Full-text - Società Italiana di Storia del Diritto

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ANTONIO PADOA-SCHIOPPA
PROFILI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
NELL’ALTO MEDIOEVO*
1. UN
FATTO DI SANGUE
Narra Gregorio di Tours che dopo la morte di Clodoveo, diviso ormai il regno dei Franchi tra i quattro figli secondo la sua
volontà, uno di loro, Clodomero, cui era toccata la regione di Parigi, era morto anzitempo lasciando tre infanti. Due degli altri figli, Teoderico re dell’Austrasia e Childeberto re di Borgogna,
avevano concluso un trattato di non aggressione, peraltro presto
disdetto trasformando in prigionieri di condizione servile gli
ostaggi che i due sovrani si erano dati in garanzia 1. Poco dopo
Childeberto, accortosi dell’affetto che la regina madre Clotilde
mostrava per i nipoti rimasti orfani alla morte di Clodomero, aveva indotto il quarto fratello, Clotario, re della Neustria, a venire a
Parigi per accordarsi con lui al fine di impadronirsi del regno già
di Clodomero, così da impedire che esso venisse un giorno trasferito ai figli del defunto. I nipoti furono sottratti alla nonna promettendole di incoronarli immediatamente sul trono già di Clodomero. Sùbito dopo un inviato dei due fratelli si presentò a Clotilde munito di un pugnale e di una cesoia; e chiese alla regina se
accettava che agli orfani venissero tagliati i capelli – riducendoli
con questo solo atto allo stato di semplici sudditi (« utrum incisa
caesaria ut reliqua plebs habeantur ») – o se invece voleva che essi
venissero uccisi. La regina, quasi fuori di sé per il dolore e non
sapendo cosa stesse dicendo (così almeno afferma Gregorio di
* Dedico queste pagine alla cara memoria di Giulio Vismara.
1. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri, III. 15 (ed. B. KRUSCH, W. LEVISON,
M.G.H, Scriptores Rerum Merovingicarum I.1), Hannover, 1965.
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Tours), avrebbe esclamato che preferiva vederli morti, piuttosto
che privati del regno in seguito al taglio dei capelli (« satius enim
mihi est, si ad regnum non eriguntur, mortuos eos videri quam
tonsos »). Era la stessa Clotilde che sulla tomba di san Martino
pregava « ne inter filios suos bellum civile consurgeret » 2 e che
vedeva avverarsi quanto aveva temuto. Riferita ai fratelli la risposta della regina, Clotario uccise col pugnale prima l’uno e poi l’altro dei due nipoti, che avevano rispettivamente dieci e sette anni,
nonostante una sopravvenuta tardiva resipiscenza di Childeberto,
mosso a pietà dalle suppliche del secondo bambino. Dopo di che,
i due sovrani divisero equamente e pacificamente tra loro il regno
di Clodomero: « regnum Chlodomeris inter se aequa lance diviserunt » 3.
Abbiamo evocato questo squarcio della Storia dei Franchi del
vescovo di Tours perché il truce episodio, risalente all’anno 532,
ci sembra contenere in nuce una folla di elementi rivelatori sul tema che stiamo affrontando. Il rapporto tra regni divenuto un affare di famiglia, sia nel momento dell’accordo tramite trattato sia
nel momento della violenza esercitata senza pietà sui parenti prossimi per evitare la successione disposta legittimamente dal sovrano
suddividendo il regno tra i figli maschi in base alla concezione patrimoniale del potere regio sul territorio. La coesistenza di una
mentalità impregnata da fortissimi sentimenti di orgoglio di stirpe
e di schiatta, che ancora hanno la meglio sulle ben diverse idealità
cristiane persino in un personaggio come Clotilde, la principessa
burgunda alla quale pure si deve niente di meno che la conversione al cattolicesimo del pagano Clodoveo, uno degli eventi più
importanti della storia dell’Europa medievale. Il contrasto, nei
rapporti tra regni, tra principî ispirati alla legalità e pulsioni violente, riprovate sì ma ritenute non del tutto inammissibili – tanto
che non risulta vi siano state sanzioni spirituali o penitenze inflitte
ai due re merovingi – persino da un personaggio di indubbio
spessore etico quale fu il vescovo di Tours. Tutto questo, ed altro
ancora, emerge con chiarezza dal racconto di Gregorio.
2. Ibid., III. 28.
3. Ibid., III. 18.
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2. RELAZIONI
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INTERNAZIONALI E DIRITTO INTERNAZIONALE
Che nell’alto medioevo, anche nelle fasi più critiche dell’economia e della vita sociale, sia stata attiva una fitta rete di relazioni
tra i diversi soggetti politici della realtà storica di questi secoli è
ormai un fatto acquisito. Relazioni pacifiche o più spesso bellicose, scambi commerciali, accordi e trattati tra i diversi regni in occidente e di questi regni con Bisanzio, con i potentati islamici,
con singole etnie germaniche, celtiche, slave: sono alcuni soltanto
dei legami che le fonti rivelano quasi senza interruzione dalla fine
del mondo antico sino al Mille ed oltre, in un intreccio fittissimo
e variegato.
Il diritto è, naturalmente, parte integrante di tali relazioni, in
una pluralità di dimensioni che le fonti attestano con chiarezza.
Appartengono alla sfera del diritto – per limitarci solo ad alcuni
profili – le dottrine e le consuetudini sui presupposti legali e sulla
condotta della guerra, lo status giuridico dei vinti e dei prigionieri, la disciplina delle ambascerie, le regole sulla tutela dei legati in
missione in paesi stranieri, i trattati di pace e di tregua, gli accordi
sul commercio internazionale, ma anche le tante convenzioni matrimoniali e i frequenti rapporti di parentela (adozione, padrinato
spirituale) tra esponenti di famiglie sovrane d’oriente e d’occidente. Non meno rilevanti sono i problemi storici e giuridici legati
alla coesistenza di più leggi personali, ciascuna legata ad una specifica etnia, sia entro un medesimo ordinamento che nei rapporti
tra sudditi di diversi regni.
Che si possa ed anzi si debba considerare esistente per questi
secoli, entro la rete delle relazioni tra popoli e tra regni, una serie
di rapporti giuridici qualificabili come rapporti di diritto internazionale è stato più di una volta messo in dubbio dalla moderna
dottrina internazionalistica. Ma a mio avviso senza fondamento.
Le considerazioni che Heinrich Mitteis svolgeva sessanta anni orsono a sostegno della natura propriamente internazionalistica degli
accordi e dei trattati, con riferimento all’intera età medievale 4,
restano valide. E non a torto un altro eminente studioso di fonti
4. H. MITTEIS, Politische Verträge des Mittelalters, in Zeitschrift der Savigny Stiftung, GA,
80 (1950), pp. 76-140.
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altomedievali e di storia delle relazioni internazionali, FrançoisLouis Ganshof, estese le sue indagini sui trattati dell’età merovingia e carolingia agli accordi tra « states, peoples, tribes, or rulers » 5.
È dunque innegabile che un insieme complesso di rapporti
giuridici internazionali in questi secoli vi fu, ma va sottolineato
che tali rapporti si svolsero in forme prevalentemente consuetudinarie, con un’intelaiatura normativa esile all’interno dei singoli ordinamenti. Le sole basi normative davvero internazionali, perché
superiori agli stati, sono quelle dei testi sacri delle tre religioni
monoteistiche, i due Testamenti (l’Antico e il Nuovo) per i cristiani, il Corano per l’Islam. Le pratiche contrattuali, anzitutto
nella forma dei trattati, furono invece esercitate con larghezza dagli imperatori, dai re, dai califfi, dagli stessi capi militari.
Certo non si può parlare di una comunità internazionale che
abbracciasse in un’unica classe l’insieme dei soggetti politici. E
neppure vi fu corpus di norme giuridiche formalmente sovraordinate rispetto ai regni o ai potentati esistenti, anche se talune consuetudini e taluni principî comuni vi furono, come diremo. Il
mondo delle potenze cristiane dell’Occidente (per il quale solo
dal secolo IX si può cominciare a ravvisare una prima forma di
Respublica christiana che ha nella Chiesa di Roma, ben più che nel
Sacro Romano Impero, il suo baricentro ideale), il mondo bizantino dell’Impero d’Oriente, cristiano anch’esso ma per tanti aspetti
ben distinto dal primo, il mondo del Califfato unico e più tardi
dei diversi potentati islamici costituiscono tre grandi realtà che
hanno sperimentato ininterrotte interrelazioni giuridiche. Inoltre,
all’interno del primo e del terzo mondo (l’occidente cristiano e
l’Islam) ha operato una pluralità di soggetti politici dotati di caratteristiche che ben si possono qualificare come rilevanti nell’ottica
delle relazioni internazionali. E ancora, c’è l’intervento di soggetti
esterni ai tre cerchi, popoli nomadi e guerrieri – dagli Unni agli
Avari, dai Normanni agli Ungari, dai Tartari ai Turchi – che entrano in rapporto di collisione con i regni, con altre etnie, con
5. F.-L. GANSHOF, The Treaties of the Carolingians, in Medieval and Renaissance Studies,
3 (1967), pp. 23-50, a p. 23; ID., Les traités des rois mérovingiens, in Tijdschrift voor Rechsgeschiedenis, 32 (1964), pp. 163-192; ID., Histoire des relations internationales, I, Le Moyen Age,
Paris, 1953.
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l’impero bizantino, con le chiese, con i potentati islamici e che
con essi concludono numerosi accordi e trattati di pace, di tregua,
di commercio.
I profili giuridici di questo complesso di rapporti internazionali
sono stati analizzati e messi a fuoco da studiosi di storia del diritto
di grande dottrina e levatura: basterebbe rammentare i nomi di
Gian Piero Bognetti 6, di Bruno Paradisi, 7 di Giulio Vismara 8,
di François-Louis Ganshof 9, di Heinrich Mitteis 10, di KarlHeinz Ziegler 11. Ma gli elementi che emergono dalle loro indagini, se per molti aspetti offrono ancora punti di riferimento ineludibili, per altri aspetti sono oggi da riconsiderare alla luce di
prospettive che la storiografia degli ultimi anni e decenni ha sviluppato secondo linee nuove.
Il patrimonio delle nostre conoscenze si è arricchito di indagini rigorose sulle vicende internazionali di popoli prima non adeguatamente considerati dalla storiografia, quali gli Unni o gli Avari
studiati in particolare, anche in questa prospettiva, da uno studioso
come Walter Pohl 12. Inoltre, la tematica cruciale della transizione
dall’età tardo antica al primo medioevo ha formato l’oggetto di un
6. G.P. BOGNETTI, L’età longobarda, Milano, 1964, 4 volumi; la raccolta riunisce gli
scritti di Bognetti sull’età longobarda, in molti dei quali la relazioni giuridiche, religiose
e politiche internazionali – con Bisanzio, con gli altri regni germanici, con Ravenna,
con il papato – sono poste in primo piano. Per la storia del diritto internazionale è importante, inoltre, la monografia dello stesso G. P. BOGNETTI, Note per la storia del passaporto e del salvocondotto, Pavia, 1933.
7. B. PARADISI, Storia del diritto internazionale nel medioevo, I, Milano, 1940; ID., Civitas maxima, Studi di storia de diritto internazionale, Firenze, 1974, 2 tomi, che riuniscono
le ricerche internazionalistiche successive agli anni Quaranta.
8. G. VISMARA, Scritti di storia giuridica, 7, Comunità e diritto internazionale, Milano,
1989; il volume raccoglie gli studi di storia del diritto internazionale, anzitutto i due
maggiori: sui rapporti tra il papato e l’Islam, Impium foedus, Le origini della Respublica christiana [1950] (ibid., pp. 1-114) e su Bisanzio e l’Islam, per una storia dei trattati tra la Cristianità orientale e le potenze musulmane [1950-1954] (ibid, pp. 115-379), nonché la lezione
spoletina sulla guerra altomedievale [1967] (ibid, pp. 475-539) ed altri minori.
9. GANSHOF, The Treaties of the Carolingians; ID., Les traités des rois mérovingiens; ID.,
Histoire des relations internationals cit. (nota 5).
10. MITTEIS, Politische Verträge des Mittelalters cit. (nota 4).
11. K.-H. ZIEGLER, Völkerrechtsgeschichte, München, 20072; l’opera costituisce la più
recente e aggiornata trattazione di sintesi sulla storia del diritto internazionale:
12. W. POHL, Die Awaren. Ein Steppenvolk in Mitteleuropa 567 - 822 n. Chr., 2002.
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intenso e appassionato dibattito storiografico, dal quale è emersa
una visione nuova sulla formazione dei regni barbarici dell’occidente: gli elementi di continuità tra le strutture istituzionali del
diritto postclassico romano e quelle messe in opera dagli Ostrogoti, dai Visigoti, dai Burgundi, dai Franchi – nell’esercito, nella tutela dell’ordine interno, nell’amministrazione della giustizia, nell’imposizione fiscale, nella diplomazia e in altri campi ancora – sono ormai riconosciuti dalla maggior parte degli studiosi. Ed anche
il dibattito sui profili giuridici dello stanziamento entro i confini
dall’impero, aperto trenta anni orsono da Walter Goffart 13 e portato avanti anche da altri studiosi 14, presenta indubbi riflessi quanto alla configurazione dei rapporti tra i nuovi regni e l’impero, i
quali appaiono ben diversi se si ritiene che essi siano imperniati
sul trasferimento di un potere di imposizione tributaria ovvero si
fondino sulla cessione o sulla conquista, sancita da accordi e trattati, di terre e di territori ai re barbarici da parte dell’impero.
Le opinioni su questo punto e su altre questioni di fondo non
sono certo concordi su aspetti centrali di questa fase storica: quanto
l’identità dei nuovi regni deve alla precente tradizione delle nationes,
delle etnie prima nomadiche e poi stanziate in occidente? Quanto tale identità, che ha condotto alla formazione dei popoli dell’Europa
medievale e moderna, è il frutto di un processo di assimilazione della
cultura antica e della fede cristiana? Quanto è a sua volta il risultato
della nuova realtà politica, sociale e culturale? Appare chiaro che anche i profili giuridici delle relazioni internazionali si connettono con
queste nuove linee di ricerca e con queste nuove visuali, che la ricerca archeologica ha contribuito a formare integrando con dati essen13. W. GOFFART, Barbarians and Romans, A.D. 418-584: The Techniques of Accommodation 1972; ID., Barbarian Tides, the Migration Age and the Later Roman Empire, Philadelphia, 2006: è una riproposizione critica e aggiornata delle tesi avanzate dall’autore nel
1972. Inoltre E. CHRYSOS und A. SCHWARZ (edd.), Das Reich und die Barbaren, WienKöln, 1989; R. W. MATHISEN and H. S. SIVAN (edd.), Shifting Frontiers in Late Antiquity,
Aldershot, 1996; W. POHL (ed.), Kingdoms of the Empire, the Integration of Barbarians in late
Antiquity, Leiden - New York – Köln, 1997.
14. Si vedano in particolare: H. WOLFRAM, Gotisches Königtum und römische Kaisertum,
von Theodosius dem Grossen bis Justinian I, in Frühmittelalterliche Studien, 13 (1979), pp. 128; I. WOOD, The Merovingian Kingdoms, 450-751, 1994; e la raccolta di saggi riuniti nel
volume a cura di Th. NOBLE, From Roman Provinces to Medieval Kingdoms, London and
New York, 2006.
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ziali il silenzio delle fonti scritte. Le monete, le armi, i reperti degli
scavi hanno mostrato come non solo il commercio ma anche le tradizioni di cultura e i simboli del potere si siano trasmessi tra popoli e
tra regni pur tanto lontani.
E poi vi sono i risultati delle recenti ricerche sulla storiografia
coeva. Se si considera che quanto ai rapporti internazionali la fonte essenziale delle nostre conoscenze per questi secoli è costituita
dalle cronache e da una serie di altre fonti non giuridiche, si comprende quanto sia rilevante stabilire se e quanto i modelli letterari
antichi, le posizioni ideologiche dell’autore, gli obbiettivi encomiastici verso il potere abbiano influenzato il racconto dello storico. Da Ammiano Marcellino a Giordane, da Paolo Diacono a
Gregorio di Tours, da Fredegario agli Annali dei Franchi, da Procopio a Prisco, da Menandro Protettore a Malco e agli altri cronisti di questi secoli, per tacere delle fonti islamiche ancora troppo
poco conosciute, la disamina sul rispettivo grado di attendibilità è
ormai molto approfondita, – basti menzionare le ricerche di Michael Mc Cormick 15, di Walter Goffart 16, di Hans-Werner
Goez 17, di R. C. Blockley 18, degli scritti raccolti a cura di Alexander Callander Murray 19 e di quelli dedicati a Paolo Diacono 20, accanto ad altri – anche se ovviamente non tutti i pareri
concordano sul peso che gli elementi citati hanno avuto nel racconto del cronista e quanto perciò si debba espungere o ridimensionare nella ricostruzione storica. Ovviamente anche le conclusioni sulla tematica dei conflitti, delle guerre, degli accordi, dei
trattati internazionali deve tenere conto di questi dati 21. La relazione di Paolo Cammarosano approfondirà questi temi.
15. M. MC CORMICK, Les Annales du Haut Moyen Age occidental, 1975.
16. W. GOFFART, The Narrators of Barbarian History: A. D. 550-800: Jordanes, Gregory
of Tours, Bede and Paul the Deacon, Princeton, N.J., 1988.
17. W. GOETZ, Geschichtsschreibung und Geschichtsbewusstsein im hohen Mittelalter, Berlin, 1999.
18. R. C. BLOCKLEY, The Fragmentary [..] Historians [oltre, nota 73]; ID., The History
of Menander the Guardianship [oltre, nota 189].
19. A. CALLANDER MURRAY (ed.), After Rome’s Fall, Narrators and Sources of Early Medieval History, Essays [...] to W. Goffart, 1998.
20. P. CHIESA (a cura di), Paolo Diacono, uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovamento carolingio. Atti del convegno internazionale di studi, Udine, 2000.
21. Ricca di testi storici e letterari e di spunti degni di nota, cui abbiamo in più casi
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Non mancò, in questi secoli, un apporto della cultura sui temi
legati alle relazioni giuridiche internazionali, in assoluta prevalenza
esercitato da pochi autorevolissimi padri della Chiesa ed anzitutto
da Agostino, col supporto, ben vivo in loro, della sapienza antica,
reinterpretata e trasformata alla luce dei valori cristiani. Né si trattò di mere posizioni ideali, per quanto rilevanti, perché in alcuni
momenti, in alcune vicende, presso taluni sovrani queste idee
esercitarono un concreto influsso.
Se nella lunga e intricata vicenda delle relazioni giuridiche internazionali dei secoli altomedievali si vogliono segnare le principali fasi di discontinuità nel tempo, così da scandirlo per epoche
all’interno di questa lunga stagione della storia, ritengo che tre fasi
storiche debbano venir poste in particolare rilievo.
La prima riguarda la transizione avvenuta in occidente in séguito alla crisi e alla scomparsa dall’impero romano. Per un periodo non breve, tra il quarto e il sesto secolo, le nuove formazioni
politiche dei regni germanici – anche quando sorte dopo vicende
belliche vittoriose per i popoli germanici entrati e stanziatisi in
occidente – ottennero in molti casi un riconoscimento giuridico
dal parte di Costantinopoli, tale da lasciare all’imperatore non solo
un primato istituzionale, ma anche una configurazione di rapporti
giuridici almeno formalmente diversa da quello che intercorre tra
stati o regni indipendenti, nel senso che essi venivano considerati
come elementi interni all’orbita politica e giuridica dell’impero: la
concessione ai re germanici di titoli quali quello di patricius o di
magister militum o di quaestor sacri palatii consentì questo risultato,
anche quando di fatto la subordinazione rispetto all’impero non vi
era più. Odoacre, il visigoto Alarico, il burgundo Sigismondo, l’ostrogoto Teodorico si collocano in questa prospettiva. Lo stesso
Clodoveo ricevette da Costantinopoli le qualifiche di patricius e di
consul. Ma ricerche recenti (quali per esempio quelle di Peter
Heather: oltre, note 214 e 305) hanno mostrato come la terminologia tradizionale del diritto antico sui foedera e sui foederati, che
troviamo recepita dalle cronache ancora nei secoli dal quarto al
utilmente attinto, è la raccolta di fonti commentate effettuata da Massimo GUIDETTI, Vivere tra i Barbari, vivere con i Romani, Germani e Arabi nella società tardo antica, IV-VI secolo,
Milano, 2007.
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sesto ed oltre, abbia potuto nascondere realtà differenziate quanto
al rapporto reale tra l’impero e il popolo federato e quanto all’autonomia di questo dentro e fuori dai confini dell’impero.
A partire dall’invasione longobarda dell’Italia questa forma ambigua di dipendenza – che nella realtà era già di fatto superata –
venne anche formalmente meno. Gli imperatori bizantini dovettero sempre più spesso trattare con i regni barbarici come con vere e proprie potenze esterne, al pari di quanto facevano da secoli
con regni quali la Persia. Certo restava un primato virtuale del basileus bizantino, ma non più di questo. Ed anche il diritto delle
relazioni internazionali, che nel tardo impero si era prosciugato,
per così dire, all’interno della vastissima area dominata da Roma e
da Costantinopoli, conobbe allora una fase nuova, nella quale i
nuovi soggetti, i nuovi regni, acquisirono il ruolo di soggetti di
diritto internazionale sia nei rapporti reciproci (anche interno alla
medesima etnia, come accadde con i Franchi), sia nei confronti di
potenze esterne quali, accanto a Bisanzio, anche l’Islam.
Il secondo momento di discontinuità si verifica tra la metà del
secolo VIII e l’inizio del IX, con due eventi tra loro connessi Da
un lato, l’affermazione del ruolo di vero e proprio soggetto internazionale, anche sotto il profilo giuridico e non solo sotto il profilo religioso, del pontificato romano, che da questo momento accentuò grandemente il proprio ruolo politico anche all’interno dei
singoli regni. Dall’altro lato, la genesi del Sacro Romano Impero,
che pose il suo titolare in una posizione giuridica e ideale al di sopra dei singoli regni anche nei rapporti internazionali.
La terza maggiore fase di discontinuità si situa all’altro estremo
del periodo che abbiamo considerato, nella seconda metà del secolo XI. Tre sono le innovazioni di fondo che modificano l’assetto delle relazioni internazionali, tutte collegate alla storia della
Chiesa. Lo scisma del 1054 distacca definitivamente la Chiesa d’oriente dalla Chiesa di Roma e d’occidente, con riflessi di grande
rilievo anche sul fronte del diritto. La riforma detta gregoriana determina un potere accresciuto del papato nei rapporti con i poteri
secolari, che si spinge sino alla possibile delegittimazione giuridica
di un sovrano rispetto ai suoi sudditi in caso di scomunica. In terzo luogo, emerge nell’Occidente cristiano la genesi dell’idea di
guerra giusta e santa contro l’Islam, che condurrà alle crociate dalla fine del secolo XI: un’idea – solo per taluni aspetti assimilabile
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alla Jihad del Corano e differente anche dall’dea bizantina di guerra santa – che va ben al di là del divieto di empie alleanze che nel
secolo IX aveva trovato in Giovanni VIII un sostenitore agguerrito anche sul piano teologico.
Vediamo dunque di richiamare, entro l’arco cronologico che
dal secolo V giunge al secolo X, tra la prima e l’ultima della tre
fasi di discontinuità appena richiamate, alcuni profili della storia
del diritto internazionale secondo le linee appena indicate.
3. GUERRA
GIUSTA E IUS AD BELLUM: LA DOTTRINA
Il primo, fondamentale rilievo che emerge dalle testimonianze
storiche di questi secoli riguarda la presenza pressoché ininterrotta
della guerra. È una realtà che non conosce confini di tempo né di
spazio. Le incursioni delle popolazioni germaniche in occidente,
via via più frequenti e più aggressive nei secoli V e VI; i tentativi
di riconquista da parte di Bisanzio, con fortune alterne nei secoli
VI, VII e VIII; le guerre di Bisanzio con la Persia nel secolo VII;
la fulminea, stupefacente dilatazione dell’Islam ad oriente verso la
Persia e verso l’Asia centrale, ad occidente sino alla Penisola iberica nei secoli VII e VIII; le innumerevoli guerre tra regni e tra etnie germaniche: Avari contro Longobardi, Goti contro Vandali e
Svevi, Franchi contro Visigoti e Frisoni e Turingi e Longobardi e
Sassoni, sino alla costituzione del più potente regno dell’Occidente sotto Carlo Magno nei secoli VIII e IX; le incursioni saracene
nell’Italia meridionale del secolo IX; la discesa e l’installazione dei
Normanni in Francia nel secolo X; le scorribande degli Ungari in
Occidente nel secolo X; per tacere delle guerre intestine tra i diversi regni dei Merovingi e dei Carolingi.
La storia dell’alto medioevo è una storia di incursioni armate,
di violenze, di rapine e di guerre, che hanno fortemente condizionato la società, la mentalità, la cultura, le istituzioni ed anche il
diritto. Né si pensi trattarsi di piccoli gruppi e di vicende che colpivano pochi: le cronache testimoniano che non di rado in battaglia perirono migliaia di uomini e che la carestia e la fame conseguenti allo stato di guerra ne fecero talora perire decine di migliaia. La spedizione di Costantino contro i Goti avrebbe provo-
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cato centomila morti per la guerra, il freddo e la fame 22; Agostino parla di centomila uomini lasciati sul campo dal re goto Radagaiso all’assedio di Roma 23; la sconfitta di Cosroe (Khusraw) per
opera dei bizantini avrebbe provocato la morte di quarantamila
Persiani 24.
Il diritto risulta ben presente in questo mondo di violenza e di
guerra. Giulio Vismara vi dedicò una limpida lezione, che costituisce tuttora un indispensabile punto di riferimento, nella Settimana spoletina sugli Ordinamenti militari del 1967 25. Il diritto è
presente nella valutazione – politica, etica, religiosa – delle vicende belliche; e lo è nel concreto svolgersi dei fatti legati alla guerra. Sono due piani che debbono essere tenuti distinti e che sono
non di rado tra loro in opposizione radicale.
