizzati. La centralità attribuita ai processi sociali di
formazione del diritto e alla fonte consuetudinaria77 non rappresentava infatti il modo per opporre
alle circolanti enfasi statualistiche il volto di una società giuridicamente autosufficiente. Lo Stato,
nelle pagine di Romano, figurava infatti come un orizzonte imprescindibile del fenomeno giuridico,
l’orizzonte chiamato a riparare il diritto dall’«incertezza» e dal rischio della mancata tutela degli
«interessi comuni»78. Quello pensato per lo Stato (e per la legge) non era dunque un compito
meramente trascrittivo, di mera certificazione autoritaria del variegato universo giuridico espresso
dai privati: se infatti era indubbio che fosse sul crinale del riconoscimento79 che per Romano si
intendeva il ruolo dello Stato, è anche vero che attraverso il riconoscimento lo Stato fissava le
condizioni di «esistenza, contenuto, efficacia»80 degli ordinamenti privati, mostrando, talora, di non
volersi interessare di alcuni rapporti sorti sul terreno privato-sociale. La complicata materia delle
74
Se anche i privatisti, dice Romano, si decidessero a confrontarsi con quel concetto, per loro «tuttora misterioso», di
«procedimento giuridico», se, cioè, accettassero di seguire il rapporto giuridico «dalla formazione della sua fonte fino al
suo concludersi» e se, soprattutto, accettassero di vedere nel complesso di attività che presiedono alla nascita e allo
svolgimento di un rapporto altrettante attività giuridiche, disciplinate da quella normativa di correttezza che
l’ordinamento dei privati produce ed esprime e l’ordinamento dello Stato mostra di porre «a base della propria,
ulteriore, normativa», le potenzialità regolative del sistema giuridico risulterebbero notevolmente ampliate. Secondo le
impostazioni tradizionali e tradizionalmente statualistiche – prosegue Romano – si ritiene infatti che «un negozio, per
vizio del consenso, è impugnabile in quanto sia configurabile errore (spontaneo), dolo (errore provocato), violenza.
Certe situazioni, per così dire, intermedie, in cui appare difficile rinvenire vero e proprio dolo finiscono per condurre
alla esclusione dell’impugnativa per non esservi gli estremi né di un errore provocato, né di un errore spontaneo. […
Ma] un comportamento può non giungere a provocare un errore, può giungere però a giustificarlo nel quadro di una
rappresentazione di elementi negoziali e di un intento in qualche modo individuabile in rapporto ad un risultato
perseguito». È a partire da qui, conclude Romano, che buona/mala fede e abuso possono contribuire a incrementare il
novero dei comportamenti giuridicamente rilevanti per il diritto vigente (Romano, La buona fede, cit., rispettivamente,
p. 845 e pp. 860-861). Sottolineano l’importanza che i riferimenti al procedimento hanno avuto nel pensiero romaniano
molti dei contributi raccolti nel già citato volume Salvatore Romano giurista degli ordinamenti e delle azioni; in modo
specifico, si vedano G.B. FERRI, L’autonomia dei privati come sistema ordinato e ordinante nel pensiero di Salvatore
Romano (ivi, pp. 18 sgg.) e P. PERLINGIERI, La concezione procedimentale del diritto di Salvatore Romano (ivi, pp. 59
sgg.).
75
ROMANO, La buona fede, cit., p. 842.
76
Id., Principio di equità, cit., p. 1178 e p. 1173.
77
«Non minore rilievo – nota Romano – offre la materia delle consuetudini, espressioni generali di ordinamento, non
certo statuale, a cui si devono le creazione di tutti gli istituti giuridici di diritto privato che un codice riunisce e
riconosce»; così Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato (e i suoi riflessi nella configurazione dell’ufficio
notarile) in Rivista del notariato, XVII, 1962, p. 19; nello stesso senso anche Id., Autonomia privata, cit., p. 563.
78
Id., Ordinamento sistematico del diritto privato, I, diritto obiettivo – diritto subiettivo, a cura di F. ROMANO,
pubblicazioni della facoltà di giurisprudenza di Firenze – corsi universitari, Napoli, Morano, sd, p. 34; bisogna
considerare – nota sempre Salvatore Romano – che «un sistema è completo con l’organizzazione a Stato. Si intende
infatti come lo sviluppo di una società comporti ulteriori esigenze di completezza e di certezza del diritto»; così Id,
Principio di equità, cit., pp. 1171-1172.
79
V., tra i tanti esempi possibili, Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 30 e Id., Principio di
equità, cit., pp. 1172-1173.
80
Id., Autonomia privata, cit., p. 567.
