dispense filosofia I-II - Università Kore di ENNA

LEZIONE I
INTRODUZIONE:
LA CONOSCENZA DEL FENOMENO GIURIDICO: filosofie del diritto.
Obiettivo di un corso di filosofia è quello di sollecitare una riflessione sul fenomeno
giuridico nel suo complesso. Non si tratta di una mera riflessione teorica – che
sarebbe inutile in una facoltà di giurisprudenza – ma piuttosto di una riflessione che
possa contribuire a qualche forma di progresso sociale e giuridico.
Quali sono gli obiettivi pratici che una riflessione di tal sorta comporta?
a) Riflettere sul fenomeno giuridico può indurre il cittadino a comprendere le
ragioni che stanno dietro al diritto e di conseguenza – ove queste ragioni in casi
particolari non convincano - ad assumere un atteggiamento critico nei confronti
di questa o quella norma;
b) Riflettere sul fenomeno giuridico può aiutarci a comprendere meglio il nostro
mondo. Il fenomeno giuridico oggi è molto più pervasivo che nel passato (ambiti
tradizionalmente sottratti al diritto, come la famiglia o i rapporti di lavoro, oggi
sono regolati dal diritto). Sicché lo sguardo sul fenomeno giuridico è una lente
attraverso cui comprendere gli affari umani;
c) Riflettere sul fenomeno giuridico può partorire risultati utili per riforme politiche
e sociali;
d) Riflettere sul fenomeno giuridico può contribuire al dibattito giurisprudenziale su
certi temi.
e) Riflettere sul fenomeno giuridico può essere il punto di partenza per una più
estesa e profonda riflessione sulla morale.
Per districarci all‟interno di un‟attività che sembra immane dobbiamo circoscrivere il
nostro campo di indagine segnalando la differenza fra il metodo filosofico giuridico
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propriamente detto e almeno gli altri metodi tipicamente utilizzati per comprendere il
fenomeno giuridico (sociologico, antropologico, storico, giuridico)
La distinzione fra metodo propriamente filosofico giuridico e gli altri metodi non vale a
delimitare chiaramente il campo di indagine. Infatti la filosofia del diritto si è occupata di
questioni svariate e anche oggi difficilmente si trovano due corsi identici di filosofia del
diritto nelle varie facoltà di giurisprudenza. Qui faremo una breve carrellata delle
questioni di cui la filosofia del diritto si è occupata, segnalando che al variare delle
epoche storiche e delle filosofie dominanti nelle medesime, è mutato l‟interesse centrale
della filosofia del diritto. Va aggiunto che se fino all‟inizio del Novecento la filosofia del
diritto si è limitata ad applicare filosofie generali al fenomeno giuridico, nel corso del
Novecento la filosofia del diritto è diventata una branca autonoma della filosofia che
svolge un compito diverso dall‟applicare una filosofia generale al fenomeno giuridico:
essa analizza il linguaggio dei giuristi e riflette sui presupposti sia conoscitivi che
normativi dell‟attività del giurista.
Le tematiche principali di cui si è occupata la filosofia del diritto corrispondono come si
è detto a varie epoche storiche. Questo non toglie tuttavia che l‟impostazione prevalente
in una certa epoca non sia persistita – magari diventando minoritaria – in un‟epoca
successiva. Anche oggi, eredi di una plurimillenaria riflessione sul diritto, abbiamo diversi
orientamenti filosofico giuridici. Ma intanto diamo un‟occhiata alla storia del pensiero.
a) Il tema fondamentale che ha caratterizzato la riflessione filosofica sul diritto dalle
origini (dalla Cultura Greca fino al Settecento) è quello della giustizia. La materia
si è chiamata diritto naturale. Il nesso fra diritto e giustizia è fortissimo nella
riflessione portata avanti nel V sec. A.C. in Grecia. Il termine dikaion –
letteralmente giusto – indicava indistintamente diritto, morale e altri valori etici.
L‟idea di una stretta connessione fra diritto e morale è stata difesa dal
giusnaturalismo – corrente giusfilosofica dominante fino a tutto il Settecento,
entrata in crisi nell‟Ottocento con il diffondersi delle Codificazioni e con la
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filosofia opposta – giuspositivista - e in buona parte del Novecento, ma ritornata
in auge sotto nuove vesti negli ultimi decenni con il costituzionalismo.
Il tema dei rapporti fra diritto e giustizia sarà centrale nel nostro corso, così come
centrale è l‟illustrazione dei diversi modi di intendere il fenomeno giuridico dei
giusnaturalisti e dei giuspositivisti.
b) Altro problema centrale della filosofia del diritto – affrontato prevalentemente
dalla fine del Settecento alla prima metà del Novecento – è quello della
definizione del diritto (Barberis la definisce Filosofia del diritto in senso stretto). Il tema
centrale è quello di distinguere il diritto da altri fenomeni normativi – quali la
morale e le regole sociali. Immanuel Kant è esemplificativo di questa posizione. Si
pensi alla nota diade interno / esterno per caratterizzare la differenza fra diritto e
morale. Se la morale riguarda le intenzione, il diritto riguarda solo le azioni
esteriori. Illuminismo filosofico è espressione di questa posizione.
c) Con l‟avvento e la diffusione delle codificazioni, la riflessione teorica sul diritto
diventa sempre meno filosofica e sempre più giuridica. I temi centrali della
filosofia del diritto diventano diversi: l‟obiettivo di quella che verrà chiamata la
Teoria Generale del Diritto è di rintracciare le categorie giuridiche fondamentali
ad un sistema giuridico (ad esempio, quello tedesco). Varianti della Teoria
Generale del diritto sono la General Jurisprudence – affermatasi prevalentemente
in Inghilterra (da Bentham a Austin a Hart) e la sua versione continentale e cioè la
Teoria del Diritto (Kelsen). L‟obiettivo di queste riflessioni è di ricostruire
l‟ossatura scheletrica del diritto: e cioè gli elementi comuni a tutto il fenomeno
giuridico a prescindere dal luogo concreto in cui il diritto è stato posto in essere.
In questo contesto nascono la riflessione sulla norma giuridica, sulla sanzione, sul
sistema giuridico.
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d) Altra tematica è quella dell‟interpretazione e del ragionamento giuridico. Tematica
di cui si è avuta un‟ampia letteratura nell‟ultimo trentennio e che appartiene al
corso di logica e metodologia.
e) Ultima questione è quella del rapporto fra filosofia del diritto e altri rami del
diritto. Se nella prima parte del Novecento il diritto penale costituiva il paradigma
di riferimento privilegiato di riflessione (da qui gli scritti sulla pena, sulla
responsabilità) e se poi il diritto privato è diventato l‟interlocutore privilegiato
nella riflessione su alcune categorie giuridiche fondamentali (il diritto soggettivo, il
ragionamento analogico, etc…), oggi il costituzionalismo sembra essere conteso
fra costituzionalisti e filosofi. I temi classici del diritto naturale, del rapporto fra
diritto e giustizia, diritto e valori, diritto e politica ritornano all‟interno di una
riflessione che ruota intorno alla costituzione. Noi dedicheremo una parte del
corso rilevante a questo tema.
ALTRI METODI: sociologico, storico, antropologico; giuridico.
Punti di vista sul diritto: il diritto può essere approcciato da vari punti di vista.
a) Sociologia del diritto: Se studio l‟impatto sociale che un istituto giuridico
produce ovvero le connessioni fra istituzioni sociali e diritto il mio approccio è del
sociologo del diritto. Ad esempio decido di studiare alcune fenomeni tipici del
diritto famiglia con l‟intento di ricostruire l‟evoluzione dell‟istituzione (sociale)
familiare. Posso chiedermi: la normativa in materia di divorzio o di successione su
che presupposti sociali riposa? La sociologia è una scienza relativamente recente
(specie se comparata alla scienza dell‟etica o alla filosofia teoretica) e nasce solo a
seguito della Rivoluzione per l‟effetto congiunto di un duplice cambiamento
verificatosi nell‟oggetto e nel metodo della politica. Quanto all‟oggetto: nel corso
del Seicento comincia a distinguersi nettamente la società dallo Stato. Nel
contrattualismo razionalista di Hobbes, Hooker, Locke, si ipotizza una società
prima dello stato. In questo modo la scienza della società diventa pensabile in
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termini distinti dalla scienza delle istituzioni politiche. Quanto al metodo: il
metodo empirico, basato sull‟osservazione dei fatti e sulla loro conoscenza
avalutativa è frutto della rivoluzione newtoniana. Charles de Secondat, barone di
Montesquieu (1689-1755) è ritenuto un iniziatore di questo approccio al
fenomeno del diritto. Nella sua opera capitale Lo Spirito delle Leggi M. studia le
istituzioni giuridiche in relazione alle società che esprimono le medesime (la
Turchia, la repubblica di Venezia, etc..) per poi arrivare a formulare delle
proposte.
b) Metodo storico: consiste nella ricostruzione della storia del diritto (storia del
diritto romano, storia del diritto italiano): attraverso la storia sia dei documenti
normativi che delle cd. fonti di cognizione.
c) Antropologia giuridica. Altro punto di vista può essere quello antropologico: il
fenomeno giuridico è studiato come espressione di una certa cultura o di un certo
tipo di uomo. Si pensi agli studi sugli istituti giuridici di culture diverse o si pensi
anche al tentativo di rintracciare categorie costanti – sia giuridiche che sociali che
antropologiche – pur al variare delle culture (Claude Levi Strauss). In linea di
massima, l‟antropologia giuridica prospetta una visione relativista del diritto,
strettamente dipendente dalla cultura da cui esso è prodotto.
d) Punto di vista giuridico: lo studio del diritto che abbiamo nelle facoltà di
giurisprudenza ha alcune peculiarità. Intanto la finalità dello studio è quasi sempre
di tipo pratico: esso mira ad insegnare il diritto – per come è scritto nei codici e
nelle leggi ed interpretato dalla giurisprudenza - per applicarlo.
1) Scienza giuridica e livello di generalizzazione
Le indagini della scienza giuridica possono essere distinte sulla base del livello di
generalizzazione in cui si svolgono. Nel nostro tempo, poiché il diritto positivo è
fenomeno storico e, quindi legato a forme contingenti e mutevoli, la scienza giuridica
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ha sviluppato tre livelli di riflessione: la domgmatica giuridica, la teoria generale del
diritto e la teoria del diritto o general jurisprudence.
La Dogmatica Giuridica è lo sguardo giuridico sul diritto: essa ha il compito di
interpretare le disposizioni giuridiche, usando due metodi che concorrono a definire
questa forma giuridica di conoscenza. Il metodo esegetico è diretto alla ricognizione
del significato delle disposizioni normative nel loro senso letterale e logicogrammaticale. Il metodo sistematico è più costruttivo ed è rivolto a ridurre la
molteplicità della materia giuridica in forma unitaria, in modo da permettere la
padronanza logica dell‟oggetto da conoscere mediante la sua trasformazione in
concetti (la fattispecie giuridica, le situazioni giuridiche e le vicende). I concetti
dogmatici così elaborati, a loro volta, tendono a rimodellare la prassi giuridica,
influenzando la produzione, l‟interpretazione e l‟applicazione del diritto positivo. La
dogmatica giuridica costituisce la forma mentis del giurista del nostro tempo.
La Teoria Generale del Diritto: La teoria generale del diritto – che verrà studiata
più in dettaglia successivamente – si occupa di individuale le categorie fondamentali di
un sistema giuridico dato. Essa dunque va di pari passo al processo di accentramento
statale della funzione giuridica e alla giuridificazione progressiva dell‟apparato statale. I
concetti comuni a tutti i rami di un ordinamento giuridico – quali la norma, la sanzione,
il sistema, etc… - sono molto generali. Essi tuttavia rimangono ancorati ad un
ordinamento giuridico concreto (il diritto tedesco, il diritto italiano).
Il successivo livello di astrazione è compiuto dalla Teoria pura del diritto e dalla
General Jurisprudence: il cui scopo è di elaborare concetti universali comuni al
fenomeno giuridico tout court e non a questo o a quel sistema giuridico.