La dottrina sulla legittimazione alla guerra trasmessa all’età medievale dalla cultura antica era una dottrina bifronte.
Da un lato vi era la nozione giuridica tradizionale, espressa da
Ulpiano e da Pomponio e ancora presente senza ambiguità nei testi giustinianei, per la quale è legittima la guerra proclamata contro chi sia formalmente dichiarato nemico del popolo romano,
mentre ogni altro intervento militare va considerato un semplice
intervento di polizia, contro avversari che sono solo predoni o
volgari “latrunculi” 26. Nella Roma antica per dichiarare la guerra
occorreva l’intervento del collegio dei Feziali, che rivela inequivocabilmente l’impostazione esplicitamente religiosa attribuita nell’età arcaica all’attività militare, come peraltro avveniva anche nella sfera del diritto fino a che la più antica giurisprudenza romana
venne gestita dai pontefici. Tutto ciò era tramontato da tempo
22. Excerpta Valesiana, I. 31, ed. J. MOREAU e V. VELKOV, Lipsiae, 1968, p. 9.
23. AGOSTINO, De civitate Dei, 5. 23, trad. it. di C. Carena, Torino, 1992, p. 228.
24. FOZIO, Biblioteca, a cura di N. WILSON, Milano, 2007, p. 106 (Procopio di
Cesarea).
25. G. VISMARA, Problemi storici e istituti giuridici della guerra altomedievale, in Ordinamenti militari in Occidente nell’alto medioevo, Spoleto 1968 (Settimane di studio del Cisam, 15),
pp. 1127-1200; ora in ID., Scritti di storia giuridica, 7, Milano, 1989, pp. 475-537.
26. Digesto 49. 15. 24 [ULPIANO, Lib. I Inst.]: « Hostes sunt quibus bellum publice
populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano; ceteri latrunculi aut praedones appellantur »; Digesto, 50. 16. 118 [POMPONIO, Lib II ad Quintum Mucium]: « Hostes hi
sunt qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus, ceteri latrones aut praedones
sunt ».
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con i giuristi dell’età classica, ma la nozione formalistica della legittimazione alla guerra era rimasta ferma tanto da essere accolta
nella Compilazione giustinianea. Ed è chiaro che in una realtà politica quale quella dell’impero tardo-antico, che abbracciava ormai
l’intero Mediterraneo, da questa nozione discendeva che “guerra”
potesse giuridicamente qualificarsi in senso proprio soltanto quella
contro una potenza esterna all’impero, ad esempio il regno persiano o i popoli stanziati al di là del Reno e del Danubio.
D’altro lato vi era la dottrina espressa da Cicerone sulla base di
idee di matrice filosofica greca e stoica. Nella definizione di cosa
dovesse intendersi per bellum iustum egli aveva affiancato – in aggiunta e probabilmente in alternativa 27 rispetto all’elemento formale della dichiarazione di guerra, con richiamo ai Feziali – anche
gli elementi sostanziali della causa, cioè della motivazione della
guerra, anzitutto giustificata come iustum bellum per la rivendicazione di beni ingiustamente sottratti e non restituiti allo stato romano (« de rebus repetitis ») 28. Dunque Cicerone faceva appello,
oltre che alla forma, a ragioni o a torti, non soltanto agli elementi
tradizionali di natura formale e di matrice sacrale 29.
La dottrina dei Padri della Chiesa fece propria, dopo alcune
oscillazioni iniziali che videro anche riprovazioni incondizionate
27. In effetti il passo del de Republica citato alla nota seguente potrebbe interpretarsi
nel senso della necessaria compresenza dei tre elementi menzionati per il bellum iustum,
mentre nel passo del de officiis essi risultano disgiunti (aut – aut).
28. CICERONE, De Republica, 3. Framm. 9: « Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa
suscepta. Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum
nullum potest. Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi de
repetitis rebus » (cfr. ed. A. Resta Barrile, M. T. CICERONE, Dello Stato, Bologna, 1981,
p. 216).
CICERONE, De officiis, 1. 11. 36: « Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure praescripta est. Ex quo intelligi potest nullum bellum esse iustum, nisi quod
aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum ».
L. LORETO, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci, Napoli, 2001, ha sostenuto che nel passo
del de Repubblica, che ci è giunto da ISIDORO DI SIVIGLIA (Etymologiae, 18. 1. 2-3), le parole Nam-potest sarebbero un’aggiunta posteriore. Ma anche accogliendo questa tesi, ciò
non modifica l’impostazione ciceroniana che fa appello ai motivi di sostanza che giustificano il bellum iustum.
29. Sulla dottrina ciceroniana è ora da vedere l’analisi di A. CALORE, Forme giuridiche
del ‘bellum iustum’, Milano, 2003. La storiografia sul tema è molto ricca; sulle differenze
tra il concetto romano e il concetto greco di guerra giusta, si veda in particolare CLAVADETSCHER-THÜRLEMANN, Polemos dikaios und bellum iustum, Zürich, 1986.
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della guerra e del servizio militare (Tertulliano, Lattanzio, Origene), quest’ultima posizione. Ma lo fece in un’ottica diversa. Lo attesta già Ambrogio, che nel De officiis non ha dubbi nel sostenere
la liceità, anzi la piena giustificazione della guerra di difesa della
patria contro i barbari, come dichiara giusta la reazione armata
contro chi attenti all’incolumità personale o ai beni di un concittadino 30. Il ricorso alla forza in questi casi è giustificato, anzi chi
non vi facesse ricorso sarebbe colpevole 31. Ma il vescovo di Milano affianca questa sua chiara enunciazione sulla liceità della guerra
giusta alla tesi per la quale la risposta armata e la condotta verso il
nemico debbono essere commisurate alla gravità dell’offesa, e
questo sul fondamento di passi della Scrittura che attestano come
ben diversa sia stata la condotta di Israele verso i Madianiti, verso
i Gabaoniti e verso i Siri 32. Il modello biblico alto-testamentario
secondo Ambrogio costituisce norma di condotta per il popolo
cristiano anche in tema di guerra.
Non può sorprendere che anche sul diritto di guerra, come
per tanti altri temi, sia stato decisivo per il medioevo occidentale
il pensiero di Agostino. La sua posizione nei confronti del diritto
di guerra, espressa in diversi suoi scritti, è di grande rilievo. Anzitutto, come già per Ambrogio, per Agostino la giustificazione del
ricorso alle armi in determinati casi è presente senza ambiguità: fu
giusta l’estensione progressiva dell’impero di Roma perché conseguenza delle ingiustizie dei vicini che « attirarono su di sé la guerra con le loro offese » 33 ed è giusta la guerra dei Romani contro
gli invasori a tutela della propria incolumità e della propria libertà:
così egli afferma nel de civitate Dei 34. In generale, la guerra è definita giusta se diretta a riparare un torto arrecato alla comunità po30. AMBROGIO, De officiis 1. 27 (ed. M. TESTARD, Turnhout, 2000, Corpus Christianorum, series latina, 15): « Fortitudo, que bello tuetur a barbaris patriam, vel domi defendit infirmos, vel a latronibus socios, plena iustitia est ».
31. Ibid., 1. 36.
32. Ibid., 1. 27 richiama al riguardo tre passi dell’Antico Testamento: Mosè era stato
implacabile con i Medianiti perché essi avevano indotto al peccato le loro mogli incorrendo nell’ira divina (Numeri, 31. 3), Giosuè aveva risparmiato i Gabaoniti perché essi
avevano agito « fraude magis quam bello » (Giosuè, 9. 20), Eliseo indusse a non infierire
contro gli Aramiti ma a trattarli con umanità (2 Re. 6. 21).
33. AGOSTINO, De civitate Dei cit., 4. 15.
34. Ibid., 3. 10: « sed plane pro tantis bellis susceptis et gestis iusta defensio Roma-
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litica da un ordinamento straniero che lo ha provocato o che non
lo ha riparato 35, in ciò riprendendo motivi propri, come abbiamo
visto, del pensiero ciceroniano 36.
Vi sono altri profili di grande importanza nel pensiero agostiniano sulla guerra. Per l’ipponate è bellum iustum anche la guerra
ordinata direttamente da Dio: nel commentare la guerra condotta
da Giosuè contro il popolo degli Ai, Agostino la dichiara giusta
perché ordinata da Dio stesso; e aggiunge che fu Dio a suggerire
lo stratagemma che portò alla vittoria di Giosuè 37. Questa impostazione che fa di Dio, attraverso uomini che ne dichiarano i propositi, il promotore di una guerra – in questo caso finalizzata alla
conquista della terra promessa, per la quale gli Ai sbarravano agli
Ebrei il passaggio – è di grande rilievo ed avrà anch’essa un peso
nella storia, e non certo di poco conto.
La tesi del ruolo decisivo della divinità nel determinare la vittoria e la sconfitta in guerra – un’idea che ha radici remotissime e
che è tra l’altro alla base del ricorso alla prova del duello e delle
altre ordalie in tanti ordinamenti della storia – sarà fatta propria
anche da autori e legislatori altomedievali. Questa convinzione
viene espressa senza ambiguità dal vescovo di Ippona nel De civitate Dei: è Dio stesso che decide l’esito della guerra e la sua durata 38. Questa convinzione non si identifica con l’altra, anch’essa
norum est, quod irruentibus sibi importune inimicis resistere cogebat [...] necessitate
tuendae salutis et libertatis »; cf. anche ibid, 4. 15; ibid. 19. 7; ibid. 19. 15.
35. AGOSTINO, Questiones in Heptatheucum cit., 6. 10 (P.L. 34. 781): « iusta bella definiri solent quae ulciscuntur iniurias si qua gens vel civitas quae bello petenda est, vel
vindicare neglexerit quod a suis improbe factum est, vel reddere quod per iniurias ablatum est ». Si veda ora su ciò A. CALORE, in Guerra e diritto, a cura di A. A. CASSI, Soveria Mannelli, 2009, pp. 13-24; ivi riferimenti bibliografici alla letteratura anteriore.
36. Cf. M. TESTARD, Cicéron dans la formation et dans l’oeuvre de saint Augustin, Paris,
1958.
37. AGOSTINO, Questiones in Heptatheucum cit., 6. 10 (P.L. 34. 781): oltre ai casi di
guerra giusta che già abbiamo menzionato sopra (nota 35), si aggiunge: « Sed etiam hoc
genus belli sine dubio iustum est, quod Deus imperat, apud quem non est iniquitas et
novit quid cuique fieri debeat; in quo bello ductor exercitus vel ipse populus non tam
auctor belli, quam minister iudicandus est ». Il testo agostiniano giungerà sino a GRAZIANO, Decretum, C. 23 q. 2 c.2. Cf. AGOSTINO, Locuzioni e Questioni sull’Ettateuco, a cura
di L. CARROZI e e A. POLLASTRI, Roma 1997.
38. AGOSTINO, De civitate Dei cit., 4. 17: « il Re dei secoli [...] fa vincere chi vuole; il
suo disegno può essere misterioso, ma non può essere ingiusto ». Ibid., 5. 22:« anche la
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molto antica e ricorrente dall’età di Costantino in poi, secondo la
quale la vittoria in guerra è prova della potenza del Dio e della
verità del religione professata dall’esercito vittorioso: perché il vero Dio può decidere la sconfitta del “suo” popolo per punirlo dei
peccati commessi 39.
In Agostino sono inoltre presenti alcune significative valutazioni delle regole da osservare nella condotta della guerra. Da un
lato egli ammette che in una guerra giusta si faccia ricorso anche a
tranelli e stratagemmi volti ad ingannare il nemico, così ad esempio da sorprenderlo alle spalle. D’altro lato egli condanna come
colpevole una condotta di guerra inficiata da cupidigia, crudeltà
d’animo, sete di dominio 40. Anche nei confronti del nemico bisogna rispettare la fides, la parola data; pur combattendo, occorre
un atteggiamento che dimostri e favorisca l’aspirazione alla pace,
così come nei confronti del vinto e del prigioniero si deve mostrare misericordia 41. Questa posizione, espressa nella lettera a Bonifacio, è di particolare significato perché introduce forse per la
prima volta un principio di moderazione nella condotta di guerra;
l’esortazione agostiniana, finalizzata alla promozione della pace, è
certamente ispirata ai valori cristiani della misericordia e della
durata delle guerre dipende dalla sua decisione »; Ibid., 5. 23: fu Dio a decidere la sconfitta del pagano re dei Goti Radagaiso a Roma e più tardi a lasciar conquistare la città
da un popolo rispettoso delle religione cristiana.
39. Così, ad esempio, argomenta il bizantino EVODIO, Vita e combattimennto dei santi
quaratadue martiri, nel celebrare il martirio dei cristiani giustiziati dal Musulmani nell’845,
dopo la conquista della citta di Amorion avvenuta sette anni prima (CARILE, Teologia politica bizantina [oltre, nota 57], p. 304). La tesi che la vittoria fosse la prova che il vero
Dio è quello dei vincitori, oltre che nella vicenda celebre della battaglia di Costantino
contro Massenzio nel secolo IV, è espressa nel pittoresco episodio riportato dal cronista
riguardo agli Agareni in lotta con i Cristiani: vedi oltre, alla nota 247 e testo corrispondente (Chronicon Salernitanum, c. 126, M.G.H., SS, vol. III, p. 537).
40. AGOSTINO, Questiones in Heptatheucum cit., 6. 10 (P.L. 34. 781): « Quod Deus iubet loquens ad Iesum [Giosuè], id est insidiantes bellatores ad insidiandum hostibus, hic
admonetur non iniuste fieri ab his qui iutum bellum gerunt »; AGOSTINO, Contra Faustum
l. 22.74 (P.L. 42. 447): « nocendi cupiditas, ulciscendi crudelitas, impacatus atque implacabilis animus, feritas rebellandi, libido dominandi, et si qua similia, haec sunt quae in
bellis iure culpantur ». Il testo è anche in Graziano, C. 23 q. 1. c. 4.
41. AGOSTINO, Epistulae cit., ep. 189, 6 ad Bonifacium (P.L.33. 856): « Fides quando
promittitur, etiam hosti servanda est contra quem bellum geritur ». E inoltre, ibid: « esto
ergo bellando pacificus, ut eos quos expugnas ad pacis utilitatem vincendo perducas ».
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compassione. Viene espresso un principio non giuridicamente cogente ma suscettibile di divenirlo e già potenzialmente applicabile
nella prassi.
Infine è da osservare che in Agostino, come già in Ambrogio,
la base normativa delle posizioni assunte è nei punti essenziali costituita dai testi biblici: così per la tesi che Dio ha sostenuto Davide nelle sue battaglie e che Cristo stesso non ha riprovato la professione di soldato nell’episodio del centurione 42; così nel richiamo alle guerre condotte dagli Ebrei. La Scrittura come testo normativo assume nella Patristica il suo pieno significato, con conseguenze del massimo rilievo anche sul terreno del diritto. È questo
un aspetto che merita particolare attenzione.
Come Karl-Heinz Ziegler ha giustamente sottolineato in un
contributo recente 43, i fondamenti biblici sono una componente
essenziale della tradizione del diritto internazionale dei popoli cristiani. E per fondamenti biblici si deve intendere, al riguardo, essenzialmente la tradizione altotestamentaria, con la narrazione, ritenuta dai Padri come divinitus inspirata, senza distinzioni, delle
tante guerre promosse (o subìte) dal popolo di Israele nella sua
storia antica. La storicizzazione dell’Antico Testamento e l’adozione di un criterio distintivo tra il vero e proprio messaggio divino
e ciò che è storicamente legato alle consuetudini del tempo era
ancora di là da venire. Anche in concrete vicende storiche dei secoli altomedievali il richiamo dei precetti biblici fu operato con
frequenza, per influsso dei sacerdoti e degli uomini di chiesa che
assistevano i sovrani 44.
Legittimità giuridica e morale della guerra giusta, che è tale se
ripara a un torto subìto o se fu Dio stesso a ordinarla; liceità dell’uso della forza ed anche del ricorso alle astuzie tattiche per conseguire la vittoria; obbligo di condotta equa e rispettosa della parola data verso i nemici; ruolo decisivo di Dio nel determinare la
42. AGOSTINO, Epistulae cit., ep. 189 ad Bonifacium, 4 (P.L. 33. 855).
43. K-H. ZIEGLER, Biblische Grundlage des europäischen Völkerrechts, in ZSS, Kan. Abt.,
117 (2000), pp. 1-27.
44. Un esempio relativo ai contrasti Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico nell’anno 878 è riportato in ZIEGLER, Biblische Grundlage cit., p. 11: il legato del re di Germania
cita il passo del Deuteronomio (20. 10) sulla necessaria offerta di pace come prioritaria
rispetto alla guerra.
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vittoria o la sconfitta; ancoraggio normativo ai testi alto-testamentari sulle guerre di Israele; in questi cinque punti si può identificare il nucleo della dottrina sulla guerra di Agostino. Essi eserciteranno, accanto ai testi antichi reinterpretati in ottica cristiana,
un’influenza profonda nel corso dell’età altomedievale. Ci limitiamo a pochi richiami di autori tra i più influenti della cultura di
questi secoli.
Particolarmente significativo è il fatto che uno dei personaggi
più rilevanti della cultura altomedievale, il vescovo Isidoro di Siviglia, che fu tramite di una parte importante della cultura antica
nel mondo medievale dell’occidente, abbia definito, nelle Etymologiae, il diritto delle genti (ius gentium) essenzialmente come il diritto relativo ai rapporti giuridici internazionali di guerra e di pace, con uno spostamento di orizzonte certo non casuale rispetto
alle fonti antiche 45. Non meno importante è l’inclusione nella categoria delle norme di ius gentium del principio, tramandato dai
testi romani 46, per il quale contro la forza è lecito il ricorso alla
forza (« vim vi repellere licet »). Un principio che è alla base del
concetto di guerra giusta, come si è visto. Innovando rispetto alle
fonti da lui utilizzate 47, oltre alla guerra, alla prigionia, alla riduzione in servitù dei prigionieri menzionate dalle Istituzioni e dal
Digesto, Isidoro inseriva anche gli accordi di pace, le tregue, il rispetto degli ambasciatori, il divieto di matrimonio con stranieri,
mentre lasciava da parte i contratti, le manomissioni dei servi ed
altri istituti civilistici considerati di ius gentium dalle fonti giustinianee. Per il vescovo di Siviglia il diritto delle genti consta essenzialmente di regole di diritto internazionale, che si ritrovano, egli
afferma, « presso quasi tutti i popoli » 48. Il testo isidoriano passò
più tardi nelle Collezioni canoniche pregrazianee e si ritrova an45. ISIDORO, Etymologiae cit., V. 6 (ed. W. M. Lidsay, Oxonii 1962): « Ius gentium
est sedium occupatio, aedificatio, munitio, bella, captivitates, servitutes, postliminia, foedera pacis, indutiae, legatorum non violandorum religio, conubia inter alienigenas
prohibita. Et inde ius gentium, quia eo iure omnes fere gentes utuntur ».
46. Vim vi repellere licet (cf. Dig. 9. 2. 45. 4, ULPIANO ad Edictum).
47. Certamente Isidoro attinse alle Istituzioni giustinianee (Inst. 1. 2. 2) e verosimilmente anche al Digesto (Dig. 1. 1. 3, FIORENTINO; Dig. 1. 1. 5, ERMOGENIANO).
48. “quasi” (fere) è un’attenuazione non casuale rispetto agli antichi, probabilmente
derivata dalla conoscenza di consuetudini proprie di talune popolazioni barbariche.
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cora in Graziano (Decretum, D. 1 c. 9), accolto così stabilmente
nel filone principale del diritto canonico classico.
Isidoro nel secolo VII attinge a Cicerone nel definire la nozione di guerra giusta (un passo fondamentale del De Republica ci
è giunto proprio attraverso le Etymologiae), aggiungendo per parte
sua che ingiusta è invece la guerra che scaturisce « de furore, non
de legitima ratione » 49, anche qui riprendendo un motivo ciceroniano; e definisce « plus quam civile » (in contrapposizione con la
guerra civile) quella che scoppia tra capi militari e sovrani che siano tra loro parenti 50. Un’ipotesi che Isidoro, sempre citando le
fonti antiche, riconnette alla guerra tra Cesare e Pompeo, ma che
per i suoi tempi non era certo un’ipotesi di scuola, se solo si pensa ai Franchi della dinastia merovingia.
Rabano Mauro, a lungo abate di Fulda e poi vescovo di Magonza nella prima metà del secolo IX, riprende alla lettera da Isidoro, nello scritto enciclopedico de universo, la classificazione delle
diverse specie di guerre 51; nell’Enarratio super Deuteronomio ripete
da Agostino i richiami altotestamentari sulle guerre ma estende,
con un ardito ricorso al metodo analogico, la giustificazione biblica dell’offensiva contro i nemici di Israele al suo presente: anche
contro gli eretici era a suo avviso giustificata la guerra di attacco 52. Nelle pagine che Incmaro di Reims dedica alla guerra nel
suo trattato de regis persona et regio ministerio la prevalenza del pensiero agostiniano è assoluta. La sua trattazione – tanto più rilevante se si considera il ruolo eminente da lui svolto soprattutto durante il regno di Carlo il Calvo, negli anni settanta del secolo IX
– consta essenzialmente di una serie di excerpta, brevemente commentati, dal de civitate Dei e dalla lettera a Bonifacio. Per i boni reges la guerra deve essere affrontata come una dura necessità, non
con sentimenti di adesione, quale mezzo finalizzato di dominio 53.
Chi combatte per volontà di Dio non commette peccato e non
dispiace a Dio, neppure se uccide altri uomini nel corso della bat49. ISIDORO, Etymologiae cit., XVIII. 1 de bellis.
50. Ibid., XVIII. 4 de bellis.
51. RABANO MAURO, De universo cit., II (P.L., 111. 531).
52. RABANO MAURO, Enarratio super Deuteronomio cit., 23 (P.L. 108. 913).
53. INCMARO DI REIMS, De regis persona et regio ministerio, 7 (P.L. 125. 840).
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taglia 54. Soprattutto egli insiste sull’affermazione che è Dio stesso
a decidere la vittoria, perché dal cielo vede e dispone dell’esito
della battaglia 55: ai testi agostiniani Incmaro affianca, su questo
punto anche la narrazione di Orosio (Historiae, II.9, PL 31.763)
sulla battaglia delle Termopili, interpretandola nel senso (non
espresso da Orosio) che in quella circostanza – apparentemente
disperata per la enorme sproporzione dei numeri – « Dominus
cum bellatoribus fuit », facendo così vincere gli Spartani 56.
Non possiamo qui seguire nei particolare i canali della penetrazione delle dottrine sulla guerra nei secoli altomedievali. Ma è
importante sottolineare che non pochi dei testi agostiniani ai quali
abbiamo fatto riferimento entreranno progressivamente (ma su
questo importante capitolo sarebbero necessarie nuove ricerche)
nelle collezioni canoniche, da Reginone a Burcardo, da Anselmo
da Lucca ad Ivo di Chartres, sino ad essere accolti nel Decreto di
Graziano. Le idee del grande padre della Chiesa acquisteranno così un ruolo e un peso normativo saldo e permanente entro la tradizione plurisecolare del diritto canonico occidentale.
La tesi che riteneva lecita e giuridicamente giustificata la guerra solo se difensiva o mossa dalla reazione ad un’ingiustizia subìta
non è presente solo nella tradizione patristica latina. Per limitarci a
un solo riferimento, quando nell’anno 913 l’arcivescovo di Costantinopoli Nicola il Mistico si rivolse ad un personaggio musulmano (probabilmente il califfo di Bagdad al-Muqtadir) per giustificare la resistenza dei ciprioti contro le autorità musulmane, egli
asserì che ciò era dovuto alle violenze patite da loro ad opera del
comandante locale Damiano, il quale a sua volta agiva per rappresaglia contro l’attacco del bizantino Himerios, un attacco del quale i ciprioti non erano responsabili: ed è legge comune, asseriva
Nicola, che un popolo (anche se soggetto a un potere esterno,
come era il caso di Cipro, conquistata dall’Islam) possa opporsi
con la forza a chi li attacca 57.
54. Ibid., 9; 10; 11 (P.L. 125. 841 s).
55. Ibid., 12; 13 (P.L. 125. 843).
56. Ibid., 14 (P.L. 125. 843).
57. NICOLA IL MISTICO, Epistola 1 (P.G. 111. col. 27-36, alla col. 20 D). Su questo testo e su una serie di altri scritti di autori bizantini dedicati all’Islam sotto religioso sono
importanti le considerazioni di Antonio CARILE, I teologi bizantini e l’Islam, in ID., Teolo-
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Se poi rivolgiamo lo sguardo al di fuori della respublica christiana, sappiamo bene che principio della Jihad, la “guerra santa”, è
una delle idee forza dell’Islam. Ma vale forse la pena di osservare
che dei tre passi del Corano che ad essa fanno riferimento, due
prescrivono di « combattere coloro che non credono in Dio »
(Corano IX. 29) e impongono ai fedeli di « uccidere gli idolatri
ovunque li troviate » (Corano IX. 5) ma il terzo passo esprime
una concezione alquanto diversa e prescrive ai seguaci di Maometto un comportamento meno aggressivo: infatti si impone loro
di « non oltrepassare i limiti, perché Dio non ama gli eccessi » e
perciò di combattere e uccidere solo « coloro che vi combattono »
e di scacciarli solo « da dove hanno scacciato voi » (Corano II.
190-191). Non entro qui, perché non ne ho la competenza, nell’analisi che di questi precetti e delle loro interrelazioni ha compiuto nei secoli altomedievali la foltissima schiera degli esegeti e
dei commentatori del Libro sacro dell’Islam.
4. GUERRA
E DIRITTO: CONSUETUDINI E PRECETTI
Se dalle dottrine antiche e patristiche passiamo a considerare le
testimonianze offerte dalle cronache, il panorama delle consuetudini e delle regole belliche appare alquanto lontano dai principî ai
quali abbiamo fatto riferimento. Risulta chiaramente, anzitutto,
come l’iniziativa militare sia stata assunta in molti casi per ragioni
di necessità: un popolo si sposta dal territorio occupato e ne conquista un altro perché cacciato dall’onda conquistatrice di un’altra
etnia in armi, proveniente da terre lontane, per ragioni che quasi
sempre restano oscure, nonostante le tante scoperte rese possibili
dalla ricerca archeologica.