12
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obbligazioni naturali, oggetto di una impegnativa indagine del Nostro, lo dimostrava con chiarezza:
non si trattava infatti di obbligazioni sorte sul terreno della morale, ma obbligazioni fino in fondo
giuridiche per l’ordinamento dei privati, che lo Stato, tuttavia, mostrava di non voler riconoscere
nella loro originaria veste obbligatoria, dando rilievo solo ad alcuni degli effetti – come
l’adempimento spontaneo – prodottisi nell’ordinamento privato81.
Il territorio dell’autonomia privata – altra nozione centrale della riflessione romaniana e
nella stessa ricostruzione dell’abuso del diritto – nasceva proprio a partire da qui, dalle scelte di
riconoscimento statuale, descriveva quella parte di ordinamento privato che aveva ricevuto la
sanzione del riconoscimento statuale82. L’autonomia privata incarnava dunque il momento
dell’incontro tra due dimensioni ugualmente necessarie alla vita del diritto. Imprescindibile la
prima, quella privato-sociale, per la sua attitudine a tenere in tensione costante «ordinarsi» e
«ordinatum»83, per la sua tendenza a ritrarre «i privati mentre trattano, concludono, interpretano,
eseguono»84 rapporti e a cercare, a partire da qui, una regola delle azioni giuridiche; ma
indispensabile anche la seconda, quella statuale, orientata a stabilizzare, completare e selezionare,
attraverso «la creazione di un sistema di efficacia»85, il lavoro giuridico svolto dalla società.
A emergere dalle pagine di Romano è dunque il tentativo di apprendere il diritto soprattutto
come processo, come dimensione costitutivamente dinamica, mobile, popolata da una pluralità di
fonti e di soggetti, tutti portatori di ordinamento: dal singolo, ai gruppi, alla collettività
complessivamente intesa fino allo Stato. Con l’abuso, la buona fede e l’equità che vengono,
coerentemente, presentati come «un’esigenza del diritto positivo nel rapporto tra elementi del
sistema»86 e con la Costituzione che rappresentava il fulcro del sistema giuridico proprio nel suo
essere «ordinamento della pluralità di tutti gli ordinamenti»87, proprio nel suo riconoscere e
promuovere, prima ancora che singoli principi o valori, la veste necessariamente plurale del
fenomeno giuridico.
E se – per ritornare al tema di queste pagine – i riferimenti all’abuso del diritto come
concetto chiamato a definire e non a sbavare i contorni di un determinato sistema giuridico tendono
a supporre il richiamo a una dimensione in senso lato supernormativa, a un quadro di principi e
valori, chiamati a condizionare, ex alto, lo svolgersi della vita del diritto e la interpretazione delle
stesse norme legislative, si può dire che Romano abbia tentato, con la sua ricostruzione, di
arricchire il panorama dei riferimenti rilevanti, immaginando una intersezione costante, un
81
Id., Note sulle obbligazioni naturali, Firenze, Sansoni 19532 (prima ed.: 1945), p. 110.
«Secondo noi di autonomia privata può parlarsi solo quando si ha un’attività che i soggetti ad essa interessati
spiegano, regolano in conformità ad un potere concesso o riconosciuto dallo Stato» (ivi, p. 108); all’Autonomia privata,
fu dedicato, come noto, il lungo e già citato saggio del 1956 pur trattandosi di una nozione già presente in contributi
precedenti dello stesso Romano; a titolo di esempio, v. Id., Osservazioni sulle qualifiche di fatto e di diritto, cit., pp. 313
sgg.
83
V. Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 18; «L’atmosfera giuridica giunge là fin dove si
inizia l’azione ordinante cioè molto prima di pervenire al risultato dell’ordinatum, che appare lo strato denso di
quell’atmosfera. Essa si distingue da un’altra atmosfera in cui domina il dato metagiuridico, morale, religioso, del
costume, di ogni convinzione individuale o di gruppo, di atteggiamenti spirituali o di sentimenti: questi elementi sono di
fondamentale importanza per il diritto, ma considerati da soli, sono i precedenti. Ogni costruzione giuridica peraltro li
riflette nel senso di rivelare quanto di essi è stato trasfuso nella stessa struttura dei congegni di un ordinamento sia esso
di uomini, di gruppi, di beni, di rapporti»; così Id., Ordinamento sistematico, cit., p. 28.
84
Id., La buona fede, cit., p. 844.
85
Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 22.
86
Si tratta di una osservazione che Romano fa in riferimento all’equità (Id., Principio di equità, cit., p. 1178), ma
estensibile anche alle figure dell’abuso e della buona fede che Romano espressamente colloca nello stesso orizzonte
concettuale.
87
V., Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 21; Id., Presentazione a W. CESARINI SFORZA, Il
diritto dei privati, Milano, Giuffrè 1963( ristampa), p. VII e Id, Principio di equità, cit., p. 1172.
