Ten thousand soldiers marched to and fro

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FILOSOFIA
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2°GUERRA
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INGLESE
W. H. Auden
“Refugee
Blues”
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Vissuti entrambi in un periodo caratterizzato da una cultura di tipo romantico,
seppure non considerandosi tali, Giacomo Leopardi e Arthur Schopenhauer
basano il loro pensiero su un’analisi della realtà. Il loro intento è di mostrarci
quale sia la vera natura del mondo e il conseguente disagio dell’umanità:
entrambi, infatti, oltrepassano i limiti del mondo terreno ed esprimono la loro
idea sul vero significato della vita.
Analogie e differenze avvicinano le due filosofie: sta alla base un comune
senso dell’esistenza come pessimismo, da cui si dirameranno in seguito i temi
del dolore, del piacere, della noia, del suicidio. Si arriverà a conclusioni
diverse sebbene il fine sia lo stesso: mostrare la realtà per quella che è,
smascherando la più grande delle illusioni: la felicità.
E' tuttavia più opportuno innanzi tutto introdurre i due pensatori delineando
i caratteri generali che vanno a delineare la loro riflessione.
nasce a Recanati, paese appartenente all’arretrato Stato della
Chiesa, il 29 giugno 1798 da famiglia aristocratica (padre
conte,madre marchesa). La madre, rigida e non affettuosa con i
dieci figli, si occupa dell’amministrazione domestica, mentre il
padre coltiva i suoi interessi culturali e amplia la biblioteca di
famiglia.
Qui il giovane Giacomo studia fino ai dieci anni con l’aiuto del padre e di
alcuni religiosi che gli impartiscono una cultura umanistica, filosofica e
scientifica. Presto però, poiché i precettori non hanno più nulla da insegnargli,
continua i suoi studi da solo rinchiudendosi nella biblioteca paterna: sono
sette anni di studio matto e disperatissimo. Tradusse i classici e compose
opere di carattere erudito e filologico, tragedie, poesie e prose di impronta
accademica.
Momento di svolta nella sua produzione è la conversione letteraria
dall’erudizione al bello, cioè il periodo tra il 1815 e il 1816 in cui i suoi
interessi passano dalla filologia alla poesia. Comincia la corrispondenza con
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Pietro Giordani (che nel’18 sarà ospite in casa Leopardi) e
contemporaneamente lo sconvolge la visita della cugina di cui crede di
innamorarsi.
Nel 1817 inizia la stesura dello Zibaldone che lo impegnerà fino al 1832. In
questo anno avviene la seconda conversione letteraria dal bello al vero, cioè
dalla poesia di immaginazione ricca di immagini fantastiche a quella
sentimentale ispirata alla riflessione sull’infelicità della vita.
Il 1819 è un anno di crisi: prima una malattia agli occhi che gli impedisce di
dedicarsi allo studio, successivamente un fallito tentativo di fuga dall’odiata
Recanati e dall’ambiente familiare sfavorevole e negativo, così come le altre
iniziative di andarsene. Con questa sfiducia interiore scrive La sera del dì di
festa, Bruto minore, Ultimo canto a Saffo.
Il 17 novembre finalmente lascia Recanati e si trasferisce a Roma presso
degli zii. Qui resterà fino al 28 aprile 1823 ma rimane assai deluso dall’arretrato
ambiente culturale: definisce infatti la capitale una grande Recanati. La sola
cosa che lo colpisce è la tomba del Tasso. Dopo circa un anno e mezzo torna
presso il paese natio ma la delusione è grande. Leopardi comincia a ripiegarsi in
se stesso e a meditare sul suo dolore che è in realtà il dolore dell’umanità intera.
Numerose meditazioni filosofiche e il fatto che il Leopardi non creda in Dio, lo
spingono a scrivere le Operette morali, concluse nel ’24 e riguardanti i
problemi della vita.
Nel ’25 è invitato a recarsi a Milano dall’editore Stella che lo assume per
tradurre opere classiche ma se ne andrà presto da questa bella città, di cui però
non gli piace la gente. Vive quindi tra Bologna, Firenze e Pisa. A Bologna
incontra vecchi amici quali Pietro Giordani; la città gli piace molto sia per la sua
allegria sia per la vitalità. Stringe amicizia con la contessa Teresa Carniani
Malvezzi che però finirà presto. A Firenze conosce il Manzoni e il Pellico presso
il gabinetto Viesseux, mentre a Pisa trascorre gli anni più belli della sua vita.
Qui il clima è più favorevole e adatto alla sua salute e grazie all’ambiente sereno
riprende a scrivere componendo i grandi Idilli, tra cui A Silvia, Il passero
solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di
un pastore errante dell’Asia.
Dal novembre del 1928 fa ritorno a Recanati da cui pensa di non potersi mai
più allontanare. Ciò sarà invece possibile grazie alla proposta di Colletta che lo
invita a Firenze. Conosce la bella ed intelligente Fanny Taglioni Tozzetti di cui
si innamora inutilmente. Per lei scrive cinque poesie che compongono il ciclo
Aspasia.
A causa della malattia agli occhi nell’estate del ’33 si trasferisce a Napoli,
città dal clima mite, in compagnia dell’amico Ranieri. Scrive il suo testamento
spirituale La ginestra e Il tramonto della luna per poi morire il 14 giugno 1837
a causa del precario stato di salute ed essere seppellito vicino alla tomba di
Virgilio.
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nasce a Danzica il 22 febbraio 1788.
Il padre è banchiere e la madre una nota scrittrice di romanzi. Viaggia in
Inghilterra e in Francia e dopo la morte del padre comincia a frequentare
l’Università di Gottinga, dove ha come maestro di filosofia lo scettico Schulze.
Influenzano notevolmente il suo pensiero le filosofie di Platone e di Kant.
Frequenta le lezioni di Fichte a Berlino e nel 1813 si laurea all’Università di
Jena.
Tra il 1814 e il 1818 Schopenhauer vive a Dresda dove compone lo scritto
Sulla vista e sui colori e prepara la stampa della sua opera principale Il mondo
come volontà e rappresentazione che pubblica nel dicembre 1818 e che non ha
alcun successo.
Dal 1820 al 1832 insegna come docente libero presso l’Università di Berlino
con poca fortuna. Contemporaneamente viaggia in Francia e in Italia e, a causa
di un’epidemia che lo costringe a lasciare Berlino, si trasferisce definitivamente
a Francoforte sul Reno dove morirà il 22 settembre 1861.
Molti sono gli influssi culturali di Schopenhauer: Platone e la teoria delle
idee come forme eterne ed immutabili; Kant per quanto riguarda il problema
gnoseologico della conoscenza e importanza del soggetto nel processo di
comprensione del mondo che non si muta e non si modifica ma sta al centro
organizzando la natura e il rapporto fenomeno-noumeno; l’Illuminismo e il
materialismo come tecniche per smascherare e demistificare la realtà
mostrando la vera essenza del mondo; il Romanticismo per il tema dell’infinito
e del dolore; la sapienza e le filosofie indiane, il Buddismo ed i testi sacri come i
Veda ed i Purana. Ma la critica maggiore è diretta nei confronti dell’idealismo
romantico di cui sono permeati gli anni in cui vive ed opera: Schopenhauer
disprezza questa filosofia, quella di Fichte e di Hegel in particolar modo con il
panlogismo ottimistico, definendola filosofia dell’Universalità e farisaica.
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Anche Leopardi dal canto suo non vuole essere definito un romantico sebbene
tratti spesso il tema dell’infinito, tanto caro a quei pensatori, e si senta molto
nelle sue composizioni l’animo del poeta.
Sicuramente l’ambiente in cui i due pensatori si sviluppano è
importantissimo. Leopardi inizialmente pensa alla natura come madre benigna
ma che è in continuo e aperto contrasto con la ragione. Il rapporto benevolo che
è creato dalla natura con l’uomo è, infatti, distrutto dalla ragione nemica;
proprio questa ha inserito l’uomo negli affari, nella società, nella guerra
costringendolo a distaccarsi da tutto ciò che prima amava fare: contemplare la
natura. L’uomo è andato così via via imbarbarendosi ed ha dimenticato la
bellezza dell’età dell’oro. Questo, che è il pessimismo storico e che riguarda
tutta la società, si accentuerà ancora di più nella fase del pessimismo
cosmico. Dopo la fallita fuga da Recanati, al di là di cui esiste la vita, ogni suo
sogno cade, le illusioni sono infrante, non esistono più sogni.
In questa nuova teoria si vede, come prima, la ragione in contrasto con la
natura. Tutto però cambia: la natura è ora vista da Leopardi come matrigna,
incurante dei dolori che provoca alle sue creature, e l’unico modo che ha l’uomo
per liberarsi è la ragione. Le riflessioni sull’infelicità lo spingono a formulare la
teoria del piacere: l’amor proprio dell’individuo porta a ricercare un piacere
infinito per estensione e per durata. Questa felicità però sfugge, non esiste, è un
divario insanabile causato dalla natura. L’individuo, anche nel momento del
maggior piacere, continuerà a sentire l’assillo del desiderio non colmato che
porterà patimento e causerà sofferenza anche quando non si soffre di mali
materiali. A ciò si aggiunge la delusione storica: la storia crea una società
alienante, i cui desideri sono il lusso, il denaro ed il potere. Per averli si acuisce
l’egoismo e il consumismo. Coincide con questo anche una fiacchezza
individuale perché materialista, si dimentica della cura dell’intelletto. I “nuovi
eroi” sono ora i banchieri, gli imprenditori, tutti coloro che possiedono il
denaro. La ricchezza culturale del passato si affievolisce per lasciar spazio ad un
eroe di carta sonante. Questa colpa è della natura creatrice, che ha permesso
tutto ciò senza pensare alle conseguenze: la ragione è l’unica in grado di porre
un freno alla freddezza, alla corruzione, al meccanismo della natura. Per questo
Leopardi accetta in parte le teorie illuministiche che riguardano la ragione,
senza però essere positivo. Cadono così quei dettati che la famiglia gli aveva
imposto: si allontana da Dio come gli illuministi (madre), disprezza i
conservatori e i tradizionalisti (padre).
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Leopardi pensa che l’uomo sia un punto nell’universo schiacciato dal rigore
fisico della natura che procede indifferente alla felicità (che comunque non
esiste) ma in particolare che la vita sia caratterizzata da tre stati ben definiti:
piacere, dolore e noia.
La vita è, per questi due pensatori, un pendolo che oscilla tra dolore e noia.
Il primo è derivante dal piacere: infatti, poiché questo non può essere raggiunto
dall’animo umano che tende inesorabilmente ad esso, il desiderio inappagato
provoca la sofferenza che è quindi connaturata alla vita. I pochi e finiti
momenti di piacere sono solo delle brevi parentesi che non appagano questa
ricerca: il piacere è mancanza di dolore. Ma non appena vengono a mancare i
desideri che spingono l’uomo ad ottenerli, ecco che sopraggiunge la noia, cioè
l’assenza di sentimento, il vuoto dell’anima. Raggiungere il piacere è
impossibile: è un’illusione.
Il solo momento della vita in cui non ci si preoccupa del dolore è la
giovinezza, incarnata nella figura di Silvia: Silvia, rimembri ancora / quel
tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti
e fuggitivi / e tu, lieta e pensosa il limitare / di gioventù salivi? [da G.
Leopardi, A Silvia]. Silvia è simbolo di speranza e giovinezza e con la sua morte
finisce la bella età spensierata e inconsapevole che si contrappone invece all’età
adulta con la caduta di ogni speranza. Questo contrasto è più esplicito ne Il
sabato del villaggio: la donzelletta si prepara per il giorno di festa con serenità,
mentre la vecchierella non può far altro che pensare al passato.
Ecco qui riassunto il pensiero del Leopardi tratto da un passo dello Zibaldone:
L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente,
e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità.
[…] Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti né per durata né per
estensione. […] Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole,
desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il
piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e
non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il
suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è
piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al
desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti
di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente
quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione
di un desiderio illimitato.
Come si vede nella poesia La quiete dopo la tempesta, il piacere, questa
tensione titanica dell’uomo a raggiungere ciò che non esiste, scaturisce dopo la
metaforica tempesta: il piacere è assenza di dolore: piacer figlio d’affanno
(verso 32), basta una gioia a far dimenticare le sofferenze. Chi permette questo
è la natura cortese, apostrofata così ironicamente dal Leopardi, che continua
[…]Uscir di pena/ è diletto fra noi. / Pene tu spargi a larga mano; il duolo /
spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto / che per mostro e miracolo talvolta /
nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana / prole cara agli eterni! assai felice
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/ se respirar ti lice / d’alcun dolor: beata / se te d’ogni dolor morte risana. La
strofa conclusiva dell’ode, dopo l’ironia contro la natura indifferente, contiene
un altro concetto fondamentale del pensiero di Leopardi: la morte come quiete,
come termine di tutte le sofferenze causate dalle illusioni del piacere. Il
suicidio è quindi la scelta più utile per l’uomo; solo motivazioni filosofiche (il
suicidio è contro natura) o religiose (è una colpa contro la divinità creatrice)
potrebbero negarne la legittimità. Troviamo questa soluzione in opere come
Bruto minore e Ultimo canto a Saffo. Il suicidio è atto di libertà, è un gesto
eroico: la morte volontaria è segno di titanismo. Nel Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia, il protagonista pone alla luna delle domande sul
senso e sul significato della vita. Questa, che ha una vita circolare proprio come
il pastore, non gli dà alcuna risposta. A me la vita è male, spiega il pastore, che
preferirebbe essere come il suo gregge inconsapevole ed ozioso e che quindi
preferirebbe non essere mai nato (è funesto a chi nasce il dì natale).