Talora lo spostamento fu proposto in modo formale, inviando
ambasciatori – come quando nel secolo IV i Goti richiesero senza
successo all’imperatore di abitare la Tracia perché cacciati dal tergia politica bizantina, Spoleto, 2008, pp. 295-308, a p. 303. Sull’idea di guerra santa a Bisanzio, A. KOLIA DERMITZAKI, The Byzantine “Holy War”, The Idea and Propagation of Religious War in Byzantium, Athens 1991; A. CARILE, La guerra santa nella Romània (Impero
romano d’Oriente) secoli VII-XI, ora in Teologia cit., pp. 61-71.
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ritorio che occupavano 58 – ma più spesso l’ingresso di un popolo
entro i confini dell’impero o in territori occupati da altri popoli
non fu concordato: avvenne ricorrendo alla forza militare, senza
alcuna trattativa preliminare e senza una formale dichiarazione di
guerra, che Procopio dichiarava estranea alle consuetudini dei popoli barbarici 59. Davvero espressiva, in questo contesto, ci sembra
la considerazione contenuta in un capitolare di Carlo il Calvo:
« non est mirum si pagani et exterae nationes nobis dominantur
[...] dum unusquisque proximo suo per vim tollit, unde vivere
debet » 60.
In molti casi l’intervento di un esercito straniero fu invece
espressamente richiesto proprio da chi poi ne dovrà subire il dominio, da temporaneo divenuto permanente. Nel secolo V gli
Angli e i Sassoni vennero sull’isola britannica per invito dei Bretoni e del re Vortigen 61, nel secolo VI Narsete e Giustiniano si
rivolsero ai Longobardi per combattere i Goti in Italia 62, nel secolo VII Grimoaldo chiamò in Friuli gli Avari che lo devastarono 63, nel secolo IX i Provenzali chiesero aiuto ai Saraceni che si
stabilirono a Frassineto 64. Gli esempi sono innumerevoli e scavalcano ogni confine etnico o religioso.
In altri casi ancora la guerra e la conquista nacquero invece da
una incontrastata pulsione di dominio. Quando Clodoveo decise
di attaccare Alarico, infrangendo la pace stipulata in precedenza
con lui, addusse come motivo di « non sopportare più che gli
Ariani (tali erano allora i Visigoti) occupino una parte della Gallia » 65: ma si tratta di un evidente pretesto, che consentì ai Fran58. AMMIANO MARCELLINO, Rerum Gestarum Libri cit., XXXI. 12 . 8-9.
59. PROCOPIO DI CESAREA, De Aedificiis, ed. DINDORF, Procopius, Bonn 1838, IV. 1, p.
265: i Barbari sono soliti fare la guerra « iniziandola senza una causa, senza una dichiarazione preliminare, senza accettare patti che vi pongano termine, né tregue che la
interrompano ».
60. Capitulare Vernense, a. 884 (M.G.H., Capitularia Regum Francorum, ed. BoretiusKrause, n. 287, II.2, p. 371).
61. BEDA, Historia ecclesiastica cit., I. 14-15.
62. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., II. 1; II. 5.
63. Ibid., V. 15.
64. LIUTPRANDO DA CREMONA, Antapodosis 1. 4, (ed. J. Becker, M.G.H. Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 1915, p. 6).
65. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., II. 37 (p. 85).
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chi l’estensione del regno verso il mezzogiorno. Spesso il pretesto
non fu neppur necessario o fu chiaramente infondato: così, sempre da parte dei Franchi, negli attacchi contro i Turingi e nella
guerra che per impulso di Clotilde Clodomero combatté contro i
Burgundi 66.
E poi vi furono le guerre tra sovrani o aspiranti sovrani della
stessa famiglia. Accanto alle infinite trame di palazzo, concluse nel
sangue con l’uccisione del padre (Sigeberto merovingio) o del fratello (Hermafrid turingio) o del figlio di primo letto (Gundobado
burgundo), o dei nipoti (Childeberto e Clotario merovingi), o
della zia (Clotario, che fece prima torturare e poi uccidere Brunichilde) 67, vi furono anche vere proprie guerre intrafamiliari che
Gregorio di Tours chiamò “guerre civili” 68 e che furono frequenti anche nell’età carolingia: come quelle tra Lotario e Ludovico il Germanico, « usque ad internecionem delere conatus » 69,
tra Siginolfo e Radelchi di Benevento 70, tra il duca di Napoli
Sergio e il fratello Atanasio vescovo 71.
Non mancano tuttavia, in qualche raro caso, i segni della consapevolezza di infrangere, con una guerra senza causa, i canoni
della morale e della religione. Come quando Clotario decise di
non attaccare i Sassoni dichiarando ai suoi di non volerlo fare per
non “peccare in Deum” 72.
Per parte loro, in più occasioni i papi si adoperarono per evitare guerre e promuovere accordi di pace: sul ruolo da essi svolto
in questi secoli, che risultò più volte determinante, torneremo tra
breve.
Non meno rilevante è la disciplina giuridica che troviamo in
atto durante i secoli dell’alto medioevo nella condotta della guerra, il
tema che i giuristi dei secoli posteriori qualificheranno come ius in
66. Ibid., III. 6 (p. 102), dell’anno 524.
67. Ibid., II. 40; III. 4; III. 8; III. 18.
68. Ibid., III. 28; IV. 56.
69. HLUDOWICI ET KAROLI Pactum Argentoratense, in M.G.H., Capitularia, II.1, n.
247, a. 842.
70. HLOTHARII Capitulare de expeditione contra Sarracenos facienda, M.G.H., Capitularia,
n. 203, II. 2.1, p. 67, a. 846.
71. Chronicon Salernitanum, 81, in M.G.H., Scriptores, III, p. 508, Hannover, 1839,
rist. 1987.
72. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., III. 15 (p. 146).
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bello, contrapposto allo ius ad bellum del quale abbiamo trattato.
Anche su questo versante va detto che le regole individuabili sono essenzialmente consuetudinarie, non stabilite per legge né attraverso accordi o trattati internazionali. E i limiti da osservare nei
confronti del nemico sono enunciati essenzialmente in testi religiosi, hanno perciò un valore anzitutto etico e penitenziale, non
giuridico in senso stretto, pur nella loro indubbia rilevanza.
Nella divisione del bottino di guerra vi erano presso molti popoli regole precise. Il re vandalo non poteva disporre a piacimento dei prigionieri, in quanto occorreva l’accordo dei guerrieri 73.
Lo stesso Clodoveo, pregato con successo di restituire un vaso sacro sottratto alla chiesa, dovette prima ottenere l’assenso dell’esercito 74.
Per i vinti in guerra – uomini, donne, bambini – la tradizione
antica, ancora ben presente nella legislazione romana postclassica,
prevedeva come è noto la riduzione in schiavitù, dalla quale si
usciva con il riacquisto dello status di libero in caso di riscatto o
per altra via, attraverso l’istituto del postliminio. Nei confronti dei
guerrieri, anche dopo la cattura, era non di rado praticato lo sterminio. Le consuetudini militari dei popoli germanici e più in generale le prassi belliche altomedievali non si distaccavano da queste radici antiche, se non per il fatto rilevantissimo che la servitù
non corrisponde alla schiavitù, in quanto il servo non è una cosa,
ma resta, pur con tante limitazioni, soggetto di diritto. E le notizie di riduzione in servitù dei vinti sono frequenti nelle fonti:
Genserico si fece portare i prigionieri per decidere quali tra loro
rendere propri servi 75; i Danesi trascinarono via in servitù i prigionieri del regno del re franco Teodorico 76; Autari fece prigionieri i vinti dell’esercito di Childeberto 77; gli Avari chiamati dai
Longobardi in Friuli portarono i prigionieri in Pannonia promet73. MALCO, Fr. 5 (ed. R. C. BLOCKLEY, The Fragmentary Classicising Historians of the
Later Roman Empire, Liverpool, 1983, vol. II, p. 410/411): il re Vandalo al legato bizantino: « ti restituisco tutti i prigionieri che io e i miei figli abbiamo ottenuto nella divisione delle prede ».
74. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., II. 88.
75. PROCOPIO, La guerra vandalica cit., I (III). 4.
76. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., III.3.
77. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., IX. 25, a. 588.
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tendo di liberarli, ma invece li fecero servi: Paolo Diacono narra
che il nonno riuscì a fuggire tornando in Italia, mentre gli altri tre
fratelli di lui « si rassegnarono al loro destino di servi » 78; e ancora
Paolo narra che Grimoaldo, figlio del duca Gisulfo, riuscì anch’egli a fuggire, mentre le sorelle (a differenza della madre) riuscirono ad evitare una sorte poco lieta di violenza con la tecnica dissuasiva efficace di indossare sotto le vesti polli avariati 79.
Il trattamento riservato ai vinti fu in effetti non di rado feroce.
Quando Totila conquistò Roma nel 546, i romani anche eminenti furono costretti a vestire abiti da schiavi e da contadini, mendicando il cibo 80. Gregorio Magno denunciava nel 593 la ferocia
dei Longobardi, con uomini fatti servi, mutilati, sgozzati 81. E
quando Agilulfo invase la regione romana, scriveva lo stesso Gregorio all’imperarore Maurizio due anni più tardi, « io vidi con i
miei occhi i Romani legati al collo con funi al pari di cani, portati in Francia » per essere venduti o riscattati 82.
Il riscatto era, per i prigionieri, lo strumento principale per
riacquistare la libertà. Nelle fonti le notizie di somme chieste e
ottenute per riscattare i prigionieri sono frequenti. Nel secolo V
l’irlandese Patrizio pagava per riscattare i compatrioti fatti prigionieri dai pagani 83; Gregorio Magno intervenne più volte presso
personaggi facoltosi od anche a proprie spese per sollecitare il riscatto di prigionieri versando le somme richieste 84. E così, tra gli
altri, il papa Giovanni IV nel 640, inviando danaro in Dalmazia 85.
Naturalmente l’entità del riscatto dipendeva dalle condizioni economiche del prigioniero: sicché vi fu chi riuscì con successo a fingersi di condizione umile, come fece, nel racconto di Liutprando
da Cremona, l’accorto Adalberto, il quale fatto prigioniero dagli
Ungari all’inizio del secolo IX, si travestì da semplice soldato ed
78. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., IV. 37, p. 131 (M.G.H., Scriptores
rerum Langobardicarum et italicarum, ed. L. Bethmann et G. Waitz, 1878).
79. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., IV. 37.
80. PROCOPIO, Guerra gotica cit., III (VII). 9 e 20.
81. GREGORIO MAGNO, Registrum epistolarum cit., III. 29 dell’anno 593.
82. Ibid., V. 36 dell’anno 595.
83. GUIDETTI, Vivere tra i Barbari cit.(nota 20), p. 226
84. GREGORIO MAGNO, Registrum epistolarum cit., III. 16; V. 46; VI. 32; VII. 23.
85. GIOVANNI IV, a. 640-642, (JAFFÉ-KALTENBRUNNER [JK], Regesta Pontificum Romanorum Lipsiae, 1885, rist. 1956, I, p. 228).
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ottenne così non solo di aver salva la vita, ma di ricevere una richiesta poco onerosa per il proprio riscatto 86.
Se ci chiediamo quali siano stati i limiti eventualmente enunciati nei confronti di comportamenti bellici così spesso feroci,
dobbiamo rivolgerci per questi secoli a fonti non propriamente
giuridiche, come già si è visto a proposito della guerra giusta.
Di Agostino e della sua dottrina, che incitava alla moderazione
verso i vinti, si è detto sopra. La medesima convinzione venne
espressa con chiarezza da Rabano Mauro, seguace anch’egli come
sappiamo del pensiero agostiniano, allorché scrisse nel Commentario
al Libro dei Giudici che « la pietà è da lodare anche in guerra » 87.
Nel suo trattato sulla penitenza – composto dopo la terribile battaglia
di Fontenoy dell’anno 841 combattuta tra i quattro sovrani carolingi
in lotta tra loro – Rabano vescovo di Magonza chiarisce che erra chi
ritiene in ogni caso giustificata ed esente da colpa, dunque non necessitante la penitenza, l’uccisione dei nemici in guerra, anche se
compiuta per ordine del principe: perché occorre vedere se il comportamento di chi combatte sia o meno causato dalla cupidigia e dall’avarizia, radici di ogni male, o se fu compiuto « proper favorem dominorum suorum temporalium ». Se così fu, la condotta deve essere
severamente espiata perché coloro che se ne siano macchiati « aeternum Dominum contempserunt » 88.
Il tema della penitenza che il combattente anche di una guerra
giusta debba (o non debba) scontare in caso di uccisione di nemici
è significativo, perché rivela il margine di incertezza che pur sussisteva anche nel mondo religioso a proposito delle atrocità della
guerra. Da una parte vi è chi, come Incmaro, dichiara sulla scia di
Agostino che non commette peccato chi uccide in guerra obbedendo al comando militare 89; mentre il Concilio di Treviri del86. LIUTPRANDO DA CREMONA, Antapodosis, 2. 62 (M.G.H., ed. Becker, p. 65).
87. RABANO MAURO, Commentarium in Librum Iudicum (P.L. 108. 1124): « non quia
optabile quid est in bellum, sed quia pietas laudabilis est in bello ».
88. RABANO MAURO, Libellus de poenitentia cit., 15 (a. 842), M.G.H., Epistulae Carolini Aevi, III, ed. Dümmler, p. 464. Il passo figura, sotto la intitolazione di canone del
secondo Concilium Maguntinum, anche nel Decreto di BURCARDO DI WORMS, VI. 22
(P.L. 140. 770). Su questo passo, Ph. CONTAMINE, La guerre au Moyen Age (1980), trad. it.
La guerra nel medioevo, Bologna, 1986, p. 363.
89. INCMARO, De regis persona et regio ministerio cit., c. 11: « militem potestati obedientem non peccasse si hominem occidit » (P.L. 125. 842).
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l’895 dichiara meritevoli di indulgenza i guerrieri cristiani che per
errore abbiano ucciso altri cristiani in guerra 90. D’altra parte vi è
chi, come Rabano Mauro del quale si è detto, non ha dubbi sulla
necessità di espiare comunque, con una penitenza adeguata, il
peccato – un peccato minore, ma reale – di chi abbia ucciso
combattendo: una posizione che era stata espressa da Teodoro di
Canterbury alla fine del secolo VII da Beda nel secolo VIII; e che
troviamo presente anche nella tradizione religiosa bizantina, ad
esempio nel canone di san Basilio 91.
Davvero significativa e degna di menzione, nel mondo parallelo dell’Islam, è la dottrina che una antica tradizione islamica (per
vero ritenuta non autentica dalla storiografia critica moderna) attribuisce ad Abu Bakr, il primo successore di Maometto, personaggio tra i più eminenti della storia dell’Islam, celebrato per la
sua saggezza e mitezza, anche verso i prigionieri di guerra. Egli
avrebbe dichiarato ai combattenti, prima della guerra contro la
Persia: « Se Dio vi accorda la vittoria, non abusate dei vostri vantaggi e guardatevi dall’insozzare le vostre spade con il sangue di
coloro che si arrendono; non toccate neppure i fanciulli, le donne, i poveri vecchi che troverete tra i vostri nemici » 92. Quan90. Concilium Triburiense dell’a. 895, c. 34, in M.G.H., Capitularia, n. 252, (II.2, p. 34).
91. Così Teodoro di Canterbury e il venerabile Beda (CONTAMINE, La guerre cit. (nota 88), p. 361 s): la penitenza è di 40 giorni. Sul canone XIII di san Basilio, che impone
la penitenza per le uccisioni in guerra, cf. A. CARILE, Teologia politica bizantina cit. (nota
57), p. 69.
92. Questa dichiarazione è costantemente riportata dagli storici del diritto internazionale con l’attribuzione ad Abu Bakr. La prima menzione è in J. A. CONDE, Historia de la
dominaciòn de los Arabes en España, Barcelona, 1844-45, vol. I. p. 8; purtroppo essa non
contiene il riferimento puntuale alla fonte alla quale lo storico ha attinto. L’opera di
Conde è stata tradotta in francese (ID., Histoire de la domination des Maures en Espagne et
en Portugal, Paris, 1825, vol. I, p. 47) e in inglese (ID., History of the Dominion of Arabs in
Spain, London, 1854). La dichiarazione attribuita ad Abu Bakr è stata in séguito riprodotta alla lettera, in serie, da Th. A. WALKER, A History of the Law of Nations, Cambridge, 1899, rist. Lexinton KY, 2006, vol. I, 75 s.; da M. DE TAUBE, Etude sur le developpement historique du droit international dans l’Europe orientale, in Académie de Droit International, Recueil des Cours, 11 (1926), I, pp. 345-535, alle pp. 391 e 515 nota 77; da VISMARA,
Scritti 7, cit. (nota 8), p. 528. Ma né E. SACHAU nel suo contributo biografico su Abu
Bakr (Der erste Chalife Abu Bekr, in Sitzungsberichte der Preussische Akademie der Wissenschaften zu Berlin, 1903, pp. 16-32), né L. CAETANI, Annali dell’Islam, vol. III, Milano,
1910, pp. 93-119, ne fanno cenno. Tacciono, evidentemente, i principali e più affidabili
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tunque verosimilmente non autentica, questa posizione riflette comunque un punto di vista che appartiene anch’esso alla tradizione
medievale dell’Islam.
L’invito a trattare con moderazione il nemico lo troviamo
espresso con efficacia anche a Bisanzio. L’imperatore Leone VI
(866-912) nello scritto sulla Tattica di guerra è molto chiaro: raccomanda ai comandanti militari di annunciare che sarà fatta salva
la vita a chi non porti armi, di riservare una condotta umana verso la popolazione civile del popolo vinto, di assicurare un trattato
di pace equo, infine di non uccidere i prigionieri prima della conclusione della guerra e neppure dopo la vittoria, se il nemico accetterà lo scambio tra prigionieri 93. È innegabile che questi precetti dell’imperatore bizantino siano in primo luogo finalizzati al
successo militare e al consolidamento della vittoria ottenuta sul
campo; ma è pur significativa la scelta di raccomandare una condotta umana e moderata in un tempo nel quale la guerra ben conosceva anche atrocità senza regole.
Quanto alla traduzione nella pratica degli inviti alla moderazione verso i nemici e verso i vinti, qualche intervento certamente vi fu, tanto più degno di menzione quanto più raro. Ne rammentiamo due. Nel secolo V il saraceno pagano Aspebetos, suddito dei Persiani, prestò aiuto ai Romani (cioè ai sudditi dell’impero) in fuga e più tardi si fece cristiano, divenne vescovo della
Chiesa bizantina e partecipò al concilio di Efeso del 431 94. Intorno all’anno 524, quando il Franco Clodomero re di Borgona si
volse a combattere i Burgundi per incitamento della madre Clotilde che voleva vendicare così la morte del padre, il suo saggio
consigliere Avito, nel racconto di Gregorio di Tours, gli consigliò
di risparmiare i prigionieri burgundi « per rispetto ai comandastorici di questa prima fase dell’Islam: al-Tabari, Waqidi, ibn Ishak, ibn Sad; i quali però
riferiscono che fu proprio Abu Bakr a sollecitare davanti a Maometto, contro il parere
di tutti, che ai prigionieri di una battaglia perduta, invocanti la salvezza, venisse risparmiata la vita; e il profeta lo ascoltò almeno in parte, imponendo tuttavia come condizione il pagamento di un pedaggio (CAETANI, Annali dell’Islam, I, Milano, 1905, p. 494).
93. LEONE VI, Tactica, cc. 15.22 ; 15.37-40; 16.11; 20.112 (P.G. 107. 892; 896; 909;
1044).
94. CIRILLO DI SCITOPOLI, Vita di s. Eutimio (GUIDETTI, Vivere tra i Barbari cit. (nota
21), p. 216).
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menti di Dio » 95. Anche qui il precetto ha una chiara matrice
religiosa.
5. PAPATO
E IMPERO
Il ruolo del papato nei confronti del più potente regno d’occidente, quello dei Franchi, era emerso sin dalla metà del secolo VIII,
quando nel 752 il papa Zaccaria, rispondendo a una domanda a lui
rivolta dal carolingio Pipino maestro di palazzo, affermò che era giusto che chi esercitava il potere fosse anche formalmente titolare della
regalis potestas: « ut melius esset illum regem vocari qui potestatem haberet, quam illum qui sine regali potestate manebat »: una dichiarazione sorprendente per il suo assoluto realismo politico. Sicché il papa, « ut non conturberetur ordo, per auctoritatem apostolicam iussit
Pippinum regem fieri » 96. Due anni più tardi Stefano II, varcate le
Alpi, legittimò con l’unzione sacra (di derivazione altotestamentaria,
sulla scia dei profeti) l’ascesa al trono di Pipino il Breve e dei suoi figli; e poco più tardi li benedisse ingiungendo « ut nullus nisi de eorum progenie per succedentium temporum curricula in regno Franciae rex crearetur » 97. Da allora il papa divenne in occidente una
fonte in più casi determinante per la legittimazione dei regnanti.
Nello stesso anno 754 Pipino si era impegnato a riconsegnare alla
Chiesa, anziché all’imperatore di Costantinopoli, l’Esarcato invaso dai
Longobardi, l’Emilia, la Tuscia e altre terre e città appartenenti all’impero bizantino 98: la cd. Promissio Carisiaca (di Quierzy-sur-Oise)
costituì un momento fondamentale nella vicenda che portò alla costituzione dello Stato della Chiesa.
Il timore del dominio su Roma e sul ducato romano da parte
dei Longobardi aveva infatti spinto i pontefici a stringere sempre
95. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., III. 6 (p. 102).
96. Annales Laurissenses, M.G.H., SS, vol. I, p. 136. JAFFÉ-EWALD [J.E.], Regesta Pontificum Romanorum, vol. I, p. 268, a. 751. Cf. per tutti O. GUILLOT, Y. SASSIER, A. RI3
GAUDIÈRE, Pouvoirs et institutions dans la France médievale, Paris, 2008 , I, pp. 106-109
(Guillot).
97. J.E. I, p. 273, 28 luglio 754; cf. J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum [...] collectio,
rist. Graz, 1960, vol. XII, col. 557; Annales Laurissenses, a. 754, M.G.H. SS, I. 138.
98. J.E. I, p. 273, 14 aprile 754. Per tutti, cf. E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, I, L’Alto medioevo, Roma, 1995, pp. 185-187.
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più stretti legami con il regno franco, in una progressione che
condusse sino alla conquista del regno longobardo da parte dei
Carolingi. I quali a loro volta, come si è detto, avevano frattanto
ottenuto dal papa la legittimazione del proprio potere regale. Nei
due decenni tra l’unzione di Pipino il Breve e la conquista dell’Italia longobarda da parte di Carlo Magno gli interventi dei papi
Stefano II, Paolo I, Stefano III, Adriano I furono frequenti e sovente pressanti per invocare da Pipino la difesa dai Longobardi di
Astolfo che minacciava nuovamente Roma 99, per supplicare un
« auxilium quam celerrimum » dopo che Roma per quasi due mesi aveva subìto l’assedio ed era stata depredata e incendiata 100, per
chiarire al re dei Franchi che una precedente missiva conciliante
nei confronti del re longobardo Desiderio non era da prendere in
considerazione perché scritta solo per ragioni di opportunità diplomatica 101, per avvertire Carlo e Carlomanno di non credere
(« ullo modo eis vos non credatis ») a chi diceva loro che i Longobardi avevano soddisfatto le richieste della S. Sede 102. Mentre
pochi anni più tardi, dopo la vittoria dei Franchi sul Longobardi
del 774, il papa Adriano I chiedeva a Carlo Magno la restituzione
di tutto ciò che apparteneva al Patrimonio della Chiesa in Corsica, nella Tuscia, a Spoleto e a Benevento, sottratto dalla « nefanda
gens Langobardorum » 103 e gli comunicava « homines fidelissimos
testificatos esse » che il territorio della Sabina era in antiquo appartenente al patrimonio di san Pietro, chiedendone pertanto la
restituzione 104.
Questo strettissimo intreccio tra Chiesa e Stato si rafforzò ulteriormente – con evidenti vantaggi politici e di potere per entrambi i
99. STEFANO II a Pipino, (J.E. 2322, P.L. 98. 103), dell’anno 755: il re Astolfo dopo
la partenza dei Franchi è tornato a minacciare Roma, infrangendo il giuramento prestato, « nec unius palmi terrae spatium b. Petro vel reipublicae Romanorum reddere passum esse » [si noti la prudente terminologia del pontefice, che diplomaticamente affianca
al patrimonio di s. Pietro la respublica Romanorum implicitamente ammettendone la dipendenza da Bisanzio].
100. STEFANO II ai vescovi, ai duchi e ai conti dei Franchi, febbraio 756 (J.E. 2325,
P.L. 98. 111).
101. STEFANO II a Pipino, marzo 757 (J.E. 2335, P.L. 98. 127).
102. STEFANO III a Carlo e Carlomanno, anno 769-770 (J.E. 2433; P.L. 98. 346).
103. Adriano I a Carlo, anno 778 (J.E. 2423, P.L. 98. 304).
104. Adriano I a Carlo, anno 781 (J.E. 2433, P.L. 98. 346).
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soggetti, il papato e i re franchi – all’atto della riesumazione sotto
nuove specie dell’impero d’occidente. L’evento dell’anno 800, reso
possibile con l’investitura papale che più tardi gli imperatori tentarono di superare, accentuò ulteriormente il ruolo anche politico del
vescovo di Roma. Il papato divenne dunque dal secolo IX soggetto
a pieno titolo di diritto internazionale e tale rimase sempre da allora,
sino alla scomparsa dello Stato pontificio.