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equilibrio complesso ma necessario tra Stato e società, tra alto e basso, una progressione
incrementale di fattori disciplinanti e disciplinati da cui solo poteva risultare il volto di una
determinata esperienza giuridica.
La stessa società si presenta, nella sua visione, come una dimensione articolata al proprio
interno, chiamata a comporre il momento individuale, quello collettivo e quello del populus
complessivamente inteso88. Non adeguatamente valorizzato, a dire del Nostro, nemmeno da quegli
autori, come il Cesarini Sforza de Il diritto dei privati, che pure erano riusciti a dare, sul terreno
privatistico, una egregia traduzione tecnica alla teoria istituzionale, il momento individuale resta
centrale nel discorso romaniano per ribadire il valore fondativo della volontà (e della libertà)
soggettiva, per evitare che il riferimento alla teoria istituzionale finisse per intrappolare l’individuo
in un vicolo cieco – uguale e contrario – a quello espresso dalle ricorrenti affermazioni di
positivismo statualista. Per evitare, in poche parole, che al misconoscimento delle capacità di
creazione giuridica facenti capo a società e individui sanzionata dalla identificazione del diritto, di
tutto il diritto, con il voluto dello Stato, seguisse l’idea che fossero i gruppi, le macroentità sociali,
gli unici, o i principali, veicoli di formazione e trasformazione del diritto 89. Non che il rilievo della
dimensione collettiva, di quella dimensione, cioè, che aveva ispirato le principali formulazioni della
teoria istituzionale, venisse trascurato; di sicuro però Romano tende a vedere in essa soprattutto un
momento di mediazione tra l’individuale e la collettività complessivamente intesa, perché era
soprattutto all’interno di queste due polarità che diventava possibile, per il Nostro, immaginare una
dinamica delle relazioni capace di abbracciare l’intera estensione del fenomeno giuridico.
Il riferimento alla collettività nel suo complesso, a una collettività «che da una parte riceve
dai singoli individui o gruppi, elementi costruttivi, dall’altra li elabora e coordina a sistema»90 gli
serviva infatti a mettere a fuoco i contorni di un autentico «diritto pubblico non statuale»91, gli
serviva a conquistare un’altra, rilevante, angolatura da cui guardare, insieme, all’individuo e allo
Stato, a un individuo che in questo caso «non agi[va] come soggetto di sfera ma come membro della
collettività, cioè nella sua proiezione pubblicistica»92 e a uno Stato che cessava di essere l’autore
monopolista dello stesso diritto pubblico.
Laddove questa moltiplicazione e intersezione dei piani giuridicamente rilevanti non
conduceva l’interprete a perdersi «in una miriade di ordinamenti giuridici particolari» ma a renderlo
consapevole della insufficienza di «una valutazione compiuta esclusivamente secondo i criteri
astratti dell’ordinamento statuale»93. Consentiva, in particolare, di vedere nello stesso giudice un
portatore di ordinamento94, uno dei ricettori, insieme al giurista, della necessaria complessità e
pluralità dell’esperienza giuridica, di questa progressione ordinamentale cui Romano affida il
compito di trovare la misura, la «proportio»95, la regola giusta, in una sorta di vigilanza reciproca
tra piani e dimensioni – individuale, sociale e statuale - che si immaginava capace di superare e
assorbire, insieme al momento del conflitto, che resta fuori dalle pagine romaniane, anche il rischio
di equilibri e valutazioni parziali, come sarebbero stati quelli scaturenti dalla considerazione di un
solo lato – il sociale o lo statuale – del fenomeno giuridico. Perché «ci sembra – mi piace
concludere con queste parole – che si raggiungano maggiori risultati osservando analiticamente e
88
V. soprattutto Id., Ordinamenti giuridici privati, cit., p. 276; Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato,
cit., p. 13 e Id., Presentazione, cit., p. IX.
89
Id., Ordinamenti giuridici privati, cit., p. 283; chiarissimo anche Id., Ordinamento sistematico, cit., p. 31 e p. 42.
90
Id., Principio di equità, cit., p. XI e Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 23.
91
Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 34.
92
Ibidem.
93
RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., p. 137.
94
ROMANO, Principio di equità, cit., pp. 1183-1185.
95
Id., Presentazione, cit., p. X.
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sotto il profilo procedimentale i sistemi che gradualmente, e al plurale, si combinano negli
ingranaggi di un superiore e completo sistema, anziché non fondandosi sopra una unitarietà
assiomaticamente posta che si risolve in una specie di totalitarismo che è in definitiva, forma e non
sostanza del diritto»96.
96
Id., La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 20.
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