Tuttavia sappiamo che questa posizione non è definitiva. Nell’ultima
produzione, Leopardi invita gli uomini non ad abbandonarsi alla malignità
della natura, ma ad unirsi in una disperata lotta contro di essa. E’ il periodo del
pessimismo agonistico. Nel suo testamento spirituale, composto nel 1836,
La ginestra o fiore del deserto, il poeta inneggia alla social catena: l’uomo
deve rendersi conto di non essere il signore dell’universo e deve riconoscere la
malvagità della natura. Il solo modo per sconfiggerla è unirsi agli altri uomini.
Così come un pomo cadendo dall’albero distrugge le abitazioni delle formiche,
allo stesso modo il Vesuvio eruttando ha distrutto in pochi istanti le città
costruite alle sue pendici.
E ancora, come la ginestra, nata sulle pendici del Vesuvio, piegando il capo
sopporta e sopravvive al vulcano, così l’umanità deve riconoscere la sofferenza e
la fragilità che gli sono destinati. Nulla si può fare se non una catena di
fratellanza, anche con la consapevolezza della sconfitta.
Nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione, Arthur Schopenhauer
riprende il dualismo kantiano. Per Kant il fenomeno (phainomenon, da
phainein cioè mostrare) è ciò che si mostra, ciò che appare, ciò che è accessibile
alla conoscenza umana; la realtà fenomenica è quella già data, nella quale gli
oggetti appaiono al soggetto ed alla conoscenza per come si presentano. Ma
esiste un’altra realtà che non appare e che quindi l’uomo non può conoscere:
questo è il noumeno (da noein cioè pensare), l’incognita, la cosa in sé, la realtà
inconoscibile ed inaccessibile creata da un’entità superiore, la quale è l’unica a
poterla conoscere. Il noumeno ricorda all’uomo i suoi limiti. L’io come soggetto
della conoscenza diventa legislatore della natura: ordina gli oggetti e organizza i
fenomeni secondo schemi a priori.
Per Schopenhauer invece, il fenomeno è pura illusione, apparenza, sogno,
“velo di Maya” (è una potenza magica ripresa dalla tradizione orientale di cui si
servono gli dei per illudere gli uomini). Il fenomeno è rappresentazione,
nasconde la realtà. Ma il velo di Maya può essere squarciato per andare oltre
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all’apparenza e raggiungere il nocciolo metafisico, l’essenza noumenica. Il
noumeno è ciò che si mostra dopo aver squarciato il velo di Maya, è la realtà
senza false illusioni. Il mondo è una mia rappresentazione significa che il
mondo consiste nel suo essere percepito da un soggetto. Per Schopenhauer,
infatti, il fenomeno è rappresentazione di qualcosa che è dentro la coscienza del
soggetto e fuori non è nulla, è illusione che demistifica la realtà e che nasconde
l’essenza noumenica.
La rappresentazione è temporalmente e spazialmente determinata, come per
Kant, ma Schopenhauer pensa che bastino le forme a priori di spazio, tempo e
la categoria della causalità per spiegare la rappresentazione, poiché la causalità
può inserire gli oggetti collocandoli e organizzandoli in un cosmo conoscitivo. I
due lati necessari affinché esista la rappresentazione sono un soggetto
rappresentante ed un oggetto rappresentato; essi non sono indipendenti tra
loro: la realtà dell’oggetto è nell’essere percepito, quella del soggetto nel
percepire. Spazio, tempo e causalità deformano la realtà e dividono gli enti che
sono messi in rapporto l’uno con l’altro: è il principium individuationis. Perciò
la realtà rappresentata è illusione, è apparenza. L’uomo però è portato ad
interrogarsi sul fine ultimo della vita e non vuole vivere nell’illusione, vuole
oltrepassare il fenomeno e giungere a capire il noumeno attraverso la
conoscenza intuitiva. Tuttavia, poiché l’uomo non è solamente intelletto ma
anche corporeità, o, detta con le parole del filosofo stesso, non è solo testa
d’angelo alata senza corpo, attraverso un’intuizione geniale, ripiegandosi in se
stesso nell’intimità del proprio io, riesce a conoscere l’essenza noumenica
dell’essere. Se l’uomo si vede dal di fuori, conosce solo l’essenza illusoria
dell’essere; se si guarda dal di dentro, se segue i suoi sentimenti, la brama, la
volontà di vivere, l’impulso che lo porta senza posa a vivere e ad agire, può
conoscere il noumeno.
Il nostro corpo è il fenomeno che copre la vera essenza del mondo, è
manifestazione di un principio che è volontà, è la parte finita che rappresenta
l’infinito. Solo l’infinito è concreto e reale, il finito è una parziale
manifestazione di esso. Il mondo fenomenico è la rappresentazione della realtà,
il corpo è rappresentazione del principio di Volontà.
Le cose del mondo sono oggettivate nella Volontà che è il principio primo.
Dietro la molteplicità dei fenomeni vi è un’essenza che è unica, senza scopo ed
eterna. Il suo unico fine è di continuare ad essere, di perpetuarsi per l’eternità.
Questo principio primo infinito che si manifesta nel finito è arazionale, alogico,
assoluto, unico, eterno, inconscio, è la sostanza del mondo. La Volontà si pone
fuori dal mondo della rappresentazione, si sottrae alle forme del mondo
fenomenico (spazio e tempo). Il noumeno è, è sempre stato e sempre sarà, è
energia, impulso cieco ed irrazionale. Poiché la Volontà è presente ovunque e
sempre, nel mondo non c’è posto per l’individuo, le cui iniziative non sono altro
che un mezzo del principio infinito. L’uomo è quindi solo un burattino e la vita
viene a non avere più senso. […]ogni aspirazione nasce da un bisogno, da una
scontentezza del proprio stato; c’è patimento fino a che essa (la Volontà) non
sia soddisfatta; ma non v’ha affatto soddisfazione durevole: essa non è se non
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il punto di partenza d’una nuova aspirazione, sempre impedita in ogni
maniera, sempre lottante, quindi sempre causa di dolore: per essa giammai
uno scopo finale, perciò giammai limite né termine del soffrire. […]cresce il
soffrir arrivando al grado supremo nell’uomo; qui anzi è desso tanto più
violento in quanto l’uomo è dotato di una coscienza più lucida, d’una
intelligenza più alta: colui nel quale sta il genio è sempre quegli che soffre
maggiormente. [da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione]. Il mondo, quindi, diventa teatro dell’illogico, non esiste
alcun dio, non c’è religione né metafisica. Poiché Schopenhauer è un
materialista ateo, non c’è alcuna finalità ma solamente un meccanismo esterno
ai bisogni dell’uomo. Ne consegue la sofferenza delle creature, dato che il male
è parte dell’essenza del mondo. La critica all’ottimismo sociale e storico è
inevitabile: la storia è tutti i giorni sempre la medesima sonata, l’unico scopo
dell’uomo è quello di perpetuare la specie.
Il piacere, così come per Leopardi, è rimembranza o attesa, è piacere della
memoria o della speranza e diventa negativo, poiché presuppone assenza di
sofferenza, mancanza di dolore. La vita è vissuta per continuare ad essere, per il
perpetuarsi della Volontà, non c’è altro senso. […]ogni volere si fonda su di un
bisogno, su di una mancanza, su di un dolore. Ma supponiamo per un
momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile
soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà
cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le
diverrebbero un peso insopportabile. Dunque la vita oscilla, come un pendolo,
fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. [da A. Schopenhauer, Il
mondo come volontà e rappresentazione]. Quindi il piacere è una breve pausa
tra un desiderio e l’altro e l’uomo soffre perché perennemente assillato dai suoi
stessi desideri, che non può mai soddisfare tutti e definitivamente.
La noia, dolorosissima, subentra nel momento in cui l’uomo,
involontariamente, si trova a non sentire interesse per alcunché.
Per Schopenhauer la soluzione al pessimismo non è il suicidio, che è, anzi,
conferma della Volontà: Lungi dal negare la Volontà, esso (il suicidio) la
afferma energicamente, poiché l’individuo è parte della Volontà, la quale,
anche se negata con esso, continua comunque ad esistere in tutte le altre
creature. […]il suicida nega l’individuo e non la specie. La volontà di vivere, lo
ripeto, essendo assicurata in eterno, e il dolore essendo l’essenza della vita,
uccidersi è un atto inutile e insensato; esso distrugge arbitrariamente il
fenomeno individuale mentre la cosa in sé resta intatta. [da A. Schopenhauer,
Il mondo come volontà e rappresentazione]. Il solo modo per liberarsi dalla
Volontà è negarla: è quindi necessario passare dalla Voluntas alla Noluntas.
Le strade per allontanarsi dalla sofferenza del mondo fenomenico sono tre:
1) la via dell’arte: consiste nel contemplare un’opera d’arte con lo scopo di
liberarsi momentaneamente dalla Volontà. L’artista che produce e
l’osservatore che poi fruisce dell’opera d’arte si distaccano dal mondo
fenomenico, dallo spazio e dal tempo, diventando puro occhio del mondo.
L’arte libera l’individuo dalla catena dei bisogni e dei desideri, elevandolo al
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di sopra del dolore e del tempo. Tuttavia la funzione acatartica dell’arte ha
carattere parziale e temporaneo.
2) la via della morale: deve sorgere non da un imperativo categorico ma da un
senso di pietà o di compassione nei confronti del prossimo. La morale
mantiene l’individuo all’interno del mondo ma fa sì che si liberi
dall’egoismo. Soffrendo con l’altro e compatendolo, non c’è differenza ma
unione metafisica. Bisogna assumere un sentimento di caritas.
3) l’ascesi: è il tirocinio dello spirito che porta progressivamente al distacco dal
mondo per raggiungere la perfezione: è il definitivo annientamento della
Volontà, è il raggiungimento della Noluntas. L’individuo, cessando di volere
la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di
esistere, di godere e di volere attraverso delle tappe:
- castità perfetta per non perpetuare la specie
- povertà assoluta per distaccarsi dai beni del mondo materiale
- non violenza per vincere il carattere stesso dell’individuo e le sue tendenze
naturali
In questo modo si può raggiungere la Noluntas, il Nirvana buddista, che non
è vuoto ma è pienezza d’essere. Se il mondo, con tutte le sue illusioni, le sue
sofferenze ed i suoi desideri, è il nulla, il Nirvana è un tutto, è un oceano di
pace, è uno spazio luminoso di serenità, in cui si dissolve la nozione dell’io e
del soggetto, cioè il fenomeno.
SCHOPENHAUER E LEOPARDI:
confronto sui testi.
Schopenhauer
Per Schopenhauer affermare che l’essere è la manifestazione di una volontà
infinita equivale a dire che la vita è dolore.
Infatti volere significa desiderare e il desiderate porta ad uno stato di tensione
per la mancanza di ciò che vorremmo avere. Il desiderio risulta quindi per
definizione, assenza, vuoto ossia dolore.
"Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, cioè da una
sofferenza. La sofferenza vi mette un temine; ma per un desiderio che tiene
soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più,
ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono
all’infinito, la soddisfazione è breve e amaramente misurata. Ma l’appagamento
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finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto
ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una
disillusione non ancora riconosciuta"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
Leopardi
Anche per Leopardi ogni essere è stimolato per natura da un continuo desiderio
di piacere. Questo desiderio incessante potrebbe essere appagato solo da un
piacere infinito. Ma i piaceri che ci offre la realtà sono insufficienti a soddisfare
la nostra natura che ci spinge a volete sempre di più senza mai trovare
soddisfazione.
“La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno;
vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice
come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha
dato senza la possibilità di soddisfarlo”.
(Zibaldone, 1831)
L' infelicità umana deriva appunto dall’ insuperabile distanza tra l’ infinità del
desiderio e la finitezza della realtà. Nella seconda fase del suo pensiero,
l’infelicità dell' uomo non dipende da questa o quella situazione storica ma
dalla contraddizione tra ciò che egli percepisce come il suo fine personale, il
piacere, il graduale deperimento, annullamento e riciclaggio a cui la Natura lo
destina insieme a tutte le altre parti dell’ universo.
“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di
necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali
soltanto ma tutti gli esseri a loro modo. Non l'individuo ma la specie, i generi, i
regni, i globi, i sistemi, i mondi.
(Zibaldone, 1826)
"Forse in qual orma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale”
(Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia,1830)
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LA CONCEZIONE DEL PIACERE DEI DUE INTELLETTUALI
Entrambi gli studiosi considerano il piacere come una momentanea cessazione
del dolore:
Per Schopenhauer la soddisfazione di un desiderio (il piacere) o ne suscita altri
o fa precipitare l’uomo in una situazione altrettanto negativa che è la noia.