Le vicende dell’età carolingia configurarono così in occidente
un rapporto politico e giuridico tra i due poteri, il temporale e lo
spirituale, destinato a influenzare profondamente entrambi i soggetti, lo Stato e la Chiesa, con tensioni ricorrenti e sconfinamenti
ripetuti nell’una o nell’altra delle due direzioni: dall’età feudale alla riforma gregoriana, dalla formazione dei regni premoderni alla
conquiste coloniali, dalla Riforma protestante sino alla Rivoluzione francese ed oltre. Il confine tra ciò che è di Cesare e ciò che è
di Dio rimase incerto e mutevole. E di questa continua dialettica,
tipica dell’occidente europeo, continuamente oscillante tra il terreno religioso e quello politico, anche i rapporti internazionali subirono fortemente l’influsso.
Gli interventi dei pontefici per promuovere iniziative di pace costituiscono un aspetto rilevantissimo delle relazioni internazionali di
questi secoli 105. Essi furono frequenti sin dal secolo V. Ci limitiamo a
rammentarne alcuni. Nel 455 Leone Magno riuscì ad indurre Genserico a risparmiare Roma 106. Un secolo e mezzo più tardi la tenace attività diplomatica di Gregorio Magno – sulla quale torneremo – ottenne dal re longobardo Agilulfo, dopo anni di sforzi, una fragile pace 107. Ai Croati il battesimo fu concesso dal papa alla condizione che
si impegnassero a osservare la pace 108. Nel 764 Zaccaria indusse Rachis a recedere dall’assedio posto a Perugia 109. Nel 749 Paolo I si
105. Tuttora di grande utilità è la vasta raccolta di regesti degli atti pontifici relativi ai
rapporti internazionali composta a cura di Giulio VISMARA, Acta Pontificia Iuris Gentium
usque ad annum MCCCIV, Milano, 1964.
106. J.E. vol. I, p. 72; cf. P.L. 51. 605 (Prospero d’Aquitania).
107. GREGORIO MAGNO, Registrum epistolarum cit., IX. 66 dell’anno 598 (vol. III, p.
201).
108. COSTANTINO PORFIROGENITO, De administrando imperio cit., 31, ed. Bekker, Bonn,
1840, p. 149.
109. ZACCARIA, J.E. I, p. 268, dell’anno 749.
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adoperò per la pace tra Tassilo duca dei Bavari e Pipino il Breve 110. Nell’anno 833 Gregorio IV esortava alla pace (senza successo) i figli di Carlo Magno 111, mentre trent’anni più tardi Niccolò I
rivolgeva un analogo invito al re dei Britanni Salomon nei confronti di Carlo il Calvo 112. Adriano II e Giovanni VIII, a loro volta, intervennero ripetutamente negli anni del contrasto tra i figli e
nipoti di Ludovico il Pio per invitarli a rispettare i patti convenuti
e a tutelare i diritti già di Lotario re d’Italia ed ora del figlio di lui
Ludovico II, imperatore, il quale tra l’altro, afferma il papa, difendeva la Chiesa romana dai Saraceni 113. Si noti che in molti di
questi interventi il papa si rivolse ai vescovi, ai conti, ai duchi,
dunque alle autorità religiose ma anche secolari dei regni di Francia e Germania perché esse si attivassero nei confronti dei rispettivi sovrani nella direzione auspicata dalla Chiesa.
È innegabile che in molti di questi casi l’intervento pontificio fu
determinato in primo luogo da ragioni di sicurezza e di autodifesa
dell’autonomia del papato e delle terre della Santa Sede a cominciare
da Roma, includendo in questa categoria anche le difese del regno
italico contro le pretese di Carlo il Calvo e di Ludovico il Germanico, di cui d si è detto, per chiari motivi di equilibrio politico. In altri
casi l’intervento (ad esempio nei confronti del duca Tassilo di Baviera) fu sollecitato dai re Franchi, con i quali il papato aveva instaurato
nel secolo VIII il legame politico e giuridico saldissimo che sappiamo. È però altrettanto innegabile che non tutti gli interventi papali
contro la guerra e in favore della pace ebbero queste motivazioni, legate agli interessi della Sede romana.
La difesa dei diritti del figlio di Carlo il Calvo, Carlomanno,
bandito dal regno dal padre « etiam bestiarum feritatem exce110. PAOLO I, J.E. 2363, del 764-766.
111. J.E. 2577, in Vita Walae, c. 14; 16 (M.G.H., LL. II, pp. 560; 562).
112. J.E. 2708, P.L. 119. 806, dell’anno 862.
113. ADRIANO II ai conti di Carlo il Calvo, 5 settembre 869 (J.E. 2917, P.L. 122.
1291); ADRIANO II ai vescovi del regno di Ludovico il Germanico « ut regi suadere pacem cum imperatore pergant », 27 giugno 870 (J.E. 2931, P.L. 122. 1305); GIOVANNI
VIII invita Ludovico il Germanico e Carlo il Grosso, figli di Ludovico il Pio, a. 874-875
(J.E. 3000), a restituire a Ludovico II imperatore la parte di regno già di Lotario imperatore, adempiendo così all’impegno di amicitia giurata, che un documento trasmesso al
pontefice romano e tuttora (egli afferma) conservato dalla Chiesa, attesta; aggiunge che
in caso contrario il papa irrogherà loro la scomunica.
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dens » 114, ha il carattere di un intervento umanitario. Niccolò I
nella Lettera ai Bulgari dell’anno 866 si spinse sino a consigliar loro di non attaccare neppure chi avesse infranto la pace pattuita, a
meno che per questa eventualità il ricorso alla forza non fosse stato previsto nel trattato 115. Anche i vescovi svolsero talora questa
funzione pacificatrice: come Beda riferisce a proposito del vescovo Teodoro, che nell’anno 679 riuscì ad ottenere che i re di Northumbria e di Mercia, aspramente divisi per l’uccisione del fratello
del primo ad opera del secondo, risolvessero il contrasto con una
composizione pecuniaria, secondo la consuetudine dei rapporti tra
privati, anziché con il ricorso alle armi e alla guerra 116.
Un diverso capitolo del ruolo internazionale svolto dai papi riguarda il rapporto con gli infedeli. Vi faremo riferimento a proposito dei trattati e riguardo alle alleanze tra le potenze cristiane e
l’Islam. Qui ci limitiamo a richiamare l’importanza della svolta
impressa da Giovani VIII nel settimo decennio del secolo IX, allorché questo pontefice teorizzò in termini teologici e propugnò
con forza sul terreno politico il divieto di quello che egli chiamò
l’impium foedus con i Saraceni, i quali nel Napoletano e nel Salernitano stavano concludendo appunto accordi con i duchi locali.
Un passo ulteriore, di segno ben più aggressivo, fu quello che
condurrà, alla fine del secolo XI, al varo delle Crociate per impulso di Urbano II e del concilio di Clermont.
L’altra suprema autorità della Respublica christiana, l’impero
d’occidente rinnovato nell’anno 800, ebbe una vita non facile. La
carica imperiale poneva il suo titolare su un piano giuridico superiore a quello degli altri re, abilitandolo tra l’altro ad iniziative autonome anche sul terreno legislativo, oltre che nei rapporti internazionali. Ma nel concreto delle vicende storiche questa status superiore poté venire esercitato, dopo la morte dei Carlo Magno,
solo eccezionalmente, per opera di pochi sovrani particolarmente
forti sul terreno politico e militare.
Quanto al ruolo preminente dell’imperatore rispetto agli altri
re franchi, nulla aveva disposto lo stesso Carlo Magno nella prima
114. ADRIANO II a Carlo il Calvo, 13 luglio 871 (J.E. 2940, P.L. 122. 1307).
115. NICCOLÒ I, Ad Bulgarorum consulta, Epist. 99, c. 81 (M.G.H. Epist. Aevi Karol.,
IV, ed. E. Perels, 1974, p. 594).
116. BEDA, Historia ecclesiastica cit., IV. 21.
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divisio regni dell’anno 806 117, nella quale tra l’altro si imponeva, in
caso di disaccordo tra i figli, il ricorso all’ordalia della croce in
luogo della guerra o del duello: una procedura in séguito abbandonata 118. La priorità politica e giuridica dell’imperatore fu invece
esplicitata con chiarezza nel documento con il quale Ludovico il
Pio nell’817 deliberò la divisio regni tra i suoi figli (il quarto, il futuro Carlo il Calvo, nato dal secondo matrimonio di Ludovico,
nel documento non figura ancora). L’ordinatio regni dell’817 stabiliva che il re della Francia occidentale e il re della Francia orientale
avrebbero dovuto ottenere il consenso del fratello maggiore, re
d’Italia e imperatore, titolare di quella che Ludovico chiamava
l’imperialis potentia, per ogni loro iniziativa con potenze straniere 119. Il documento è un esempio memorabile di saggezza disarmata. Ma nell’anno 831, quando lo stesso Ludovico il Pio – dopo
che i suoi figli avevano tentato di deporlo – dispose una rinnovata
divisio regni, sulle prerogative in politica estera dell’imperatore rispetto ai fratelli non si tornò più 120. E più tardi, neppure il trattato
di pace di Meersen dell’847 distinse la posizione giuridica dell’imperatore rispetto ai fratelli 121.
Ciò non toglie che il principio della superiore autorità dell’impero rispetto ai regni anche nei rapporti internazionali non sia
affatto scomparso dall’orizzonte storico e politico della cristianità
occidentale.
6. LEGATI
E AMBASCERIE
Giustamente la storiografia recente (mi riferisco ad esempio alle pagine di Walter Pohl sulla tipologia dei conflitti tra Bisanzio e
117. CARLO MAGNO, Divisio regnorum, in M.G.H., Capitularia, n. 45 (vol. I, pp.
126-130).
118. Questa forma di ordalia sarà abolita nell’818-819 (Capitularia, n. 138, c. 27, vol. I,
p. 279).
119. LUDOVICO IL PIO, Ordinatio imperii cit., a. 817, in M.G.H., Capitularia, n. 136
(vol. I, pp. 270-273).
120. LUDOVICO IL PIO, Regni divisio, a. 831, in M.G.H., Capitularia, n. 194 (vol. II, pp.
22-24).
121. M.G.H., Capitularia, n. 204 (vol. II, pp. 68-71).
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gli Unni e gli Avari di Attila e di Baian nel secoli V e VI (v. note
12; 305) ha sottolineato l’intrico stretto, la continua interrelazione
tra atti di guerra e gesti di pace, persino nel corso delle campagne
militari, tra sovrani, tra regni, tra eserciti dei diversi soggetti internazionali, anche di diversa religione.
L’altro versante delle relazioni internazionali, complementare
rispetto a quello della guerra e ancora più strettamente connesso
con il mondo delle regole giuridiche, mira a istituire rapporti di
pacifica convivenza con altri regni e potentati vicini o lontani
quando non alla conclusione di veri accordi tra le parti. La parola
(e non solo la parola) pace è in Procopio e in Gregorio di Tours
altrettanto frequente rispetto a quelle che designano la guerra,
perché indica un elemento delle relazioni internazionali inscindibile da quello strettamente militare.
Il termine di amicitia ha per le relazioni internazionali dell’alto
medioevo un valore pregnante che è stato messo in luce dalle approfondite ricerche di Bruno Paradisi 122. Ne emergono non solo
alcune differenze rispetto al concetto antico di amicitia nei rapporti
di Roma con potenze estere, ma anche la compresenza nelle fonti
altomedievali di una nozione più ristretta del termine, coincidente
con quella di pace o di concordia tra stati, accanto a una nozione
più indeterminata, che ha un valore etico e addirittura religioso
piuttosto che giuridico in senso proprio 123.
Due soli esempi soltanto vorremmo evocare al riguardo, lontani tra loro nel tempo, ma coincidenti nell’attribuzione di un significato pregnante dell’amicitia internazionale. Nella vivace rappresentazione che Procopio compie sul tentativo in parallelo dei
Gepidi e dei Longobardi, in contrasto tra loro, di assicurarsi l’appoggio militare dei Bizantini, i legati degli uni e degli altro fecero
ripetuta menzione della rispettiva amicizia (philia) con i Romani,
un’amicizia che i Gepidi dichiararono così stretta da non potere
essere sciolta e da richiedere un formale impegno di alleanza 124
(ma Giustiniano scelse invece in questa circostanza l’alleanza giurata con i Longobardi, il che indusse i Gepidi a fare senza indugio
122. B. PARADISI, L’amicitia internazionale nell’Alto Medioevo, ora in ID., Civitas maxima,
Studi di storia del diritto internazionale, Firenze, 1974, pp. 339-397.
123. PARADISI, L’amicitia cit., in part. p. 371 s.
124. PROCOPIO, La guerra gotica cit., III. 34 (p. 443).
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pace con loro temendo la sconfitta). Il secondo esempio è tratto
dallo scambio di corrispondenza tra la marchesa Berta di Toscana
re il califfo di Bagdad Mùktafi negli anni 905-906, sul quale torneremo. La marchesa aveva scritto di conoscere il rapporto di
amicizia tra Bagdad e Costantinopoli. Nella risposta diretta a Berta, il califfo precisa che non di amicizia si tratta, ma di « semplici
rapporti di cortesia che il principe dei credenti accorda », benignamente, ai bizantini 125.
Le relazioni internazionali diverse dal ricorso alla forza militare, come d’altronde quelle preliminari o susseguenti a una guerra,
esigevano, naturalmente, contatti 126 e trattative tra le parti. Dunque, ci volevano uomini autorizzati e qualificati a questo fine. Le
cronache sono fitte di riferimenti ai legati, indispensabili messaggeri e negoziatori di ogni accordo tra i potenti. Su questi temi
vertono, rispettivamente per Bisanzio e per l’occidente, le due relazioni di questa Settimana spoletina, tenute da Telemaco Lounghis, autore dell’opera fondamentale sulle ambascerie bizantine in
Occidente – per i sette secoli considerati egli ne ha identificate
circa 500 127 – e di Michael Borgolte.
Va sottolineato anzitutto che il ruolo anche personale dei legati e degli ambasciatori è stato in questi secoli rilevantissimo. La
lettura delle cronache soprattutto bizantine è rivelatrice. Nelle
Storie e nei frammenti a noi giunti di autori quali Procopio di
Cesarea, Prisco, Olimpiodoro, Malco, Menandro il Protettore, oltre che in Liutprando da Cremona, ma anche per l’occidente in
Nitardo, in Gregorio di Tours e in altri autori il racconto insiste a
più e più riprese sulla personalità dei legati, sulle loro doti oratorie, anche sui loro difetti ed errori, nonché sull’importanza di accreditare per le missioni diplomatiche personaggi di rilievo, talora
addirittura insigniti di titoli ad hoc per renderli più credibili presso i re barbarici o presso le autorità musulmane cui erano diretti.
L’impiego frequente del discorso diretto da parte dei cronisti ac125. Il testo in LEVI DELLA VIDA, [oltre, nota 142], p. 37.
126. Si vedano su ciò gli scritti raccolti in E. CHRYSOS and I. WOOD (edd.), East and
West, Modes of Communication, Proceedings of the first plenary Conference at Merida,
Leiden, 1999.
127. T. C. LOUNGHIS, Les Ambassades byzantines en Occident, depuis la fondation des Etats
barbares jusqu’au Croisades (407-1096), Athènes, 1980.
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centua questo aspetto “personalizzato” delle relazioni internazionali. Un esame approfondito e comparativo di questi uomini e
delle loro caratteristiche culturali sarebbe certamente di grande interesse. Ci limitiamo qui a porre in luce in estrema sintesi alcuni
profili giuridici.
Se è opportuno rammentare che Gregorio Magno aveva svolto a Costantinopoli proprio la funzione di apocrisario (ambasciatore) del papa prima di ascendere egli stesso al pontificato, si deve
sottolineare che l’individuazione dei legati risulta dalle fonti essere
stata compiuta con avvedutezza dai papi e dai re, scegliendo tra
uomini che conoscevano l’interlocutore, in relazione con la difficoltà e la delicatezza dell’obbiettivo da conseguire. Non è un caso
che Teodorico ostrogoto secondo Cassiodoro abbia designato ambasciatori uomini “tra i più abili” 128; o che Gregorio si sia avvalso
per il cruciale negoziato con Agilulfo di uomini particolarmente
fidati, quali il vescovo di Milano Costanzo e l’abate Probo 129; o
che a Costantinopoli prima Berengario nel 949 poi Ottone I vent’anni più tardi abbiano inviato Liutprando, uomo colto e affidabile, figlio tra l’altro di un personaggio che già era stato ambasciatore presso l’impero d’Oriente. Spesso le cronache riferiscono i
nomi degli ambasciatori e non di rado risulta chiaro che le linee
dell’accordo furono il frutto di complesse trattative per le quali i
legati disponevano di ampi poteri negoziali 130.
In molte circostanze il giudizio dei legati risultò essenziale, in
positivo o in negativo. Ai legati dei Goti che nel secolo IV promettevano pace non fu prestata fede dai bizantini 131. Gli ufficiali
di Clotario non si fidarono delle promesse dei Sassoni 132. Invece le
argomentazioni degli ambasciatori goti rivolte al re d’Austrasia
Teudobaldo alla metà del secolo VI perché non accettasse di
combatterli in Italia come chiedeva l’imperatore bizantino furono
ascoltate con attenzione: « non credete alle asserzioni dell’impera128. CASSIODORO, Variae cit., II. 6.
129. GREGORIO MAGNO, Registrum epistolarum cit., IV. 2; IX. 66.
130. Ad esempio nel Trattato di Bonn del 921 l’accordo dei due re di Francia e di
Germania sui rispettivi confini fu concluso « sicut inter se discurrentibus legatis convenerant » (M.G.H., Constitutiones, I.1 p. 2).
131. AMMIANO MARCELLINO, XXXI. 12. 8-9.
132. GREGORIO DI TOURs, Historiarum Libri cit., IV. 14.
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tore, che vi farà credere di combattere una guerra giusta », i legati
dissero al re franco, e soprattutto rammentate che « se i greci elimineranno la nazione gota presto marceranno contro di voi » 133.
Anche Liutprando da Cremona si dimostrò avveduto sin dalla prima ambasceria, quando per essere meglio accolto a Costantinopoli
presentò all’imperatore bizantino i doni che egli stesso aveva ricevuto dal padre prima di partire come se fossero doni di Berengario, il quale per parte sua non si era preoccupato di predisporli 134.
I doni costituivano infatti un elemento molto importante per
accreditare la volontà di rapporti di amicizia tra regni e tra potenti. Un elenco preciso e affascinante di doni è quello predisposto
per la missione di Berta di Toscana nel 905 presso il Califfo di
Bagdad. Sul tema dei doni come strumento di diplomazia internazionale ascolteremo in questa Settimana la relazione di Janet
Nelson.
La preparazione giuridica e retorica dei legati, ma non solo
quella, aveva grande importanza 135. Naturalmente anche il destinatario della missione poteva rivelarsi accorto. Paolo Diacono narra
che Grimoaldo organizzò una messa in scena per ingannare gli
Avari sulla consistenza del proprio esercito; e lo fece così bene
che « gli ambasciatori non ebbero più dubbi » 136. Mentre Ariperto
soleva ricevere i legati stranieri in abiti dimessi ed offriva loro costantemente cibi e vini assai poco raffinati per non invogliare i rispettivi sovrani a conquistare l’Italia 137.
La forma delle lettere commendatizie era curata e si avvaleva
di precise clausole di cortesia, come attesta Marcolfo nel suo Formulario 138. Presso i Franchi si soleva inoltre munire i legati di una
festuca consacrata quale segno di intangibilità 139. Talora i legati
erano muniti di lettere con istruzioni vincolanti, come avvenne
133. AGAZIA, Historiae, I. 5-6 (ed. Niebuhr, Bonn, 1827, pp. 24-27).
134. LIUTPRANDO DA CREMONA, Antapodosis cit., VI. 6 (M.G.H., ed. Becker, p. 155).
135. Cf. R.C. BLOCLEY, Doctors as Diplomats in the Sixth Century A.D., in Florilegium, 2
(1980), pp. 89-100.
136. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., V. 29.
137. Ibid., VI. 35.
138. MARCOLFO, Formulario, I. 9; I. 10 (ed. Zeumer, M.G.H. Legum vol. V, Formulae,
p. 48 s.): lettere di missione presso un altro re.
139. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri, VII. 32 (p. 352), per l’anno 585: Gundovaldo invia a Guntchramno « duos legatos [...] cum virgis consecratis iuxta ritum Fran-
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nella seconda ambasceria di Liutprando da Cremona a Costantinopoli del 968, secondo la sua dichiarazione all’imperatore Niceforo
Foca: di fronte ad una richiesta dell’imperatore che esigeva il riconoscimento dell’esclusività di tale sua qualifica negandola ad Ottone – che « si fa chiamare imperatore e usurpa i temi del nostro
impero » – Liutprando si richiamò agli “ordini scritti” (entolikà) ricevuti da Ottone, dichiarando a Niceforo di non poterli infrangere 140. Quanto alle procedure, lo stesso Liutprando attesta che, nonostante la sua conoscenza del greco, si faceva comunque ricorso
agli interpreti 141. Talora al messaggio scritto, affidato al legato inviato in missione, si accompagnavano messaggi segreti ed orali,
che il messaggero era il solo autorizzato a comunicare al destinatario: come avvenne da parte di Berta di Toscana nella missione diretta al califfo di Bagdad nell’anno 905 142.
La norma fondamentale in questa materia era quella che garantiva ai legati la sicurezza, proteggendoli da ogni ritorsione da
parte dei destinatari della missione. Chiari erano i testi romani su
questo punto 143, ma anche presso i Germani – nell’àmbito del
principio generale che consacrava il rispetto per l’ospite, citato già
da Cesare 144 ed attestato tra gli altri da Paolo Diacono con riferimento ai Gepidi 145 – la regola sulla tutela degli ambasciatori da
parte dei popoli barbari è riaffermata ancora da Procopio, sei secoli dopo 146.
Sul tema, eccezionalmente, intervenne anche la legislazione.
corum, ut scil. non contingerentur ab ullo, sed exposita legatione cum responsu
reverterentur ».
140. LIUTPRANDO DA CREMONA, Relatio de legatione Costantinopolitana, 25-26, del 968
(M.G.H., ed. Becker, p. 188 s.).
141. LIUTPRANDO DA CREMONA, Relatio de legatione Costantinopolitana, 2 (ed. Becker, p.
177 e altrove).
142. BERTA DI TOSCANA al Califfo al- Muktafi, a. 905, in G. LEVI DELLA VIDA, in Aneddoti e svaghi arabi e non arabi, Milano-Napoli, 1959, p. 32.
143. Digesto, 1. 3. 32; Dig. 1. 3. 35 (« legatorum non violandorum iustitia »).
144. CESARE, De bello Gallico, VI. 23: « hospitem violare fas non putant ».
145. Il re dei Gepidi Turisindo riceve Alboino, che gli aveva ucciso il figlio, ma non
si vendica perché rispetta il principio della sacralità dell’ospite (PAOLO DIACONO, Historia
Langobardorum cit., I. 24).
146. PROCOPIO, De bello Gothico, III. 16: inviolabili gli ambasciatori anche presso i
barbari.
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La Legge dei Burgundi dell’anno 505 dedicava un titolo all’obbligo di ospitare i legati delle “genti straniere”, imponendo ai proprietari del luogo ove essi si fossero acquartierati di cedere un
porco e un montone e in inverno anche fieno e orzo 147. Il capitolare de villis 148 impose l’obbligo ai maggiorenti del regno di mantenere a proprie spese i legati e Ludovico II confermò con un
proprio capitolare la protezione per i legati e gli ambasciatori 149.
La Lex Ribuaria comminava una multa di 60 soldi a carico di chi
si rifiutasse di accogliere una ambasceria diretta al re 150.
Ciò non impedì che in più occasioni la tutela promessa venisse meno. Non soltanto poté venir negato il transito dei legati verso la destinazione voluta (come avvenne con Desiderio che fermò
i legati papali e lo stesso pontefice diretti in Francia) 151, ma vi furono talora violenze verso gli ambasciatori, come avvenne ad Agde allorché gli ambasciatori di Chilperico, che avevano fatto naufragio, furono derubati dei doni destinati al loro re dall’imperatore
bizantino 152; e come avvenne a Cartagine con l’uccisione da parte
della folla di due legati del re merovingio Childeberto, di ritorno
dalla missione a Costantinopoli 153. Anche i papi ebbero di che lamentarsi: così già Felice III nel 484 154, così ancora tre secoli dopo
secoli Leone III che riferiva, rivolgendosi a Carlo Magno, di maltrattamenti inferti ai propri legati 155, così Leone IV che denunciava nell’851 l’uccisione di un legato diretto all’imperatore, un fatto
(afferma) mai accaduto prima 156.
Talora la reazione contro i legati fu dovuta a un loro improvvido
comportamento, come avvenne, ancora nel racconto di Gregorio di
147. Lex Burgundionum, XXXVIII de hospitalitate extranearum gentium et itinerantibus non
neganda (ed. L. de Salis, 1892, p. 69, M.G.H., Legum sectio I).
148. Capitulare de villis, c. 27, in M.G.H., Capitularia, n. 32, a. 800 (vol. I, p. 85).
149. Capitula Papiae optimatibus, c. 3, a. 856 (in M.G.H., Capitularia, n. 216, II.1, p. 92).
150. Lex Ribuaria, 68 (65). 3 (ed. F. Beyerle und R. Buchner, M.G.H. Legum sectio
I, 1951, p. 119); la sanzione è però dimezzata se chi rifiuta sia “regius” (dipendente dal
re), un ecclesiastico o un romano.
151. PAOLO I a Pipino, a. 764-766 (P.L. 89. 1148; P.L. 98. 206), J.E. 2363.
152. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri, VI. 2, a. 581 (p. 266).
153. Ibid., X. 2, a. 589 (p. 482).
154. FELICE III, J.K. 601 (P.L. 58. 934).
155. J.E. 2529, P.L. 98. 523.
156. LEONE IV, J.E. 2610.
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Tours, allorché nell’anno 585 i legati del burgundo Gundovaldo
commisero la leggerezza di rivelare anzitempo, prima di giungere alla
presenza del re Gontrano (Guntchramno), l’oggetto preciso della loro
missione: il re lo venne a sapere, li fece incatenare e solo in questo
modo irrituale li ammise al proprio cospetto 157.