Filosofia del diritto: si è visto che la filosofia del diritto è stata intesa in modi alquanto
diversi, che il suo oggetto e le sue relazioni con la scienza del diritto sono definiti in
modo diverso a seconda della scuola. Ma vi è una ragion d‟essere propria della filosofia
del diritto?
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La scienza giuridica come viene studiata nelle facoltà di giurisprudenza ha in sé qualcosa
di insoddisfacente, di incompleto. Riposa su principi di cui essa omette di dare una
giustificazione razionale (Villey 2007, 6). Ad esempio, i civilisti ammettono come
presupposto al loro lavoro che la legge sia la massima fonte del diritto. Ma questo ed altri
principi sono tutt‟altro che pacifici e incontestabili (si pensi a quei sistemi in cui la legge
non è la fonte primaria tipo i sistemi di common law, di diritto cinese, di diritto
internazionale, etc..). Si può osservare che il legalismo dominante nella nostra cultura
giuridica trova le sue radici nelle dottrine del contratto sociale elaborate all‟inizio del
pensiero moderno da (Hobbes a Locke a Rousseau a Kant) e più o meno modificate da
altre dottrine nel diciannovesimo secolo.
Sono i filosofi a mettere in luce, esplicitare e formulare i principi sulla base dei quali si
strutturano le scienze giuridiche. Sicché il lavoro della filosofia del diritto è
essenzialmente lavoro critico. La filosofia del diritto ha dunque come prima finalità lo
studio critico dei principi dei sistemi giuridico scientifici. Se si ammette, ad esempio, che il
compito del diritto è di fare da arbitro fra valori concorrenti, si deve riconoscere che le
decisioni giuridiche si trovano inconsapevolmente fondate su principi assiologici, per
la cui esplicitazione è necessario ricorrere alla filosofia. I giuristi francesi del
diciannovesimo secolo erano calati in una visione del mondo individualistica. Il valore
che doveva essere difeso strenuamente era quello della libertà dell‟individuo. Se però
diamo uno sguardo alla Repubblica di Platone o alle opere di Comte o ai teorici del
diritto nazista o sovietico ci troviamo immersi in una visione del mondo radicalmente
capovolta dove la comunità, l‟umanità, il proletariato, il popolo etc.. sono collocati ad un
livello superiore rispetto all‟individuo isolato.
E ancora, sempre muovendo dal diritto civile, e con particolare riguardo alla teoria dei
beni, alcune culture proteggono specialmente il possesso di beni materiali mentre altre si
preoccupano di proteggere beni di carattere spirituale, come l‟onore,
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Per la scoperta dei principi che reggono i sistemi giuridici i metodi sono diversi. Noi
seguiremo due metodi incrociati.
Il primo è quello della storia delle dottrine. Il secondo è una riflessione sugli elementi
essenziali del diritto e sui suoi fini. La storia del pensiero giuridico ci illuminerà per
comprendere la discussione sui temi più generali, quali le caratteristiche essenziali del
diritto, i suoi fini, i suoi mezzi.
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MONDO ANTICO:
Nel mondo greco il concetto di diritto è strettamente connesso all‟idea di giustizia. Esiste
un solo termine dikaion per indicare entrambi i concetti. Il popolo greco fin da epoche
molto antiche ha tributato un culto speciale al nomos: questo termine non va tradotto con
legge scritta ma allude piuttosto ai costumi propri di una città, all‟ordine sociale, al
diritto. Spesso il Greco si contrappone al Barbaro proprio per il rispetto del nomos, della
giustizia.
Il senso della giustizia si esprime inizialmente sotto forma mitologica: la giustizia compare
sotto vesti diverse: ora è Themis, dea della Giustizia, sovrana, prima di Apollo, del più
antico oracolo di tutta la Grecia. Temi è una delle più antiche dee della giustizia: essa è
espressione della giustizia trascendente che viene comunicata attraverso gli oracoli e
trasmessa da padre in figlio. Si tratta di una concezione aristocratica della giustizia che
gradualmente verrà soppiantata da Dike, la patrona dei tribunali, colei che punisce i
malfattori, Eunomia, dea dell´ordinamento legale, Eirene, dea della pace (secondo la
descrizione di Esiodo). Dike, invece viene dal greco deiknymi: indicare, mostrare, “che
mostra con autorità di parola ciò che deve essere.” Nelle Opere e i Giorni di Esiodo,
Dike è la giustizia razionalizzatrice accessibile a chiunque abbia uso della ragione e non
solo a chi sa interpretare gli oracoli. Dike è la giustizia democratica (Fassò).
Già fin dalle opere di Esiodo un tema ricorrente è quello della contrapposizione fra
giustizia (Dike) e Hybris (Potenza, ma anche prepotenza, eccesso). La Dike proprio
perché indica una misura – la giusta misura – è antitetica a quegli atteggiamenti che
misura non hanno.
La giustizia compare anche nelle vesti di Eunomia, Irene (la pace), Nemesis (la vendetta)
o le Erinni.
Atene è nel quinto e nel quarto secolo avanti Cristo una democrazia diretta. Ogni
cittadino partecipa alla vita pubblica: all‟agorà, al Consiglio (se eletto), esercita le funzioni di
magistrato, se estratto a sorte.
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Le discussioni sul diritto e la politica sono affari di tutti. Demostene, Isocrate, Lisia, i
grandi oratori si fanno carico di qualunque processo. Lo gestiscono senza tanti
tecnicismi. Lo stesso va detto per i tragici: Eschilo, Sofocle, Euripide. E per gli storici:
Tucidide e Senofonte. E naturalmente per i filosofi che spesso sono stati veri legislatori –
come Pitagora, Protagora e Platone.
LA TRAGEDIA: Le Eumenidi e la nascita del diritto.
Eumenidi è il titolo della tragedia di Eschilo che, con l'Agamennone e le Coefore, forma
la trilogia dell'Orestea, l'unica a noi giunta per intero di tutto il teatro tragico greco. Fu
rappresentata ad Atene nel 458 aC, ottenendo il primo premio. Nella prima tragedia,
Agamennone, è narrato il ritorno di Agamennone ad Argo dopo la vittoria a Troia, con la
prigioniera Cassandra, e la loro uccisione a opera della moglie di lui, Clitennestra, e del
suo amante Egisto. Nelle Coefore il giovane Oreste torna con l'amico Pilade ad Argo e,
sostenuto anche dalla sorella Elettra, vendica il padre uccidendo a sua volta la madre e il
suo amante. Perseguitato, nelle successive Eumenidi, dalle Furie del rimorso, le Erinni, si
rifugia a Delfi, quindi ad Atene viene giudicato da un tribunale istituito dalla dea Atena e
assolto. La decisione dell‟Aeropago spezza la catena di vendette e sancisce la definitiva
sottoposizione delle parti al diritto. Oreste non sarà più l‟esule errabondo, roso dal
rimorso e dalla rabbia. Le Erinni cesseranno di essere le persecutrici infuriate. La
decisione dell‟Aeropago termina in un primo momento con la parità: e sarà il voto
decisivo di Atena a stabilire l‟assoluzione di Oreste. Atena però offre alle Erinni di far
parte della città: di essere incorporate nell‟organizzazione cittadina, purché si trasformino
in Eumenidi, in benevole. In altri termini: il diritto nasce non solo quando la contesa
viene stabilita e risolta da un arbitro imparziale (L‟Aeropago) al termine di un processo,
ma anche e soprattutto quando le parti contendenti accettano di sottoporsi alle regole del
gioco: Oreste si fa processare; le Erinni rinunciano alla persecuzione dell‟imputato e
diventano Benevole.
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Poco importa, ai nostri effetti, che la sentenza sia di assoluzione. Questo non sta a
significare che la vendetta è ammissibile. Oreste è assolto perché ha ucciso la madre per
vendicare il padre, e Apollo, in sua difesa, ha ricordato ai giudici una regola nella quale i
greci credevano fermamente: il vero genitore è il padre, la madre ha un ruolo del tutto
secondario nella riproduzione (Atena sembra confermare la regola quando afferma di
essere nata dal solo padre). Nel momento del giudizio, dunque, alla contrapposizione
vendetta-diritto si sostituisce la contrapposizione principio paterno - principio materno.
Ma quel che a noi importa non è la motivazione della sentenza. È il fatto che Oreste sia
stato giudicato da un tribunale dove siedono dei giudici imparziali che, come dice Atena,
giudicheranno con equità. Giudici - dunque - diversi dai parenti vendicatori, persone
totalmente estranee ai fatti e dunque imparziali perché non animati da sentimenti di
vendetta. A questo punto, le Erinni smettono di perseguitare Oreste. Atena ha promesso
loro i dovuti onori, a condizione che si plachino, che rinunzino all'odio e accettino i
valori nuovi e diversi della polis. E le Erinni, convinte dalla pacata razionalità di Atena,
accettano la sua proposta, trasformandosi in Eumenidi, dee pacificate e benevole,
simbolo della giustizia cittadina e della regola di diritto che ha sostituito la vendetta
privata (Eva Cantarella).
L‟Antigone di Sofocle ci prospetta una tematica parzialmente diversa dove però lo
stretto legame fra diritto e giustizia viene confermato. La storia è nota. Antigone vuole
dare sepoltura al fratello sebbene un decreto del Re Creonte vieti di dare sepoltura ai
nemici. Antigone obbedisce alle leggi del cuore, le leggi religiose e trasgredisce alle leggi
dell‟autorità politica. Non si tratta di un conflitto fra diritto naturale e volontà regia ma di
un profondo e tragico conflitto fra due concezioni di giustizia: quella che ci impone di
obbedire alle leggi religiose (e dare sepoltura) e quella che ci impone di rispettare le
norme poste a tutela dell‟ordine della città (il nemico non va seppellito per timore che si
attivi un culto dei morti per il nemico – martire e si metta a repentaglio la sicurezza della
città). Il conflitto è fra la legge del cuore (a cui non si può non obbedire) e la legge della
città (che tuttavia ha una sua razionalità). La regola di non dare sepoltura ai nemici non è
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infatti una regola senza senso (essa ad esempio ha la finalità di prevenire che si diffonda
un culto del nemico morto e fenomeni di martirizzazione). Ma la legge del cuore – quella
di dare sepoltura al fratello – si impone non perché più razionale ma perché più potente,
più forte. Questo tratto – delle profonde radici piantate nell‟intimo umano dalla legge di
natura – contraddistingue tutto il giusnaturalismo antico.
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LEZIONE II
PLATONE
Platone, nato ad Atene nel 428 a.C. e morto nel 347 a.C., fu discepolo di Socrate ma a
differenza di costui che era di origini umili, Platone apparteneva ad una famiglia
aristocratica. Il sapore aristocratico ed elitista è rintracciabile nelle sue opere e
specialmente nelle opere politiche.
Le opere politiche fondamentali di Platone sono la Repubblica, Il Politico e le Leggi.
Platone fu anche politico e legislatore ma ebbe poca fortuna. Fu chiamato come
consigliere a Siracusa da Dionisio il Vecchio che tuttavia tenne in considerazione così
poco e sue idee che lo vendette come schiavo. Fu riscattato e ritornò ad Atene dove
fondò l‟Accademia – Scuola filosofica. Parimenti sfortunato fu il ritorno a Siracusa a
fianco di Dionisio il Giovane.
La giustizia.
Per Platone la giustizia (dikaiosyne) è virtù totale. Mentre noi siamo abituati ad intendere
la giustizia come quella virtù che regola i rapporti intersoggettivi (non diciamo che
qualcuno sia ingiusto se non con riferimento a qualcun altro), per Platone le cose stanno
diversamente. Noi distinguiamo il giusto e il buono, Platone no. Ad esempio, noi
diciamo che è giusto adempiere un contratto e dunque è giusto pretendere
l‟adempimento. Tuttavia possiamo allo stesso tempo dire che è bene (il sommo bene)
rimettere i debiti altrui. Sicché il creditore – (magari uomo ricco) che rivendica
l‟adempimento di un contratto agisce secondo giustizia: ma, al ricorrere di certe
circostanze (magari lo stato di bisogno economico del debitore) sarebbe più buono (dal
punto di vista morale) se rinunciasse all‟adempimento e rimettesse il debito. La giustizia
per noi, seppure importantissima, non è il sommo bene.