"Dunque la vita oscilla come un pendolo fra il dolore e la noia, suoi due
costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati
nell’inferno di dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo,
nient’altro all’infuori della noia"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
Per Leopardi ogni parvenza di felicità è un inganno:
"O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno”
(La quiete dopo la tempesta, 1829)
Per entrambi l’uomo insegue il piacere infinito ma non lo raggiunge mai:
"Di tal natura sono gli sforzi e i desideri umani che ci fanno brillare innanzi la
loro realizzazione come fosse il fine ultimo della volontà, ma non appena
vengono soddisfatti cambiano fisionomia[..] Vengono sempre messi da parte
come illusioni svanite"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
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“La felicità è possibile a chi la desidera perchè il desiderio è senza limiti
necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita e non ha limiti [..] e la
felicità ed il piacere è sempre futuro, [..] esiste solo nel desiderio del vivente e
nella speranza o aspettativa che ne segue"
(Zibaldone, 1821)
Per il poeta le illusioni proprie solo della giovinezza, costituiscono l’unico
momento felice dell’uomo, perché la felicità non può consistere che nell’attesa e
nel sogno, o nella loro ricordanza:
“Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio: stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
(Il sabato del villaggio, 1829)
Secondo il filosofo può dirsi fortunato chi, nonostante le delusioni, coltiva
ancora qualche desiderio, perchè può ancora illudersi; chi non ha più alcun
desiderio precipita nella noia, cioè in una condizione ancora più infelice
"Fortunato abbastanza colui, al quale resti ancora da accarezzare qualche
desiderio, qualche aspirazione. potrà continuare a lungo il gioco del perpetuo
passaggio dal desiderio all'appagamento, dall’ appagamento il nuovo desiderio
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[..]; ma se non altro non cadrà in quella paralizzante stasi che è sorgente di
stagnante e terribile noia, di desideri vaghi, senza oggetto preciso, e di languore
mortale"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
Come per Schopenhauer, anche per Leopardi la noia è il peggiore dei mali in
quanto piena consapevolezza dell’uomo (il più sofferente degli esseri) della sua
infelicità .
"Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?-"
(Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia,1830)
CONCLUSIONI
Le affinità tra Leopardi e Schopenhauer sono state analizzate anche in un
saggio, ad opera del critico De Sanctis, il quale, dopo essersi avvicinato
apertamente e con passione al Leopardi, spiega come le proposte di
Schopenhauer si rivelino aride e incostruttive mentre, all’opposto, quelle del
poeta siano vere perchè producono l’effetto contrario a quello che si
propongono.
"Non crede al progresso, e te lo fa desiderare, non crede alla libertà e te la fa
amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un
desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo che non ti senta migliore”
L' unico atto di libertà che sia possibile all’ uomo è la soppressione della volontà
di vivere, praticabile solo tramite l'ascesi. Questa consiste nella
"astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l’espiazione e la
macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della
volontà. "
Cosi mentre in Schopenhauer lo sbocco logico del suo pessimismo consiste
nella fuga dalla vita e nel quietismo dell'asceta, in Leopardi l’esito dei suo
pessimismo dà all’uomo un messaggio positivo:
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"Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odi e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
(La Ginestra, 1836)
A differenza del pensatore tedesco dunque, la filosofia "dolorosa ma vera" del
Leopardi trasmette un messaggio di fraternità per tutti gli uomini e comunica
l’esigenza di costruire un mondo fondato sull'amore e sulla solidarietà.
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Lucrezio vive tra il 98 e il 55 a.C. anche se tali date sono tuttora discusse dagli
studiosi. Della vita non sappiamo quasi nulla per il fatto che , ai giorni nostri,
sono pervenuti pochissimi scritti e documenti riguardanti l’autore. L’unica
fonte è il “De rerum natura” dal quale, tuttavia, non si possono ricavare notizie
sulla vita dell’autore.
Dottrina epicurea :
La concezione e la poetica Lucreziana sono basate sulla dottrina epicurea.
Quest’ultima si basa, a sua volta, sui seguenti punti:
- concezione atomistica e materialistica della vita e della natura;
- abolizione della paura degli dei e delle superstizioni religiose;
- etica morale e filosofia di vita “del piacere”, inteso come il raggiungimento di
una felicità priva di turbamenti e passioni (atarassia);
- utilitarismo e individualismo (teoria del “vivi nascosto”);
- avversione a qualsiasi forma di poesia considerata come un incentivo alle
passioni.
“De rerum natura”
Il De rerum natura è un poema epico-didascalico in esametri, suddiviso in sei
libri. Suo oggetto è l’esposizione della filosofia epicurea, nella quale Lucrezio
vede l’unica via per risolvere i problemi esistenziali dell’uomo. Il destinatario è
un certo Memmio, al quale Lucrezio dedica l’opera, forse per ottenere da lui un
qualche protettorato o forse per realizzare l’ideale epicureo della “ Suavis
amicitiae”. Lucrezio giustifica la realizzazione dell’opera in esametri (in
contrasto con la dottrina epicurea) dichiarando, alla fine del libro I e all’inizio
del IV, il suo intento di esplorare strade mai prima tentate da altri: «M’inebria
raggiungere le fonti intatte,\ e trarne sorsi, m’inebria spiccare nuovi fiori \ e
trarne al capo una splendida ghirlanda…».
Subito dopo, Lucrezio ribadisce, mediante la similitudine “dei medici e dei
bambini”, il valore strumentale e divulgativo della forma poetica, destinata a
mediare in modo efficace contenuti che altrimenti riuscirebbero ostici al
lettore: è proprio subordinando i valori estetici ai fini pedagogici e didascalici,
egli giustifica in modo ineccepibile, anche dal punto di vista filosofico, la scelta
di scrivere non un trattato in prosa ma in esametri.
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E molto importante, infine, l’influenza di Empedocle: con quest’ultimo,
Lucrezio ha in comune, non solo la forma esametrica e l’argomento, ma anche
la profonda convinzione di una missione da compiere per il bene dell’umanità.
Il contenuto dell’opera:
Il Proemio. Lucrezio apre il proemio dell’opera con un solenne inno a
Venere, attenendosi alle convenzioni del genere epico. La straordinaria
originalità sta nel sostituire, alle consuete Muse del genere epico, la figura di
Venere. Appare evidente che quest’ultima si carica di nuovi ed inediti
significati: Venere, la Dea dell’amore, del piacere e della fecondità, oltre ad
assumere il significato di “forza generatrice”, assume anche quello della pace e
della felicità che derivano all’uomo, dalla conoscenza e dall’accettazione delle
leggi naturali (meccanicismo). La richiesta alla dea di assicurare la pace ai
Romani (in contraddizione con la teologia Epicurea secondo la quale gli dei non
interagiscono sugli uomini), è giustificata da Lucrezio attribuendole la forma di
captatio benevolentiae nei confronti del pubblico, e in primo luogo del
dedicatario Memmio.
Il proemio prosegue con un breve ma fervido elogio di Epicuro, esaltato
come l’eroe che ha saputo farsi salvatore dell’umanità, sconfiggendo l’orribile
mostro della religio. Temendo che la dottrina epicurea apparisse empia agli
occhi dei tradizionalisti romani, Lucrezio narra dell’episodio di Ifigenìa, figlia di
Agamennone, immolata con il consenso del padre per propiziare la partenza
della flotta greca per la guerra di Troia. Con tale episodio, Lucrezio, vuole
scagionare l’epicureismo dall’accusa di empietà, mettendo in risalto l’atroce
crudeltà e l’insensatezza dei riti religiosi.
L’opera prosegue con la trattazione dei vari argomenti raggruppati in tre gruppi
di due libri: I e II trattano di argomenti fisici, il III e il IV di argomenti
antropologici, il V e il VI di argomenti cosmologici.
La noia in Lucrezio
La noia è, per Lucrezio, come una malattia. Essa deriva dall’impossibilità
dell’uomo di soddisfare i propri desideri, le proprie ambizioni, passioni,
impulsi. Tutto ciò crea all’uomo una sensazione di profondo disagio di cui
spesso non riesce a stabilire le cause precise. L’appagamento dei singoli
desideri e delle pulsioni umane sarà solo momentaneo e illusorio: appagato un
desiderio ne verrà di nuovo un altro e così via. Solo da un’accurata conoscenza
della natura delle cose, e dall’adottamento della filosofia epicurea (atarassia), si
può sconfiggere la noia ed evitare il senso di disagio.
La stoltezza degli uomini: Gli uomini si affannano perseguendo falsi scopi,
miraggi illusori: gareggiano per emergere, contendono tra loro per conquistare
ricchezze e potere, che sono fonti non di vera gioia ma di apprensioni,
inquietudini e sofferenze. E non si accorgono che la natura non richiede altro
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che l’assenza di dolore fisico e spirituale: condizione che si può ottenere con la
massima facilità, appagando semplicemente i bisogni elementari.
Natura madre o matrigna?
La concezione Lucreziana tra ottimismo e pessimismo
Lucrezio ci fornisce una visione del mondo e della natura triste e sconsolata: la
natura è ostile all’uomo e rende la sua vita sulla terra difficile e dolorosa. Tale
quadro negativo può far pensare a una visione pessimistica della realtà.
Tuttavia, prendendo più accuratamente in analisi la personalità Lucreziana,
possiamo giungere alla conclusione che la sua visione pessimistica non è reale,
ma deriva dal desiderio di demolire i presupposti dell’ottimismo naturalistico e
dell’antropocentrismo di altre scuole filosofiche, in particolare il finalismo e il
provvidenzialismo degli stoici. Questa tesi è ancor più ribadita dal fatto che
Lucrezio, spesso e volentieri, afferma con accenti di profonda convinzione che è
possibile per l’uomo, purchè aderisca alla verità e alla sapienza epicuree,
trasformare positivamente una situazione esistenziale difficile e dolorosa,
sconfiggendo la sofferenza e conquistando la felicità.
LUCREZIO - De Rerum natura
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Della vita di Lucrezio si sa pochissimo: unica fonte nella traduzione del “Chronicon di
Eusebio” fatta da Girolamo.
Lucrezio scrisse negl’intervalli di lucidità che gli lasciava la follia.
Si uccise di propria mano a 43 anni. Notizie probabilmente false scritte da Girolamo
(informazioni cristianizzate).
Nacque negli anni 90 e morì verso la metà degli anni 50 (contemporaneo di Cicerone,
Catullo [età di Cesare]).
Segue la filosofia di Epicuro e da lui prende spunto per scrivere il De rerum natura.
IL DE RERUM NATURA È:
 Un prodotto letterario di singolare complessità e rinnovato fascino.
 Composto da 6 libri con un totale di 7400 esametri.
 Opera dedicata all’aristocratico Gaio Memmio (“interlocutore privilegiato”),
citato già al 26° verso.
 Memmio è uno scettico ed è legato alla filosofia romana.
 Composto da varie fasi di un percorso educativo non solo per Memmio.
 Lucrezio è epicureo e, con questa opera, vorrebbe insegnare e rendere nota a
tutti questa filosofia.
 Prende come modello Memmio visto il suo alto grado di scietticità.
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 L’inno a Venere (richiesta di assistenza) cerca di attrarre il lettore con le sue
lusinghe di un proemio non troppo dissimile dai moduli consueti, anche se
comporta una lieve infrazione alla dottrina epicurea; Epicuro infatti
sosteneva che gli dei erano distaccati dagli uomini, vivevano infatti
nell’intermundia.
 In seguito il tema dell’opera continuerà più distaccato e indifferente dagli
dei.
 Contro il pensiero di Epicuro (la poesia non è adatta all’insegnamento
morale e filosofico: ci vuole la prosa), Lucrezio scrive in versi da lui definiti
“dolce miele” che rendono più facile accettare un messaggio spesso difficile.
 Si rivolge con forza al dibattito culturale del suo tempo, e non
necessariamente ad un élite di studiosi.
 Lucrezio utilizza per questa opera un lessico ricercato.
passi significativi dell’opera
INNO A VENERE
 Il De rerum natura si apre con un proemio che ha lo scopo di non
presentarsi in un modo troppo iconoclastico (distaccato dalla filosofia
predominante: quella romana) ad un potenziale discepolo.
 L’inno a Venere contrasta l’ortodossia religiosa epicurea.
 Il testo garantisce la sua intenzione di essere strumento educativo per un
pubblico specificatamente romano, di cui vuole assicurarsi fin dall’inizio il
coinvolgimento emotivo e l’attenzione non ostile.
 Giustificato da Cicerone con “multae tamen artis”; infatti l’opera è vista
come un opera multi ingenii.
 Venere incarna i valori positivi del mondo naturale: fertilità, vitalità,
soprattutto piacere (voluptas).
 Sequenze:
1. [1-13]
Invocazione all’inno di Venere: “o dea famosa, pace tranquilla
per i Romani”
2. [14-20]
Conseguenze del suo arrivo: “fuggono i venti e le nubi dal cielo
e la terra produce frutti e fiori soavi”
3. [20-26]
Appello a venere per la stesura dell’opera: “io ti prego che tu
mi sia alleata / ispiratrice in questi versi”
4. [21-25]
Materia del suo libro: “…che mi accingo a scrivere sulla
natura…”
5. [26-30]
Esaltazione di Memmio: “per il nostro Memmio, che tu, o dea,
hai voluto sempre eccellere dotato di tutte le virtù.”