La più compiuta descrizione di una missione diplomatica per
questi secoli è probabilmente quella che Liutprando da Cremona
scrisse sulla via del ritorno dalla sua seconda missione a Costantinopoli dove nel 968 si era recato per conto di Ottone, che da anni egli serviva dopo il distacco da Berengario. Anche se le tinte
molto negative sulla corte bizantina sono probabilmente accentuate ad arte, la descrizione dell’accoglienza gelida di Niceforo Foca,
l’andamento sincopato degli incontri e delle trattative con l’imperatore e con il fratello di lui (Liutprando era incaricato di negoziare il matrimonio tra il futuro Ottone II e la bizantina Teofano figlia dell’imperatore Romano II), la messa nudo dei pregiudizi e
della profonda ostilità verso l’occidente, controbilanciata da un’ostilità eguale e contraria, tutto questo risalta con molta chiarezza
nella relazione del vescovo di Cremona.
Poté anche capitare che un re si fingesse ambasciatore per
controllare personalmente da vicino luoghi e situazioni. Quando
Autari volle chiedere in sposa la figlia del re dei Bavari, decise di
aggregarsi in incognito al legato cui era stato conferito l’incarico
per vedere così di persona la principessa; e il delicato racconto del
cronista ci ragguaglia su come a Teodolinda, sorpresa da un lieve
gesto affettuoso del giovane, la nutrice abbia suggerito che quel
giovane non poteva essere se non il futuro sposo 158.
7. TRATTATI
INTERNAZIONALI E ACCORDI DI PACE
Lo strumento fondamentale per la conclusione di un accordo
tra regni, tra ordinamenti, tra popoli, tra sovrani fu anche per i
secoli altomedievali quello noto e praticato non da secoli ma da
millenni, il trattato. La tipologia che le fonti attestano è davvero
ricca ed è stata ripetutamente esaminata dalla storiografia giuridica:
157. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., VII. 32 (p. 352), dell’anno 585.
158. PAOLO DIACONO, Historia Langobadorum cit., III. 30.
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Bruno Paradisi, Giulio Vismara, Franz Dölger, Heinrich Mitteis,
François-Louis Ganshof, Karl-Heinz Ziegler sono solo alcuni nomi tra i maggiori studiosi della materia, che peraltro richiederà altri approfondimenti in futuro, in particolare con riferimento alle
fonti islamiche (un elenco di ambascerie inviate da Maometto a
Bisanzio e a diversi sovrani dell’Asia in L. Cattani, Annali dell’Islam, I, pp. 725-739). Mi limito qui, di necessità, a qualche breve
richiamo sugli aspetti che ritengo più rilevanti.
Anzitutto va detto che i riferimenti ad accordi di pace e di
tregua, come pure ad accordi commerciali tra regni e a convenzioni matrimoniali e parentali tra famiglie sovrane sono davvero
numerosi nelle cronache e nelle fonti narrative. Invece ci rimangono ben pochi trattati nella loro integralità testuale o comunque
in una versione analitica, per i secoli dal VI al X: tra questi, il
trattato tra Bisanzio e la Persia dell’anno 561 159, il trattato di Andelot del 587 160, il giuramento di Strasburgo dell’842 161, la Dieta di
Meersen dell’847 162, il trattato di Aix-la-Chapelle e Meersen dell’870 163, il trattato di amicizia di Bonn tra Enrico I di Germania e
Carlo III di Francia del 921 164, l’accordo tra Bisanzio e l’emiro di
Aleppo del 969 165, la pace tra Aethelred e Olaf del 991 166. Anche
accordi della massima rilevanza, come quello tra Carlo Magno
neo-imperatore d’occidente e l’imperatore bizantino Michele I
dell’anno 812 o quello di Verdun dell’843 con la storica triparti159. Pace di 50 anni tra Bisanzio e la Persia, a. 561-562: il testo è tramandato da MEPROTETTORE, Fr. 6. 1, ed. R.C. BLOCKEY, The History of Menander the Guardianship, Liverpool, 1985, pp. 70-75. Cf. inoltre Fontes Historiae Juris Gentium, hrsg. v. W.
G. GREWE, I, 1380 v. Chr./A.D. 1493, Berlin – New York, 1995, pp. 381-384.
160. Trattato di Andelot , a. 587, in GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., IX. 20
(pp. 434-439).
161. Giuramento d Strasburgo, a. 842, in NITARDO, Historiarum Libri cit., III. 5
(M.G.H., ed. KURZE, In usum scholarum).
162. Dieta di Meersen, a. 847 (M.G.H., Capitularia, n. 204, vol. II, p. 68).
163. Trattati di Aix-la-Chapelle e Meersen, a. 870 (M.G.H., Capitularia, n. 250-251,
vol. II, p. 191).
164. Trattato di Bonn, a. 921 (M.G.H., Constitutiones, I. 1).
165. Accordo tra Bisanzio e l’emiro di Aleppo, a. 969, ed. CANARD [vedi oltre, nota
230]; cf. VISMARA, Scritti, 7 cit., pp. 141-44; CANARD, Histoire de la dynastie des Hamanides
[oltre, nota 230], I, pp. 833-836.
166. Trattato di Aethelred e Olaf I, in F. LIEBERMANN, Die Gesetze der Angelsachsen,
Aalen, 1960, vol. I, pp. 220-225.
NANDRO
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zione territoriale dell’Europa carolingia 167 non sono giunti nella
versione originale e ufficiale ma solo attraverso notizie indirette
più o meno esaurienti.
Sono inoltre quanto meno da menzionare due categorie particolari di accordi e di trattati sui quali non ci possiamo qui soffermare, entrambe presenti nei secoli dell’alto medioevo. In primo
luogo i trattati commerciali, che troviamo documentati ampiamente: presso i Franchi, presso i Longobardi, a Bisanzio, con l’Islam. Molto spesso anche nei trattati di pace e di alleanza a noi
giunti figurano clausole specifiche sul commercio, sulle vie di
transito consentite ai mercanti, sulle procedure in caso di controversie e su altri punti connessi con lo scambio e la circolazione
delle merci. Il tema – che ha formato l’oggetto di studio da parte
di Romolo Cessi, di Giulio Vismara e di altri e che pure meriterebbe una nuova trattazione – ha trovato spazio in questa Settimana solo in modo indiretto, ma in ogni caso non si può prescindere dallo studio dei traffici commerciali e della circolazione delle
merci tra oriente e occidente, tra Europa, Bisanzio e l’Islam.
In secondo luogo vanno menzionati gli atti di dedizione, che
non possono qualificarsi come trattati perché non hanno caratteristiche contrattuali ma sono atti sostanzialmente unilaterali: così le
dedizioni al regno dei Franchi da parte dei Sassoni nel 797 168 e dei
Bretoni due anni più tardi 169. Sono atti che differiscono dai foedera
iniqua della tradizione giuridica di Roma: sono impegni giurati,
imposti ad etnie più deboli, che in molti casi si concluderanno,
dopo un tempo più o meno lungo, con l’incorporazione nel regno dominante. Mentre in altri casi l’incorporazione avvenne di
fatto, d’imperio, dopo un sconfitta militare, come fu fatto con i
nuclei di Gepidi, Bulgari, Pannoni ed altri sottomessi dai Longobardi e condotti al loro séguito in Italia 170.
Tra i tanti accordi di pace dei quali ci è giunta notizia attraverso le fonti, quello per il quale disponiamo di informazioni più
167. rattato tra Bisanzio e Carlo Magno, a. 812, J.E. vol. I, p. 314; Annales Laurissenses, ed. KURZE, ad annum 812, M.G.H., In usum scholarum, p. 136. Trattato di Verdun,
a. 843, Annales Fuldenses, 34, M.G.H. Epistulae, VI, pp. 724; 728.
168. Annales regni Francorum, ad a. 797, ed. F. Kurze, M.G.H. in usum scholarum,
1950, p. 100.
169. Annales regni Francorum, ad a. 799, ed. Kurze, p. 108.
170. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., II. 26.
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esaurienti e precise è probabilmente la pace con i Longobardi di
Agilulfo che Gregorio Magno negoziò instancabilmente per ben
cinque anni, dal 593 al 598, sino al successo. Mi limito a rammentare qui che attraverso l’incomparabile Registro delle lettere del
grande pontefice siamo in grado di seguire la tessitura sapiente
dell’accordo, che vide Gregorio alle prese, contemporaneamente,
con Agilulfo, con l’imperatore Maurizio, con l’esarca di Ravenna,
con i duchi di Spoleto e persino con i Franchi, oltre che con vescovi e legati a vario titolo coinvolti nelle vicende di quegli anni
difficili. Se l’invasione di Roma del 593 aveva lasciato un ricordo
terribile, il papa dovette d’altra parte rivolgere all’imperatore –
con rispetto ma con molta fermezza e con indubbio coraggio –
rimostranze amare per lo scarso sostegno ottenuto da Costantinopoli (Reg. Epist. V. 36, del 595). Egli si avvalse di ambasciatori fidati quali il vescovo Costanzo e l’abate di Nonantola Probo, ma il
compito non fu certo facile. Si dovette tra l’altro superare la diffidenza di un personaggio sul quale il papa molto contava per la sua
fede cattolica e per la sua rettitudine, la regina dei Longobardi
Teodolinda, che peraltro aderiva alla dottrina dei Tre Capitoli
condannata dalla Chiesa romana: Gregorio si rivolse a lei con
esaurienti argomentazioni teologiche per convincerla dell’ortodossia della posizione romana condivisa dal vescovo di Milano Costanzo (Reg. Epist. IV. 4). Anche con l’esarca i rapporti non furono facili (Reg. Epist. IV. 2; V. 34). E tantomeno lo furono quelli
con il duca di Spoleto, che avrebbe voluto sottoscrivere la pace
sub condicione (Reg. Epist. IX. 44). Capacità diplomatica, esperienza
giuridica, duttilità e fermezza si fondono magistralmente nell’azione di Gregorio, che allontanò per un periodo non breve, con la
pace del 598 (Reg. Epist. IX. 66), il rischio concreto della conquista militare di Roma e dell’esarcato, senza peraltro chiamare in
Italia un’altra potenza militare.
I soggetti dei trattati sono i più diversi, indipendentemente dalle
etnie e dai rapporti reciproci, inclusi i legami di parentela: proprio
come accadeva con le guerre. Vi furono in questi secoli paci, tregue
ed accordi intrafamiliari, come quelli pattuiti tra i quattro figli di
Clodoveo riguardo alla città di Parigi 171, tra Teodorico e Childeber171. GREGORIO
DI
TOURS, Historiarum Libri cit., III. 18.
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to 172, tra Childeberto e Clotario 173; e tre secoli dopo tra i figli di
Ludovico il Pio 174.Vi furono accordi tra sovrani germanici, tra
quali ad esempio quelli tra Teodorico l’Amalo e il burgundo
Gundobado narrato da Ennodio 175, tra Teodorico re di Austrasia e
il turingio Hermefried 176, tra gli Svevi e i Visigoti del regno di
Tolosa 177, tra Alboino e poi Agilulfo con gli Avari 178 e tra lo stesso Agilulfo e i Bizantini 179, tra Gontrano di Borgogna e Childerico II di Austrasia 180, tra il re longobardo Autari e il franco Teudeperto nel 604 181, tra Carlo Magno e Offa re di Mercia nel 797 182,
tra Radelchi e Siginulfo di Benevento per le divisione del ducato
nell’849 183. Si ebbero paci e tregue concordate dei Longobardi
con i Bizantini 184. Ed accordi di Bisanzio con i Longobardi di
Agilulfo 185, con i re Persiani Cabade e Cosroe prima della conquista araba della Persia 186, con i principi del popolo dei Rhos (Rus)
nel secolo X 187, con i Saraceni, prima e dopo Maometto 188. Anche il papato romano fu soggetto di diritto internazionale, sin dall’età di Gregorio Magno e poi sempre di nuovo, in forme che si
modificarono nel tempo come già si è visto.
Il contenuto dei trattati presenta, nei testi che sono pervenuti in
forma compiuta, aspetti specifici per ciascuno di essi ma anche
172. Ibid., III. 15.
173. Pactus pro tenore pacis, a. 524, in Pactus Legis Salicae, ed. Eckhart, II. 2.
174. Divisio Regni, a. 831, in M.G.H., Capitularia, n. 194 (II, pp. 20-24).
175. ENNODIO, Vita Epifanii cit., c. 154 (in M.G.H. AA VII. 103).
176. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., IX.11, a. 587.
177. GUIDETTI, Vivere tra i Barbari cit. (nota 20), p. 236.
178. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., I. 27; IV. 24.
179. Ibid., IV. 8.
180. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., IX.11, a. 587.
181. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, IV. 30.
182. ALCUINO, Ep. 9 e ep. 100, M.G.H., Epistulae Kar. Aevi II, ed. Dümmler, 1895,
pp. 34; 145.
183. Chronicon Salernitanum, c. 81, M.G.H., SS III, p. 508.
184. Autari con Smaragdo prefetto di Ravenna: PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., III. 18.
185. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., IV. 65.
186. FOZIO, Biblioteca, Procopio di Cesarea, ed. Wilson, Milano, 2007, p. 97 s.
187. A. CARILE, Rus e Impero romano d’oriente nei trattati del secolo X, ora in ID., Teologia
politica bizantina (nota 57), pp. 219-235.
188. VISMARA, Scritti, vol. 7 cit., pp. 141-144. Si veda oltre, al § 8.
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elementi comuni. Occorre distinguere fra gli accordi conclusi tra
potenze estranee, tradizionalmente rivali e potenzialmente nemiche, e accordi tra regni e sovrani legati da vincoli politici e di parentela, quali sono i regni merovingi e i regni nati dal frazionamento carolingio.
Di questioni territoriali si occupano, direttamente o indirettamente, tutti i trattati. Anche quando non era in discussione la linea del confine, si stabilirono condizioni di sicurezza reciproca, ad
esempio stipulando l’impegno a non costruire fortificazioni e a
non dispiegare forze militari importanti lungo la frontiera: come
avvenne con la pace tra Giustiniano e Cosroe del 561. Il medesimo Trattato attribuì inoltre ai Bizantini la città di Lazika, ma impose loro il pagamento di 30.000 nomismata, fissando con precisione la scansione cronologica per i versamenti; anche le vie consentite di transito per i mercanti e le garanzie di tutela per gli ambasciatori vennero stabilite esplicitamente; si affidò ad ufficiali dei
due Stati la decisione di eventuali controversie tra sudditi persiani
e bizantini; e a giudici di frontiera la composizione di tensioni
susseguenti ad attacchi dell’altro Stato, prevedendo una serie di ricorsi in appello che potevano giungere sino all’udienza dei rispettivi sovrani 189.
La durata della pace venne stabilita in cinquant’anni, mentre
in altri casi la durata fu molto più breve (un anno, cinque anni) 190.
In altri casi ancora fu addirittura stipulata una pace perpetua: il
che non valse ad impedirne talora la precoce rottura 191. Non mancarono anche clausole molto specifiche: come è quella voluta ancora da Cosroe allorché, nell’armistizio del 545, chiese a Giustiniano, come condizione per l’interruzione delle ostilità, non solo
un cospicuo contributo in danaro ma l’invio a corte del medico
189. Abbiamo sintetizzato le principali clausole del Trattato del 561-562 tra la Persia e
Bisanzio, cc. 1-12: il testo in MENANDRO PROTETTORE, Fr. 6. 1, in R.C. BLOCKEY, The
History of Menander the Guardianship, Liverpool, 1985, pp. 70-75. Menandro offre anche
una precisa, analitica ricostruzione della vicenda diplomatica che ha condotto alla negoziazione e all’approvazione Trattato di pace del 561, verosimilmente fondata (BLOCKLEY,
p. 19) su fonti d’archivio.
190. PROCOPIO, La guerra gotica, IV. 15, trad. it. Milano, 2007, p. 556.
191. Ad esempio tra Agilulfo e Teoderico re dei Franchi (PAOLO DIACONO, Historia
Langobardorum cit., IV. 13).
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Tribuno, che in precedenza aveva curato con successo il re di
Persia 192.
Gli accordi stipulati tra i regni dei Franchi presentano profili
differenti. L’oggetto primo e preminente sta nella fissazione dei
diritti di ciascun re su un proprio territorio, dunque nella definizione dei confini, con lo scopo di dirimere i bellicosi contrasti tra
i figli e i nipoti di Clodoveo nel secolo VI e di Carlo Magno nel
secolo IX. Ad esempio il trattato di Andelot del 587 suddivideva
in parti distinte (come già era avvenuto in precedenza 193) la città
di Parigi, pervenuta in eredità a Cariberto, assegnandone un terzo
al re di Borgogna Gontrano 194. Nell’817 la Divisio regni di Ludovico il Pio (non un trattato, dunque) ripartiva in tre il dominio carolingio 195; nell’842 il Giuramento di Strasburgo sanciva l’alleanza
tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico 196 e l’anno successivo
il Trattato di Verdun confermava la tripartizione assegnando a Lotario l’Italia, la Lotaringia e la carica imperiale 197; una ripartizione
confermata nell’847 e modificata un ventennio più tardi, con gli
accordi di Aachen e di Meersen 198, quando la frontiera tra regni di
Francia e regno di Germania venne rinegoziata, mentre nel 921
essa fu finalmente fissata al Reno 199. Proprio la natura di accordi
intrafamiliari spiega perché in questi trattati non siano previste misure di sicurezza militare o strategica, al di fuori di quella, fondamentale, delle frontiere geografiche tra i regni. Questo secondo
gruppo di trattati stabilì anche, in più occasioni, le regole per la
192. PROCOPIO, De bello Persico, II. 28 (ed. DINDORF, Procopius, I, p. 281, in Corpus
Scriptorum Historiae Byzantinae, Bonn, 1833).
193. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., VII. 5-6. L’accordo tra Gontrano e i
fratelli prevedeva non soltanto l’assegnazione di un terzo della città ai singoli fratelli, ma
anche la necessità di ottenere il permesso degli altri fratelli ogni volta che uno di loro
intendesse recarsi a Parigi provenendo dal proprio regno.
194. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., IX. 20, Trattato di Andelot (pp.
434-439).
195. Ordinatio imperii, M.G.H. Capitularia , n. 136 (vol. I, p. 270).
196. NITARDO, Historiarum Libri cit., III. 5, ed. KURZE, p. 35.
197. Annales Fuldenses, all’anno 843 (ed. F. Kurze, M.G.H. in usum scholarum, 1978,
p. 34); cf. M.G.H., Epistulae VII, 724; 728.
198. Trattati di Aachen e di Meersen, a. 870, marzo e agosto, M.G.H., Capitularia,
nn. 250-251 (vol. II, pp. 191-193).
199. M.G.H., Constitutiones et acta publica, ed. L. Weiland, I, n. 1.
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successione tra i discendenti degli stipulanti, nell’intento di mantenere per la generazione successiva l’intesa familiare faticosamente
raggiunta. Un intento che, ben sappiamo, fu solo molto parzialmente raggiunto, sia nel secolo VI come pure tre secoli più tardi.
Il superamento di questi contrasti e delle aspre guerre familiari tra
regni si avrà soltanto con la instaurazione consuetudinaria della
successione indivisa del regno in capo al primogenito, con la dinastia capetingia. Degli accordi tra potenze cristiane e potentati
islamici faremo cenno tra breve.
Una clausola che troviamo con frequenza negli accordi di pace e nei trattati, ma anche indipendentemente da questi, è costituita dall’obbligo assunto da uno dei contraenti di versare un tributo all’altro. La presenza e l’ammontare di questo onere sono
naturalmente legati ai rapporti di forza tra le parti e di questi rapporti, reali o temuti, la clausola stessa è una spia rivelatrice. Così,
la Cronaca di Fredegario asserisce che i Longobardi dopo la morte
di Clefi e sino all’ascesa al trono di Adaloaldo (dunque dal 575 al
615) pagarono ai Franchi un tributo annuale 200; mentre prima della discesa in Italia i Longobardi si erano rifiutati di pagare ai Vandali un tributo annuale 201. Del tributo imposto ai Bizantini dal re
persiano Cosroe nel 561 già si è detto. Nel secolo VIII Astolfo
impose ai Romani delle terre di dominio pontifico un tributo,
anch’esso annuale 202. E così via.
Quanto alla forma dei trattati, se negli accordi intrafamiliari la
trattativa fu non di rado diretta (come avvenne tra Teodorico e
Childeberto) 203, di norma essa avvenne invece attraverso i legati,
appositamente inviati a questo fine dai sovrani, come già si è detto. In qualche caso l’accordo fu stretto con la clausola della segretezza 204. I patti furono non di rado conclusi oralmente; d’altronde,
quando si trattava semplicemente di promettersi la pace o di stipulare una tregua, specie tra sovrani fratelli o strettamente impa200. FREDEGARIO, Cronaca cit., IV. 45 (M.G.H., Scriptores rerum Merovingicarum, ed.
B. Krusch, II, p. 143).
201. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., I. 7.
202. F. RONCORONI, in PAOLO DIACONO, Storia dei Longobardi, Milano, 1970, p. 270.
203. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., III. 15.
204. Ibid., III. 4: il patto tra Teoderico e Hermefried [vedi sopra, alla nota 176] non
poteva che essere segreto, dato che prevedeva l’eliminazione del fratello del secondo.
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rentati, la cosa si spiega. Anche gli accordi tra i Franchi e i Danesi
non furono scritti, e così pure altri accordi, specie ove la controparte non praticava ancora la scrittura 205.
Ma per lo più, dopo essere stato negoziato attraverso i legati,
il trattato veniva trasferito in un documento scritto. Molto precisa
è al riguardo la procedura prevista nella pace di Giustiniano con il
re Cosroe nel 561: una volta concordate le clausole della pace, i
due monarchi si sarebbero scambiate la “lettere sacre” contenenti
il testo del trattato, nelle due versioni greca e persiana, che sarebbero a loro volta state ritradotte nell’altra lingua per verificare la
loro perfetta corrispondenza 206.
Anche sugli accordi intervenuti tra Carlo Magno e Costantinopoli siamo informati con notevole precisione 207, pur non disponendo dei testi del trattato. Dopo i primi tentativi non riusciti di
Carlo Magno di ottenere dall’imperatore bizantino il riconoscimento della nuova sua dignità imperiale, dopo il fallimento del
progetto di matrimonio tra un suo figlio e Rotruda, figlia dell’imperatrice Irene, la difficile condizione militare dei Bizantini in
Dalmazia indusse l’imperatore Niceforo a stringere un trattato di
pace e di alleanza con Carlo Magno nell’anno 812. Gli ambasciatori bizantini, esprimendosi in greco, giunsero sino ad attribuire al
re dei Franchi nell’812 la qualifica impegnativa di basileus 208, la
medesima che veniva impiegata per gli imperatori di Costantinopoli, con un riconoscimento che per Carlo Magno e per i successori carolingi aveva un grande valore giuridico anche nei confronti del papato e degli altri regni d’occidente 209. Carlo consegnò ai
legati bizantini una copia autentica del patto con Bisanzio, mentre
una seconda copia sottoscritta dal papa Leone III venne da loro
ritirata nel passaggio a Roma sulla via del ritorno.
Ma per la definitiva approvazione del trattato mancava ancora
un passaggio. Nella lettera che nell’anno 813 Carlo Magno scrisse
205. GANSHOF, The Treaties of the Carolingians cit. (nota 5), p. 26.
206. Pace tra Giustinano e Cosroe, ed. BLOCKEY cit. (nota 189), pp. 70-75.
207. Analisi in GANSHOF, The Treaties cit. (nota 5), pp. 30-33.
208. Annales Regni Francorum, all’anno 812, M.G.H. ed. KURZE, p. 186. Cf. P. E.
SCHRAMM, Die Anerkennung Karls des Grossen als Kaiser, ein Kapitel aus der Geschichte del
mittelalterlichen Staatssymbolik, München, 1952.
209. MITTEIS, Politische Verträge cit. (nota 4), p. 98 s.
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all’imperatore Michele, succeduto a Niceforo, si afferma che l’accordo convenuto nell’anno precedente con i legati bizantini venuti in Francia avrebbe dovuto essere formalmente stipulato in un
documento sottoscritto dall’imperatore bizantino e dai suoi maggiorenti, da consegnare ai due legati di Carlo inviati appositamente a Costantinopoli (il vescovo Amalario di Treviri e l’abate Pietro di Nonantola) 210. Dunque, la stipulazione di questo importantissimo trattato avvenne attraverso lo scambio di due documenti
autentici, non necessariamente identici nella forma, sottoscritti disgiuntamente dai due sovrani 211. Trattato preliminare, doppia missione dei legati, doppia documentazione ufficiale: la procedura attestata per questo trattato risulta di particolare complessità e
solennità.
Non mancava, nell’epistola ora citata di Carlo, un riferimento
alla « semper desiderata pax inter orientale et occidentale imperium », con un’esplicita equiparazione tra i due imperi che, come
sappiamo, Bisanzio fu sempre contraria a riconoscere. La questione si riproporrà, in termini in parte mutati, nell’età degli Ottoni.
In più occasioni, specie se la trattativa si annunciava complessa, la stipula del trattato fu preceduta da un trattato preliminare, negoziato naturalmente dai legati delle parti, come accadde ad Aachen nel marzo dell’870, prima del trattato di Meersen dell’agosto
del medesimo anno sulla divisione della Lotaringia tra Carlo il
Calvo e Ludovico il Germanico 212. Quando l’accordo fu stipulato
alla presenza dei sovrani dei rispettivi regni, la procedura dell’incontro fu attentamente studiata e venne realizzata in forme talora
pittoresche: come accadde nell’anno 921, allorché Enrico I re di
Germania e Carlo III re di Francia dapprima trattarono attraverso
i rispettivi legati rimanendo sulle due navi che li ospitavano, in
vista l’una dell’altra, sulle opposte rive del Reno, per poi incontrarsi di persona su una terza nave ancorata alla metà del fiume 213.
Una procedura – d’altronde non nuova 214 – che rende anche visi210. M.G.H., Epistulae Karolini Aevi, II, Epist. Variorum, 37 (p. 555 s.).