Per Platone non è così. Giustizia, per Platone, è perfetta armonia degli elementi
dell’anima. L‟uomo è da un lato passioni e conflitto di passioni (anima concupiscibile e
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anima irascibile), sensibilità e corporeità, e dall‟altro è la capacità di porre equilibrio fra le
passioni, governando se stesso.
Prima di illustrare la propria teoria del giusto, Platone – per bocca di Socrate – passa in
rassegna varie concezioni tradizionali di giustizia.
La prima è quella di Simonide: giustizia è restituire ciò che si è ricevuto. Dare a ciascuno
ciò che gli è dovuto.
Socrate rifiuta questa idea in quanto presuppone che giustizia consista nel dare un
vantaggio ad un amico ed infliggere un danno ad un nemico: ma, continua Socrate, non è
mai giusto infliggere un danno.
Poi è la volta di Trasimaco: “giustizia non è altro che l‟utile di chi è superiore”
(Repubblica 648-49). E cioè: “E ogni governo pone le leggi che gli siano vantaggiose: le
democrazie democratiche, la tirannide tiranniche. ..Con ciò sono venute a dichiarare ai
sudditi che questo è giusto, ciò che è utile a loro stesse, e puniscono chi non vi si attiene
come trasgressore e operatore di ingiustizia. Questo dunque, ottimo uomo, io dico che è
il giusto: …quel che è utile al governo costituito.”
Per Glaucone le leggi vengono poste in essere come soluzione di compromesso fra due
bisogni umani: evitare il più possibile di subire ingiustizia (svantaggi) ma poter fare
ingiustizia ad altri senza subirne il fio.
Platone asserisce che per comprendere la giustizia all‟interno di ciascun individuo
occorre guardare alla città nel suo insieme. Come nella città vi sono varie parti – i
filosofi, i guerrieri, e i commercianti e gli artigiani – così nell‟anima vi è l‟aspetto
razionale, quello impulsivo e quello appettitivo. Il primo attiene alla sofia, la sapienza, il
secondo al coraggio, il terzo al soddisfacimento dei sensi. Nella Repubblica, Platone
disegna una città ideale in cui la guida spetta ai filosofi. Sono costoro che riescono ad
uscire dalla caverna (il luogo oscuro in cui la maggior parte degli individui vivono e che
simboleggia l‟ignoranza) e vedere le cose in modo chiaro. Il governante dunque deve
essere educato allo studio della filosofia. Non esiste una scienza politica che sia distinta
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da quella speculativa. Siccome compito del diritto è svegliare gli uomini verso la virtù le
funzioni pedagogiche vanno di pari passo a quelle politiche. La città prospettata dalla
Repubblica è per noi abbastanza spregevole. I beni sono in comune, le famiglie devono
sciogliersi, i figli devono essere allevati in comune e sottratti ai genitori naturali, le classi
sociali devono mantenersi nel breve periodo e a questo fine è necessario somministrare
ai cittadini una nobile menzogna: la menzogna che dice che siamo diversi mentre in
realtà siamo tutti uguali.
Nel corso della Repubblica veniamo ad apprendere quali siano le qualità richieste al
legislatore filosofo: nei libri V, VI e VII, è illustrata l‟educazione dei futuri custodi
destinati al reclutamento dei filosofi: lunghi studi di matematica, quindi di dialettica, studi
grazie ai quali si può svincolare dalle forme sensibili ed elevarsi al vero essere, alle idee.
Il settimo libro della Repubblica è dedicato al medesimo obiettivo (la formazione dei
custodi della città) attraverso la famosa allegoria della caverna. I prigionieri della caverna
non vedono che le ombre delle cose. Ma attraverso una dura ascensione, che è figura
della dialettica, alcuni evadono dalla caverna e riescono a percepire le cose nella loro
verità e il sole che le illumina (il bene, la giustizia, Dio). Questo è il metodo imposto
all‟uomo politico per la scoperta del giusto (Villey, 28). Pensate quanto è diversa questa
teoria da quella di oggi!
“Come unico uomo è simile Stato. Se, ad esempio, ci siamo feriti un dito tutto
l‟insieme del corpo e dell‟anima tutto accordato sotto il governo unico del principio che
dà armonia, sente dolore e soffre insieme alla parte colpita, ed è proprio per questo che
diciamo di avere male al dito[…]. Lo Stato migliore è lo Stato che più assomiglia
all‟uomo singolo” (Repubblica 462c-d)
Nelle Leggi questa teoria riceve addirittura una coloritura religiosa. E‟ sotto l‟ispirazione
divina che il filosofo, innamorato del mondo delle idee scopre le leggi.
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Individuando nell‟ideale le fonti del diritto, quindi ben lontano dal mondo come è,
Platone concepisce norme giuridiche molto esigenti, molto lontane dalla prassi, e quindi
un diritto pesantemente normativo (Villey 29). Da qui, il carattere utopistico
dell‟impalcatura platonica.
La teoria della giustizia di Platone sembra mal conciliarsi con l‟idea di giustizia giuridica
che noi tipicamente abbiamo (la giustizia correttiva o la giustizia distributiva): una
giustizia che presuppone un rapporto intersoggettivo. E tuttavia Platone non si esime dal
parlare del diritto.
Lo fa sia nella Repubblica ma soprattutto nel Politico e nelle Leggi, sebbene lo faccia in
termini diversi dai nostri. Platone infatti si interessa di più alla scienza politica che al
diritto.
Cosa pensa Platone della legge? Nella Repubblica la legge che consiste nella regola
generale valevole per tutti i casi e per tutti i soggetti indistintamente – inclusi i governanti
– costituisce un intralcio pernicioso all‟attività dei filosofi. Pensiamo alla differenza che
corre fra risolvere una questione quando si presenta valutando tutte le circostanze del
caso e scegliendo di volta in volta la regola migliore e invece applicare una regola
generale al caso concreto. Se disponiamo di re filosofi e di giudici filosofi – dice Platone
– è meglio evitare di dettare leggi scritte.
Poi però nelle opere successive cambia atteggiamento. Dice Platone nelle Leggi:
“Ho qui chiamati servitori delle leggi quelli che ordinariamente si chiamano governanti, non per
amore di nuove denominazioni, ma perché ritengo che da questa qualità soprattutto dipenda la
salvezza o rovina delle città. Difatti dove la legge è sottomessa ai governanti ed è priva di autorità, io
vedo pronta la rovina della città; dove la legge è signora dei governanti e i governanti sono i suoi
schiavi, io vedo la salvezza delle città e accumularsi su di essere di tutti i beni che gli dei sogliono
largire alle città”.
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In questa prima accezione: governo del diritto significa: sottoposizione dei governanti
alla legge. In altri termini: coloro che hanno la guida di una città devono esercitare le
proprie funzioni di governo seguendo leggi a cui sono sottoposti. In caso contrario la
città va in rovina.
Si noti però che Platone arriva a queste conclusioni non perché ritenga di per sé
eccellente il governo della legge. Infatti, in un modello ideale sarebbe preferibile che
governino gli uomini saggi (come prospettatoci nella Repubblica). Il governo delle
leggi è solo un second best: e cioè un ripiego dettato da ragioni pragmatiche. Siccome è
difficile reperire uomini saggi, allora meglio sottoporre i governanti alla legge. Platone
riprende un tema, già discusso da Erodoto, della distinzione fra forme di governo
sulla base della distribuzione del potere. Vi sono tre forme di governo a seconda che
il potere sia concentrato nelle mani di un solo individuo, di pochi o di molti. Platone
spiega che ciò che conta non è tanto la distribuzione del potere, ma la soggezione di
chi governa alle leggi. Così se governa uno solo e costui è soggetto alle legge si ha una
monarchia, ma se costui non è soggetto alla legge si ha una tirannide (già Socrate ci
aveva fatto prospettato questa distinzione).
Certo neppure nel Politico al diritto è riconosciuto vero valore; in quanto a Platone
non sfugge il fatto che la “legge non potrà mai cogliere ciò che è il meglio e il più giusto
esattamente per tutti e stabilire così ciò che è perfettamente conveniente: giacché la differenza che c’è
fra i vari uomini e le varie azioni non permettono che nessuna arte definisca ciò che è valido
assolutamente per tutti i casi e per tutti i tempi” (Platone, Politico, 33, 294 b-c).
Nelle Leggi Platone riprende il tema già discusso nella Repubblica dello stato etico.
Le Leggi regolano ogni aspetto della vita dell‟individuo: la proprietà, i matrimoni, la
famiglia, l‟allevamento dei bambini, l‟insegnamento e perfino il gioco, l‟astronomia,
l‟amore, la religione, la musica, il teatro: tutta, insomma, la vita dell‟uomo (Fassò, 57).
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La legge ha una funzione eminentemente pedagogica. Se nella Repubblica veniva
prospettata l‟idea dell‟educazione di un‟aristocrazia intellettuale che facesse da guida
al popolo, ora è tutto il popolo che nel suo insieme va educato. La legge non
persegue finalità tipicamente giuridiche (tenere in equilibrio le relazioni umane,
distribuire responsabilità, risolvere e comporre conflitti) ma etiche. Il presupposto
dunque è che la legge abbia un contenuto morale: fondamento del diritto è la retta
ragione (logos orthòs, logos alethes) che scopre leggi universali che possano fare da guida
agli uomini: gli uomini, dice Platone, sono marionette mosse da impulsi che le tirano
di qua e di là, sul confine fra il bene e il male. Bisogna farsi tirare da uno solo di
questi fili: questo è il filo aureo e sacro del ragionamento che è chiamato legge
comune dello stato (Leggi, I, 13, 644 d 645 a). L‟educazione consiste nel tirare e
condurre i fanciulli alla retta ragione.
Il Minosse:
Il Minosse è un dialogo di un discepolo di Platone che tuttavia ne espone le tesi. Il
dialogo comincia con la domanda di Socrate al suo interlocutore: “Cos‟è la legge” e
l‟interlocutore risponde in termini che noi oggi definiremo giuspositivistici: “la legge è
la deliberazione dello Stato (dògma pòleos). Socrate obietta che possono esservi delle
deliberazioni dello Stato cattive mentre la legge deve, per sua natura, essere buona.
Vera legge, egli aggiunge, è soltanto la legge giusta.
Platone appartiene ad un filone del pensiero giuridico occidentale che non è mai
morto: e che si contraddistinte per la forte spinta utopistica, per l‟olismo, per la
commistione fra dimensione soggettiva e dimensione comunitaria, per ambizioni
troppo audaci. Lo spirito rivoluzionario che di tanto in tanto emerge in certi
movimenti politico giuridici sembra attingere a questa fonte. Il diritto non è
pienamente apprezzato. Platone è il meno giuridico dei filosofi politici.
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ARISTOTELE (Villey pp. 35 ss.)
Aristotele (384-322 a.C.) nacque a Stagira, in Macedonia e fu allievo di Platone ad Atene.
Visse poi in Asia Minore e in Macedonia dove fu chiamato dal re Filippo che gli affidò
l‟educazione del figlio Alessandro. Poi ritornò ad Atene dove fondò la sua scuola, il
Liceo. Anche Aristotele come Platone ha partecipato alla vita pubblica: non in modo
così diretto e appassionato come Platone (i giorni della democrazia Ateniese erano
tramontati) ma come consigliere di diversi regnanti (tra cui il tiranno Ermia, in Asia
minore), come educatore di Alessandro, come legislatore di Stagira ed infine come amico
di Antiprato (reggente in Macedonia e in Grecia).