6. [30-41]
Nuovamente invocazione a Venere: “Infatti tu sola puoi
giovare ai mortali con una pace tranquilla…”.
7. [44-49]
Conclusione con l’esposizione del contenuto del suo libro.
LA NOIA E IL NULLA
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La terra è impoverita e fiacca ed è stufa di produrre vita e di nutrirla
continuamente.
 Il lavoro cresce perché, in qualche modo, bisogna far produrre la terra, ma
questa produce sempre meno; anche i buoi si stancano sempre di più.
 Si trova ora la figura di un vecchio aratore che sospira stanco e in parallelo
quella di un padrone che, deluso dai campi, accusa dolente le avverse
stagioni e sostiene anche che genti più religiose avessero vissuto meglio.
 Se gli uomini riuscissero a scoprire la causa della noia avrebbero una vita
migliore. Ma incerti scappano in cerca di altri luoghi.
 Si incontra ora un immagine topica di un uomo che lascia il palazzo ma poi,
dopo poco tempo, ci ritorna. fuori la vita non è migliore. Un altro uomo
scappa a cavallona dopo breve ritorna alla solita vita preso da una crisi di
sonno.
 Questi uomini vorrebbero fuggire ma non possono, allora si attaccano a se
stessi e si odiano perché non trovano la causa del male.
 Se l’uomo trovasse la causa del suo male, l’unica sua preoccupazione sarebbe
il cercare di rivivere.
Significato generale di espressionismo
Il termine espressionismo indica, in senso molto generale, un’arte dove prevale
la deformazione di alcuni aspetti della realtà, così da accentuarne i valori
emozionali ed espressivi. In tal senso, il termine espressionismo prende una
valenza molto universale. Al pari del termine «classico», che esprime sempre il
concetto di misura ed armonia, o di «barocco», che caratterizza ogni
manifestazione legata al fantasioso o all’irregolare, il termine «espressionismo»
è sinonimo di deformazione.
Il termine "espressionismo" indica quelle opere che intendono "esprimere"
fortemente il sentimento individuale dell'artista, piuttosto che rappresentare
oggettivamente la realtà, deformando coscientemente quest'ultima affinchè
risulti evidente che ciò che noi vediamo nella tela non è la riproduzione di un
oggetto così come appare, ma come lo "sente" l'autore che proietta in esso la
propria vita interiore. "Espressionismo", insomma, è qualcosa di diverso da
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"espressione". Se è vero che ogni artista "esprime" i propri sentimenti, è solo
l'espressionista che costringe lo spettatore a vivere questi sentimenti con
immediatezza, che lo coinvolge, lo emoziona, provocando in lui reazioni
psicologiche violente.
Nell’ambito delle avanguardie storiche con il termine espressionismo indichiamo
una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, che divenne la nazione che
più si identificò, in senso non solo artistico, con questo fenomeno culturale.
Alla nascita dell’espressionismo contribuirono diversi artisti operanti negli ultimi
decenni dell’Ottocento. In particolare possono essere considerati dei preespressionisti Van Gogh, Gauguin, Munch ed Ensor. In questi pittori sono già
presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche
dell’espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la
drammaticità dei contenuti.
Il primo movimento che può essere considerato espressionistico nacque in Francia
nel 1905: i Fauves. Con questo termine vennero dispregiativamente indicati alcuni
pittori che esposero presso il Salon d’Automne quadri dall’impatto cromatico
molto violento. Fauves, in francese, significa «belve». Di questo gruppo facevano
parte Matisse, Vlaminck, Derain, Marquet ed altri. La loro caratteristica era il
colore steso in tonalità pure. Le immagini che loro ottenevano erano sempre
autonome rispetto alla realtà. Il dato visibile veniva reinterpretato con molta
libertà, traducendo il tutto in segni colorati che creavano una pittura molto
decorativa. Alla definizione dello stile concorsero soprattutto la conoscenza della
pittura di Van Gogh e Gauguin. Da questi due pittori i fauves presero la sensibilità
per il colore acceso e la risoluzione dell’immagine solo sul piano bidimensionale.
Nello stesso 1905 che comparvero i Fauves si costituì a Dresda, in Germania, un
gruppo di artisti che si diede il nome «Die Brücke» (il Ponte).
I principali protagonisti di questo gruppo furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil
Nolde. In essi sono presenti i tratti tipici dell’espressionismo: la violenza cromatica
e la deformazione caricaturale, ma in più vi è una forte carica di drammaticità che,
ad esempio, nei Fauves non era presente. Nell’espressionismo nordico, infatti,
prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la
critica ad una società borghese ipocrita e ad uno stato militarista e violento.
Alla definizione dell’espressionismo nordico fu determinante il contributo di pittori
quali Munch ed Ensor. E, proprio da Munch, i pittori espressionisti presero la
suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore. Un grido che
portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti
del tempo.
Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco nel 1911: «Der Blaue
Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj
Kandinskij e Franz Marc. Con questo movimento l’espressionismo prese una svolta
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decisiva. Nella pittura fauvista, o dei pittori del gruppo Die Brücke, la tecnica era di
rendere «espressiva» la realtà esterna così da farla coincidere con le risonanze
interiori dell’artista. Der Blaue Reiter propose invece un’arte dove la componente
principale era l’espressione interiore dell’artista che, al limite, poteva anche
ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui, ad una pittura totalmente
astratta, il passo era breve. Ed infatti fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a
scegliere la strada dell’astrattismo totale (vedi pag. 136).
Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra
avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra e Franz Marc, partito per il
fronte, morì nel 1916. Alle attività del gruppo partecipò anche il pittore svizzero
Paul Klee, che si sarebbe reincontrato con Wassilj Kandiskij nell’ambito della
Bauhaus, la scuola d’arte applicata fondata nel 1919 dall’architetto Walter Gropius.
All’interno di questa scuola, l’attività didattica di Kandiskij e Klee contribuì in
maniera determinante a fondare i principi di una estetica moderna, trasformando
l’espressionismo e l’astrattismo da un movimento di intonazione lirica ad un
metodo di progettazione razionale di una nuova sensibilità estetica.
Differenza con l’impressionismo
Il termine espressionismo nacque come alternativa alla definizione di
impressionismo. Le differenze tra i due movimenti sono sostanziali e profonde.
L’impressionismo rimase sempre legato alla realtà esteriore. L’artista
impressionista limitava la sua sfera di azione all’interazione che c’è tra la luce e
l’occhio. In tal modo cercava di rappresentare la realtà con una nuova sensibilità,
cogliendo solo quegli effetti luministici e coloristici che rendono piacevole ed
interessante uno sguardo sul mondo esterno.
L’espressionismo, invece, rifiutava il concetto di una pittura sensuale (ossia di una
pittura tesa al piacere del senso della vista), spostando la visione dall’occhio
all’interiorità più profonda dell’animo umano. L’occhio, secondo l’espressionismo,
è solo un mezzo per giungere all’interno, dove la visione interagisce con la nostra
sensibilità psicologica. E la pittura che nasce in questo modo, non deve fermarsi
all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno.
Un’altra profonda differenza divide i due movimenti. L’impressionismo è stato
sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla
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ricerca del bello, e proponeva immagini di indubbia gradevolezza. I soggetti erano
scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi
piacevoli e vissuta quasi con spensieratezza.
Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’espressionismo. La sua matrice di fondo
rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol
guardare dentro di sé, o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo
interno trova l’angoscia, dentro gli altri trova la bruttura mascherata dall’ipocrisia
borghese. E per rappresentare tutto ciò, l’artista espressionista non esita a ricorre
ad immagini «brutte» e sgradevoli. Anzi, con l’espressionismo il «brutto» diviene
una vera e propria categoria estetica, cosa mai prima avvenuta con tanta enfasi
nella storia dell’arte occidentale.
Da un punto di vista stilistico la pittura espressionista muove soprattutto da Van
Gogh e da Gauguin. Dal primo prende il segno profondo e gestuale, dal secondo il
colore come simbolo interiore. La pittura espressionistica risulta quindi totalmente
antinaturalistica, lì dove l’aderenza alla realtà dell’impressionismo collocava
quest’ultimo movimento ancora nei limiti di un naturalismo seppure inteso solo
come percezione della realtà.
VITA
Eduard Munch nasce il 12 dicembre 1863 a Löten, in Norvegia, nel 1964 la
famiglia si trasferisce a Christiania (la futura Oslo). Sin dall’infanzia è costretto
a convivere con lo spettro della morte infatti sua madre gravemente malata di
tubercolosi muore quando Eduard aveva solo cinque anni (nel 1868),così la zia
materna Karen si prende cura della famiglia. Iscritto all’istituto tecnico nel
1879, lo abbandona l’anno seguente per intraprendere la carriera di pittore.
Pochi anni dopo anche la sorella Sophie ,che si era occupata di lui muore all’età
di sedici anni. La prima apparizione in pubblico avviene nel 1883, quando
partecipa alla collettiva del Salone delle arti decorative di Christiania. Entra in
contatto con l’ambiente bohémien, conosce l’avanguardia norvegese dei pittori
naturalisti e degli scrittori. Nel maggio del 1885, grazie a una borsa di studio, si
reca a Parigi, dove visita il Salon e il Louvre, rimanendo affascinato dalla
pittura di Manet. Ritornato in patria, esegue alcune dei suoi più importanti
lavori: Bambina malata, Il giorno dopo e Pubertà. Nonostante le molte critiche
che gli vengono rivolte dopo l’esposizione della prima versione della Bambina
malata, nel 1889 Munch allestisce la prima mostra personale,nello stesso anno
si aggiunge,all’elenco dei morti,il padre.Scrive Munch ,a questo proposito:”E io
vivo coi morti;mia madre ,mia sorella,mio padre-lui soprattutto.Tutti ricordi
,le minime cose mi ritornano a frotte.Lo rivedo così come lo vidi ,per l’ultima
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volta quattro mesi fa quando mi ha detto addio sulla banchina;eravamo un
po’ timidi nei confronti l’uno dell’altro ,non volevamo tradire la pena che
separazione ci causava.Quanto ci amavamo malgrado tutto,quando si
tormentava la notte per me ,per la mia vita- perché non potevo condividere la
sua fede(il padre,al contrario di lui,era molto religioso). Si trattiene a Parigi ,
tranne alcune pause nel paese natale, fino al 1892, quando ritorna in Norvegia
per organizzare una sua mostra. In ottobre viene invitato a esporre a Berlino,
ma le sue opere suscitano così violente polemiche che la mostra si chiude dopo
una settimana. Molto probabilmente tutta questa ostilità nei suoi confronti ha
influenzato il suo carattere ,infatti,nelle sue opere sono facilmente riconoscibili
, oltre la morte il dolore e l’angoscia, sentimenti come l’incomunicabilità e
l’isolamento.La sua opera si nutre di un valore interiore ,intimo…Munch vive di
ricordi “Non so che altro fare se non che lasciare che la mia pena invada l’alba
e il tramonto .Resto solo con milioni di ricordi che sono milioni di pugnali che
mi lacerano il cuore - e le ferite restano aperte .L’aria è grigia e pesante sui
tetti ,la luce svanisce così presto – tutto si disegna come un profilo d’ombra sul
vetro “ . Fra il 1893 e il 1908 vive per la maggior parte del tempo all’estero
esponendo molto in Germania, a Parigi e in Scandinavia . A partire dal 1894
realizza le prime acqueforti e litografie. Nel 1896 illustra I fiori del male di
Baudelaire e inizia una collaborazione con il drammaturgo Ibsen, . Nel 1902
incontra il dottor Max Linde, che diventa il suo mecenate e per il quale esegue
quattordici acqueforti e due litografie che hanno per tema la famiglia del
committente e il loro giardino. Successivamente espone le sue opere a Parigi,
sia al Salon des Indépendants (1896, 1897 e 1903) sia alla galleria L’Art
Nouveau (1896). Nel 1902 partecipa alla Secessione di Berlino, della quale
diventa membro nel 1904, con le opere del Fregio della vita:ventidue dipinti
incastonati in un'unica cornice bianca che corre come un nastro lungo le pareti
:un ventaglio in cui si spiega il senso della vita ,dove ogni dipinto caricandosi
del significato degli altri ,acquista significati più grandi. L’anno seguente
incontra il banchiere svedese Ernest Thiel, che gli commissiona il ritratto di
Nietzsche. Nel 1908, durante uno dei suoi viaggi, ha un collasso nervoso e viene
ricoverato in ospedale. La situazione ,a questo punto, diventa ancora più
drammatica..”Ho ricevuto in eredità due dei più terribili nemici dell’umanità:
la tubercolosi e la malattia mentale La malattia, la follia e la morte erano gli
angeli neri che si affacciavano sulla mia culla”. Nella clinica di Copenaghen,
nella quale si trova da alcuni mesi, scrive Alfa e omega che illustra con diciotto
litografie.Le opere di questo decennio sono le tessere di un unico racconto
narrato in quattro fasi:Amore nascente,amore che fiorisce e passa, Angoscia e
Morte. Munch avrebbe voluto che quei dipinti restassero a formare un insieme
permanente …”Un fregio ,può essere fatto in modo di avere le stesse qualità di
una sinfonia,che può liberarsi nella luce e sprofondare giù negli abissi.la sua
forza può essere modulata . Parimenti ,differenti tensioni possono echeggiare
e riecheggiare all’interno del tema principale,disseminate qua e là come colpi
di tamburo” . La concezione del fregio come immagine complessiva del destino
umano è ambizione diffusa tra i pittori simbolisti ,basta pensare a Holder o a
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Klimt (Fregio di Beethoven) . Nel 1912acquista la tenuta di Ekely a Sköyen,
dove risiede per il resto della sua vita. I visitatori si sorprendono davanti ai
dipinti che in primavera pendono dagli alberi in giardino o che in inverno
stanno sepolti nella neve che l’autore spazza via con una scopa…”I colori
maturano hanno bisogno di sole di sporco ,di pioggia ,i quadri vivono nella
precarietà di ogni organismo vivente,nelle macchie e nelle ruga affiora la loro
anima”. L’espressionismo è ormai tendenza dominante in Europa ,sebbene con
tendenze diverse. I fauves e i pittori tedeschi riconoscono il loro debito con
Munch ,è considerato,ora , un precursore insieme a Grunewald ,Goya,Blake e
Van Gogh. Sempre nel 1912 prende parte al Sonderbund di Colonia che lo
celebra,insieme a Picasso,come classico della modernità.Partecipa anche alla
mostra collettiva di arte scandinava patrocinata dall’American Scandinavian
Society di New York. In occasione della sua terza esposizione americana, nel
1915, viene premiato con una medaglia d’oro per l’opera grafica. Il solitario di
Ekely influenza in modo determinante le prime avanguardie che verranno
ridestate nel cinema grazie alle regie di Dreyer e Bergman. Dopo un periodo
d’inattività, a causa della febbre spagnola, dipinge i pannelli per la mensa della
fabbrica Freja di Christiania (1922). Nel corso del terzo decennio l’artista riceve
varie onorificenze e inviti a mostre, che culminano nella grande retrospettiva
alla Nationalgalerie di Berlino (1927), poi trasferita alla Nasjonalgalleriet di
Christiania, ribattezzata Oslo nel 1925. Dopo aver iniziato il progetto per la
decorazione di una sala del municipio di Oslo, l’artista, colpito da una grave
malattia agli occhi, ormai quasi cieco,è costretto a un lungo periodo di riposo
(1930). Anche se l’avvento del nazismo in Germania segna il declino dell’opera
di Munch, che nel 1937 viene bollata come “arte degenerata”, questi continua a
dipingere e a creare opere grafiche,dove la morte appare ancora più spaventosa.