211. GANSHOF, The Treaties of the Carolingians cit. (nota 5), p. 32.
212. M.G.H., Capitularia, nn. 250-251, marzo e giugno a. 870.
213. M.G.H., Constitutiones I, 1, n. 1.
214. Si veda ad esempio l’analoga procedura seguita nell’anno 369 allorché Valente e
e Atanarico si incontrarono su un fiume per la conclusione di un trattato (P. H. HEA-
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vamente evidente l’autonomia ormai acquisita dai due regni, pur
governati da sovrani che erano fratelli e pur nati dalla comune
matrice carolingia.
La natura giuridica dei trattati appare diversa nel tempo e nello spazio. Talora si trattò si accordi che sembrano stipulati con efficacia limitata nel tempo a chi tra chi li aveva sottoscritti, come è
il caso di alcuni accordi di pace di Bisanzio con i prìncipi russi nel
secolo X. Ma i veri trattati, anche tra i re delle stessa famiglia merovingia e carolingia, hanno il valore di impegni vincolanti, anche
per chi succederà nel regno. Ciò è talora affermato espressamente,
talora implicitamente incentivato con clausole o con iniziative di
contorno, come le alleanze famigliari o il conferimento di cariche
onorarie al contraente 215.
Una particolare classe di trattati è quella che Venezia stringe
con gli imperatori carolingi e poi con gli Ottoni. Già nel Pactum
Lotharii dell’840 216 – che richiama un precedente Pactum concluso
da Carlo Magno nell’anno 812, in séguito al trattato con Bisanzio
dello stesso anno – si delinea con chiarezza una singolare forma di
accordo, nel quale il sovrano sancisce e garantisce con la propria
autorità e in prima persona – dunque con atto unilaterale dal
punto di vista giuridico – il rispetto di tutta una serie di diritti
delle terre del ducatus Venetiarum (da Grado alle foci dell’Adige)
nei confronti delle terre già dell’Esarcato, ormai sottratte al dominio dell’Impero d’oriente. Confermati con poche variazioni e nella medesima forma da Carlo III nell’880, da Berengario nell’888 217, quindi da Ottone I nel 967 e da Ottone II nel 982 218, con
Ottone III nel 992 viene esplicitata la natura di praeceptum del doTHER, in NOBLE (ed.), From Roman Provinces cit. (nota 305), p. 299). L’incontro dei sovrani in mezzo a un fiume si spiega, mi pare, con ragioni di sicurezza per entrambi.
215. Su ciò MITTEIS, Politische Verträge cit. (nota 4), p. 84 s.
216. Pactum Lotharii, a. 840, Pavia, in M.G.H., Capitularia, vol. II, n. 233, pp. 129136: « Lotarius divina ordinante providentia imperator augustus [...] hoc pactum suggerente ac supplicante Petro gloriosissimo duce Veneticorum inter Veneticos et vicinos
eorum constituit ac describere iussit, ut ex utraque parte de observandis hiis constitutionibus sacramenta dentur et postea per observantiam harum constitutionum pax firma inter illos perseveret » (ibid., p. 130). Il patto aveva la durata di cinque anni (ibid, p. 131).
217. Pactum Karoli, a. 880; Pactum Berengarii, a. 888, in M.G.H., Capitularia, vol. II,
236 (p. 138); 238 (p. 143).
218. OTTONE I, Pactum cum Venetis, a. 967; Preceptum confirmationis Venetis datum, a.
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cumento imperiale che conferma i diritti dei Veneziani e del loro
ducato 219. Siamo in presenza, sin dall’età carolingia, di un assetto
giuridico nel quale entrambe le parti ottengono il risultato politico e giuridico voluto: Venezia vede riconosciuti i propri diritti di
commercio e giurisdizione, in una posizione completamente autonoma nei confronti del Sacro Romano Impero, mentre il sovrano
d’occidente conferma indirettamente i propri diritti sulle terre già
bizantine attraverso la garanzia formalmente assicurata ai veneziani, tra l’altro inserendo nel trattato tutta una serie di disposizioni
di Rotari e di Liutprando, accanto a capitolari carolingi: sui servi
fuggitivi (Pactum Lotharii, c. 10-11), sui pignoramenti (ibid, cc. 12;
19; 21; 22), sull’omicidio (ibid, cc. 18; 20), sulla denegata giustizia
(ibid, c. 19, sui mutui (ibid, c. 23), sui giuramenti (ibid, c. 34). La
serie dei trattati di commercio tra Venezia e l’Impero continuerà
sino all’età di Federico II, come ha illustrato la monografia di Gerhard Rösch del 1985 220.
Era essenziale che il trattato concluso tra le parti venisse sigillato
con il ricorso allo strumento fondamentale di ogni impegno vincolante in tutti questi secoli (e non solo in essi), il giuramento: i riferimenti sono molto frequenti e chiari in proposito (Autari e i Franchi 221; i due conti di Bretagna 222; Guido da Spoleto e Berengario 223).
Il papa Giovanni nell’anno 874-875 VIII ricordava ad esempio ai figli
di Ludovico il Germanico che la divisione del regno concordata tra i
figli di Ludovico il Pio quaranta anni prima – « uti sibi et filiis suis
singulas metas ad invicem conservantes et amicitiam mutuam custo967; OTTONE II, Pactum cum Venetis, a. 983, in M.G.H., LLS IV, Constitutiones et acta publica, nn. 14-15; 17-19, vol. I, pp. 30-36; 38-44.
219. OTTONE III, a. 992, Preceptum confirmationis Venetis datum.; ENRICO II, Preceptum
confirmationis Venetis datum, in M.G.H., LLS IV, Constitutiones et acta publica, nn. 20; 27,
pp. 45 s; 57 s.
220. G. RÖSCH, Venezia e l’Impero, 962-1250, I rapporti politici, commerciali e di traffico nel
periodo imperiale germanico, Roma, 1985.
221. Secondo GREGORIO DI TOURS (Historiarum Libri, X. 3) Autari nel 590 propose la
pace ai Franchi del re di Borgogna Guntramno promettendo addirittura che i Longobardi divenissero loro subiecti, nonché di non « discedere a sacramento quod predecessores
nostri vestris decessoribus iuraverunt ». Cf. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, IV.
1, che attribuisce il tentativo di pace ad Agilulfo, subentrato ad Autari nell’anno 590.
222. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., V. 16, a. 577-579.
223. LIUTPRANDO DA CREMONA, Antapodosis cit., I. 14.
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dirent et nemo eorum fraternam sortem transiliret » – era stata pattuita con giuramento: « non verbo sed etiam et iuramento sunt tempore
illo polliciti » 224. E ricorda altresì – come già pochi anni prima aveva
fatto il papa Adriano II 225 – che il relativo documento di pace era stato trasmesso anche alla sede apostolica e addirittura (aggiunge Giovanni VIII) corroborato da un sinodo 226. Ed è appena il caso di rammentare il giuramento di Strasburgo dell’anno 842, celebre anche come precoce documento dell’uso del tedesco antico e del francese antico da parte dei due sovrani, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, che in tale occasione si promisero solennemente in questa forma
fedeltà reciproca 227, un anno prima del Trattato di Verdun, stipulato
fra i tre sovrani carolingi anch’esso con giuramento. Le fonti attestano che il giuramento fu talora prestato anche dagli eserciti 228. Solo
eccezionalmente vi fu chi rifiutò di prestarlo 229.
Il ricorso al giuramento avveniva anche negli accordi con i
Musulmani: il patto di Bisanzio con l’emiro di Aleppo, stipulato
nel 969, fu fatto giurare anche a molti autorevoli cittadini di
Aleppo 230. Questo coinvolgimento dei potenti nell’impegno di pace è
significativo, perché indica l’importanza, spesso determinante, del
loro sostegno attivo all’accordo tra i sovrani. Presso i Germani il
ruolo dell’esercito era tradizionale sin da età molto antica e ancora
ne troviamo traccia evidente nella condotta di Teodorico, che nel
479 avrebbe accettato di trasferirsi in Dardania come gli proponeva il legato imperiale, ma non lo fece perché, dichiarò, l’esercito
224. « ut validius robustiusque pactum ipsum iureiurando habitum permaneret, synodica conventio definivit »(J.E. 3000, Coll. Brit.).
225. ADRIANO II, Ep. a Carlo il Calvo, a. 870 (J.E. 2926).
226. J.E. 3000.
227. NITARDO, Historiarum Libri, III. 5 (M.G.H., in Scriptores, II, pp. 649-672, a p.
665; ed. KURZE, in usum scholarum, 1965, p. 35).
228. Così i soldati di Teodorico e di Triario, che giurarono di non combattersi tra loro (MALCO, Fr. 18. 3, ed. BLOCKLEY, Classicising Historians cit. (nota 73], p. 431). Così anche nell’anno 824: GANSHOF, Histoire des relations internationales cit. (nota 5), p. 48.
229. Sabiniano di fronte e Teodorico si rifiutò di giurare, dichiarando di non averlo
mai fatto prima e di non volerlo fare neppure in quella occasione (MALCO, Fr. 20, ed.
BLOCKLEY, Classicising Historians cit. (nota 73), vol. II, p. 443).
230. Il testo è stato tramandato dallo storico arabo KAMAL AD-DIN, del secolo XIII; ed.
M. CANARD, Recueil de textes relatifs à l’Emir Sayf al Daula le Hamanide, Alger-Paris, 1934,
pp. 419-424; ID., Histoire de la dynastie des Hamanides de Jazîra et de Syrie, I, Alger, 1951,
pp. 831-838; VISMARA, Scritti, vol. 7 cit., pp. 141-144.
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non glielo avrebbe consentito in quanto già molto provato 231. E
presso i Sassoni una volta ogni anno si riuniva il consiglio generale
del popolo, ove ogni pago delegava 12 nobili, 12 liberi e 12 semiliberi (leti) per decidere « quid per annum essent acturi sive in
bello sive in pace » 232. Ma più tardi, isituiti i regni stanziali e territoriali, ciò che conta per il sovrano è il consenso dei potenti, laici
ed ecclesiastici. Lo ritroviamo in diversi documenti di pace, ad
esempio già nel trattato di Andelot del 587 (« mediantibus proceribus et sacerdotibus ») 233; nella lettera dell’813 di Carlo Magno all’imperatore Michele I, ove si prevede che l’accordo debba essere
rafforzato con le sottoscrizioni dei sacerdoti e dei maggiorenti dell’impero d’Oriente 234; e nel trattato di Verdun dell’843. A proposito del quale Nitardo (che era figlio naturale di Berta, figlia di
Carlo Magno) riferisce nelle sue Historiae un fatto davvero significativo: i tre figli di Ludovico il Pio (Lotario, Carlo e Ludovico il
Germanico, i due ultimi alleati contro il primo) avevano ormai
trovato l’accordo sulla divisione territoriale tra i tre regni, erano
già « parati ad sacramentum et divisionem », ma nessuno di loro
voleva formalizzare l’accordo senza l’assenso dei potenti dei rispettivi regni (« neuter quod alter volebat absque seniorum suorum
auctoritate assentire audebat »); e rinviarono perciò la conclusione
del trattato ad un momento successivo, nel quale si potesse accertare « quid seniores sui [...] recipere vellent »; e solo quando, decorso un breve tempo, i “primores populi”, manifestarono la loro
volontà di pace, in quanto « degustato semel periculo (l’espressione è bellissima), iterum proelium nolebant », solo allora il trattato
fu formalmente stipulato 235. Un coinvolgimento analogo dei grandi del regno lo troviamo ancora nel trattato del 921 tra Enrico I e
Carlo III, « ut sui ferent fideles innoxii sacramento, qui hanc eo231. MALCO, Fr. 20, ed. BLOCKLEY, Classicising Historians cit.(nota 73), vol. II, pp. 435451, a p. 446-447.
232. Vita Lebuini antiqua, in H. HAUPT, Quellen zur Geschichte des 7. und 8. Jahrhundert,
Darmstadt, 1982, p. 386.
233. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., IX. 20.
234. « sacerdotum patriciorumque ac procerum tuorum subscriptionibus roboratum »:
CARLO MAGNO all’imperatore Michele, a. 813, in M.G.H., Epistulae Karolini Aevi, II,
Epist. Variorum, 37 (p. 555 s.).
235. NITARDO, Historiarum Libri cit., IV. 5 (M.G.H., Scriptores, II, pp. 649-672; ed.
Kurze, p.35).
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rum conventionem fuerant polliciti » 236. La necessità dell’approvazione dei grandi del regno nei trattati di pace costituisce un elemento di grande importanza, che mostra con evidenza i limiti del
potere regio nella costituzione politica di questa età.
A garanzia dell’accordo intervenuto era frequente la consegna
di ostaggi da parte di uno o di entrambi i contraenti. Così avvenne ad esempio tra Teodorico e Childeberto, anche se poi per la
rottura della pace gli ostaggi divennero prigionieri 237. Il re goto
Vallia pattuì con l’imperatore Onorio una pace che venne sancita
con la consegna di “sceltissimi ostaggi” 238 ; in tale occasione gli
venne restuita anche la sorella Galla Placidia, che era stata presa in
ostaggio da Alarico nel sacco di Roma del 410 d.C. e che il goto
Ataulfo, fratello di Alarico, aveva tenuto presso di sé e poi anche
sposato 239, mentre più tardi, morto Ataulfo, Placidia era stata maltrattata dai successori goti. Quando Teodorico ostrogoto nel 479
volle stipulare con l’imperatore (rappresentato da un suo legato,
Adamantus) un accordo che gli consentisse di spostarsi in Tracia
con i suoi Goti (i quali però non ne vollero sapere), egli si disse
disposto a consegnare in ostaggio, a garanzia della pace che sarebbe conseguita all’accordo, addirittura la sorella o la madre a scelta
dell’imperatore 240; d’altra parte, non va dimenticato che egli stesso
era stato da ragazzo per ben dieci anni a Costantinopoli, consegnato all’imperatore dal padre precisamente come ostaggio; e a
questo soggiorno dovette la sua educazione, l’apprendimento del
greco e del romano, la propria cultura. E nell’anno 779 il papa
Adriano I richiese ai Napoletani quindici ostaggi « ex nobilissimis
eorum filiis » a garanzia della restituzione delle località del Patrimonio di s. Pietro da essi detenute 241 .
Appare chiaro che questa prassi aveva lo scopo di rafforzare
l’impegno al rispetto dei patti ed anche di assicurarsi che, in caso
di violazione dell’accordo, vi fosse un congruo risarcimento per il
riscatto di personaggi che la controparte non avrebbe omesso di
236. M.G.H., Constitutiones, I, 1, n. 1.
237. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., III. 18.
238. OROSIO, Storie cit., VII. 43 (ed. M.-P. Arnaud-Lindet, Paris, 1991, p. 130).
239. Ibid., VII. 40. 4.
240. Fr. 20, ed. BLOCKLEY cit.(nota 73), p. 446 s.
241. J.E. 2428; P.L. 98. 323.
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rivendicare, a qualsiasi costo. Va aggiunto peraltro che in altri
trattati, anche del massimo rilievo, questa forma di garanzia non
fu ritenuta necessaria: così ad esempio nella pace tra Giustiniano e
Cosroe del 561, nei trattati merovingi e carolingi di Andelot (587)
e di Meersen (847 e 870), nel trattato di Bisanzio con l’emiro di
Aleppo del 969, già menzionati.
Ma naturalmente violazioni dei trattati ci furono e furono numerose. Nel secolo VI il re di Persia Cosroe non rispettò il patto
con l’impero. I re merovingi infransero ripetutamente gli accordi
nei rapporti reciproci, come già si è visto, e così pure i figli di
Ludovico il Pio. E così il conte di Bretagna Malo nei confronti
dell’altro conte Bodic, il cui figlio Teodorico invece, dopo aver
vinto Malo, rispettò l’impegno assunto dal padre 242.
La posizione di principio di chi si professava cristiano era chiara. I patti, anche quelli col nemico, dovevano essere rispettati. Lo
aveva già scritto Agostino, lo confermarono i pontefici. Il papa
organizzò una processione preceduta da una croce alla quale era
stato appeso il trattato di pace ventennale concluso dal papa Zaccaria con il re Ratchis 243, violato dai Longobardi di Astolfo 244.
Niccolò I come si è visto, non autorizzava la risposta militare
neppure nel caso di una violazione della pace, a meno che ciò
non fosse previsto nel trattato infranto dall’altro contraente 245.
Ma non sempre era chiaro su quale delle due parti ricadesse la
responsabilità della violazione. Singolare fu la procedura che in un
caso Corrado II il Salico adottò per sciogliere il dubbio: nella biografia dell’imperatore scritta dal cappellano Wipo si narra che
Corrado, al quale i Pagani da una parte, i Sassoni cristiani dall’altra, chiedevano di risolvere con il duello la questione di chi per
primo avesse rotto la pace, acconsentì alla richiesta (« hanc rem
duello diiudicari inter eos permisit »), « licet (commenta Wipo)
non satis caute ageret ». Infatti il campione scelto dai cristiani,
confidando nella sola fede, la quale però – soggiunge ancora Wipo – « sine operibus iustitiae mortua est », si batté bensì con audacia, ma cadde colpito dal campione dei Pagani, anch’egli confi242. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., V. 16, a. 577-579.
243. Liber Pontificalis, ed. Duchesne, 1886, Zacharias, c. XVII, p. 431.
244. In Appendice a Paolo Diacono, Storia dei Longobardi (ed. Roncoroni, p. 270).
245. Sopra, nota 115 e testo corrispondente.
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dente nei propri Dei. E Corrado dispose allora la costruzione di
un castrum per controllare il rispetto della pace 246.
L’ignoto monaco autore del Chronicon Salernitanum attribuì la
sconfitta dei Cristiani nei confronti dei Musulmani al fatto che i
primi « dimenticarono ciò che avevano giurato agli Agareni ». E
narra che costoro risposero esponendo un cartello in cui avevano
scritto che avrebbero conosciuto se era vero che Cristo reggeva il
cielo e la terra solo se gli spergiuri fossero stati sconfitti: il che accadde, nonostante essi fossero in numero minore rispetto ai
cristiani 247.
Il pittoresco episodio (del quale peraltro non conosciamo l’esito quanto alla ventilata conversione degli Agareni...) mostra come
il rispetto del giuramento fosse radicato presso i Musulmani. Lo
conferma anche una fonte islamica del secolo X, a proposito di
una campagna militare in Sicilia: « narra Ahmed ibn Sulayman che
i dottori dell’Africa ripugnavano all’impresa di Sicilia a causa della
tregua firmata con quel paese, non essendo ben sicuri che il patto
fosse stato violato dai siciliani » 248.
8. ACCORDI
E SCONTRI CON L’ISLAM
Accordi e trattati tra potenze islamiche e potenze cristiane
dunque vi furono, e ben più numerosi dei pochi che abbiamo
menzionato.
I rapporti e gli accordi tra Bisanzio e l’Islam sono stati studiati
magistralmente da Giulio Vismara in una ricerca che porta appunto
questo titolo, edita nel 1950; non aggiungerò qui se non pochi cenni.
Già il Patto di Omar del 634-644 (sull’autenticità del quale peraltro vi sono alcuni dubbi) lasciava ad ebrei e cristiani – i Dhim246. WIPO, Gesta Chuonradi II. Imperatoris cit., c. 33, ed. Bresslau, (M.G.H., Script.
Rerum Germanicarum, 61, Hannover, 1915, p. 52). L’episodio è stato messo in luce da
P. LANDAU, Recht als Grundlage für die Lebensrealität des Mittelalters, in H. LÜCK, M. PUHLE,
A. RANFT (Hg.), Grundlagen für ein neues Europa, Köln Weimar Wien, 2009, pp. 141161, a p. 151.
247. Chronicon Salernitanum, c. 126, M.G.H., SS, vol. III, p. 537.
248. Cronaca di AL-MALIKI, secolo X, in M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula, Torino-Roma, 1880, vol. I, p. 305 s., cf. per la fonte, ivi, p. XLIII.
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mi, nella terminologia islamica – libertà di culto, pur vietando di
professare in pubblico la loro religione, di costruire nuove chiese
o sinagoghe e di fare proselitismo presso i musulmani, oltre che di
portare armi. Inoltre si imponeva loro di portare vesti differenti e
di pagare il tributo previsto dal Corano per i non musulmani
(jizya) 249.
I rapporti che Carlo Magno intrattenne, inviando ambascerie
ed anche con un viaggio personale in Oriente, con il califfo Harun al-Rashid – nell’anno 797 e poi di nuovo negli anni 802-807
– sono stati studiati a più riprese 250: essi attestano un atteggiamento di apertura e di interesse reciproco tra i due più grandi sovrani
del secolo IX.
Un episodio ben noto e di vivo interesse è quello che vide
Berta di Toscana, figlia di Lotario II, moglie in seconde nozze del
marchese Adalberto II di Toscana, offrire al califfo di Bagdad alMùktafi, nell’anno 905, un’alleanza attraverso una lettera “in scrittura franca” che fu tradotta dal latino al greco e dal greco all’arabo 251. La proposta era accompagnata dalla promessa di ricchissimi
doni, analiticamente descritti, ed aveva verosimilmente lo scopo
di tutelare l’occidente franco forse nei confronti degli Omayyadi
di Spagna ma più probabilmente (come argomentò Giorgio Levi
della Vida) nei confronti di Bisanzio nell’Italia centro-meridionale 252. Berta rivendica con il Califfo la superiorità, rispetto a Bizanzio, del dominio dei Franchi, dei quali abusivamente si dichiara
249. M. BRENNER, Breve storia degli Ebrei, Roma, 2009, p. 61; il testo del Patto in Wikipedia, Patto—di—Omar.
250. Si vedano in particolare le ricerche di G. MOSCA, Carlo Magno e Harun al-Rasghid, Bari, 19962; F. MONTELEONE, Il viaggio di Carlo Magno in Terra Santa, un’esperienza
di pellegrinaggio nella tradizione europea occidentale, Fasano, 2003; Carla ROSSI (a cura di), Il
viaggio di Carlo Magno a Gerusalemme e a Costantinopoli, Alessandria, 2006 (edizione, traduzione e commento di un poemetto normanno del sec. XIII).
251. La lettera fu scoperta dall’islamista M. HAMIDULLAH nel 1953 e sapientemente tradotta e illustrata da G. LEVI DELLA VIDA, La corrispondenza di Berta di Toscana con il califfo
Muktafi, in Rivista storica italiana, 66 (1954), pp. 21-38, poi in ID., Aneddoti e svaghi arabi e
non arabi, Milano-Napoli, 1959, pp. 26-44; cf. inoltre C. G. MOR, Intorno a una lettera di
Berta di Toscana al Califfo di Bagdad, in Archivio storico italiano, 112 (1954), pp. 299-312;
A. PAGDEN, Mondi in guerra, 2500 anni di conflitto tra Oriente e Occidente, Roma-Bari, 2009,
p. 179.
252. LEVI DELLA VIDA, La corrispondenza, in Aneddoti cit., pp. 40-44.
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regina, un dominio « che ha signoria più vasta ed eserciti più numerosi [di quelli bizantini] poiché la mia signoria comprende ventiquattro regni, ciascuno dei quali ha un linguaggio diverso da
quello del regno vicino » 253. La proposta di alleanza, che la risposta
del Califfo mostra essere stata molto favorevolmente recepita, rimase senza esito perché il legato che portava a Berta il messaggio
del califfo morì durante il viaggio di ritorno, sicché la risposta non
giunse mai in Toscana e si è conservata solo in una fonte araba.
Ma lo scambio di corrispondenza offre un vivido esempio di come le relazioni dell’occidente con l’Islam potessero fiorire all’inizio del secolo X.
Che a Bisanzio vi fosse chi ammetteva ed anzi auspicava, anche dall’alto di una posizione religiosa eminente, un rapporto di
amicizia tra Cristiani e Musulmani lo attesta la lettera di Nicola il
Mistico del 913-914, diretta probabilmente al califfo di Bagdad, a
proposito dei fatti di violenza verificatisi a Creta dei quali già si è
accennato sopra: Nicola, che pochi anni più tardi diverrà arcivescovo di Costantinopoli, scrive al califfo di Bagdad che due sono i
poteri più forti sulla terra, quello dei Saraceni e quello dei Romani (ovviamente intendendo con ciò gli imperatori bizantini); e dichiara che « proprio per questo essi debbono sviluppare tra loro
un rapporto di comunione fraterna » 254: un’affermazione davvero
notevole, il cui significato non è sminuito dal fatto di essere stata
enunciata in una circostanza specifica e con uno scopo pacificatore
concreto.
Le ambascerie inviate da Bisanzio a Bagdad non furono rare: tra
esse, quella dell’anno 917, riportata da un cronista arabo del secolo
XI 255. Il Trattato concluso nell’anno 969 tra il comandante militare
bizantino e l’emiro di Aleppo, conservatosi in una fonte islamica del
secolo XIII 256, contiene – accanto alle clausole di natura militare e a
quelle sulla circolazione delle persone e sulla percezione delle decime
253. BERTA DI TOSCANA al Califfo al- Muftaki, a. 905, in LEVI DELLA VIDA, in Aneddoti
cit. (nota 251), p. 32.
254. NICOLA IL MISTICO, Ep. 1, in P.G. 111. 28-36, alla col. 27. Cf. VISMARA, Scritti, 7
cit., p. 313-315; CARILE, Teologia politica bizantina cit. (nota 57), pp. 23; 296.
255. A. A. VASILIEV, Byzance et les Arabes, II, Le dynastie macédonienne (867-959), 2.
Extraits des sources arabes, trad. par M. Canard, Bruxelles, 1950, pp. 72-79.
256. Lo storico arabo KAMAL AD-DIN; cf. CANARD, Recueil cit.(nota 230), pp. 419-424.
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– una serie di accordi su temi di notevole interesse storico. Tra questi, la garanzia della libertà religiosa delle due componenti della popolazione, islamica e cristiana, ed anche la procedura di selezione del
futuro emiro della città, che l’imperatore bizantino si impegnava a
scegliere tra gli abitanti di Aleppo 257.