Aristotele, però, fu essenzialmente un uomo di studi. Fu allievo di Platone ma
progressivamente si distanziò dall‟idealismo del maestro (amicus Plato, sed magis amica
veritas). Aristotele rivalutò l‟esperienza sensibile, l‟insegnamento che ci viene
dall‟esperienza.
Le opere principali di politica e diritto sono:
L’Etica Nicomachea (ed il quinto libro in particolare): in cui vi è un‟ampia trattazione
del concetto di giustizia
La Politica: in cui vengono illustrate le forme di governo e viene spiegato il valore delle
leggi
La Retorica: trattato dedicato all‟arte oratoria, in cui si dà ampio spazio all‟analisi
dell‟eloquenza forense. Vengono illustrati gli argomenti di cui può fare uso l‟avvocato,
come l‟appello al diritto naturale, alle leggi positive, all‟equità.
LEZIONE III
Definizione del diritto
19
A differenza di Platone che dà una definizione amplissima di diritto – come indistinta
dalla morale,
Aristotele ha il grande merito di averci offerto una definizione più
accurata. La metodologia è radicalmente diversa da quella platonica in quanto Aristotele
parte dall‟esperienza e dall‟osservazione del linguaggio, che è riflesso dell‟esperienza.
Aristotele esplora il senso del termine dikaion – che noi possiamo tradurre sia con giusto
che con diritto. Aristotele partendo dall‟suo che si fa del termine riesce a tracciare dei
concetti distinti di diritti e giustizia seppure connessi in qualche modo.
La giustizia:
Si è visto che per Platone la giustizia coincide genericamente con la virtù. Aristotele non
ripudia questo concetto amplissimo di giustizia (anche la temperanza, o il coraggio
vengono talvolta qualificati come giustizia), ma vi affianca un concetto particolare di
giustizia.
L‟oggetto proprio della giustizia particolare è: dare a ciascuno il suo: suum cuique
tribuere. Bisogna procedere ad una adeguata divisione dei beni, in modo che ognuno
non riceva né di più né di meno di ciò che esige una giusta misura. Aristotele applica
anche in questo caso la sua teoria generale della virtù come ricerca del giusto mezzo:
ma qui il giusto mezzo è nelle cose stesse, che sono distribuite a ciascuno in una quantità
né troppo grande né troppo piccola: ma intermedia fra i due estremi opposti.
Lo scopo che Aristotele si prefigge è quello di ottenere o di preservare una certa armonia
sociale, di perseguire ciò che il filosofo chiama un‟eguaglianza, un‟ison. Per comprendere
in che cosa consista questa eguaglianza è utile distinguere due diverse operazioni, in
entrambe le quali entra in gioco la giustizia. Aristotele distingue fra due forme di
giustizia: la giustizia distributiva e la giustizia correttiva o commutativa. La giustizia
distributiva per Aristotele ha una funzione superiore, ma noi cominceremo dalla
commutativa.
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a) Giustizia commutativa o correttiva: La giustizia controlla la correttezza degli
scambi. Supponiamo che tutti i beni, gli onori, le cariche pubbliche siano stati
distribuiti secondo la formula che verrà indicata di seguito (al punto b). Può
capitare che questo equilibrio venga turbato, perché viene sottratta ad un
patrimonio una frazione che gli era stata attribuita. Bisogna allora correggere
questo squilibrio (giustizia correttiva: dìkaion diorthotikòn), il che si può fare solo
restituendoti un biglietto di banca equivalente a ciò che hai perso. L‟operazione, in
fin dei conti, corrisponde ad uno scambio (commutazione, synallagma). Questo tipo
di giustizia – detta correttiva o commutativa – è quella che viene utilizzata nel
diritto per ripartire le responsabilità. Nel diritto privato, ad esempio: in un
contratto se entrambe le parti adempiono si ha un equilibrio. Ma che succede se
una parte dopo aver ricevuto la prestazione dell‟altro contraente non adempie?
Cosa succede se dopo aver stipulato un contratto di acquisto e ricevuto un bene
l‟acquirente si rifiuti di pagare il prezzo? E poi, al di fuori del contratto: cosa
succede quando qualcuno causa ingiustamente un danno ad un altro soggetto
(per esempio mi incendia la casa o mi investe con la macchina causandomi dei
danni fisici). In tutti i casi noi diciamo che la parte non inadempiente o la parte
danneggiata hanno diritto al risarcimento del danno. E perché? In virtù della
giustizia commutativa o correttiva: l‟ordine violato va ripristinato. Lo stesso vale
anche nel diritto penale, in cui infliggendo la pena al colpevole si restituisce
l‟equilibrio violato attraverso il crimine.
Ma, ed è questo il nostro secondo tema, in che cosa consiste questo
equilibrio? Eccoci arrivati alla seconda nozione di giustizia, che però costituisce
un prius da un punto di vista logico:
b) Giustizia distributiva: Il compito principale della giustizia è quello di presiedere
alla distribuzione dei beni, degli onori, delle cariche pubbliche tra i membri della
collettività. E‟ in questo ambito che essa soprattutto opera.
Ma in che modo effettuare una distribuzione giusta? Aristotele non ammetterebbe
mai che tutti gli individui e tutte le sue situazioni sono identiche. Dice Aristotele:
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“il giusto è qualcosa ed è relativo a certe persone: dicono pure che deve essere
uguale in rapporto a persone eguali” (La Politica¸libro III, cap. 9, 1282b). Qui però
nasce una domanda difficile: eguali sotto quale aspetto? Questo dipende da quali
cose si intende distribuire e dalle virtù pertinenti a tali cose. Supponiamo di dover
distribuire flauti; a chi dovrebbero toccare gli strumenti migliori? Risponde
Aristotele: ai più bravi nel suonarli.
La giustizia discrimina in base al merito, in base all‟eccellenza pertinente alla
situazione: e quando si tratta di suonare il flauto è la capacità di suonare bene. Si
noti che noi probabilmente accetteremmo il criterio di ripartizione dei flauti
suggerito da Aristotele perché dando i flauti ai migliori suonatori la musica che ne
uscirà sarà la migliore e noi tutti ne trarremmo vantaggio. Ma Aristotele segue un
altro modo di ragionare (Sandel 210). La sua idea è che gli strumenti migliori
debbano andare ai flautisti migliori perché i flauti sono fatti per questo: per essere
suonati bene. Il fine dei flauti è di produrre musica eccellente; chi ha le migliori
possibilità di realizzare questo fine ha diritto a ottenere i flauti migliori.
Il modo di ricavare il criterio per la corretta distribuzione di un bene suggerito da
Aristotele si ottiene ragionando sul fine che quel medesimo bene da distribuire si
propone di ottenere. Si tratta di un esempio di ragionamento teleologico (telos
significa scopo). Aristotele afferma che per determinare la giusta maniera di
distribuire un bene dobbiamo indagare sul telos, lo scopo del bene che si intende
distribuire.
Noi questo modo di ragionare suona un po‟ strano: noi difficilmente parliamo
dello scopo di qualche bene (la domanda sullo scopo del flauto ci sembra un po‟
strana). Nel mondo antico però questo pensiero era molto radicato: Platone ed
Aristotele credevano che il fuoco salisse verso l‟alto perché mirava a raggiungere il
cielo, la sua dimora naturale, e che le pietre cadessero perché tendevano ad
avvicinarsi alla terra a cui appartenevano. Questo modo di ragionare lo troviamo
oggi spesso nei bambini che attribuiscono fini ed intenzioni agli oggetti inanimati:
cosa vuole il mio orsacchiotto? Perché è caduto? Perché si è sporcato? Ma nel
22
pensiero adulto sembra assolutamente inappropriato almeno per le questioni
poste dalle scienze naturali. Ma questo modo di ragionare può avere ancora un
qualche valore in materia di etica e di politica. Infatti, mentre non ha molto senso
chiedersi quale sia lo scopo ultimo di un albero o di una motocicletta, la domanda
è pertinente se riferita alle istituzioni o alla comunità politica.
Digressione:
Qual è il telos di una università?
Da qualche decennio in America i test di ingresso in alcune università americane
(per altri versi rigorosissime) riservano alcune quote a cittadini di etnie
svantaggiate. Una quota è riservata ai neri o agli ispanici, per esempio. Può
dunque accadere che un bianco ottenga un punteggio in assoluto maggiore di un
nero e tuttavia venga escluso dalla selezione a vantaggio di colui che appartiene
alla categoria protetta. Queste pratiche si chiamano di affermative action. Ora,
comunemente la discussione viene condotta in termini di giustizia retributiva (vedi
sotto): siccome alcune categorie hanno subito torti dalla società bianca è giusto
che oggi ricevano una riparazione i cui costi ricadano su individui della razza per
secoli avvantaggiata. Oppure l‟argomento può essere utilitarista: la società si
avvantaggia di una elita mista e solo garantendo un accesso preferenziale a certe
categorie svantaggiate si può raggiungere questo obiettivo.
Se invece utilizziamo l‟argomento aristotelico, dobbiamo muovere da una
domanda diversa: qual è il fine di una università? Come spesso accade il telos
non è di evidenza immediata. Alcuni sostengono che le università esistono per
promuovere l‟eccellenza negli studi, e che il fatto che un certo studente prometta
una buona riuscita accademica dovrebbe essere l‟unico criterio di ammissione.
Secondo altri le università hanno anche la funzione di servire determinati obiettivi
civili, per cui uno dei criteri di ammissione dovrebbe essere la capacità di
diventare un leader in una società mista. Definire il telos di una università sembra
essenziale per definire i criteri di ammissione opportuni, e questo mette in luce
23
l‟aspetto teleologico di ciò che è giusto quanto si tratta di iscrivere gli studenti
all‟università (Sandel 215).
In stretta connessione con il dibattito circa le finalità di una struttura universitaria
sorge l‟interrogativo circa l‟onore: quali sono le virtù che è opportuno siano
onorate e premiate dalle università? E‟ probabile che coloro che ritengono che lo
scopo dell‟università sia semplicemente quello di promuovere l‟eccellenza siano
contrari alle politiche di discriminazione positiva, mentre chi crede che queste
istituzioni siano chiamate a produrre ideali civili siano portate a sostenerle.
Questo modo di ragionare ci illumina sull‟attualità del pensiero aristotelico.
Quando ci troviamo di fronte a questioni di giustizia distributiva: quando cioè
dobbiamo distribuire cariche e onori, dobbiamo guardare al fine che l‟istituzione
cui le cariche attengono persegue.
Che cosa possiamo fare se c‟è dissenso sul telos o sullo scopo dell‟attività in
questione? E‟ possibile ragionare sullo scopo di un‟istituzione – ad esempio,
l‟università, oppure lo scopo è quello esplicitamente impresso dai propri fondatori
o dal consiglio direttivo? Aristotele è convinto che sia possibile ragionare sullo
scopo delle istituzioni sociali: la loro natura essenziale non è fissata una volta e per
tutte, ma non è neppure una semplice questione di opinioni (se lo scopo
dell‟Università di Harvard fosse quello dei fondatori, esso sarebbe ancor oggi solo
quello di formare ministri di culto della chiesa congregazionalista).
Come possiamo ragionare circa l‟obiettivo di una certa pratica sociale quando ci
troviamo di fronte al dissenso? E come entrano in gioco i concetti di onore e di
virtù? A questi problemi Aristotele presenta la sua risposta più meditata quando
riflette sulla politica.
Quel è il telos della politica?
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Quando noi oggi parliamo di giustizia distributiva., ci occupiamo in primo luogo
della distribuzione del reddito, della ricchezza, delle opportunità: per Aristotele la
giustizia distributiva non riguardava in primo luogo il denaro, bensì le cariche
pubbliche e gli onori. Mentre Platone identifica il giusto con la virtù, Aristotele
mette in evidenza un‟altra nozione di giusto che per lui è principale: il giusto è
piuttosto l’equilibrio realizzato nella collettività, fra i diversi individui liberi
che ne fanno parte. La collettività è composta da uomini liberi, che hanno
interessi diversi e che si disputano onori e beni: è tra costoro che entra in
gioco il giusto politico (diakaion politikon), la forma principale della
giustizia.