Edvard Munch muore a Ekely il 23 gennaio 1944. Tutte le sue opere vengono
donate alla città di Oslo ed esposte, nel 1963, nel Museo Munch.
Edvard Munch è senz’altro il pittore che più di ogni altro anticipa
l’espressionismo, soprattutto in ambito tedesco e nord-europeo. Egli nacque in
Norvegia e svolse la sua attività soprattutto ad Oslo. In una città che, in realtà,
era estranea ai grandi circuiti artistici che, in quegli anni, gravitavano
soprattutto su Parigi e sulle altre capitali del centro Europa.
Nella pittura di Munch troviamo anticipati tutti i grandi temi del successivo
espressionismo: dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi,
dalla solitudine umana all’incombere della morte, dalla incertezza del futuro
alla disumanizzazione di una società borghese e militarista.
Del resto tutta la vita di Munch è stata segnata dal dolore e dalle sofferenze sia
per le malattie che per problemi familiari.
Nell’opera di Munch sono rintracciabili molti elementi della cultura nordica di
quegli anni, soprattutto letteraria e filosofica: dai drammi di Ibsen e Strindberg,
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alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard e alla psicanali di Sigmund Freud.
Da tutto ciò egli ricava una visione della vita permeata dall’attesa angosciosa
della morte. Nei suoi quadri vi è sempre un elemento di inquietudine che
rimanda all’incubo. Ma gli incubi di Munch sono di una persona comune, non
di uno spirito esaltato come quello di Van Gogh. E così, nei quadri di Munch il
tormento affonda le sue radici in una dimensione psichica molto più profonda e
per certi versi più angosciante. Una dimensione di pura disperazione che non
ha il conforto di nessuna azione salvifica, neppure il suicidio.
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Edvard Munch, L'urlo, 1885
Questo è senz’altro il quadro più celebre di Munch e, in assoluto, uno dei più
famosi dell’espressionismo nordico. In esso è condensato tutto il rapporto
angoscioso che l’artista avverte nei confronti della vita. Lo spunto del quadro lo
troviamo descritto nel suo diario:
Camminavo lungo la strada con due amici
quando il sole tramontò
il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue
mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto
sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco
i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura
e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.
Lo spunto è quindi decisamente autobiografico. L’uomo in primo piano che urla
è l’artista stesso. Tuttavia, al di là della sua relativa occasionalità, il quadro ha
una indubbia capacità di trasmettere sensazioni universali. E ciò soprattutto
per il suo crudo stile pittorico.
Il quadro presenta, in primo piano, l’uomo che urla. Lo taglia in diagonale il
parapetto del ponte visto in fuga verso sinistra. Sulla destra vi è invece un
innaturale paesaggio, desolato e poco accogliente. In alto il cielo è striato di un
rosso molto drammatico.
L’uomo è rappresentato in maniera molto visionaria. Ha un aspetto sinuoso e
molle. Più che ad un corpo, fa pensare ad uno spirito. La testa è completamente
calva come un teschio ricoperto da una pelle mummificata. Gli occhi hanno uno
sguardo allucinato e terrorizzato. Il naso è quasi assente, mentre la bocca si
apre in uno spasmo innaturale. L’ovale della bocca è il vero centro compositivo
del quadro. Da esso le onde sonore del grido mettono in movimento tutto il
quadro: agitano sia il corpo dell’uomo sia le onde che definiscono il paesaggio e
il cielo.
Restano diritti solo il ponte e le sagome dei due uomini sullo sfondo. Sono sordi
ed impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo. Sono gli amici del
pittore, incuranti della sua angoscia, a testimonianza della falsità dei rapporti
umani.
L’urlo di questo quadro è una intesa esplosione di energia psichica. È tutta
l’angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un
grido liberatorio. Ma nel quadro non c’è alcun elemento che induca a credere
alla liberazione consolatoria. L’urlo rimane solo un grido sordo che non può
essere avvertito dagli altri ma rappresenta tutto il dolore che vorrebbe uscire da
noi, senza mai riuscirci. E così l’urlo diviene solo un modo per guardare dentro
di sé, ritrovandovi angoscia e disperazione.
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Il tema della sensualità ha in Munch
un carattere mai allegro. In questa
immagine, la donna ispira un
qualcosa di torbido e peccaminoso.
Nella sua dimensione misogina,
Munch lega la sessualità al peccato
non per motivi etici, ma perché, per
lui, eros e morte sono la stessa cosa.
Come dire che non può esistere
piacere senza dolore, e tutto ciò che
sembra farci felice, in realtà ci porta
sempre sofferenza. Questa visione
pessimistica viene accentuata nella
prima versione del quadro, dove sulla
cornice egli disegna degli spermatozoi
e un feto. Il peccato legato al piacere
giunge quindi a minare l’atto stesso
del ricreare la vita.
Edvard Munch, Madonna, 1894-95
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La passeggiata lungo un
viale cittadino di Oslo è
occasione per Munch di
mostrare cosa egli pensa
dei cittadini borghesi in
genere: un’umanità
spiritualmente vuota che
come zombi vive senza
realmente vivere. Il
quadro ha un’atmosfera
anche gradevole, con i
suoi toni saturi che
rendono efficacemente la
suggestione dell’ora
serale, e ciò crea un
contrasto ancora più
stridente con l’immagine
cadaverica dei passanti
che, più che passeggiare,
sembra stiano seguendo
un funerale.
Edvard Munch, Sera sulla via Karl Johann, 1892
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La figura della ragazza nuda, seduta
sul bordo del letto, è una delle più
famose della produzione di Munch.
Non vi è alcun compiacimento
sensuale in questo nudo, anzi,
l’immagine trasmette, ad uno sguardo
più attento, un intenso sentimento di
angoscia. Il nudo, in questo caso, è
allegoria di condizione indifesa,
soprattutto da parte di chi è ancora
giovane ed acerbo, nei confronti dei
destini della vita. E che ognuno ha un
destino che lo aspetta, in questo
quadro è simboleggiato dall’ombra che
la ragazza proietta sulla parete. Non è
un’ombra naturale, ma un grumo nero
come un fantasma che si materializza
dietro di noi, senza che possiamo
evitarlo: è un po’ il simbolo di tutti i
dolori che attendono chi vive.
Edvard Munch, Pubertà, 1894
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Biography of W. H. Auden
Wystan Hugh Auden was one of the most important poets of the 20th
century.
Auden was born 21 February
1907, in York, the son of a physician.
At first interested in science, he soon
turned to poetry. In 1925 he entered
Christ Church College, University of
Oxford, where he became the centre of
a group of young leftist writers who
generally expressed a socialist
viewpoint, while continuing the artistic
revolution of such earlier writers as T.
S. Eliot, James Joyce, and Ezra Pound.
This group included the poets Louis
MacNiece and Stephen Spender and
the novelist Christopher Isherwood.
After graduating in 1928, he spent five
years as a schoolmaster in Scotland
and England.
Auden's earliest works are startling in several ways. They contain unusual
meters, words, and images, juxtapose industrial and natural landscapes, and
mix the rhythms of poetry with those of jazz music. Some critics feel that
Auden's first books, Poems (1930) and The Orators, an English Study (1932),
contain some of his finest work. Poems focused on the breakdown of English
capitalist society but also showed a deep concern with psychological
problems. He subsequently wrote three verse plays with Isherwood: The Dog
Beneath the Skin (1935), The Ascent of F-6 (1936), and On the Frontier (1938).
In the later poems of the 1930s, such as those in Look, Stranger! (1936) and
Journey to a War (1939), his political and antiwar sentiments are expressed,
but the poems lack some of the force of his earlier work. Another Time (1940)
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contains lighter and more romantic verse.
Auden lived in Germany, where he witnessed the rise of nazism, and during
the Spanish Civil War he served as an ambulance driver. In 1936 he married
Erika Mann, daughter of Thomas Mann, to provide her with a British
passport and enable her to leave Germany. In 1937 he received King George's
Gold Medal for Poetry. Auden immigrated to the United States in 1939 (he
became an American citizen in 1946) and at about the same time returned to
the religion of his youth, Anglicanism. His wide-ranging intellectual interests
and his technical virtuosity in a variety of metrical forms are apparent in such
works as The Double Man (1941), For the Time Being (1944), and the 1948
Pulitzer Prize-winning The Age of Anxiety (1947). These works also bear the
stamp of his religious reaffirmation, although this is expressed by treating
questions concerning existence rather than by discussing his own spiritual
struggles and achievements. In 1945 he published The Collected Poetry of W.
H. Auden, a widely read volume in which poems were so arranged as to defy
chronology. In this volume, too, he revised many poems and omitted others,
among them two of his most popular political poems. Many charged that
Auden was censoring his early political self in a kind of purge. The poet,
however, gave reasons of desire for technical correctness.
Nones (1951), The Shield of Achilles (1955), Homage to Clio (1960), About the
House (1965), and City without Walls (1969) added steadily to the store of his
carefully made, playful or irreverent, and sometimes deceptively simple short
poems. In 1954 he received the Bollingen Poetry Prize. From 1956 to 1961 he
held the chair in poetry at Oxford. Critical essays published in The Enchafed
Flood (1950), The Dyer's Hand (1962), and Forewords and Afterwords (1973)
increased his reputation for catholicity of taste. He influenced a generation of
new poets by teaching, reading his poems, lecturing in colleges and
universities throughout the United States and England, and editing the Yale
series of young poets' work.
In his later years Auden spent part of the year at his apartment in New York
(he always considered himself not an American but a New Yorker) and part in
Italy--later still, in Kirchstetten, Austria, where he owned a house
memorialised in Thanksgiving for a Habitat (1965). He received the National
Medal for Literature in 1967. With his close friend Chester Kallman he
collaborated on opera libretti, including Stravinsky's The Rake's Progress
(1951). He returned to Oxford as an honorary fellow in 1972.
As a poet, Auden bore some resemblance to T. S. Eliot. Like him, he had a cool,
ironic wit, yet was deeply religious. Possessed of probing psychological
insight, Auden also had a supremely lyric gift. Auden's influence on the
succeeding generation of poets was immense. Many critics consider Auden a
master of verse; his intellectual rigor and social conscience combined with his
fluid mix of styles and expert craftsmanship make him a paragon of modern
poetics.
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Say this city has ten milion souls.
Some are living in mansions, some are living in holes:
Yet there’s no place for us, my dear, yet there’s no place for us
Once we had a country and we thought it fair.
Look in the atlas and you’ll find it there:
we cannot go there now, my dear, we cannot go there now.
In the village churchyard there grows an old yew
Every spring it blossoms anew:
Old passports can’t do that, my dear, old passports can’t do that
The consul banged the table and said:
“If you’ve got no passport you’re official dead”
But we are still alive, my dear, but we are still alive
Went to a committee: they offered me a chair
Asked me politely to return next year
But where shall we go today, my dear, but where shall we go today?