Ma la questione della liceità delle alleanze si pose con evidenza in alcune fasi della storia altomedievale e fu variamente affrontata nel tempo. Quanto ai pagani, sprezzante rifiuto di ogni rapporto di amicitia era stato espresso da Fredegario sin dall’età merovingia, con l’asserzione che « non est possibelem ut Christiani et
Dei servi cum canebus amicitias conlocare possint » 258.
Alla metà del secolo VIII il papa Leone IV esortava a combattere i Saraceni, rivolgendosi agli Amalfitani e ai Napoletani nell’849 259 e ai Franchi quattro anni più tardi 260, in un momento nel
quale i Musulmani si stavano insediando in talune zone del meridione della penisola. Ma pochi anni più tardi Niccolò I espresse
un pensiero diverso. Gli accordi con gli stranieri di altra religione
non sono da respingere, egli scrisse all’imperatore Ludovico, perché possono raffrenare la loro violenza contro i cristiani; e del resto la Bibbia attesta che lo stesso Salomone strinse rapporti con gli
stranieri per facilitare la costruzione del Tempio 261. E nella già
menzionata e ben nota lettera ai Bulgari il papa confermò lo stesso principio: se è ben vero che l’apostolo Paolo afferma che non
c’è alcuna comunione tra la luce e le tenebre, tra Cristo e Satana
(Paolo, 1Cor. 6), dunque anche tra il fedele e l’infedele, è altrettanto vero che se il patto si stringe con il proposito di attrarre
l’infedele al culto del vero Dio, esso non è proibito: l’apostolo
257. VISMARA, Bisanzio e l’Islam, in ID., Scritti, 7 cit., pp. 141-144.
258. FREDEGARII SCOLASTICI, Chronicae cit., IV. 8, ante a. 639 (M.G.H., Scriptores rerum Merovingicarum, II, p. 154).
259. LEONE IV, M.G.H. Epistulae Kar. Aevi, V, 96, J.E. 2524.
260. LEONE IV, Epist. 28, P.L. 115. 655, J.E. 2642: il papa incita l’esercito dei Franchi
« contra inimicos sanctae fidei ad viriliter pugnandum ». Il testo entrerà più tardi anche
nel Decreto di GRAZIANO, C. 23 q. 8 c.9.
261. NICCOLÒ I, ad imper. Ludovicum, Epist. 114 (a. 858-867, P.L. 119. 1118; M.G.H.
Epist. Karol. Aevi IV, n. 54, Berolini 1912, p. 351. « Christianae religioni nihil officit,
immo proficit, si charitate magistra divino intuitu cum exteris quibusque pro remediis et
securitate Christianorum placitum inieritis, cum constet non ob aliud id fieri, nisi ut fera
saevicia eorum, que in fideles unanimiter exardescit, aliquo modo refrenetur ».
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stesso non ha proibito il matrimonio tra un fedele e una pagana o
viceversa (Paolo, 1Cor. 7). Mosè non rifiutò di frequentare il cognato volendolo attrarre alla conoscenza del vero Dio (Esodo
18.3); e Salomone amò donne straniere (1Re 11.1). Sappiamo che
persino alcuni santi, aggiunge il papa, « cum alienigenis et infidelibus pacta et amicitiae foedera contraxisse diversa », non certo per
condividerne la fede ma per riconoscimento dei loro usi e per finalità pratiche ed economiche 262.
Era una posizione di notevole apertura, saldamente ancorata,
come si vede, ai testi alto- e neotestamentari secondo il modello
della grande tradizione patristica. Dopo appena un decennio, invece, troviamo affrontata la questione dei rapporti con l’Islam da
un altro pontefice, Giovanni VIII, in un’ottica completamente diversa. Anche questo tema è stato compiutamente trattato da Giulio Vismara nella monografia sull’impium foedus 263 nella quale egli
per primo ha posto in luce l’importanza della dottrina internazionalistica di questo papa.
In alcune Epistole degli anni 874-882 Giovanni VIII 264 espose
infatti una dottrina compiutamente argomentata, che si fondava
sul principio della Chiesa come corpo mistico. Sul fondamento
dei testi di san Giovanni e di san Paolo, il papa sosteneva che se è
vero che la Chiesa è un insieme organico in cui vi è il capo e vi
sono le membra, allora ogni ferita inferta ad un membro colpisce
e fa soffrire l’intero organismo, sicché esso va curato con l’aiuto
delle parti sane. E questo vale per l’intero complesso delle nazioni
cristiane, che costituiscono un unico corpo, unito dalla fede.
Dunque se un regno o un popolo cristiano sono attaccati dagli infedeli, gli altri debbono accorrere in suo aiuto. Inoltre, ogni intesa
tra cristiani e infedeli è da condannare, perché così dice l’apostolo
Paolo nel passo (1Cor. 6) che abbiamo appena ricordato, ove si
condanna il rapporto tra Cristo e Satana, tra la luce e le tenebre.
Il motivo specifico che può spiegare la genesi di questa dottrina è
chiaro. In quegli anni i Saraceni infestavano la Campania e si avvici262. NICCOLÒ I, Epistula ad Bulgarorum consulta, 13 novembre 866, M.G.H. Epist. Karol. Aevi IV, Ep. 99, c. 82, p. 595.
263. Ora in VISMARA, Scritti, 7 cit., pp. 3-114, in part. alle pp. 19-33.
264. Si vedano in particolare, di GIOVANNI VIII, le Epistole nn. 36; 42; 53; 173
(M.G.H., Epistulae, VII).
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navano a Roma. Il pontefice intervenne con insistenza, in più occasioni (vi sono sul tema non meno di 26 sue epistole), per dissuadere
in ogni modo i Campani e i Pugliesi dal concludere accordi con i
“nefandissimi Saraceni” 265. Particolarmente forte e tenace fu l’azione
del papa nei confronti del duca di Napoli, Sergio, perché ogni accordo con gli infedeli fosse impedito 266. Ma senza successo. Quando il
duca fu emarginato e il potere civile e militare passò, a Napoli, al fratello Anastasio – che era vescovo della città e che sino ad allora aveva
aderito alle tesi papali – in un primo tempo le direttive romane vennero applicate. Ma poco dopo Anastasio, che pure aveva consentito
che il fratello venisse accecato e inviato a Roma, concluse a sua volta
un trattato con i Saraceni 267: troppo forte era la pressione, la necessità
politica di trovare un accordo con l’aggressore. Gli sforzi di Giovanni
VIII furono vani (lo stesso pontefice dovette adattarsi a pagare un tributo ai Saraceni) 268 e solo la vittoria del Garigliano del 915 allontanò
il pericolo saraceno in questa parte della Penisola. Non appare casuale
che proprio negli anni del pontificato di Giovanni VIII una epistola
del vescovo di Magonza lamentasse la scarsa propensione dei provinciales a combattere contro i pagani: indetta una guerra, lamentava il
vescovo, essi sogliono addurre ogni sorta di scuse – un viaggio a Roma, una malattia, un diverso impegno assunto per ordine del loro signore – per non rispondere all’appello 269.
La pressante prescrizione papale sul divieto di ogni accordo
con l’Islam, tuttavia, rimase nella tradizione canonistica. In essa si
enuncia un concetto destinato a lunga fortuna, l’idea di una Respublica christiana, fondata non su un’unione istituzionale o politica
tra regni bensì sulla fede religiosa comune ai popoli cristiani e sui
265. G. VISMARA, Acta Pontificia Juris Gentium, Milano, 1946, pp. 270-274.
266. VISMARA, Scritti, 7, cit., pp. 381-399.
267. Il racconto di queste vicende è in Chronicon Salernitanum, c. 121 (M.G.H., SS,
III, p. 534); vedi M. SCHIPA, Il Mezzogiorno d’Italia anteriormente alla Monarchia, Bari,
1923, p. 91 s.
268. VISMARA, Scritti cit., p. 43: GIOVANNI VIII, in M.G.H., Epist. VII, n. 89, p. 85.
269. Epistola ad papam Romanum del vescovo di Magonza, anno 877, in Collectio Sangallensis, 42 (M.G.H., Legum sectio V, Formulae, ed. K. ZEUMER, p. 425): « Hoc provincialibus nostri est solitum, ut, quotienscumque bellum contra paganos illis fuerit indictum, quidam Romam pergere, quidam dominos suos in aliis regionibus invisere, alii
morbos etiam gestiant simulare, et in se mutua sede bachantes armaque sequentes impia,
gentilis etiam viri testimonio pabula ignis aeterni non vereantur fieri ».
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vincoli anche politici e militari che essa imponeva ai propri membri. Va precisato che il papa da un lato sollecitava a combattere
per respingere gli attacchi, dall’altro risolutamente rifiutava ogni
accordo con gli infedeli. Ma non propugnava una guerra di attacco al cuore dell’Islam né un’iniziativa bellica più ampia. A ciò si
giungerà, da parte cristiana, solo due secoli più tardi.
9. MATRIMONI
INTERNAZIONALI E LEGAMI FAMIGLIARI
Su un ulteriore profilo dobbiamo richiamare l’attenzione, prima di concludere. Le relazioni internazionali di questi secoli (ma
certo non solo di essi) hanno conosciuto e praticato in misura amplissima, direi sistematica, la politica delle alleanze matrimoniali e
famigliari tra i regnanti. La relazione di Régine Le Jan ne tratta ex
professo in questa Settimana.
I casi noti sono innumerevoli, ci limitiamo a rammentarne alcuni tra i tanti.
I re dei popoli germanici solevano scegliere in sposa una principessa della famiglia regnante di un altro popolo germanico, per
lo più figlia o sorella del re. L’ostrogoto Teodorico aveva promosso tali legami dando in moglie le sorelle e le figlie ad altri re
germanici (essendo peraltro egli stesso figlio adottivo dell’imperatore bizantino, ricevendo i titoli di patricius e di magister militum ed
avendo sposato una principessa bizantina) 270. Tra i Longobardi, nel
racconto di Paolo Diacono, già il re Wacco, settimo della dinastia
prima della discesa in Italia, aveva sposato successivamente la figlia
del re dei Turingi, la figlia del re dei Gepidi e la figlia del re degli
Eruli 271. Alboino sposò in prime nozze la figlia di Clotario merovingio e in seconde nozze, dopo la morte di lei, la figlia del re
dei Gepidi, Rosmunda 272, che più tardi si vendicherà mortalmente
dell’insulto del marito alla memoria del padre Cunimondo, del
quale Alboino, che l’aveva ucciso in battaglia facendo prigioniera
la figlia, conservava il teschio nella reggia di Pavia, servendosene
270. P. KOSCHAKER, L’Europa e il diritto romano, Firenze, 1962, p. 25 s.
271. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., I. 21.
272. Ibid., I. 27.
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sprezzantemente come coppa per il vino 273. Autari chiese la mano
della sorella del re merovingio Childeperto, che peraltro l’aveva
già promessa a Reccaredo, re dei Visigoti di Spagna 274, e poi sposò Teodolinda, figlia del re dei Bavari Garibaldo 275. Cuniperto
sposò l’anglosassone Ermelinda 276. Liutprando sposò la figlia del re
dei Bavari 277. E l’ultimo re, Desiderio, diede come tutti sanno in
sposa a Carlo re dei Franchi la figlia Ermengarda, mentre il figlio
di Desiderio, Adelchi, sposava Gisela figlia di Pipino.
Non meno numerosi sono i casi di matrimoni per così dire internazionali tra i merovingi, a cominciare dal più importante tra tutti,
quello che unì Clodoveo con la principessa burgunda Clotilde, nipote del re Gundobado. E qui non possiamo tralasciare il ricordo di come le cose si svolsero: quando il messo di Clodoveo (che prima aveva osservato in chiesa, senza farsi conoscere, la principessa, probabilmente per valutarne la bellezza) chiese in sposa Clotilde per conto
del suo signore, Clotilde rispose che non poteva acconsentire perché
« non è lecito che una cristiana sposi un pagano »; ma trattenne, consegnandolo poi al tesoro dello zio, l’anello che il messaggero aveva
portato con sé. Quando il messaggero del re dei Franchi tornò alla
carica l’anno seguente, i consiglieri di Gundobado (il quale per parte
sua voleva rifiutare) raccomandarono di acconsentire alla proposta del
potente Clodoveo, anche perché ormai l’anello era stato accettato e
dunque impegnava la famiglia della futura sposa 278. E così avvenne,
con le profonde conseguenze storiche che conosciamo. Chi consigliò
a Clotilde, certo col suo consenso, di trattenere l’anello? Forse un’ancella? Non lo sapremo mai.
Ma anche tra i Germani e gli imperatori romani e bizantini i
connubi matrimoniali furono praticati. Già nel secolo V Ataulfo,
re goto di Narbona, sposò Galla Placidia, fatta prigioniera dal fratello in occasione del sacco di Roma 279. Un progetto matrimonia273. Ibid., II. 28.
274. Ibid, III. 28; GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri, IX. 25.
275. Ibid., III. 30.
276. Ibid., V. 37.
277. Ibid., VI. 49.
278. Liber Historiae Francorum, c. 11-12, M.G.H. Script. Hist. Meroving. II/2, Hannover, 1956, ed. B. Krusch, pp. 254-260.
279. IDAZIO, Cronache, cf. GUIDETTI, Vivere tra Barbari cit. (nota 21), p. 117.
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le tra il figlio di Carlo Magno e la figlia dell’imperatrice di Bisanzio Irene non andò a buon fine, né dunque possiamo congetturare quali conseguenze questa unione avrebbe potuto avere nei rapporti tra le due parti dell’antico impero. Un secolo e mezzo più
tardi, l’imperatore di Bisanzio Romano I chiese a Ugo di Provenza sua figlia in sposa per il nipote Romano II 280, figlio di Costantino VII e imperatore d’Oriente dal 959 al 963. Questi invece per
parte sua nel Trattato de administrando imperio respingeva con forza
e con dovizia di argomenti il legame di una donna di stirpe barbarica con l’imperatore, facendo eccezione peraltro proprio per i
Franchi 281.
Nell’anno 968 Liutprando da Cremona fu inviato da Ottone I a
Costantinopoli con l’incarico di chiedere all’imperatore Niceforo Foca il consenso al matrimonio del figlio Ottone II con Teofano, figlia
di Romano II; la missione di Liutprando fallì, ma il matrimonio fu
effettivamente concluso quattro anni più tardi e ne nacque il futuro
imperatore d’occidente Ottone III, del quale Teofano fu reggente
dopo la morte di Ottone II nel 983 e sino al 991, quando morì: una
vicenda eccezionale, che secondo alcuni avrebbe potuto addirittura
condurre verso la riunificazione dei due imperi. Non solo: quando
Ottone III morì nel 1002, appena ventiduenne, era appena sbarcata
in Italia per unirsi a lui in matrimonio la principessa bizantina Zoe,
figlia di Costantino VIII. Con la scomparsa precoce del terzo Ottone
la prospettiva di un legame dinastico tra oriente e occidente venne
meno per sempre.
Se i matrimoni internazionali erano frequenti, invece ai sudditi
l’unione coniugale con stranieri venne ripetutamente vietata dagli
imperatori. Così già Valentiniano in una costituzione dell’anno
373 282, così anche i Visigoti sino a Leovigildo, che invece li auto280. LIUTPRANDO DA CREMONA, Antapodosis, V. 14 (anno 941), M.G.H. ed. Becker, p.
137; Ugo rispose di non avere una figlia legittima da inviare in sposa, ma solo una figlia
di concubina; e la proposta venne senz’altro accettata da Romano, in quanto (riferisce
Liutprando) i Greci considerano ai fini della nobiltà soltanto la stirpe del padre, non
quella della madre.
281. COSTANTINO PORFIROGENITO, De administrando imperio, c. 13 (ed. Bekker, pp.
86-89).
282. Codex Theodosianus, 3. 14. 1 de nuptiis gentilium: divieto di nozze con “barbari”,
punito con pena capitale.
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PROFILI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE NELL’ALTO MEDIOEVO
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rizzò nel quadro della sua politica di assimilazione tra le due componenti della popolazione del regno di Toledo 283. Si comprende,
d’altra parte, che Ludovico il Pio, nella sua Ordinatio dell’anno
817, abbia proibito il matrimonio dei suoi successori con principesse straniere 284: perché ciò avrebbe evidentemente potuto creare
squilibri nei rapporti di forza tra i figli, ognuno dei quali era titolare di un regno derivato dalla spartizione del vastissimo dominio
dei Franchi.
Lo scopo di questa politica di alleanze matrimoniali internazionali era di mantenere e rafforzare i legami tra gli Stati, creando
condizioni favorevoli al mantenimento di relazioni di pace. Lo
esprime bene, all’inizio del secolo VI, Cassiodoro, allorchè scrive
che « ideo inter reges affinitatis iura divina coalescere voluerunt,
ut per eorum placabilem animum proveniat quies optata populorum » 285: il consolidare tra i re i diritti di parentela (che sono detti
“divini”) poteva conseguire lo scopo di ottenere da loro, calmandone lo spirito bellicoso, la pace agognata dai popoli.
In particolare, i matrimoni tra famiglie regnanti era normale
tra le etnie germaniche, nella consapevolezza dell’origine comune
delle loro culture e delle loro consuetudini di vita e di condotta.
La parentela avrebbe giovato a questo fine. D’altra parte, la non
rara evenienza di un matrimonio del re (o un suo congiunto) vincitore in guerra con una donna di stirpe reale del popolo vinto
non sorprende, perché anche questo atto poteva contribuire a
coinvolgere il popolo vinto nella compagine del regno e del sovrano vincitori: come in alcuni dei casi citati in effetti avvenne da
parte dei Longobardi verso i Gepidi o dei Franchi verso i Burgundi. E comunque risultava decisiva, nella scelta, anche l’appartenenza della sposa ad una famiglia di stirpe reale.
Tuttavia poté accadere (ed accadde in diverse circostanze) che
proprio questo legame di sangue finisse per provocare l’effetto
contrario. Non amicizia e alleanza, ma reazioni violente. Rosmunda, come si è detto, fece uccidere Alboino per vendicare la
memoria del padre 286; Clotilde (figlia di Clodoveo) andata sposa
283. Leges Visigothorum, III. 1.1, ed. K. ZEUMER, 1902, M.G.H., Legum sectio I.
284. M.G.H. Capitularia, ed. Boretius-Krause, n. 136, c.13 (vol. I, p. 272)
285. CASSIODORO, Variae, III. 4 (M.G.H. A. A., ed.Th. Mommsen, p. 80).
286. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., II. 28.
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ad Amalarico visigoto, maltrattata perché cattolica, sollecitò il fratello Childeberto re dei Franchi, che intervenne militarmente, uccise Amalarico e tornò in Francia con la sorella 287; nel 679 il re di
Northumbria fu ucciso dal re della Mercia nonostante i legami di
parentela acquisita 288; e così via.
Va messo in rilievo il fatto che nei secoli dell’alto medioevo il
ruolo svolto dalle regine, quasi sempre di etnia diversa rispetto al
marito regnante, fu molte volte determinante anche nelle relazioni internazionali. Figure come Clotilde moglie di Clodoveo, Teodolinda sposa di Autari e poi di Agilulfo (da lei scelto come marito e come re), Berta marchesa di Toscana, Adelaide sposa di Ottone I, come pure imperatrici bizantine quali Teodora, Irene,
Teofano, ma anche nel mondo islamico Khayzuran, già schiava
yemenita che divenne moglie del califfo al-Mahi e madre di Harun al-Rashid, insieme con molte altre donne, hanno con le loro
scelte dinastiche e politiche impresso un’orma profonda nella vita
politica dei rispettivi ordinamenti.
Vi furono anche forme diverse di legame tra famiglie regnanti.
Una tra queste, caratteristica di taluni popoli germanici, consisteva
nell’affidare ad un re di altra etnia la consegna delle armi all’erede
al trono, che solo dopo questa cerimonia era considerato adulto
ed ammesso alla tavola del padre: come Paolo Diacono riferisce a
proposito di Alboino, che il padre Audoino non ammise accanto
a sé alla mensa, nonostante il valore dimostrato in battaglia contro
i Gepidi, perché ancora tale cerimonia non era avvenuta 289. Analogamente, si soleva affidare ad un sovrano straniero il primo taglio della barba o dei capelli di un giovane di stirpe reale, che dopo questo gesto veniva considerato suo figlio adottivo: Carlo
Martello inviò a questo scopo il figlio Pipino (il Breve) al re longobardo Liutprando, che dopo la cerimonia lo congedò rinviandolo al padre con splendidi doni 290.
Anche per l’Oriente abbiamo notizia di usi non dissimili. Nel
522 il re persiano Kavadh (Cabade) chiese all’imperatore Giustino di
adottare il proprio figlio Cosroe; Giustino gradì la richiesta, riferisce
287. GREGORIO DI TOURS, Historiarum Libri cit., III.10 (p. 106 s.).
288. BEDA, Historia ecclesiastica cit., IV. 21.
289. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., I. 23.
290. PAOLO DIacono, Historia Langobardorum cit., VI. 53.
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Procopio, e così pure il nipote Giustiniano, ma il quaestor Proclo
convinse l’imperatore a respingerla, perché (argomentò) « chi è figlio
è anche erede » 291: una eventualità che né Giustino né Giustiniano
evidentemente avrebbero gradito. Un secolo più tardi, nel 623, vi fu
una nuova guerra tra i Bizantini e i Persiani, che non condusse alla
pace perché il re Cosroe (Khusraw) aveva insultato pesantemente
l’imperatore Eraclio; ma appena cinque anni più tardi, nel 628, dopo
la grande vittoria di Eraclio a Ninive, il figlio di Cosroe, Cabade
(Kawadh Shiroe), sul letto di morte nominò l’imperatore bizantino
tutore del proprio figlio, « nello stesso modo in cui voi dite che il
vostro Dio venne affidato al vecchio Simeone » 292.
Almeno un cenno va, infine, dedicato al ruolo svolto dalla
Chiesa nelle vicende matrimoniali dei sovrani: un tema che interessa la storia degli stati cristiani sino all’età moderna. La fonte
della competenza ecclesiastica risiedeva nella natura sacramentale
del matrimonio, che conferiva alla Chiesa la definizione della disciplina giuridica e l’esercizio della giurisdizione su questa materia.
I due pilastri erano costituiti dal principio evangelico dell’indissolubilità e dalla normativa sugli impedimenti stabiliti dai canoni.
Quando la questione della validità o della liceità di un vincolo
matrimoniale riguardava un sovrano, era naturale che ad occuparsene fosse lo stesso pontefice romano Tra i casi degni di nota per
questi secoli ci limitiamo a menzionarne due soli.
Il papa Niccolò I si rifiutò di riconoscere l’annullamento del
matrimonio di Lotario II con Teutberga, da cui l’imperatore non
aveva avuto figli, richiesto allo scopo di sposare Waldrada, dalla
quale aveva invece avuto ben tre figli. Quando un sinodo appositamente convocato a Metz si pronunciò nell’863 a favore dell’annullamento, il pontefice restò inflessibile e – nonostante le pressioni esercitate su di lui anche dal fratello di Lotario, Ludovico II
– dichiarò nulla tale decisione, scomunicando i vescovi che l’avevano deliberato 293.
291. PROCOPIO DI CESAREA, De Bello Persico I. 11 (ed. DINDORF, Procopius, I, pp. 50-55,
in Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, Bonn 1833); cf. Fozio, Biblioteca, Procopio
di Cesarea, 23a, ed. N. Wilson, Milano, 2007, p. 95.
292. G. OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, Torino, 1993, pp. 91 e 130, nt. 49.
293. Sull’intervento di Niccolò I e sull’annullamento del matrimonio di Lotario II, cf.
J.E. 2870-2874, a. 867.
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A Bisanzio l’imperatore Leone VI, che già per tre volte era rimasto vedovo, nell’anno 905 ebbe un figlio (il futuro imperatore
Costantino VII Porfirogenito) da Zoe Carbonopsina. Volle sposarla per legittimare il neonato, ma la legislazione bizantina vietava il
quarto matrimonio. E Nicola il Mistico, da quattro anni arcivescovo di Costantinopoli, rifiutò di celebrare le nozze, vietando all’imperatore l’ingresso in Santa Sofia. Leone VI rimosse allora Nicola dalla carica arcivescovile 294 e si rivolse al papa Sergio III e ai
patriarchi di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme per ottenere
attraverso un sinodo appositamente convocato l’avallo alla sua
unione con Zoe 295. E vi riuscì.
In queste due occasioni, dunque, i papi intervennero per decidere su questioni che interessavano direttamente la successione dinastica dei sovrani. Se nel primo caso il rigore di Niccolò I non
valse ad impedire il secondo matrimonio di Lotario II, nel secondo caso il vigore dell’arcivescovo nel rispettare una norma di legge secolare non riuscì ad evitare che l’imperatore raggiungesse il
suo scopo proprio con il sostegno papale, in questa occasione rivelatosi prezioso. Vi erano momenti in cui il ruolo del vescovo di
Roma, non certo incondizionatamente accettato a Costantinopoli,
poté risultare utile.
10. CONCLUSIONI
I temi che abbiamo sin qui evocato possono, crediamo, essere
sufficienti a mostrare non solo l’ampiezza dello spettro dei rapporti internazionali nei secoli dal V al X ma anche la molteplicità
delle componenti giuridiche di queste relazioni. L’età altomedievale ha dunque conosciuto un amplissimo ventaglio di poteri su294. Questo nell’impero d’oriente era possibile; Nicola ritornò alla sua funzione di arcivescovo di Costantinopoli dopo la morte di Leone VI e più tardi esercitò addirittura
per un certo periodo la coreggenza durante la minore età di Costantino VII.
295. F. DÖLGER, Regesten, I (565-1025), n. 545, p. 65, München-Berlin, 1924 (Corpus
der griechischen Urkunden, Regesten). Il racconto, contenuto nella Vita Euthychii, è edito in
P.G. 111. 1144. Per vero nella Cronaca non si dice espressamente che al sinodo fosse
presente anche il rappresentante del “patriarca” di Roma (così i Bizantini qualificavano
il papa).