All‟interno di comunità più circoscritte della comunità politica non si può parlare
che impropriamente di giustizia. Per esempio, ci dice Aristotele, all‟interno della
famiglia non si può propriamente parlare di giustizia perché fra i membri della
famiglia non vi sono interessi contrapposti e distinti. Anzi, i figli appartengono al
padre e lo stesso può dirsi del servo. Quindi, per Aristotele, non c’è vero e
proprio diritto – perché non c’è vera e propria giustizia, all’interno dei
rapporti di famiglia o all’interno dei rapporti di lavoro fra padrone e
schiavo. Lo stesso può dirsi della filìa, dell‟amicizia: non vi è diritto all‟interno dei
gruppi amicali; così come non vi sarebbe vero e proprio diritto all‟interno della
città ideale di Platone dove la legge massima è la carità.
Quindi, per Aristotele, la giustizia (e poi il diritto), presuppongono un certo grado
di estraneità fra i soggetti fra i quali deve stabilirsi e mantenersi l‟equilibrio.
Non esiste dikaion, diritto, nel senso proprio del termine che nei rapporti fra i
cittadini. Pensiamo a quanto è diversa e molto più pervasiva la nozione di diritto
oggi: al modo pervasivo in cui il diritto regola i rapporti di famiglia, o i rapporti di
lavoro, o le associazioni private. Per Aristotele questo era impensabile: sono altri i
criteri che devono guidare la distribuzione all‟interno di comunità infra-politiche.
25
Ma torniamo al tema del fine della comunità politica: per Aristotele la giustizia
distributiva non riguarda tanto il denaro bensì la distribuzione di cariche
pubbliche e di onori. Chi deve avere il diritto di governare? Come si deve
assegnare l‟autorità politica?
A un primo sguardo la risposta appare ovvia: in base ad un criterio di eguaglianza.
Una persona, un voto. Ogni altra soluzione sarebbe una discriminazione.
Aristotele però ci ricorda che ogni teoria di giustizia introduce delle
discriminazioni. Il problema è di capire quali siano le discriminazioni giuste. La
risposta dipende dal fine dell‟attività a cui ci si riferisce.
Perciò, prima di rispondere alla domanda su come distribuire diritti e autorità
politica, occorre chiedersi: qual è il fine della associazione politica? Noi oggi
siamo riluttanti ad attribuire alla politica un fine in sé, in quanto siamo preoccupati
per la nostra libertà individuale. Noi preferiamo pensare che la politica non ha un
fine in sé, ma la pluralità di fini che di volta in volta i partecipanti (i cittadini) alla
vita politica si prefiggono. Noi consideriamo la politica come un insieme di
procedimenti che permettono alle persone di scegliere da sé i propri obiettivi.
Aristotele non la vede così. Il fine della politica non è stabilire un quadro di
diritti che sia neutrale fra i vari obiettivi, ma è formare buoni cittadini e
coltivare una buona indole.
Aristotele si oppone sia alla oligarchia che alla democrazia perché in entrambi casi
gli aspiranti al potere travisano il verso scopo dell‟autorità politica: che non è,
come sostengono gli oligarchi, esclusivamente la difesa della proprietà e del
benessere economico, ma che non è neppure quello di concedere alla
maggioranza di fare ciò che vuole, come sostengono i democratici (democrazia è
per Aristotele una concezione maggioritaria del potere).
Entrambe le parti non si curano del fine più alto dell‟associazione politica, che per
Aristotele è quello di coltivare la virtù dei cittadini: questi non sono riuniti in una
comunità “solo per vivere, ma per vivere bene […], né per un‟alleanza militare,
26
onde evitare possibili offese, né per scambi e affari reciproci” (Politica, Libro III,
cap. 9, 1280a). Il fine della politica è nientemeno che consentire alla popolazione
di sviluppare capacità e virtù caratteristiche dell‟essere umano: imparare a
deliberare per il bene comune, acquistare saggezza pratica, condividere le
responsabilità per l‟autogoverno, prendersi cura del destino della comunità nel suo
complesso. Tutti gli organismi infra-statali che hanno obiettivi meno ambiziosi
(scambi commerciali, ad esempio) non sono comunità politiche. (Oggi, per
esempio, la NAFTA, la NATO, etc…).
Se la comunità politica ha come obiettivo la vita buona, che cosa ne consegue per
quel che concerne la distribuzione delle cariche? Come per i flauti, così per la
politica. “Quanti giovano sommamente a siffatta comunità hanno nello stato una
parte più grande”. Aristotele si riferisce a coloro che eccellono nelle virtù civiche:
che sono i migliori per maturare decisioni per il bene comune. Coloro che
raggiungono il massimo grado nell‟eccellenza civile – non i più ricchi, non i più
numerosi, non i più avvenenti o i più virili (come sembra credersi oggi) – sono
quelli che meritano la maggior parte di riconoscimento e di influenza politica.
Dal momento che l‟obiettivo della comunità politica è la vita buona, le cariche e
gli onori di maggior rilievo dovrebbero andare alle persone come Pericle, che si
dimostrano i primi nelle virtù civiche e i più capaci nell‟individuare il bene
comune.
Siccome la comunità politica esiste per onorare e premiare la virtù civica,
allora gli onori e le cariche vanno attributi a persone come Pericle (o Abramo
Lincoln, o come molti dei nostri costituenti): non solo perché costoro guidano la
comunità verso il bene comune, ma perché costoro onorano al meglio il fine
proprio della politica.
Si può essere buoni cittadini senza prendere parte alla vita politica?
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Noi oggi riteniamo la politica il regno degli intrighi, o nel migliore dei casi un male
necessario. Mai diremmo che non si può essere veramente virtuosi al di fuori della
politica. Anzi, muoviamo dalla domanda opposta: si può essere virtuosi nella
politica?
Per Aristotele le cose stanno diversamente. Egli pensa che la partecipazione
politica sia in qualche modo essenziale per vivere una vita buona. Questo dipende
dalla natura dell‟uomo: solo se viviamo in una polis e partecipiamo alla politica
possiamo realizzare pienamente la nostra natura di esseri umani.
Diritto e morale
Si è visto che Platone identifica diritto e morale, nomos e dikaion. Lo sforzo di
Aristotele è di evitare questa confusione culmina nei capitoli otto e nove dell‟Etica
Nicomachea.
Senza dubbio Aristotele studia il diritto, il dikaion, studiando la giustizia; per lui la
scienza del diritto è una parte della scienza della giustizia, ma una parte ben
distinta.
Aristotele procede nella sua analisi col suo consueto rispetto per l‟esperienza.
Partendo dal linguaggio comune, Aristotele constata che si parla di giusto in due
accezioni. Vi è una differenza fra l‟essere giusto (al maschile e al femminile), e fare
il giusto (neutro): fra dikaios e to dikaion. Io posso compiere il giusto (to diakaion)
anche senza essere giusto.
La scienza del diritto – to dikaion – ha ad oggetto i risultati esteriori, l‟eguaglianza
nelle cose, nei rapporti fra i cittadini. Al moralista spetta di indagare le intenzioni.
Non che il giurista non si interessa minimamente delle intenzioni, ma le tratta in
via ausiliaria e dunque per l‟oggetto. Ius obiectum justitiae, dirà San Tommaso.
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Così il diritto si pone all‟interno della morale, ne è un aspetto, ma non si identifica
con essa. Il diritto riguarda le azioni, mentre la morale l‟intenzione.
Diritto naturale:
Aristotele mutua dai sofisti la distinzione fra il giusto per natura e il giusto per
convenzione. Nella prima nozione rientrerebbe il concetto di diritto naturale: ciò
che è giusto perché desunto dalla natura delle cose. Queste affermazioni, tuttavia,
vanno collocate nell‟ambito del pensiero aristotelico. Aristotele non parte da
assiomi, ma inferisce le leggi, incluse le leggi naturali, dall‟osservazione e
dall‟esperienza. Non si tratta dunque di idee chiare ed immutabili ma di precetti
desumibili dall‟esperienza. Per esempio lo socievolezza degli uomini è alla base di
un principio di diritto naturale. Ma la socievolezza degli uomini è desunta
dall‟esperienza. Il diritto è parte derivante dal giusto per natura (come la legge di
Antigone) ma in parte dalla convenzione (quando ad esempio si deve fissare la
misura del risarcimento). Addirittura Aristotele parla di un diritto naturale come di
quel diritto che rimane costante nella maggioranza dei casi. Siamo ben lontani
dalle concezioni moderne che ritengono il diritto naturale desunto dalla ragione in
via assiomatica.
Il diritto naturale antico al contrario non si fonda su una scissione fra mente e
corpo: il diritto naturale è la legge del cuore (di Antigone) e comunque quel
nucleo di precetti nei cui confronti esiste una naturale inclinazione.
Le leggi sono necessarie?
Si è visto che Platone è inizialmente piuttosto scettico sulla utilità delle leggi,
sebbene poi riconosca che le leggi sono necessarie per ragioni pragmatiche (per la
difficoltà di reperire re filosofi). Aristotele la pensa diversamente.
Il governo della legge è preferibile a quello degli uomini non solo per la difficoltà
di reperire uomini saggi (re filosofi), ma in assoluto. Quindi l‟alternativa
prospettataci da Aristotele non è fra leggi mediocri e uomini mediocri: ma fra
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leggi migliori e uomini migliori. Cioè: anche in presenza di Re filosofi è meglio
darsi delle leggi generali cui attenersi nell‟attività di governo.
Perché?
Aristotele offre tre argomenti a favore di questa opinione:
-
la legge prevedendo casi generali e non particolari non ha passioni (non
può essere condizionata da sentimenti di simpatia, odio, pregiudizio che
possono animare i giudizi su casi specifici);
-
la legge è deliberata da una moltitudine, ed è meglio la decisione presa da
una moltitudine (che attraverso la discussione ha meglio ponderato i pro e i
contro) che da un giudice solitario;
-
la legge è deliberata anche da chi la deve subire: ci dice Aristotele: i
migliori giudici non sono i produttori ma i consumatori, non i costruttori di
case ma coloro che le abitano, non i fabbricanti di navi ma coloro che le
guidano, non i cuochi ma i commensali (Aristotele, Politica, 1282a).
Quindi la risposta di Aristotele si può riassumere così: è preferibile che governino le
leggi migliori piuttosto che gli uomini migliori perché è più probabile che le leggi
migliori siano quelle prodotte dal discorso pubblico interno alla moltitudine dei
cittadini, in cui ciascuno può meglio rendersi conto delle opinioni degli altri e così
assumere un atteggiamento critico nei confronti delle proprie.
L‟ideale del governo della legge (l‟ideale che noi oggi definiamo Rule of Law) viene
ribadito in Aristotele nella Retorica: soprattutto occorrerebbe che delle leggi ben
stabilite determinassero esse stesse tutto quanto è possibile e lasciassero ai giudici il
meno possibile”. Infatti, continua Aristotele, le disposizioni legislative sono prese
dopo un lungo esame, invece i giudizi avvengono all‟improvviso. Si noti che la
30
contrapposizione fra la passionalità dei giudizi degli uomini e la spassionatezza della
legge dà luogo ad un altro topos della legge identificata con la voce della ragione
(prevedibilità, stabilizzazione delle aspettative, giustizia).
ERGO: il governo delle leggi è superiore al governo degli uomini perché le
scelte contenute nelle leggi sono verosimilmente migliori di quelle contenute
nei giudizi estemporanei. E cioè: è meglio decidere le questioni in astratto anziché
di volta in volta considerando tutte le circostanze del caso che possono trascinarci
fuori dai binari.
Sulla assenza di passionalità della legge, facciamo un esempio: pensiamo alla
differenza che corre fra decidere un caso concreto e un caso in astratto. Un
automobilista ha ucciso tre fratellini che attraversavano fuori dalle strisce. Che pena
dobbiamo prevedere se non ci fosse alcuna regola? La peggiore. Superiore a quella
prevista per colui che a sangue freddo uccide un altro uomo, magari un po‟ attempato
e magari un poco di buono. Ma il diritto ci dice di comportarci diversamente. Che un
conto è l‟omicidio colposo – sebbene porti a conseguenze terribili – e un conto è
l‟omicidio doloso. Per questo la legge non ha passioni, perché decide in anticipo,
prima che il caso si sia verificato e l‟emozione sia troppo vivida.