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Came to a public meeting: the speaker got up and said:
“If we let them in, they will steal our daily bread”
He was talking of you and me, my dear, he was talking of you and me
Thought I heard the thunder rumbling in the sky:
It was Hitler over Europe, saying: “They must die”
O we were in his mind, my dear, o we were in his mind
Saw a poodle in a jacket fastened with a pin
Saw a door opened and a cat let in
But they weren’t German jews, my dear, they weren’t German jews
Went down the harbour and stood upon the quay
Saw the fish swimming as if they were free
Only teen feet away, my dear, only teen feet away
Walked through a wood, saw the birds in the trees:
they had no politicians and sang at their ease:
They weren’t the human race, my dear, they weren’t the human race
Dreamed I saw a building with a thousand floors
A thousand windows and a thousand doors
Not one of them was ours, my dear, not one of them was ours
Stood on a grea plain in the falling snow
Ten thousand soldiers marched to and fro
Looking for you and me, my dear, looking for you and me.
"Refugee Blues", by W. H. Auden, was published in Autumn 1939. It is a typical
example of the poetry of the Thirties, that is a poetry committed and associated
with the social-political problems. The historical context in Europe in those
years was characterised by the rise of nazism and by the Jewish persecutions,
and in fact the central theme of the poem is the situation of the Jewish refugees
who escaped from Germany and emigrated to the United States. This is an
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important element to consider in the analysis of the text: Auden wrote the
poem when he went to live in the U.S.A., in 1939, and he had surely chosen the
structure typical of the old tradition of "Blues", the sad black slave's songs, to
make a parallelism between the conditions of the persecuted, similar in all
times an places. In particular, the structure of the blues is characterised by
rhythm cadenced by the rhyme scheme and by the repetition of a refrain at the
end of every stanzas: all elements used by Auden in his adaptation of a blues
lyrics.
The poems is divided in twelve triplets and every stanza underlines an aspect
of the life of a refugee': the Jews are homeless, exiles and they have no identity,
because they haven't got their passport: the host country in which they live
can't give them a job, because they fear that they will steal the Americans
possibility of work . And from Germany Hitler's order to destroy their
"race"comes.
There is also a particular ironic contrast between the freedom of wild creatures
( the birds, the fish ), and the life of the refugee.The poem ends with a reference
to the peculiar characteristic of the Second World War: the image of the
soldiers looking for the Jews is strong because it is strictly linked to the fear felt
by the persecuted and to the need of hiding of the Jewish people in all Europe.
This poem belongs to the first period , the England period, and it’s an example
of his political committement.
He chooses the poetic form of the blues, a sad song invented by afro-americans,
in which they contemple their sad situation.
The speaker is a refugee, someone who is forced to leave his country, a german
jew: he expresses his sorrow for his situation.
The language is simple, colloquial, we have the impression that the refugee is
probably speaking to another jew.
About the form of this poem, we can see that there are twelves stanzas
composed by three lines, riming aab; the subject is omitted, and typical of this
poem is that the last line of each stanza is a sad comment of the two previous
lines, and this comment is repeated two times, broken in the half by “My dear”,
a repetition that became a refrain that underline this bad situation.
In each stanzas we have a different theme concerned to the situation of
someone that isn’t view as a normal human being:
1st stanza: they are homeless
2nd stanza: they’re not accepted by his country
3rd stanza: they have no passport
4th stanza: they’re still alive
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5th – 6th stanzas: they show the problems linked to incomprehension: they
talk about the attitude of the politicians and the population, that doesn’t help
them because they’re afraid of losing their job
7th stanza: they notice that also Hitler is thinking of them
8th–9th–10th stanzas: there is the comparaison between animals (free) and
jews (slaves): they are worst than animals
11th stanza: again the fact that they are homeless
12th stanza: the poem end with the image of a concentration camp: when it
was written, in 1939, this image were unfortunately becoming true.
Jews have lived in Europe for nearly 2,000 years. Throughout that time they
have frequently experienced racist hostility and persecution. In the 1920s,
German Jews began to face such anti-Semitism from the Nazi (Nationalist)
political party, led by Adolf Hitler. When he came to power in 1933, he
introduced laws which, step by step, deprived German Jews of their human
rights; after 1939 the Nazis organised a systematic programme to deprive
them of their lives as well. This included forming death squads who, under
cover of the Second World War, hunted down Jews (especially in Poland
and Russia) in order to kill them.
In the 1930 many German Jews looked for refuge - became refugees abroad. At first they were received kindly, but as war approached many
countries became reluctant to take them, at least in large numbers, and made
immigration more difficult.
WH Auden does what a blues writer would do: takes a single main theme
and makes variations on it, leading to a particularly powerful finale. The
theme of this 'song' is the abuse of human rights experienced not only by
German Jews but by other Jews and by refugees anywhere.
”Some are living in mansions, some in holes”: but no home at all for the
refugee.
”Once we had a country”: now, not only no home, but no country either. In
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the Jews' case, since the exodus from Palestine in the 1st century, many had,
where and when they could, taken the nationality of whichever country they
grew up in. From the end of the 19th century many Jews hoped to emigrate
to Palestine, but this was not easy: the country was also the home of Arab
Palestinians, and Palestine itself had long been run by foreigners. (From
1922 till 1948, the administration of Palestine was British.)
”Old passports”: out of date and officially invalid and non-renewable for
Jews.
”The consul”: representing a country to which the refugees wanted to travel.
”a committee”: officially set up to try to help refugees, but with its hands
tied politically.
”a public meeting”: one of a number of such meetings held in countries
receiving Jewish immigrants - there was resistance to strangers 'stealing our
jobs'.
”they must die”: it is generally agreed that Hitler gave an order to
exterminate Jews, for whom he held a lifetime's hatred.
”poodle in a jacket”: the Jews were treated as lower than animals - and later
the Nazi officials would speak of them as sub-human.
”fish swimming as if they were free”: even animals seem to have more
freedom than the Jewish refugees.
”no politicians”: the decision to destroy the Jews was a political decision; a
decision to go to war is a political decision.
”a building with a thousand floors”: copious accommodation? A vast
ghetto? An image of Babel, and the many races of the world? None has
room for the Jews.
”ten thousand soldiers”: troops looking for Jews to send them to labour
camps, from which few emerged? Or, later, the death squads sent to find
Jews and kill them? Either way, this 'song' arrives at its terrifying ending:
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the refugees are being deliberately hunted down, and, as the preceding
tension-building stanzas have made clear, they have nowhere at all to go.
L’Italia dopo il 1° dopoguerra.
Fra i vincitori della prima guerra mondiale l’Italia era la nazione più fragile, sia perché
politicamente era «nata» da poco più di mezzo secolo, sia perché la sua economia era debole
anche prima della guerra, sia per il grande divario tra il Nord e il Sud del Paese.
Le condizioni in cui si trovò il nostro paese sono quindi immaginabili: una crisi generale dell’economia,
l’inflazione “galoppante”, i prezzi che salivano alle stelle mentre gli stipendi restavano praticamente inalterati,
e la disoccupazione, che nel 1919 raggiunse i 2 milioni e che nel 1921 era aumentata di sei volte rispetto l’anno
precedente.
I contadini, a cui era stata promessa la terra, erano andati al fronte, ma quando erano tornati
avevano provato una cocente delusione: finita la guerra, niente terra ai cittadini. Come
conseguenza, si verificò l’immediata esplosione dei moti agrari: inquadrati nelle Leghe Rosse
(socialcomuniste) e nelle Leghe Bianche (cattoliche), i lavoratori dei campi occuparono le
terre, chiedendo a gran voce l’attuazione della riforma agraria. Le Leghe Rosse, in
particolare, si battevano anche per risolvere la questione dei braccianti agricoli (cioè i
lavoratori stagionali) che, essendo privi di un lavoro sicuro, erano stati i primi ad essere
colpiti dalla crisi dell’agricoltura.
Gli operai, gran parte dei quali non aveva partecipato alla guerra perché più utili nelle
fabbriche per la produzione bellica, premevano ugualmente per rivendicare maggiori diritti e
ottenere miglioramenti salariali. La media e piccola borghesia non si trovava in condizioni
molto migliori: impiegati, professionisti, commercianti, artigiani, coltivatori diretti e piccoli
proprietari di immobili si trovarono gravati di tasse e con entrate insufficienti a fronteggiare
l’inarrestabile aumento dei prezzi; anche per queste categorie la crisi economica e l’inflazione
significarono spesso il fallimento.
Le piccole industrie erano senza capitali e con un mercato dei consumi che precipita sempre
di più a picco per la poca liquidità circolante nella popolazione che ha nelle sue file
4.500.000 di ex combattenti senza lavoro.
A forte rischio fu perfino il rimborso dei prestiti di guerra (Buoni del Tesoro) sottoscritti dai
risparmiatori.
I reduci, soprattutto gli ufficiali di complemento, costituivano un’alta categoria che aveva
buone ragioni per lamentasi. Innanzitutto, dopo 4 anni di guerra, trovarono grandi difficoltà
a reinserirsi nella vita “civile” e a trovare un posto di lavoro; questi giovani, inoltre, si
sentirono guardati con malcelato disprezzo proprio da quegli “imboscati” che, mentre loro
combattevano al fronte, avevano approfittato per costruirsi delle cospicue fortune attraverso
ogni tipo di speculazione. Al loro rientro, le sinistre scatenarono inoltre la «caccia ai reduci e
agli ufficiali»: a loro, in pratica, si rimproverava di aver voluto la guerra e di avervi trascinato
gli operai e i contadini, mentre sappiamo che la decisione dell’intervento era stata presa da
un’esigua minoranza di Italiani.
Sono tanti questi malcapitati, tutti appartenenti alla classe media. Tutti in preda alla più nera
disperazione: una mina vagante questa categoria che vede davanti ai suoi occhi la grande
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industria e le banche rifiutarsi di accollarsi i debiti nonostante gli ingenti profitti fatti con la
guerra; e ha -anche questa categoria- la netta impressione di essere stata tradita, come i
reduci.(da notare che tutto questo sta accadendo contemporaneamente anche in Germania)
La soluzione che adottò il governo per far fronte ai debiti e alle spese sostenute in guerra era
stata quella di aumentare le tasse; con la conseguenza di far aumentare il costo della vita e
bloccare ulteriormente gli investimenti produttivi.
Di fronte a questo disagio generale spiccava il benessere dei grandi proprietari terrieri, gli
agrari, dei grandi industriali che con la guerra avevano fatto affari d’oro, e di tutti coloro che,
“imboscandosi” durante il conflitto, si erano improvvisamente arricchiti col “mercato nero”:
costoro furono sprezzantemente chiamati pescicani.
Una vittoria “mutilata”.
Col Patto di Londra l’Italia aveva deciso di entrare in guerra a condizione che poi le
venissero assegnati dei compensi territoriali; alla Conferenza di Parigi, invece, aveva
ottenuto “solo” il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia e l’Istria con la città italiana di
Pola; per il resto, niente compensi coloniali e, soprattutto, niente Dalmazia.
Per questo motivo, da più parti si cominciò a parlare di vittoria mutilata, ed ebbe origine la
questione adriatica, che costituì il primo serio problema politico con cui dovette fare i
conti il governo e che pose l’uno contro l’altro i nazionalisti italiani e jugoslavi, non meno
intolleranti dei primi.
La Dalmazia, se si eccettua la città italiana di Fiume, aveva una popolazione in maggioranza
slava, quindi era stata assegnata alla Jugoslavia; il primo ministro Nitti
Aveva ordinato che Fiume venisse evacuata dalle nostre truppe ma la decisione si scontrò
con l’irriducibile opposizione dei nostri nazionalisti, che ebbero buon gioco ad eccitare il
risentimento di gran parte dell’opinione pubblica. A questo punto Gabriele D’Annunzio si
mise alla testa di un gruppo di legionari e occupò Fiume (1919): per la prima volta nella
nostra storia militare un reparto dell’esercito aveva agito contro gli ordini del governo.
Questo si dimise e il re Vittorio Emanuele III affidò al vecchio Giovanni Giolitti l’incarico di
costituirne un nuovo. Firmò con la Jugoslavia il trattato di Rapallo, col quale l’Italia
rinunciava ad ogni pretesa sulla Dalmazia, mentre la Jugoslavia riconosceva che l’Istria
doveva considerarsi una terra italiana. Giolitti intimò a D’Annunzio di sgombrare Fiume, e al
rifiuto del “poeta soldato” lo costrinse a farlo inviandogli contro l’esercito regolare: la
“questione adriatica” era risolta, ma il governo si attirò le ire dell’estrema Destra.
I Partiti italiani.
La novità politica del nostro dopoguerra era stata l’avanzata dei grandi partiti “di massa” alle
elezioni del 1919: quello socialista e quello popolare (cattolico), mentre i liberali erano calati.
A questo punto ci viene spontanea una considerazione: se socialisti e popolari si fossero
uniti, o se uno dei due partiti avesse formato una coalizione coi liberali, probabilmente non ci
sarebbe stata “la marcia su Roma”, perché l’Italia avrebbe avuto un governo appoggiato da
una solida maggioranza. L’obiezione, in teoria, non fu una grinza, ma la realtà del tempo era
ben diversa: ambedue i partiti, infatti, apparivano scarsamente compatti, e nei loro confronti
l’opinione pubblica era divisa.