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PROFILI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE NELL’ALTO MEDIOEVO
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scettibili di iniziative sul piano internazionale: dall’impero d’oriente al rinnovato impero d’occidente, dal papato romano ai regni
barbarici interni od esterni rispetto all’impero, dalle popolazioni
nordiche e asiatiche della seconda ondata di migrazioni sino alle
diverse potenze islamiche che si affermano in sostanziale indipendenza pur sotto il primato religioso dei Califfi di Bagdad, i Fatimiti d’Egitto, gli Omayyadi di Spagna ed altri ancora. Questa folla
di soggetti internazionali di diverso livello e di diseguale potere
costituisce una caratteristica essenziale di questa età anche sul terreno del diritto, che la differenzia tanto dall’esperienza giuridica
del mondo romano quanto dalla configurazione dei rapporti giuridici internazionali nell’età moderna e contemporanea.
Che si tratti di norme e di prassi di diritto internazionale non
sembra dubbio. Il fatto che esse siano state applicate sulla base di
patti orali o scritti ovvero di consuetudini comuni a popoli diversi
non toglie nulla alla loro giuridicità, come è vero d’altronde per
la maggior parte del diritto internazionale delle età successive, sino
al presente.
Giustamente la storiografia recente (mi riferisco ad esempio alle pagine di Walter Pohl sulla tipologia dei conflitti tra Bisanzio e
gli Unni e gli Avari di Attila e di Baian nel secoli V e VI) ha sottolineato l’intrico stretto, la continua interrelazione tra atti di
guerra e gesti di pace, persino nel corso delle campagne militari,
tra sovrani, tra regni, tra eserciti dei diversi soggetti internazionali,
anche di diversa religione.
Vorremmo, in conclusione, richiamare l’attenzione su tre
punti che ci sembrano di particolare rilievo per la storia del diritto
internazionale dei secoli dal V al X. Essi riguardano, rispettivamente, il ruolo delle identità di popolo, il ruolo politico del papato, infine la presenza di taluni principî comuni all’occidente romano-cristiano, a Bisanzio, ai popoli barbari e all’Islam.
La coesistenza tra etnie diverse entro un medesimo ordinamento costituisce per l’alto medioevo un profilo essenziale del diritto,
che non può essere sottovalutato neppure nell’ottica dei rapporti
internazionali.
Abbiamo tralasciato il tema del regime giuridico riservato allo
straniero e alle varie specie di “forestieri” attestati dalle fonti, che in
questa Settimana formano l’oggetto della lezione di Claudia Storti, e
così pure la disciplina dei conflitti tra leggi entro il medesimo ordina-
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mento nelle questioni coinvolgenti soggetti dotate di leggi personali
diverse. Ma non possiamo fare a meno di sottolineare la rilevanza di
questo aspetto delle relazioni che ben possono dirsi, anche etimologicamente, “inter-nazionali”. La lunghissima sopravvivenza delle professiones iuris, ben oltre il Mille, mostra che questi richiami alla natio
(“professus sum ex natione mea lege vivere langobarda, ovvero romana”)
dovevano avere un perdurante significato, anche sotto il profilo giuridico. E la questione del possibile rapporto di alcune minoranze etniche con la gens di origine resta aperta.
Ci limitiamo a rammentare che persino la coesistenza di più
identità personali e giuridiche in uno stesso individuo – che poteva, ad esempio qualificarsi ad un tempo civis Francus e civis Romanus – è attestata sin dall’età tardo antica, come recenti ricerche
(quali quella di Ralph Mathisen) hanno bene messo in luce 296.
D’altro canto le fonti tardo-antiche attestano in più circostanze
due tendenze apparentemente contraddittorie. Vi fu una forte
aspirazione di personaggi potenti ed eminenti di stirpe germanica
ad assumere costumi e modi vita propri del mondo romano: e se i
Vandali invidiavano i Romani e li trattavano con malcelata ostilità 297, viceversa tra i Goti, Ataulfo, che sposò di Galla Placidia presa in ostaggio a Roma, teneva ad accreditarsi come romano 298; e
così pure Teodorico l’Amalo aspirava a vivere nel modo romano
e ad essere riconosciuto come tale a Bisanzio, dove era stato a
lungo da giovane come ostaggio inviato dal padre 299; mentre
Amalasunta, che desiderava che il figlio Atalarico divenisse in tutto simile ai nobili romani, si scontrò su questo con i suoi consiglieri Goti, che volevano invece per il giovinetto un’educazione
militare conforme alle loro tradizioni nazionali 300.
Eppure anche una tendenza opposta è testimoniata: secondo
Zosimo, quando i Goti di Alarico e Ataulfo lasciarono Roma do296. R. MATHIESEN, Peregrini, Barbari, and Cives Romani: Concepts of Citizenship and the
legal Identity of Barbarians in the Later Roman Empire, in http://www.historycooperative.org/journals. October 2006, in part. pp. 18-20.
297. VITTORE VITENSE, Storia della persecuzione vandalica in Africa, III. 62, 1981 (cf. GUIDETTI, Vivere tra i Barbari cit., p. 174).
298. OLIMPIODORO, Fr. 24, ed. Blockley cit. (nota 73), p. 186 s.
299. MALCO, Fr. 20, ed. Blocley cit. (nota 73), p. 446 s.
300. PROCOPIO, La guerra gotica, I. 2 (ed. Milano, 2005, p. 9 s.).
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po il saccheggio, « quasi tutti gli schiavi della città [...] si unirono
ai barbari » 301. Salviano attesta che molti romani si rifugiavano
presso i barbari perché « preferivano patire diversità di costumi in
mezzo ai barbari che non una scatenata ingiustizia presso i romani »; e scrive che molti Romani « malunt se sub specie captivitatis
vivere liberi quam sub specie libertatis esse captivi » 302. E analogamente Prisco per l’oriente dell’impero scrive alla metà del secolo
quinto che un greco viveva presso gli Sciti più tranquillo che
presso i Romani 303. Certo contava in questi giudizi negativi il peso di un sistema tributario iniquo, che Roberto Lopez ha definito
con la formula « imposte senza pietà » 304. Tutto ciò si connette almeno in parte al tema ben più vasto delle migrazioni e della mobilità tardo-antica e proto-medievale, che sarà affrontato nella lezione di Claudia Moatti.
La storiografia recente (basti richiamare i nomi di Herwig
Wolfram, Walter Goffart, Ian Wood, Walter Pohl, Patrick Amory, Bonnie Effros) 305 ha riaperto con esiti nuovi la questione dell’identità etnica e di popolo delle genti barbariche, prima e dopo
l’età delle migrazioni. Senza poter entrare qui in un dibattito tut301. ZOSIMO, Storie, V. 42, ed. Bekker, Bonn, 1838, p. 307.
302. SALVIANO, De gubernatione Dei cit, V. 5. 22 (P.L. 53. 99).
303. PRISCO, Fr. 11, lin 434-442, ed. BLOCKLEY, Classicising Historians cit. (nota 73), vol.
II, p. 268/269. Ecco il suo severo giudizio: presso gli Sciti si vive sicuri e indisturbati,
presso i “Romani” al contrario si è oppressi dai tributi, si è in balia dei delinquenti e
solo i ricchi evitano le punizioni previste dalle leggi, che sono disapplicate.
304. R. S. LOPEZ, La nascita dell’Europa, secoli V-XIV, Torino, 1966, p. 24.
305. Si veda su ciò, tra le più significative ricerche recenti: S. GASPARRI, Prima delle
nazioni, popoli etnie e regni fra antichità e medioevo, Roma, 1997; W. POHL, H. REIMITZ
(edd.), Strategies of Distinction, the Construction of Ethnic Communities, 300-800, Leiden,
1998; W. POHL, Le origini etniche dell’Europa, Roma, 2000; H.-W. GOETZ, J. JARNUT, W.
POHL (edd.), Regna and Gentes: the Relationship between late antique and early medieval peoples and kingdoms in the transformation of the Roman world, Leiden – Boston, 2003, in particolare i saggi di W. GOETZ (pp. 1-11), E. CHRYSOS per i rapporti con l’impero (pp. 1320), P. WORMALD sulle leggi germaniche in relazione con l’ordinamento imperiale (pp.
21-52), A. CHRYSTIS sulla formazione dell’Andalusia (pp. 219-242), I. WOOD sui Burgundi (pp. 249-269), M. SCHMAUDER e H. W. GOETZ sui Franchi (pp. 271-306; e pp.
307.344), J. JARNUT sui Longobardi (pp. 409-427). Sono inoltre da vedere: P. GEARY,
The Mith of Nations: the Medieval Origins of Europe, 2002; e i contributi di W. POHL, H.
WOLFRAM, W. GOFFART, P. HEATHER (pp. 292-304), St. LEBECQ, M. Mc CORMICK, I.
WOOD nel volume già citato, a cura di Th. NOBLE, From Roman Provinces to Medieval
Kingdoms, London and New York, 2006.
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tora in corso – « how people coalesce into a people », così si può
sintetizzare 306 la questione dell’etnogenesi – mi limito ad osservare
che ritengo inappropriato adottare un concetto monolitico dell’identità di un popolo: l’identità può bene consistere in un aggregato di elementi culturali, religiosi e civili di diversa origine e di
diverso livello, tutti presenti e vivi, suscettibili di generare distinte
lealtà tra loro compatibili sia nell’individuo che in una collettività.
D’altro lato la presenza di rivendicazioni consapevoli di una identità di stirpe, almeno in parte ricondotta alla storia anche remota
del singolo popolo, non può essere negata per questi secoli, neppure se si riconosce che altri elementi identitari sono maturati nel
corso del tempo, talora recuperando anche agganci mitici al proprio passato. Le gentes preesistono ai regna, ma i regni a loro volta
hanno modellato e trasformato le identità dei loro popoli.
Un esempio particolarmente espressivo da tali rivendicazioni
etniche è offerto dall’episodio ben noto narrato da Liutprando da
Cremona nella relazione sulla sua seconda ambasceria costantinopolitana dell’anno 968. Niceforo Foca aveva appena negato che ad
Ottone spettasse la qualifica di imperatore dei romani dichiarando
al legato Liutprando: « vos non Romani, sed Langobardi estis ».
Liutprando non si trattenne più: « non è vero che siamo Romani,
rispose, anzi noi disprezziamo Romolo fratricida e nato da un
adulterio e disprezziamo gli uomini da lui riuniti, debitori e servi
fuggitivi da lui poi chiamati Romani; ecco da quale nobiltà derivano coloro che voi chiamate cosmocrati, cioè imperatori; tanto
che noi Longobardi, Sassoni, Franconi, Lorenesi, Bavari, Svevi,
Borgognoni, quando siamo mossi dall’ira non rivolgiamo altro insulto ai nostri nemici se non ‘Romano’, con ciò indicando ogni
sorta di vizi » 307. Qui non è rilevante stabilire se la risposta sia stata
davvero formulata in questi termini all’imperatore bizantino (il
che non appare probabile); ed è corretto osservare, con Stefano
Gasparri, che all’interno dell’occidente Liutprando si considerava
più “latino” che “tedesco”, non fosse che per la lingua 308. Ma re306. A. NOBLE (ed.), From Roman Provinces to Medieval Kingdoms cit. (note 14 e 305),
p. 91.
307. LIUTPRANDO DA CREMONA, Relatio de legatione Costantinopolitana, 12, M.G.H., ed.
Becker, p. 275 s.
308. GASPARRI, Prima delle nazionicit. (nota 305), p. 227.
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sta il fatto che l’idea espressa con quelle parole orgogliose rispondeva evidentemente a sentimenti che il vescovo di Cremona riteneva consonanti con quelli dello stesso imperatore Ottone I, per
il quale la relazione sull’ambasceria fu scritta. Due generazioni più
tardi, il nipote Ottone III, figlio e promosso sposo di due principesse bizantine, pensava e sentiva in tutt’altro modo. Ma si trattò,
come sappiamo, di una breve parentesi.
Che l’orgoglio di stirpe fosse ancora forte nel secolo decimo
non deve stupire, perché ne abbiamo testimonianze anche ben
posteriori. D’altra parte è da tenere presente che il principio capitale della personalità della legge fu tutt’altro che privo di deroghe
e di declinazioni variabili presso i Germani. Ad esempio (lo attesta
Paolo Diacono) i Longobardi si rifiutarono sempre di riconoscere
ai nuclei di Sassoni giunti in Italia al loro seguito la facoltà di applicare il loro proprio diritto consuetudinario di stirpe 309.
Ciò detto, sarebbe fuorviante ritenere che tali affermazioni
identitarie, legate all’etnogenesi, abbiano svolto un ruolo determinante nelle relazioni internazionali di questi secoli. Le iniziative di
guerra come gli accordi di tregua, di pace e di alleanza nascono
nell’alto medioevo sulla base dei rapporti di forza e di convenienza, come prima e come dopo di allora. Oltre mezzo secolo fa Ernesto Sestan espresse sin dal titolo del suo libro del 1952, Stato e
nazione nell’alto Medioevo, una distinzione che ritengo tuttora fondata. Se già nel tardo antico non furono rari i casi di alleanza di
una gente barbarica con i romani contro un’altra gente barbarica 310 e se è noto che furono frequentissime le guerre tra genti
barbariche 311, le guerre intra-familiari dell’età merovingia e carolingia confermano ulteriormente questa scissione. È forse improprio adottare per questi secoli l’espressione di “ragion di stato”,
anche perché in molti casi il sovrano fu condizionato dal suo popolo, dai suoi maggiorenti o dal suo esercito nella condotta di pa309. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., III. 6.
310. Un esempio tra i tanti è riportato da Paolino (GUIDETTI, Vivere tra i Barbari cit.
(nota 21), p. 124): nel secolo V gli Alani si distaccano dai Goti in Aquitania, e difendono con i romani la città di Pella.
311. Un esempio fra i tanti: nel 418 gli Alani, che governavano su Vandali e Svevi,
furono massacrati dai Goti e in Galizia si misero sotto il patronato dei Vandali (IDAZIO:
cf. GUIDETTI, Vivere tra i Barbari cit. (nota 21), p. 119).
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ce e di guerra; ma comunque l’elemento determinante delle relazioni anche giuridiche tra regni e tra gentes non fu l’elemento etnico e non fu neppure la ragione religiosa. Fu la ragione politica.
Questo vale solo in parte per l’Islam. Le relazioni tra i vari
potentati Abbassidi, Aghlabiti, Fatimiti, Omayyadi – a Badgad,
nell’Asia minore, in Egitto, in Africa, in Spagna – per ragioni di
natura religiosa non sfociarono quasi mai in guerre intra-islamiche,
a differenza di quanto accadde così spesso tra le potenze cristiane.
Forse sotto questo profilo poté contare l’assenza nell’Islam del
principio di separazione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di
Dio, una indistinzione che sottoponeva più strettamente i califfi
all’osservanza delle regole religiose islamiche. Le quali peraltro, se
vietavano la guerra tra musulmani, addirittura la sollecitavano nei
confronti degli infedeli. Tuttavia i contrasti e le tensioni inter-islamiche certamente vi furono e condussero in più momenti e in
più luoghi, in particolare a partire dal secolo X, ad alleanze e ad
accordi di neutralità con le potenze cristiane di Bisanzio e dell’Occidente 312. Accordi nati ogni volta, anche qui, da concreti interessi politici, economici e militari.
Le implicazioni di principio e le concrete applicazioni del criterio della personalità della legge, che ebbe portata amplissima e
che sopravvisse ben oltre il Mille, meriterebbero indagini rinnovate. È un tema che presenta alcuni elementi di particolare attualità,
se solo si riflette all’emergere, nella realtà presente, di questioni
giuridiche legate alla valenza di consuetudini di immigrati ed anche di cittadini appartenenti a popoli le cui tradizioni, soprattutto
nell’àmbito del diritto di famiglia, sono molto lontane da quelle
dei Paesi dell’occidente contemporaneo. L’esperienza giuridica dei
secoli altomedievali offre al riguardo, pur con tutte le profonde
differenze di società tanto remote in ogni senso rispetto alla nostra, non pochi elementi degni di riflessione.
Una seconda caratteristica delle relazioni giuridiche internazionali che maturò nel corso dell’alto medioevo consiste nel nuovo
ruolo politico e diplomatico assunto dal papato. Vi si soffermerà, nel
corso della nostra Settimana spoletina, la relazione di François
Bougard. Mi limito qui a sottolineare l’importanza storica della
312. VISMARA, Bisanzio e l’Islam, in Scritti, 7 cit., p. 176.
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svolta imboccata alla metà del secolo VIII, allorché il rapporto tra
il papato e il regno dei Franchi si trasformò con la legittimazione
e poi con l’unzione di Pipino da parte di papa Zaccaria, mentre
pochi decenni più tardi la renovatio imperii stringeva ulteriormente
questo rapporto introducendo un elemento nuovo nella storia
dell’occidente e nei rapporti con Costantinopoli. Da allora il papa,
che rivendicava ormai come proprio Stato il territorio già dell’esarcato di Ravenna, divenne un soggetto in grado di muoversi autonomamente nello scacchiere internazionale sul piano politico e
diplomatico. E soprattutto la Santa Sede poté accentuare il proprio ruolo direttamente o indirettamente politico anche all’interno
dei singoli regni e dello stesso impero, avvalendosi della propria
indiscussa autorità religiosa: un indirizzo che raggiungerà l’acme
nel secolo XI, con la riforma detta gregoriana. La differenza rispetto ai modi in cui nelle vicende della politica internazionale
venne gestito il potere papale nell’età di Gregorio Magno è profonda. Come ha mostrato Teleforos Lounghis, questo momento
di transizione della metà del secolo VIII costituisce anche lo spartiacque tra due epoche per quanto riguarda i rapporti diplomatici
tra Bisanzio e l’occidente, quest’ultimo ormai affrancato da un secolare rapporto di subordinazione 313.
Una fase ulteriore iniziò con Giovanni VIII e con la sua azione e la sua dottrina sulle empie alleanze con i Saraceni. Essa andrà
ben più avanti nel secolo XI, con gli interventi gregoriani nei
confronti dei sudditi di un sovrano scomunicato e con la linea di
attacco (non più solo di difesa) segnata dall’avvio delle Crociate.
Anche sotto questo profilo il secolo XI segna un nuovo spartiacque nella storia dei rapporti giuridici internazionali.
Vi è un ultimo aspetto sul quale vorrei richiamare l’attenzione, perché rende particolarmente significativa l’esperienza giuridica di questi secoli sul fronte del diritto internazionale. La compresenza storica di società, di tradizioni culturali e di credenze religiose così profondamente diverse tra loro – come lo sono quelle
di derivazione romano-bizantina e cristiana, in Occidente come a
Costantinopoli, quelle di radice germanica e barbarica, quelle dell’Islam nelle sue diverse declinazioni – indurrebbe a ritenere pre313. LOUNGHIS, Les ambassades cit. (nota 127), pp. 445-450.
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valenti i motivi di differenza, di contrasto o di reciproca estraneità
nelle relazioni internazionali, sia nella prassi che nei principî. Invece su punti davvero essenziali non solo l’estraneità non c’è stata,
ma al contrario l’alto medioevo ha conosciuto ed ha condiviso alcuni valori e principî comuni.
Rammentiamone alcuni. La tutela dei legati e degli ambasciatori; il rispetto dei patti convenuti e della parola data; la fede in
un Dio giudice, che punirà un giorno (se non addirittura immediatamente) chi lo disprezza giurando il falso; la convinzione che
attraverso la guerra o l’ordalia è Dio stesso che decide dall’alto, in
ogni circostanza, gli eventi umani dando la vittoria al giusto e negandola a chi ha torto, anche se fisicamente o numericamente più
forte, una convinzione che in occidente troviamo già in Agostino
e che pochi – tra i quali il vescovo di Lione, Agobardo, nel celebre scritto contro la Legge dei Burgundi 314 – misero in discussione. Anche su quest’ultimo punto non mancava la consapevolezza
del peso di altri fattori, puramente umani, nel successo militare,
come rivela il passo di Costantino Porfirogenito 315 in cui l’imperatore rammenta le pene gravissime, spirituali e temporali, irrogate a
chiunque rivelasse allo straniero la tecnologia del terribile “fuoco
greco”, che incendiava le navi nemiche e che all’inizio del secolo
VIII e poi di nuovo nel secolo X assicurò a Bisanzio la sopravvivenza, consentendo di respingere i formidabili assalti dell’Islam.
Sono, quelle ora ricordate, convinzioni comuni che troviamo
presenti e condivise entro i quattro mondi dell’Occidente cristiano, di Bisanzio, dei popoli barbarici non cristiani e dell’Islam; esse
hanno consentito o facilitato interrelazioni non sempre e non solo
bellicose ma anche in più momenti amichevoli e pacifiche. Comportamenti, in pace come in guerra, caratterizzati da alcuni valori,
dei quali si richiedeva l’osservanza anche da parte dei barbari non
cristiani: come attesta l’accusa del khan turco nel 577, che propugnava il rispetto della parola data accusando i “romani” di Costantinopoli di parlare e di mentire in dieci lingue diverse” 316.
314. AGOBARDO, Adversus Legem Gundobadi, in P.L. 104. 113-126.
315. COSTANTINO PORFIROGENITO, De administrando imperio, 13, ed. Bekker, pp. 84-85.
316. MENANDRO, Fr. 43, ed. Blockley (nota 73), p. 172; per rendere più chiara l’idea,
aggiunge Menandro, davanti al legato imperiale Turxanto si mise in bocca tutte e dieci
le dita.
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Nella comunità dei Cristiani, in occidente come in oriente,
alcuni di questi valori sono stati difesi, nei rapporti internazionali,
in contrasto con le consuetudini dei popoli e con i comportamenti dei potenti del tempo. La Chiesa li ha in più occasioni sostenuti non solo quando era minacciata la sua propria sicurezza o
erano in gioco i suoi interessi immediati, ma anche per se stessi,
nei confronti di comportamenti scorretti, di personaggi prepotenti
e di sovrani ingiusti e bellicosi. Così è accaduto con i grandi padri
della Chiesa a partire da Agostino e con uomini quali Isidoro di
Siviglia e Rabano Mauro, oltre che con papi quali Gregorio Magno o Niccolò I, con prelati quali il venerabile Beda, Gregorio di
Tours o Nicola il Mistico, per limitarci a pochi esempi già sopra
richiamati.
È da osservare come sia stato, nella dottrina dei Padri ma anche
negli interventi pontifici, pressoché costante il riferimento ai testi sacri, anzitutto quelli dell’Antico Testamento, interpretati, talora con
notevole audacia, allo scopo di convalidare il perdurante fondamento
scritturistico e perciò divino delle vicende del popolo di Israele sulla
guerra, sulla pace, sul rispetto dei patti, sui rapporti con gli infedeli e
così via. L’aggancio scritturistico è stato fondamentale non solo sul
piano religioso ma anche sul piano giuridico, nelle questioni di guerra e di pace. Ciò che viene valorizzato è un fascio di principî destinati a lunga vita nel corso della storia. Tra questi, la piena liceità della
guerra di difesa, come mezzo da intraprendere dopo vane offerte di
pace (Deuteronomio, 10. 20); l’intangibilità di una promessa giurata,
anche se infranta dal nemico (Giosué, 9. 16-18); l’ammissibilità di accordi e patti con gli infedeli (Genesi, 21. 23-31 e Genesi 31. 44: patti
tra Abramo e Abimelech; e tra Giacobbe e Laban). E così pure l’unzione sacra dei re da parte dei papi fu adottata da Stefano II per Pipino il Breve e i figli (anno 754) ad imitazione dei profeti antichi, quali
Nathan e Samuele. Questa base scritturistica di precetti rilevanti per
il diritto internazionale costituisce un elemento nuovo rispetto alla
tradizione antica greca e romana, perché attribuisce loro un’autorità
indiscutibile, in quanto fondata sulla parola divina condivisa dall’intera
Respublica christiana, che include naturalmente anche i popoli delle diverse etnie barbariche, dopo la loro conversione al cristianesimo.
Un analogo aggancio scritturistico, con riferimento al Corano,
si riscontra anche presso i Musulmani. Quanto ai principî che abbiamo menzionato, nel mondo islamico non solo uomini di cul-
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tura (come i dottori dell’Africa fatimita che nel secolo X sconsigliarono un intervento in Sicilia nel timore di infrangere il patto
di tregua stipulato con i Cristiani), ma anche una tradizione posteriore riferita addirittura al primo successore di Maometto, Abu
Bakr, hanno espresso idee e convinzioni del tutto corrispondenti a
quelle dei Cristiani: sul necessario rispetto dei patti, sull’intervento
di Dio nelle battaglie, sul trattamento umano verso i prigionieri,
sulla sacertà del giuramento 317. Sebbene anche nell’Islam il contrasto tra enunciazioni di principio e pratiche di comportamento dissonanti rispetto ai consigli di moderazione sia stato in tante occasioni non meno stridente che presso i Cristiani.
Principî comuni, dunque. Ma la garanzia del loro rispetto fu
solo parzialmente assicurata sia all’interno della cristianità occidentale sia all’interno del mondo islamico. Mancò un’istituzione in
grado di assicurarne l’osservanza su scala generale, al di sopra delle
divisioni politiche e religiose. È un nodo che il primo millennio
ha lasciato insoluto al secondo millennio, e questo lo ha a sua volta trasmesso, ancora insoluto, al terzo millennio da poco iniziato.
Molto è ancora da studiare e da scoprire, nella selva delle fonti
che ci sono giunte e che possono illuminare anche il terreno del
diritto internazionale dell’alto medioevo. I commenti patristici ai
testi della Scrittura, le Epistole di vescovi, papi e sovrani, le scelte
compiute dalle collezioni canonistiche, le fonti agiografiche, i reperti dell’archeologia, la folta selva dei commentari e delle cronache dell’Islam certamente nascondono (e potranno rivelare) non
pochi aspetti ancora sconosciuti di un realtà che affascina anche
per la sua straordinaria varietà.
317. Sopra, note 92 e 248; e testo corrispondente.
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Discussione sulla lezione Padoa Schioppa
CARILE: nella delibera del maggior consiglio del 1293 circa i documenti da raccogliersi per attestare i diritti del ducato e del comune di Venezia,
si prevedono tre tipi di documenti: privilegia, iura, iurisdictiones.
Dunque ha ragione il relatore a sostenere che il pactum lotharii non è
un trattato, ma una concessione, un privilegio.