Certe volte ci chiediamo se sia giusto stabilire una regola sull‟onda dell‟emozione. Un
extra comunitario commette un delitto efferato. Pochi giorni dopo il parlamento
passa una legge che restringe fortemente i flussi migratori. E‟ soddisfatto il requisito
aristotelico? Questo spiega perché in occasione di leggi emanate sull’onda
dell’emozione (pensiamo al progetto di legge sul fine vita in procinto di essere
emanato durante il triste caso Eluana Englaro) ci chiediamo se lo stato di
diritto (la rule of law) non traballi.
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Il legislatore prudente:
Si noti che la necessità delle leggi è strettamente legata alla figura del legislatore: il
legislatore deve avere innanzitutto una virtù: la prudenza. La prudenza, dice
Aristotele nell‟Etica Nicomachea, è quella virtù intellettuale che decide in vista
dell‟azione, su situazioni contingenti, senza avere il tempo, né il modo di fornire
ragioni (libro VI, 5 1139b-1140a). E‟ la virtù per eccellenza del legislatore e del
giudice, che stabiliscono quale sia il diritto in ordine a circostanze particolari. La
politica e la prudenza hanno la stessa disposizione. La prudenza è nomo tetica, o
dicastica: cioè legislatrice e giudiziaria. Per questo i Romani parleranno di
giurisprudenza.
E‟ duplice il completamento che la decisione del legislatore porta al giusto naturale:
a) il legislatore pone una conclusione alla ricerca del giusto naturale, che altrimenti
durerebbe all‟infinito;
b) il legislatore aggiunge al diritto naturale dati contingenti: quelle determinazioni
precise che variano da cultura a cultura, da società a società (ad esempio se per un
delitto prevedere come risarcimento una capra e non due pecore o una certa
quantità di argento).
Forza obbligatoria delle leggi
Ci capita spesso di chiederci se le leggi abbiano forza obbligatoria: come dobbiamo
comportarci di fronte ad una legge palesemente ingiusta. Per Aristotele la legge è
obbligatoria nella misura in cui sia conforme al giusto naturale. Per quella
porzione di legge che non è conforme al giusto naturale ma che tuttavia viene
introdotta dal legislatore prudente l’obbedienza si fonda sulla necessità della
legge. Ma l‟autorità della legge ha anche dei limiti: limiti che derivano sia dalla
conformità della legge al giusto naturale ma anche dalla competenza di chi fa legge
nel farle.
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EQUITA’: Aristotele si pone il problema che in certi casi le leggi generali non si
adattano perfettamente ai casi concreti. Sicché i pregi della legge (e soprattutto
l‟assenza di passioni eccessive) possono essere vanificati o ridimensionati dalla
ottusità della legge (la cecità rispetto alle sfumature che il caso concreto impone).
Aristotele suggerisce un escamotage: se è vero che i giudici devono attenersi alle leggi
generali essi tuttavia sono autorizzati a decidere con una certa flessibilità, seguendo le
regole dell‟equità. L‟equità pone rimedio all‟ottusità della legge: la rende flessibile.
Questo significa che governo delle leggi in Aristotele non coincide con la rigidità assoluta
della legge, in quanto il sistema giuridico è innanzitutto funzionale al benessere dei
cittadini che è mischiato alla loro moralità (eudaimonia).
33
LEZIONE IV.
I Glossatori medioevali, Bracton: cenni.
In tutto il medioevo il diritto veniva insegnato nell‟Europa occidentale come un diritto
ideale, espressione di una giustizia universale. Ancora nel XVIII secolo, nella celebre
biblioteca della facoltà giuridica di Salamanca, gli scaffali dedicati al diritto spagnolo si
limitano ad una sola sezione e l‟essenziale è costituito invece da libri relativi alla teologia,
alla filosofia morale e al diritto naturale1. La teoria del diritto giusto non si curava né del
diritto positivo né del diritto comparato, e le fonti a cui il diritto ideale si ispirava erano,
in proporzioni che variano secondo gli autori, il diritto romano, ars boni ed aequi, gli scritti
dei giuristi teologi o dei giuristi filosofi che elaboravano un diritto naturale o razionale.
Il Medioevo – e specie il Basso Medioevo – è comunemente associato al pensiero
reazionario o all‟assolutismo imperiale. In realtà uno storico del pensiero politico inglese
– MacIllwain – rintraccia nel Medioevo le formulazioni più chiare a sostegno del
governo limitato. In un saggio scritto all‟indomani dello scoppio della seconda guerra
mondiale, il McIlwain, avvertendo ormai indilazionabile la scelta “tra le ordinate procedure
del diritto e i sistemi fondati sulla forza, che appaiono assai più rapidi ed efficienti”, così definisce il
Costituzionalismo: “Giova insistere sul fatto che il più antico, il più persistente e più duraturo dei
caratteri essenziali del vero Costituzionalismo resta ancora quello che era all’inizio, la limitazione del
governo mercé il diritto”; o, più sinteticamente: “Ogni governo costituzionale è per definizione un
governo limitato”. Un‟eguale osservazione possiamo leggere nelle pagine di un altro
costituzionalista americano, Edward Corwin, il quale, riallacciandosi ad Aristotele, scrive
“L’antitesi fra l’impulso dell’umano governante e la razionalità della legge costituisce, in realtà, uno dei
fondamenti su cui si basa la dottrina americana in materia di separazione dei poteri e, conseguentemente,
l’intero sistema americano del diritto costituzionale”.
Il principio della limitazione del governo attraverso il diritto è il carattere più antico e
più autentico del Costituzionalismo; e da questa tesi egli deriva la rivalutazione del
pensiero politico medioevale, che a molti potrà apparire sconcertante. Scrive infatti
1
C. Perelman, Logica giuridica e nuova retorica, Giuffrè, Milano, 1979, p. 5.
34
McIlwain: “Chi tenta di riferire il termine medioevale a qualcosa di reazionario, come certa gente senza
cervello ha oggi preso l’abitudine di dire, dovrebbe prima meditare (i testi). L’assolutismo politico è frutto
dei tempi moderni; il Medioevo non voleva saperne”. Nel Medioevo, infatti, troviamo solo le più
chiare apologie del governo limitato, ma, in armonia a queste, la più esplicita
rivendicazione del primato della funzione giudiziaria. Infatti la base sacrale del potere del
Re consiste unicamente nel dover rendere ai sudditi “un’equa giustizia”, perché “il compito
di giudicare appartiene a Dio, non all’uomo”; e, in tal senso, il Re, sommo giudice, era soltanto
un ministro e un servo di Dio. Come scriveva un vescovo del IX secolo, Giona di
Orleans: “Perciò è posto su questo trono di Re, per pronunciare giudizi giusti, in modo che provveda
personalmente e ricerchi con attenzione che nessuno nel giudizio si discosti dalla verità e dall’equità”.
Il Re, dunque, era la fontana della giustizia, il supremo giudice del suo popolo, la
persona in cui i diritti dei sudditi potevano trovare la loro naturale tutela e necessaria
garanzia. Ma la coscienza di questa altissima funzione, che rende addirittura il Re vicario
di Dio, si accompagna alla consapevolezza della profonda differenza fra il Re e i tiranno,
tra il servo di Dio e il ministro del diavolo. Basti pensare all‟ampio e duraturo
riconoscimento che otterrà, per tutto il Medioevo, la famosa osservazione di Isidoro di
Siviglia, un vescovo vissuto fra il VI e il VII secolo: “I Re sono così chiamati dalla funzione del
reggere. Infatti come il sacerdote è così chiamato dal santificare, così il Re dal reggere: ma non regge chi
non corregge. Pertanto agendo rettamente conserverà il nome di Re, peccando lo perderà. Donde presso
gli antichi c’era questo detto:< Sarai Re se ti comporterai con giustizia, altrimenti non lo sarai>”. Il
criterio per distinguere la correttezza del comportamento del Re era, infatti, il suo
rispetto della legge. Ad esempio, Giovanni di Salisbury, nel XII secolo, scrive nel
Policratus: “Fra un tiranno e un principe c’è questa sola o meglio essenziale differenza, che questo
ubbidisce alla legge, e secondo il suo comando governa il popolo, del quale si considera servitore. Infatti
l’autorità del principe deriva dall’autorità del diritto; e, in verità, più del potere è importante sottomettere
alle leggi il supremo potere; così che il principe non pensi che gli sia lecito ciò che si discosta dall’equità e
dalla giustizia”.
Quest‟idea del re soggetto al diritto è viva soprattutto fuori d‟Italia, perché l‟Italia
aveva a Bologna il centro degli studi giuridici fondati sul diritto imperiale e prevale
35
essenzialmente in Inghilterra dove per diritto si intendevano essenzialmente le
consuetudini osservate dal popolo. Il valore di queste era considerato pari alla legge
(Ranulfo di Glanvill, Tractatus de legibus et consuetudinibus regni Angliae).
Della convinzione, radicata nella coscienza inglese, del vincolo del re alle
consuetudini del paese, un‟espressione che storicamente ha avuto grandissima risonanza
è stata la Magna Charta; il documento firmato nel 1212 dal re Govanni Senzaterra, che
confermava e precisava solennemente i rapporti, da tempo osservati per consuetudine,
fra re e sudditi, garantendo la libertà di questi ultimi.
Un giurista inglese del XIII secolo, Henry Bracton – autore del De Legibus et
Consuetudinibus Angliae, - ribadisce il concetto della soggezione del re alla legge. Al re che
regna rettamente, scrive Bracton all‟inizio del suo trattato, sono necessarie oltre le armi,
le leggi: se mancassero le leggi, sarebbe distrutta la giustizia e non vi sarebbe chi operasse
un giudizio giusto. Vi è il rifiuto della massima di Ulpiano ripresa dai glossatori (quod
principi placuit legis habet vigorem). Il re è al di sopra dei suoi sudditi . però in quanto è
ministro vicario di Dio, non può far nulla se non, soltanto, ciò che è conforme al diritto
(quod iure). Ritorna il tema aristotelico secondo cui: “dove non sono sovrane le leggi non
vi è vero e proprio Stato”.
MEDIOEVO: TOMMASO D’AQUINO
San Tommaso è nato nel 1225 da un grande famiglia feudale di tendenza ghibellina in un
ambiente ostile alla politica della Chiesa. Destinato dalla famiglia ad entrare nella
venerabile abbazia benedettina di Montecassino, nel 1240, sfidando la violenta
opposizione dei familiari, decide di entrare nell‟ordine domenicano. Un ordine ancora
giovane e quindi ancora ardente e progressista.
La vita di Tommaso è stata piena di viaggi, anche se Tommaso fu soltanto un docente
universitario. Dopo i primi di anni di studio passati a Napoli, l‟ordine domenicano lo
36
mando a Parigi per perfezionarsi. Nel 1259 il Papa lo chiama alla corte pontificia a Roma
e a Viterbo, poi di nuovo a Parigi, poi di nuovo a Napoli presso la celebre università, in
cui il Papa vuole che venga continuato e cristianizzato il grande movimento dottrinale
cominciato da Federico II. Nel 1274 muore in cammino per Lione per partecipare ad un
concilio indetto dalla città.
La politica come arte di governo presuppone per Aristotele che si muova da certi
assunti:
a)
che l‟uomo è un animale sociale;
b)
che la politica è il luogo della discussione;
c)
che la vita politica sia superiore al perseguimento degli affari privati.
d)
Che la politica ha un fine: che è il bene della città.
Degenerazioni della politica sono quelle che vengono definite malgoverno: o perché si
tratta di un governo arbitrario, imprevedibile o capriccioso (da qui l‟auspicio della
sottoposizione del potere politico alla legge), o perché le finalità pubbliche vengono
sostituite con le finalità private del ceto al governo (fazioni, elites, interessi economici,
etc…).