Il Partito Socialista fu fondato nel 1892. I socialisti erano stati contrari all’intervento
dell’Italia in guerra, ma l’opinione pubblica li accusava di avere anche sabotato la guerra:
questa accusa tolse loro un gran numero di voti soprattutto dei reduci.
Il partito, inoltre, era profondamente diviso fra riformisti e rivoluzionari: questi ultimi, in
seguito ad una scissione avvenuta a Livorno nel 1921, costituirono il Partito Comunista
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Italiano. Infine anche i comunisti italiani si proponevano di abbattere il potere della
borghesia e di instaurare la dittatura del proletariato, secondo l’esempio sovietico.
Il Partito Popolare era stato fondato nel 1919 dal sacerdote Luigi Sturzo; la nascita del
nuovo partito fu importante perché i cattolici, che in base al famoso divieto di Pio IX si erano
astenuti dal partecipare alla vita politica, ora vi si affacciavano con un proprio partito e dei
propri sindacati. Anche i popolari, tutta via, erano divisi tra progressisti, moderati e
conservatori.
Le altre formazioni politiche (liberali, democratici, repubblicani, radicali) non erano dei veri
e propri partiti organizzati: si trattava, piuttosto, di “correnti” che spesso non si formavano
in base a un preciso programma politico, ma al seguito di un influente personaggio.
Sul versante di destra si affermava un’altra forza politica, poco numerosa ma molto
combattiva: erano i nazionalisti, che avevano contribuito in modo determinante a trascinare
l’Italia nella guerra, e protestavano a gran voce per la “vittoria mutilata”; dal loro
atteggiamento, nettamente ostile al blocco delle sinistre, ebbe origine un nuovo partito:
quello fascista.
Benito Mussolini.
Figlio di un fabbro, si avvicinò da giovanissimo al socialismo, anche per l’influenza del padre.
Conseguito il diploma di maestro nel 1901, fuggì in Svizzera l’anno successivo per sottrarsi al
servizio militare e vi rimase fino al 1904, segnalandosi come agitatore politico e attivista
anticlericale. Rientrò in Italia, dove esercitò l’insegnamento fino a quando, nel 1909, si
trasferì a Trento avviandosi all’attività giornalistica ( fu direttore del settimanale “L’avvenire
del lavoratore”). Tornato a Forlì, vi diresse la federazione socialista provinciale e il
settimanale “La lotta di classe”. Nel 1911 fu tra i capi delle violente proteste popolari condotte
in Romagna contro la guerra di Libia e venne condannato a 5 mesi di carcere.
Al congresso del Partito Socialista Italiano di Reggio Emilia (Luglio 1912) Mussolini si
impose come uno dei leader dell’ala rivoluzionaria e nel dicembre fu nominato direttore del
quotidiano socialista “Avanti!”. Alla vigilia della I guerra mondiale si schierò apertamente
dalla parte degli interventisti, scelta che provocò la sua espulsione dal partito e lo privò della
direzione dell’”Avanti!”. Fondò un nuovo quotidiano, “Il popolo d’Italia”, dalle cui pagine
condusse una vivace condusse una vivace battaglia a favore dell’intervento. Arruolatosi come
volontario nel settembre del 1915, partecipò al conflitto sino al febbraio del 1917, quando
venne ferito.
Nel marzo del 1919 fondò a Milano i Fasci di combattimento, che derivano il nome da un
antico simbolo romano, il fascio littorio. Il movimento (che era nazionalista e antiliberale,
ma avanzava rivendicazioni tipiche dei gruppi socialisti, come la giornata lavorativa di 8 ore)
ottenere l’appoggio di importanti gruppi finanziari, quali l’Ansaldo e l’Iva.
Nel 1921, con la costituzione del Partito Nazionale Fascista, Mussolini abbandonò le aperture
sociali del programma del 1919 e pose l’accento sulla difesa dello stato e
sull’antiparlamentarismo, trovando seguaci in particolare tra i reduci di guerra, i gruppi
giovanili e i ceti medi. Non è difficile capire come, in un momento di generale confusione
come quello che l’Italia attraversava, quelle idee estremamente chiare (anche se aberranti)
potessero far presa sulla massa degli scontenti.
Presentatosi invano alle elezioni del 1919, fu eletto deputato nel 1921. Dopo la marcia su
Roma (28 ottobre 1922), fu designato da Vittorio Emanuele III presidente del Consiglio, con
l'incarico di formare il nuovo governo. Il passaggio al vero e proprio regime fascista avvenne
dopo che Mussolini rivendicò alla Camera la responsabilità politica dell'assassinio del
deputato socialista Giacomo Matteotti (discorso del 3 gennaio 1925), cui fece seguito una
serie di provvedimenti che annullarono il precedente sistema liberaldemocratico.
Sotto l'autorità del duce (titolo che gli fu attribuito dopo la marcia su Roma), il ruolo e la
presenza dell'unico partito autorizzato, il Partito nazionale fascista, divenne preponderante
nella società e nelle istituzioni. Strumento nelle mani di Mussolini, da cui dipendeva la scelta
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del segretario, il partito presiedeva a molteplici associazioni giovanili, studentesche,
ricreative,
culturali
e
ad
enti
parastatali.
Durante il suo governo, Mussolini stipulò con la Santa Sede i Patti Lateranensi (1929), che
sancirono la conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa, dopo mezzo secolo di contrasti;
intraprese quindi una politica estera che realizzò le sue ambizioni espansionistiche e
colonialistiche con la conquista dell'Etiopia (1935-36), e che appoggiò militarmente il
generale
Francisco
Franco
nella
guerra
civile
spagnola
(1936-1939).
Dopo la metà degli anni Trenta il suo ruolo di mediatore negli equilibri europei, che gli era
valsa la stima dei leader inglesi, si esaurì anche per effetto dell'aggressiva politica della
Germania nazista, nella cui sfera di influenza Mussolini finì con l'entrare. In quest'ottica si
spiega la promulgazione, da parte del regime fascista, delle leggi di difesa della razza, con le
quali a partire dal 1938 gli ebrei italiani furono messi al bando dalla pubblica
amministrazione,
dalla
scuola,
dall'esercito,
dalla
vita
civile.
Mussolini volle rafforzare ulteriormente i buoni rapporti con Hitler, sottolineati dalle
trionfali accoglienze che vennero riservate al Fürher nella visita compiuta in Italia nel
maggio del 1938. In quell'anno Mussolini accelerò il programma di militarizzazione nella
prospettiva di un conflitto che gli eventi internazionali annunciavano come imminente.
Come mossa correlata alla politica espansionistica tedesca, decise l'invasione dell'Albania
(aprile 1939), a cui seguì nel maggio la stipula del cosiddetto Patto d'acciaio (vedi Potenze
dell'Asse) che legava militarmente e politicamente l'Italia alla Germania.
L'ingresso dell'Italia nel conflitto mondiale fu voluto da Mussolini allo scopo sia di
controbilanciare la supremazia tedesca, esaltata dai risultati conseguiti con l'occupazione
della Polonia e della Francia, sia di emulare Hitler su fronti meno impegnativi, nei quali
presupponeva di ottenere facili vittorie che gli consentissero di trattare alla pari con la
Germania in merito alla nuova sistemazione dell'Europa. Alla base di tale ipotesi agiva in lui
la convinzione che la guerra si sarebbe conclusa rapidamente, non appena la Gran Bretagna,
isolata e sottoposta a un duro attacco tedesco, avesse intavolato trattative di pace.
Il messaggio lanciato da Mussolini agli italiani il giorno della dichiarazione di guerra alla
Francia e alla Gran Bretagna (10 giugno 1940) era la sintesi di quei contenuti ideologici su
cui il fascismo aveva costruito le sue fortune. Mussolini giustificò l'intervento presentandolo
come un'occasione di lotta dei popoli poveri e laboriosi contro gli stati che detengono il
monopolio di tutte le ricchezze e della finanza mondiale, rivisitando il mito della "nazione
proletaria". In questo modo rilanciava le campagne di stampa impostate sotto il suo
controllo alla fine degli anni Trenta, che irridevano alla borghesia dei paesi democratici
rappresentata come un organismo corrotto e decadente ed esaltavano le presunte virtù
morali e le attitudini guerriere del popolo italiano temprato dal fascismo.
In realtà la guerra segnò sia la fine del fascismo, crollato dopo le numerose sconfitte militari
- che costarono enormi sacrifici umani al popolo italiano - in Grecia, in Africa, nel
Mediterraneo, sia quella del duce. Il 25 luglio 1943 Mussolini fu destituito e fatto arrestare
dal re, che nominò capo del governo il maresciallo Badoglio. Liberato dai tedeschi, Mussolini
organizzò nell'Italia settentrionale la Repubblica di Salò, un regime collaborazionista
sostenuto dai tedeschi. Durante gli ultimi giorni di guerra tentò di fuggire in Svizzera con la
sua amante Claretta Petacci, ma fu catturato dai partigiani a Dongo. Venne giustiziato il 28
aprile 1945 a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, a seguito di un ordine impartito dal
Comitato di liberazione nazionale Alta Italia.
Cala la crisi…
Alle elezioni del 1919 il programma proposto dai Fasci era tale da accontentare un po’ tutti:
diritto di voto alle donne; controllo delle organizzazioni proletarie sulle fabbriche, confisca
dei beni ecclesiastici, abolizione dei titoli nobiliari, condanna dell’imperialismo e proposito
di conquistare anche con la forza ciò che l’Italia non aveva ottenuto dai trattati di pace.
Nessun fascista, comunque, fu eletto e nel 1920 Giolitti formò il governo.
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Mentre cercava di risolvere la questione adriatica, il vecchio statista dovette anche affrontare
la situazione interna del paese: scioperi, assalti ai negozi, occupazione di terre con “cacce” ai
proprietari e uccisioni da parte degli elementi di sinistra, violenze, infine, delle “squadre
d’azione” organizzate dai fascisti, che con la scusa di fermare il “pericolo rosso”,
malmenavano o uccidevano chiunque non fosse fascista.
Il problema più scottante del momento era, comunque, la massiccia occupazione delle
fabbriche da parte degli operai che si erano visti respingere dagli industriali le loro richieste,
fra cui quella di ulteriori aumenti salariali. Gli operai, dunque, occuparono gli stabilimenti e
cercarono di gestirli da soli, e gli industriali si rivolsero immediatamente a Giolitti perché
ponesse fine alla “provocazione”: il capo del governo non si mosse, sempre più convinto di
dover restare neutrale tra i lavoratori e i datori di lavoro.
Giolitti, nel frattempo, continuò a avere contatti con la diplomazia francese e inglese per
mettere a punto il Trattato di Rapallo, e gli avversari lo accusarono di essersene andato
ostentatamente in vacanza. L’azione degli operai, come lui aveva previsto, ebbe termine, e gli
occupanti lasciarono spontaneamente le fabbriche: solo allora il vecchio statista fece da
mediatore tra le due parti, convincendole a firmare un accordo che prevedeva il controllo operaio sulle aziende; questo progetto “impensierì” gli
industriali, spingendoli verso il fascismo.
…ma sale il fascismo
La crisi del Paese cominciò a decrescere, ma proprio a questo punto si intensificarono,
raggiungendo delle punte di inaudita violenza, le “imprese” delle squadracce fasciste.
La prima causa fu lo stesso Giolitti: egli, se non era intervenuto contro gli operai che
occupavano le fabbriche, non aveva neppure agito con fermezza contro gli episodi di violenza
estremista che infestavano il Paese; di conseguenza soprattutto i fascisti, ne approfittarono
per moltiplicare le loro “spedizioni punitive” contro i “bolscevichi”.
I fascisti inoltre proclamavano di voler riportare l’ordine e giunsero perfino a sostituirsi ai
tranvieri e ai ferrovieri in sciopero.
Neppure gli uomini di governo poterono opporsi alla crescente marea fascista, sia perché i
due grandi partiti di massa erano internamente divisi e poco disposti a collaborare, sia
perché lo stesso governo, con Giolitti in testa, non si rese conto del vero pericolo e commise
un errore madornale. L’ottantenne statista, infatti, credeva di poter “assorbire” i fascisti nel
gioco parlamentare, ma non aveva capito che il fascismo non era uno dei soliti partiti: non
solo era organizzato quasi militarmente, ma gli erano anche del tutto estranei i principi di
libertà e di democrazia.
La «marcia su Roma»
Alla ricerca di una solida maggioranza che gli consentisse di governare, nel maggio del
1921 Giolitti indisse nuove elezioni, favorendo le “liste nazionali” che comprendevano
anche dei candidati fascisti;e 35 di questi furono eletti. Le violenze “nere” contro i giornali, le
sedi e le organizzazioni socialcomuniste raggiunsero il culmine. Giolitti, per rimediare in
qualche modo a quel caos, chiese al parlamento i pieni poteri, ma questi gli vennero
rifiutati e lui rassegnò le dimissioni. L’anno successivo quello stesso Parlamento avrebbe
concesso i pieni poteri a Mussolini.