Tommaso segue Aristotele nel vedere la politica come il luogo di realizzazione del bene
comune. E tuttavia Tommaso attenua il valore riposto sulla vita politica, segnando i
limiti della comunità medesima. Vero è che la comunità politica è completa e persegue
un bene che un di più della somma dei beni dei suoi membri e tuttavia la comunità
politica è limitata dalla comunità della chiesa.
Il governo è limitato in quattro modi:
a) È vincolato al rispetto di standard morali specialmente i principi di giustizia;
b) È vincolato da regole che concerno l‟attribuzione dei poteri (elezioni, rotazione
delle cariche, estensione dei poteri, etc…): la proposta istituzionale di Tommaso è
37
una forma di governo mista dove il monarca è affiancato da alcuni funzionari
capaci ma scelti dall‟elettorato;
c) È vincolato al perseguimento del bene comune anche a mezzo della coercizione.
Si noti tuttavia che Tommaso precisa che la coercizione non può essere utilizzata
per ottenere la virtù ma solo per reprimere quegli atti esterni di ingiustizia che
verosimilmente risultano nel disturbo della pace e della tranquillità. I beni pubblici
che lo stato persegue sono solo quelli che riguardano gli atti esterni – e in
un‟ultima istanza la giustizia e non la virtù.
d) L‟ultima limitazione concerne le prerogative della chiesa.
Limiti giuridici al potere politico:
Tommaso distingue fra potere regale e potere politico perché solo il secondo è un potere
sottoposto alla legge dello stato. Anzi, Tommaso definisce il potere politico come quel
potere, diremmo noi, che trova la sua fonte di legittimazione nella legge. Il potere regale
– illimitato – scioglie i cittadini dall‟obbligazione di obbedire alla legge.
La politica non ha ad oggetto tutte le virtù.
Nell‟interpretazione che ne dà John Finnis, Tommaso sembra discostarsi dal principio
sostenuto al termine dell‟Etica Nicomachea secondo cui la politica deve condurre l‟uomo
alla virtù. Anzi Tommaso è abbastanza scettico nei confronti delle leggi che vogliono
sradicare i vizi privati: la coercizione va limitata a quei vizi che hanno effetti sugli altri: la
politica, e ancor più il diritto, riguardano la giustizia e non la virtù privata. Sicché
Tommaso si discosta dalla politica paternalistica.
Diritto
Tommaso attribuisce al diritto quattro caratteristiche.
38
a)
il diritto è un appello alla ragione
E‟ un progetto di coordinamento attraverso la cooperazione libera degli individui.
Il legislatore non si limita a trasporre alla lettera i dettami della legge divina o della legge
naturale. La legge naturale infatti va concretizzata: non solo per deduzione ma anche
per determinazione.
b)
diritto e bene comune
Diritto: LA LEGGE è UNA REGOLA O MISURA DELL’AGIRE PER CUI SI è
INDOTTI AD UN’AZIONE O STORNATI DA ESSA.
In questa definizione due sono gli elementi di rilievo:
-
la funzione regolatrice e normativa della ragione (ordinatio rationis)
-
gli effetti sul regolato, per cui la legge si presenta come principio guida
dell‟azione e spinge ad un comportamento conforme.
Si noti che siccome il legislatore – cui spetta la cura della comunità – ha compiuto alcune
scelte piuttosto che altre, al cittadino non rimane che obbedire: proprio sulla base della
considerazione che il legislatore è mosso dall‟intento di perseguire il bene comune.
c)
Caratteristiche della legge
La legge deve avere certe caratteristiche (essere promulgata, praticabile, non retroattiva,
generale) e i giudici vi devono essere soggetti.
d)
Il diritto è creato da un’autorità responsabile
il diritto è posto da chi è responsabile per la comunità- questo vale anche per la
consuetudine che è posta dalla gente comune.
39
Si noti che la determinatio è un metodo diverso dalle conclusiones deduttive: sicché al
legislatore rimane un‟ampia scelta su quale politica perseguire. Sicché il diritto sarebbe
necessario anche per un mondo di santi.
e)
Coercizione
Un mondo di santi avrebbe bisogno del diritto (per la determinatio) ma non della
coercizione. Il diritto ha sia una vis directiva che una vis coactiva che tuttavia vale solo per
coloro che sono riottosi. La punizione per i trasgressori vale a riequilibrare il loro vizio di
volontà.
f)
Legge ingiusta e giusta rivoluzione.
Se la legge comanda un atto che è vietato (violenza carnale, infanticidio, omicidio) si è
obbligati a non seguirla e i giudici sono obbligati a disapplicarla. Se invece i vizi sono altri
e cioè:
i)
i governanti anziché pensare al bene comune perseguono i propri fini;
ii)
agiscono al di fuori della loro autorità;
iii)
sebbene asserendo di agire per il bene comune distribuiscono i pesi e gli
oneri iniquamente;
allora in tutti questi casi non vi è alcun obbligo morale di obbedire (né tuttavia di
disobbedire).
Vi è tuttavia un proviso: se la legge è affetta da uno dei tre vizi di sopra allora vi è tuttavia
il dovere di obbedienza se la disobbedienza crea disordine o viene presa a pretesto per
azioni malvagie. Si noti che l‟obbligazione non riguarda in questo caso l‟obbedienza alla
legge ma l‟obbligazione collaterale di non nuocere ad alcun altro.
40
Chi detta legge per il suo proprio beneficio e non nell‟interesse della comunità è un
tiranno: ed è lecito uccidere il tiranno per liberare la comunità politica. Tuttavia, proprio
per evitare il rischio di sedizioni frequenti, vi è una presunzione in favore della
acquiescenza e dell‟obbedienza passiva.
Caratteristiche della legge in Tommaso:
TOMMASO d’Aquino affronta il tema del governo della legge in linea alla
tradizione aristotelica, ma aggiunge alcune riflessioni che avranno una profonda
influenza sul pensiero giuridico moderno e contemporaneo (qui di seguito si seguirà
lo schema del saggio del Prof. Viola, Legge Umana e Rule of Law in Tommaso. In F. Viola
e M. Mangini, Diritto naturale e liberalismo. Dialogo o conflitto?, Giappichelli, 2008). I
riferimenti a numeri di pagina indicati nel testo, in questo paragrafo, sono a questo
saggio).
Si può subito anticipare che per Tommaso il governo della legge (rule of law) soddisfa
sia l‟esigenza negativa di porre un limite all‟attività di governo che è o può essere
arbitraria, ma anche un‟esigenza positiva che il diritto sia guida della condotta
umana. Cioè: per Tommaso essere governati dal diritto (piuttosto che dagli uomini,
sia pure gli uomini saggi o piuttosto che da tecniche di regolamentazione della
condotta umana che diritto non sono) ha un valore morale.
Perché? Per capire questo concetto occorre tenere presente che nella concezione
medioevale (ma anche in quella antica) la connessione fra diritto e morale è data per
scontata. Noi oggi, eredi della tradizione settecentesca, tendiamo a pensare che il
diritto vincoli all’esterno mentre la morale vincola all‟interno. Tendiamo a pensare che
il diritto vincoli essenzialmente per la sua forza coattiva, sanzionatoria, mentre la
morale vincola a prescindere dalla minaccia di una sanzione (in altri termini, rubare o
uccidere è sbagliato sia che io venga scoperto o meno). Noi tendiamo a credere che
diritto e morale appartengano a mondi distinti: una cosa è la validità di una norma,
un‟altra la sua giustezza. Ora, l‟idea della rigorosa separazione fra diritto e morale –
41
propria del giuspositivismo – anche oggi sta perdendo credito. Ma il tema è che il
pensiero medioevale si muoveva in modo radicalmente diverso. Il diritto ha, nella
concezione medioevale, funzioni morali. E‟ distinto dalla morale, ma tuttavia è ad
essa connesso.
Questo significa che il governo del diritto – rispetto al governo degli uomini –
implica un’esplicita opzione morale.
La legge non è per Tommaso (come del resto anche per Aristotele) espressione della
volontà di chi comanda. Studieremo che ad un certo punto (e precisamente intorno al
1600) si afferma l‟idea del diritto come comando, come atto di volontà (Hobbes).
Alla fine del 1700 Jeremy Bentham – padre di quella corrente giusfilosofica che è
l‟imperativismo giuridico – afferma che il diritto non è altro che comando del
sovrano. Ora muovendo da queste premesse, la rule of law perde parte del suo
significato. Se la legge è comando di qualcuno, c‟è vera differenza fra governo degli
uomini (il qualcuno che sta dietro alla legge) e governo delle leggi? Se la legge può
avere qualsiasi contenuto (come ad esempio affermerà Kelsen nel corso del „900)
perché il governo delle leggi deve essere preferito a quello degli uomini?2
Ma torniamo a Tommaso. Tommaso riprende ed amplia il topos aristotelico secondo
cui la legge è ragione: ha una sua razionalità intrinseca. Quindi il governo delle leggi è
2
Si legga ad esempio, Hobbes: L‟idea aristotelica del governo delle leggi viene dileggiata da Hobbes: per due ragioni: 1) gli
uomini non possono essere mossi dalla paura di un pezzo di carta (le leggi scritte), ma solo dalle mani e dalla spada; 2) dietro
le leggi vi sono le spade.
Hobbes 1996, 471 (Ch. 46): “[T]his is another Errour of Aristotles Politiques, that in a wel ordered Common-wealth, not Men should
govern, but the Laws. What man, that has his naturall Senses, though he can neither write nor read, does not find himself governed by them he
fears, and beleeves can kill or hurt him when he obeyeth not? or who beleeves that the Law can hurt him; that is, Words and Paper without the
Hands and Swords of men?”
Ergo: il governo delle leggi non è che la maschera del governo degli uomini.
Vedremo che il pensiero di Hobbes è in realtà più complesso. Così come vedremo che ci saranno anche ragioni (formali) per
affermare che il governo delle leggi è preferibile al governo degli uomini anche in un‟ottica giuspositivista.
42
preferibile al governo degli uomini nella misura in cui il diritto (le leggi) rispetti certe
caratteristiche.
Quali?
1) La legge positiva deve essere conforme alla legge naturale: Dice Tommaso:
La legge è una regola o misura dell’agire per cui si è indotti ad un’azione o
stornati da essa. Abbiamo già detto che per Tommaso il diritto ha una funzione
morale. Il diritto guida gli uomini alla virtù. La legge civile funziona un po‟ come la
legge naturale (che distingue il giusto dall‟ingiusto).
In questa definizione due sono gli elementi di rilievo:
-
la funzione regolatrice e normativa della ragione (ordinatio rationis)
-
gli effetti sul regolato, per cui la legge si presenta come principio guida
dell‟azione e spinge ad un comportamento conforme.
Da questo punto di vista vi è solo una rapporto di genere a specie fra legge naturale e
legge umana. Ogni tipo di legge infatti ha a che fare con la ragione perché ordina i
mezzi nei confronti del fine del bene comune.
Ciò che accomuna vari tipi di legge è la ragione della legge, cioè il suo essere guida
dell‟azione di esseri razionali, consapevoli e liberi.
La ragione per avere una legge è quella di fornire ragioni per l’azione di esseri
razionali e liberi. La legge dunque non può avere qualsiasi contenuto, ma
esige che sia giustificata e cioè dotata di una pretesa di giustizia o di una
promessa di giustizia.
43
Quindi non è vera e propria legge un comando del sovrano dettato dall‟arbitrio e dal
capriccio. In virtù del principio della ragione il carattere proprio di ogni legge è quello
di creare obblighi per esseri liberi. La legge umana è, dunque, un’autentica
produzione della ragione (ordinatio rationis) che intende evitare sia la passiva
ricezione dei costumi sia l’arbitrio della volontà legislativa (p. 18). “perciò fare
le leggi spetta o all’intero popolo o alla persona pubblica che ha cura di esso.
Poiché ordinare al fine spetta sempre a colui che riguarda codesto fine come
proprio”.
Ora, siccome la legge guida gli uomini alla virtù non può funzionare semplicemente
attraverso la minaccia della sanzione (vis coactiva). Se noi vogliamo educare i nostri figli
non ci limitiamo a punirli quando trasgrediscono ma dobbiamo spiegare loro non
solo quali siano le regole da seguire ma anche il perché di queste regole (vis directiva).
Questo vale a maggior ragione quando i destinatari della legge non sono bambini ma
adulti.
2) Antropologia. Le leggi devono poi rispettare una certa visione dell’uomo, una
certa concezione antropologica. Se si assume che gli individui sono radicalmente
malvagi (come farà Lutero nel 1500) o che sono assolutamente plasmabili e
irresponsabili delle proprie azioni (come farà il marxismo), è ovvio che la concezione
del diritto ne risentirà (per individui malvagi ci vuole un diritto spietato, per individui
manipolabili ci vuole un diritto che funziona con tecniche di manipolazione di massa
sia pure per lo scopo di arrivare alla fine del diritto). Ma Tommaso – rappresentante
della scolastica cristiana – la pensa in modo diverso. Gli uomini: sono liberi,
razionali, capaci di scelte morali. Vi è una differenza fra la concezione secondo
cui il diritto condiziona psichicamente o muove all‟azione in modo meccanico e la
concezione secondo cui il diritto presuppone persone libere e consapevoli. Pensate a
44
tutte le norme in materia penale sullo stato soggettivo (dolo, colpa, negligenza), etc..
tutto il diritto presuppone persone responsabili.
Questa antropologia implicita ricalca quello che Hart chiama il contenuto minimo del
diritto naturale. Hart menziona alcune caratteristiche dell‟uomo di cui il diritto deve
tener conto: vulnerabilità, uguaglianza imperfetta, altruismo limitato, risorse scarse,
comprensione e forza di volontà limitate.
Vi sono altri vincoli nel modo di strutturare la direttiva giuridica se vogliamo non
solo rispondere ai bisogni e alle necessità vitali degli esseri umani ma anche al loro
desiderio di essere agenti consapevoli e liberi e di non essere trattati come schiavi. Si
pensi ad un sistema giuridico fatto prevalentemente di impedimenti fisici: non il
cartello non calpestare le aiuole ma il recinto; non il cartello col divieto di transito ma
degli ostacoli fisici; non l‟ordinanza comunale che impone la raccolta differenziata ma
la rimozione fisica dei cassonetti e la consegna di sacchetti di colore differente.
Si pensi anche ad altre tecniche di orientamento dell‟azione umana: propaganda,
manipolazione, lavaggio del cervello, elettrochock. Tutte queste pratiche non solo
violano i principi fondamentali della persona, prima fra tutte la libertà, ma
stravolgono la natura stessa del diritto. Ergo: rule of law implica governo di un diritto
che sia guida della condotta umana (che cioè lasci ai destinatari un margine di
scelta nell‟azione) e non forza mascherata. Il presupposto è che tutti gli uomini –
anche gli uomini malvagi – possono imparare ad agire bene (questa idea verrà
radicalmente messa in discussione dalla Riforma protestante che distingue fra eletti e
dannati).
3) Le leggi devono essere praticabili (in linea al comune sentire ma anche
all’indole propria dei destinatari) (si noti che Tommaso arriva ad affermare che la
legge non può sradicare i vizi privati): Una legge che non è praticabile è flatus vocis.
Noi sappiamo che una legge che comanda cose impossibili è nulla e quella che
45
comanda cose in assoluto necessarie è superflua. Ma l‟ipotesi di Tommaso va ben
oltre.
La legge umana deve essere proporzionata per ciascuno secondo le sue
possibilità cioè sulla base della sua capacità di agire.
Questa capacità si determina in rapporto a due parametri: uno di carattere naturale e
l‟altro di carattere culturale. Il primo ha un carattere universale in quanto riguarda le
fasi e gli stati della vita umana di per sé considerati: non si possono richiedere le
stesse cose a un bambino e a un adulto a un uomo sano e ad un ammalato. Il
secondo invece ha un carattere particolare e locale. La legge deve cioè conformarsi
per quanto è possibile alle abitudini diffuse in un determinato contesto. La legge deve
essere appropriata al luogo e al tempo. La ragion pratica è diretta all‟azione comune
come al suo fine e, quindi, fallisce se la regola da seguire o è ingiusta o non può essere
posta in essere per incapacità dell‟agente. Il giusto deve essere fattibile altrimenti
diventa un ideale utopico e tirannico. L‟effettività della legge tuttavia è solo un
carattere, ma non l‟unico. Tommaso ribadisce il carattere pedagogico della
legislazione cosicché la legge implica un atteggiamento critico nei confronti dei
costumi.
4) struttura formale:
i)
Legge e confini fra pubblico e privato. La legge dovrà
necessariamente occuparsi di molte questioni di pubblico interesse e
dovrà tenere conto della moltitudine dei negotia e il loro carattere
personale. Questo requisito ha due facce: da un lato si afferma il
carattere politico della legge nel senso che essa non deve concepirsi
come una regolamentazione parziale limitata solo ad alcuni aspetti della
vita pubblica ma come rivolta ad assicurare tutto ciò che è socialmente
necessario per la vita buona dei cittadini. Ma d‟altra parte questo
requisito implica restrizioni e limitazioni. La legge deve astenersi dal
46
regolare tutto che attiene al bene privato e che non ha rilevanza né
direttamente né indirettamente per il bene comune. Vi sono pertanto
materie che non è legittimo regolare per legge anche se ciò venisse fatto
nel rispetto del principio di legalità. In altri termini: la legge deve
essere fondamentalmente diretta ad assicurare le condizioni
essenziali di una vita sociale pacifica e ordinata. (p. 44). Questo
secondo aspetto è stato riformulato nell‟ottocento sotto l‟etichetta del
cosidetto harm principle: il principio del danno. John Stuart Mill un
pensatore liberale che ha scritto nell‟ottocento sosteneva: “l‟unica
ragione per cui il potere possa essere legittimamente esercitato su
qualsiasi componente di una comunità civilizzata e contro la sua volontà
è per prevenire ed evitare un danno agli altri”. Il carattere globale del
bene comune è l‟altra componente di questo primo requisito (la legge
deve occuparsi del bene comune ma solo di esso): la legge deve
occuparsi di tutte le forme della giustizia, da quella civile a quella penale,
dai diritti reali alle obbligazioni, dalle restituzioni e compensazioni alle
distribuzioni e assegnazioni. I vari rami del diritto rimangono connessi,
cosa che implica che le leggi non debbano essere in contraddizione fra
loro. In realtà il perseguimento del bene comune richiede una congruità
nella distribuzione dei diritti e degli obblighi ed un‟eguaglianza formale e
sostanziale (p. 45).
ii)
Stabilità e durevolezza della legge. Per elaborare e realizzare i loro
personali piani di vita gli individui hanno bisogno di un ambiente sociale
e giuridico persistente nel tempo e sono danneggiati da direttive
occasionali ed episodiche. Pensiamo a cosa succedere se la legislazione
cambiasse di frequente e in modo repentino: non soltanto il diritto non
soddisfarebbe l‟esigenza di limitare l‟ansia dei cittadini ma i cittadini
sarebbero distolti da ogni altro interesse nel tentativo di districarsi nella
legislazione capricciosa.
47
iii)
Generalità. Un‟altra caratteristica della legge è quella della generalità.
Una legge differisce dai comandi ad hoc o ad personam per il fatto di
disporre per modelli di azioni e per una categoria di persone. Occorre
che la generalità riguardi insieme sia le persone sia le azioni. Ma perché
le leggi devono avere carattere generale? Nell‟ottocento un teorico del
diritto che studierete più in là, John Austin, spiegherà il requisito della
generalità con ragioni pragmatiche: siccome per il sovrano è impossibile
governare milioni di persone con comandi ad hoc la legge generale (e
cioè rivolta a tutti) ottempera a questo problema. San Tommaso invece
risponde alla domanda diversamente: la generalità della legge è utile non
al sovrano ma ai cittadini. Con la legge generale i cittadini possono
conoscere una molteplicità di cose appartenenti allo stesso genere con
l‟apprensione di una sola (p. 46). Di nuovo, si ricordi, che la legge è
guida delle azioni umane. Il governante guida indicando un modello
di azione e lasciando al governato la facoltà di giudicare se la sua
azione particolare rientri o meno nel caso. Il governato a sua volta
apprendendo il tipo d’azione comandato, vietato o permesso
dall’autorità, conosce attraverso esso tutte le azioni particolari del
genere. I cittadini dunque si aspettano che il legislatore metta ordine
fra le azioni sociali e renda possibile muoversi al loro interno con
consapevolezza e responsabilità (un sociologo contemporaneo Luhman,
dice qualcosa di simile: uno dei compiti del diritto è quello di ridurre la
complessità sociale). Si noti che la concezione della generalità di san
Tommaso è più simile a quella che noi oggi chiamiamo astrattezza: la
legge stabilisce un modello per tipi di azione e non per tipi di persone.
La regola alla base della legge è: trattare casi eguali in modo eguale e casi
diversi in modo diverso.
iv)
Competenza. La legge obbliga tutti coloro che sono soggetti
all’autorità di chi l’emana. Ciò rimanda al tema della competenza. La
legge obbliga solo chi è soggetto all‟autorità ( e cioè alla competenza per
48
materia o territoriale) di chi ha emanato la legge. Noi ad esempio non
dobbiamo seguire le direttive del parlamento inglese. Chi non è parte
processuale non è obbligato a dare esecuzione a una sentenza. Questo
significa che non conta soltanto la struttura della legge ma anche la sua
fonte.
v)
La legge poi va interpretata. San Tommaso abbozza solo una teoria
embrionale sull’interpretazione della legge. L‟idea di fondo è che il
giudice deve discostarsi il meno possibile dell‟intenzione del legislatore
(sul presupposto che il legislatore persegue il bene comune).
5) Principi di giustizia naturale: I principi di natural justice attengono non alla
formulazione della legge ma alla sua applicazione. In generale si tratta di garanzie di
imparzialità e di obiettività, stabilite allo scopo di assicurare che la legge sia applicata a tutti coloro e
soltanto a coloro che sono uguali negli aspetti rilevanti stabiliti dalla legge stessa (p. 51). Il
principio alla base degli altri è quello dell‟imparzialità: tratta i casi uguali in modo
uguale e i casi diversi in modo diverso.
Imparzialità:
Facciamo il caso seguente. Tizio si è impossessato di un bene detenuto da Caio. In
termini giuridici noi ragioniamo: in base a quale titolo Caio deteneva il bene? Anche
in assenza di titolo da quanto tempo lo deteneva? Etc…
Cioè ci facciamo domande sulle regole: (regola sui modi di acquisto dei beni mobili;
regole sull‟usucapione dei beni mobili etc…). ma se non ci fosse alcuna regola come
dovremmo comportarci? Possiamo fare decidere a Tizio (ma il risultato è scontato) o
a Caio e la situazione è la stessa. Oppure possiamo ignorare il problema e vivere in
mezzo all‟eterno conflitto. Oppure possiamo far decidere ad un terzo (un giudice).
Ma il problema non si è così dipanato. Come deve decidere questo terzo?
49
Come abbiamo visto, il governo della legge e non degli uomini, richiede che l‟opera
del giudice sia sempre strettamente legata alla legge e non basata sulla sua personale
saggezza che è una qualità scarsa (p. 52).
Pertanto i giudici sono tenuti ad applicare la legge. L‟imparzialità del giudice richiede
che sia terzo rispetto alle parti. Ciò significa che nessuno può essere al contempo
giudice, accusatore, testimone. Il giudice non è un poliziotto a caccia di colpevoli ma
colui che deve dirimere una lite. E‟ necessario dunque che vi sia una lite fra almeno
due parti: perché iustitia est ad alterum.
50