I due successivi governi, presieduti da Bonomi e Facta, non riuscirono a fronteggiare la
situazione e si giunse così al 28 ottobre 1922, quando da varie parti d’Italia i fascisti
iniziarono la marcia su Roma. Le autorità militari che presidiavano la capitale erano
convinte di poter soffocare facilmente la rivolta e chiesero che il governo desse degli ordini
precisi, e per iscritto; il presidente Facta chiese al Re di firmare lo stato d’assedio. Ma
Vittorio Emanuele III rifiutò di firmarlo incaricò Benito Mussolini di costituire un
nuovo governo.
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I pro e i contro
della dittatura.
Arrivato al potere, il
Duce si dimostrò piuttosto abile:
promise di rispettare lo Statuto di far cessare le violenze dei suoi squadristi (che però
continuarono), formò un governo con “soli” 4 fascisti e 10 non fascisti (escludendo i
socialcomunisti) e consentì una certa libertà di stampa.
Mussolini, però, varò anche due nuove “riforme”: creò il Gran Consiglio del Fascismo,
un organismo illegale che qualche tempo dopo avrebbe praticamente esautorato il
Parlamento; poi organizzò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, un vero e
proprio esercito privato del Partito Fascista: vi confluirono i componenti delle squadre
d’azione, ossia le famigerate camicie nere, così dette perché indossavano la camicia nera
degli Arditi, i coraggiosi reparti d’assalto della I Guerra Mondiale. Quindi qualcosa
cominciava a non andare per il verso giusto, ma “ufficialmente” il Duce agiva con pieno
appoggio del Parlamento: era tutto “Legale”, dunque!
Il fascismo si preparò a impadronirsi definitivamente del potere mediante una riforma
elettorale in base alla quale 2/3 dei seggi parlamentari sarebbero stati assegnati al partito
che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti. Alle elezioni del 1924, avendo conquistato oltre il
60% dei suffragi, i fascisti ottennero più di 400 seggi sui 540 disponibili: una maggioranza
schiacciante! Ma come era stata ottenuta una tale vittoria lo disse chiaramente alla camera il
socialdemocratico Giacomo Matteotti: mediante la violenza, l’intimidazione, il controllo
dei voti e l’imbroglio! Pochi giorni dopo la sua ferma e documentata accusa il coraggioso
deputato “scomparve”, rapito da una banda di fascisti. Qualche tempo dopo il suo corpo
veniva ritrovato crivellato di pugnalate.
Il delitto mise in imbarazzo gli stessi ambienti del regime e l’indignazione dell’opinione
pubblica raggiunse il massimo, ma non si tradusse in azione concreta. I deputati
dell’opposizione, guidati dal liberale Giovanni Amendola e dal socialista Filippo Turati,
decisero di abbandonare il Parlamento fino a quando la legalità democratica non fosse
tornata in Italia: era la famosa secessione dell’Aventino, così chiamata in ricordo di
quella che avevano fatto i plebei dell’antica Roma per protestare contro i patrizi.
Col loro gesto, infatti, gli “aventiniani” (ai quali inizialmente si erano uniti anche i comunisti)
si proponevano 2 scopi: dimostrare all’opinione pubblica che il fascismo era moralmente
isolato, e provocare l’intervento del re, che in base allo statuto poteva anche revocare la
nomina ai ministri. Ma il re, ancora una volta, non si mosse,e l’opinione pubblica non reagì
se non con sporadiche manifestazioni di protesta. Dal punto di vista politico, perciò la
“secessione” fu un errore: diede via libera a Mussolini, mentre per abbattere la nascente
dittatura ci sarebbe voluta un’azione molto più energica e concreta. Lo capirono i comunisti,
che preferirono rientrare in Parlamento per combattervi la loro battaglia. Ma ormai era tardi
per tutti.
Il 3 gennaio 1925, il Duce gettava definitivamente la maschera, imponendo al paese, anche
“ufficialmente” la dittatura. E subito se ne videro i risultati: i deputati “aventiniani” furono
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dichiarati decaduti, e quelli che erano rimasti nel Parlamento (soprattutto i comunisti)
vennero perseguitati e incarcerati: contro gli antifascisti si istituirono una polizia segreta e
il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Furono sciolti tutti i partiti (tranne il P.N.F.)
e le organizzazioni sindacali, sostituite con dei sindacati corporativi che comprendevano
sia i lavoratori che i datori di lavoro; il Parlamento fu trasformato in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, mentre venivano
soppressi il diritto di sciopero e la libertà di stampa.
Nelle scuole furono introdotte due nuove materie, la cultura militare e la cultura fascista,
mentre acquistò una grandissima importanza l’educazione fisica: gli Italiani, infatti,
dovevano essere u popolo di atleti e di guerrieri, degni dei loro antenati romani! I giovani
dall’asilo all’Università, vennero inquadrati in organizzazioni di tipo militare, divise in
“legioni”, “centurie” e “manipoli”, come ai tempi dell’antica Roma; e tutti ebbero la loro
divisa: i Figli della Lupa, i Balilla, le Piccole Italiane, i Giovani Fascisti, le Giovani Italiane,
gli Avanguardisti,ecc.
Tra il 1928 e il ’29, infine, l’ultima “riforma” elettorale: alle future “elezioni” si sarebbe potuta
presentare solo la lista del Partito Nazionale Fascista, e agli elettori sarebbe stata lasciata la
“libertà” di approvare quella lista.
Le opere del regime.
La maggioranza della popolazione accettò un tale stato di cose perché non poteva ribellarsi
apertamente, infatti, gli antifascisti erano una minoranza costretta alla clandestinità e
continuamente braccata. Ma c’erano anche altre ragioni. L’Italia, dopo lunghi anni di guerra
e di confusione, era stanca del disordine: e il regime, sia pure con la violenza e in superficie,
aveva riportato l’ “ordine” e la “pace sociale”, impedendo qualsiasi forma di sciopero e di
dissenso; le violenze e la criminalità, beninteso, non erano scomparse, ma i mass-media,
controllati dall’ “alto”, non ne parlavano. Qualsiasi dittatura, anche ai giorni nostri, vi
“dimostrerà” di essere riuscita a debellare la delinquenza:ci vuole così poco, basta non
parlarne!
Il regime, inoltre, aveva dato l’avvio ad un imponente complesso di opere pubbliche,
prime fra tutte le bonifiche.
Importante fu anche l’ampliamento della rete ferroviaria e stradale, con la costruzione
delle prime autostrade; i lavori di rimboschimento; la costruzione dell’acquedotto pugliese e
l’incremento della produzione del grano (la così detta battaglia del grano), che ridusse del
75% le importazioni del cereale, ma ne fece aumentare il prezzo. L’opinione pubblica
apprezzò queste realizzazioni, che del resto venivano ampiamente pubblicizzate, mentre si
nascondeva con altrettanta cura che la situazione economica generale del paese era ancora
difficile.
La propaganda fu un’altra arma molto efficace del regime, che aveva a disposizione la
stampa e la radio: i radioascoltatori e i lettori dei giornali venivano letteralmente bombardati
dalla martellante e capillare propaganda orchestrata dal regime, e come accade ancora oggi
ne rimanevano in gran misura condizionati; anche perché chi tentava di aprire loro gli occhi,
era immediatamente bollato come nemico dell’ “Italia proletaria e fascista” e rischiava la
galera o il confino.
Contribuirono alla passività della popolazione anche alcune spettacolari e importanti
imprese realizzate in quel periodo.
La politica estera fino al 1934
Alcune iniziative in politica estera contribuirono a dare al governo fascista un notevole
prestigio in campo europeo, anche perché il regime imposto in Italia appariva come una
“garanzia” contro il comunismo.
L’11 febbraio 1929, mentre era papa Pio 11°, l’Italia e il Papato firmarono un Concordato, i
così detti Patti Lateranensi: il Papa, che fin dal 1870 si era considerato “prigioniero” dello
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Stato italiano, riconosceva Roma come capitale d’Italia; questa, a sua volta, riconosceva la
sovranità del Papa sulla Città del Vaticano
garantiva la libertà al culto cattolico, l’obbligo dell’insegnamento religioso nelle scuole
italiane e la validità civile del matrimonio religioso.
Un altro “punto” a favore di Mussolini fu il suo iniziale atteggiamento di ostilità verso la
nascente Germania nazista: nel 1934, come vedremo, Hitler aveva tentato di occupare
l’Austria, e le grandi potenze europee non si erano mosse. Ma l’Austria costituiva un comodo
stato-cuscinetto fra l’Italia e la Germania, e Mussolini non esitò a inviarle armi e denaro,
perché resistesse al tentativo di aggressione nazista; quando il cancelliere austriaco Dollfuss
fu assassinato da un complotto di nazisti austriaci, il Popolo di Italia, che ormai era
diventato l’organo ufficiale del regime, uscì con un titolo di fuoco: “che cosa sono i nazisti?
Assassini!”. Facendo seguire i fatti alle parole, Mussolini inviò quattro divisioni alla
frontiera del Brennero, facendo chiaramente capire di essere pronto a difendere
l’Austria: Hitler, al potere solo da un anno, preferì rinunciare all’impresa. L’antifascismo,
dunque, era stato costretto alla clandestinità, ma non per questo aveva cessato di esistere o
di essere combattivo. Tra gli antifascisti di sinistra spiccò, per la sua opera di pensatore
politico, Antonio Gramsci, uno dei fondatori del partito comunista.
Verso un’altra catastrofe: la II Guerra Mondiale
L’Europa delle dittature
Alle drammatiche condizioni della Germania nel dopoguerra si era aggiunta, intorno al 1930,
la spaventosa crisi economica, iniziata negli Stati Uniti, che aveva portato al Paese ben 6
milioni di disoccupati: naturalmente, col crescere delle difficoltà aumentarono anche i
disordini, e molta gente cominciò a sperare in un governo forte e capace di riportare la
tranquillità.
A Monaco di Baviera, nel 1919, l’elemento di maggior spicco del Partito Operaio Tedesco
(socialista) era Adolf Hitler, un ex-imbianchino di origine austriaca; egli, 2 anni dopo lo
trasformò in Partito Nazionale Socialista degli Operai Tedeschi:la nuova formazione
politica venne indicata, più brevemente col nome di nazionalsocialismo o, in forma
ancora più contratta, di nazismo.
Dopo il fallito putsch (golpe) di Monaco, Hitler trascorse un anno in carcere, e ne approfittò
per scrivere La mia battaglia, un libro in cui tracciò il programma del nazismo. Le intenzioni
dei nazisti erano, più o meno, quelle dei loro “camerati” italiani, ma con qualcosa di
peggio.oltre a essere “contro” tutto e contro tutti e a favore della violenza, Hitler rilanciava
l’idea del pangermanesimo, che avrebbe dovuto realizzarsi con la creazione della Grande
Germania; inoltre, “in più” di Mussolini, aveva un’altra aberrante convinzione: rinasceva il
mito della “razza superiore”, che Hitler non aveva inventato, ma che avrebbe portato alle
estreme conseguenze; la razza germanica aveva il preciso compito di dominare sui popoli
“inferiori”, e di eliminare gli Ebrei. Hitler riteneva ciò in base alla discendenza della razza
tedesca da quella Ariana, che secondo lui, faceva parte di quelle popolazioni che per prime
avevano abitato le pianure del Centro Europa, i cosiddetti indoeuropei. Per riconoscere il
perfetto ariano i nazisti mobilitarono falsi scienziati che ricostruirono i tratti somatici tipici
della popolazione tedesca. Il destino del popolo tedesco era il dominio sugli altri popoli, in
particolare sugli Ebrei e sugli Slavi. Egli riteneva infatti che gli Ebrei fossero estranei alla
civiltà europea, poiché le loro origini erano quelle di un popolo di pastori nomadi, non legato
alle regole del vivere sedentario, che era invece l’unico criterio di vita, a suo parere, degno di
essere chiamato civile. Secondo Hitler, gli Ebrei avevano cospirato per distruggere le razze
superiori; essi, a suo dire, erano parassiti che succhiavano le forze ai popoli sani portandoli
alla decadenza. Nel pensiero di Hitler razzismo antisemita e anticomunismo si mescolavano
e si intrecciavano in modo indissolubile.
I partiti democratici tedeschi, deboli e divisi come quelli italiani, non riuscirono a opporsi
validamente al pericolo nazista, che potè dilagare violentemente con le squadracce
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organizzate da Hitler: le S.A. (Sturm Abteilungen = truppe d’assalto) e le non meno
famigerate S.S. (Schutz Staffeln = squadre di protezione), che ripeterono le “imprese” delle
“camicie nere” prendendosela con chiunque non fosse nazista e soprattutto i “rossi”. Anche il
nazismo, appoggiato dagli ambienti militari, dall’alta finanza e dai grandi industriali, iniziò
la sua scalata al potere: nel 1930 vennero eletti nel Parlamento tedesco 107 deputati nazisti, e
il 1 gennaio 1933 il Presidente della Repubblica, Hindemburg, nominò Hitler cancelliere,
ossia capo di governo.
Hitler, ormai in veste di capo
del governo, stringe la mano al
presidente della repubblica.
Alle sue spalle si intravedono
due dei suoi più stretti
collaboratori: Hermann
Goering, a sinistra, e Joseph
Goebbels,
a destra.
Hitler
divenne
anche capo dello
Nasce il Terzo Reich. Morto Hindemburg, Adolf
Stato:
era praticamente nato il Terzo Reich, che nelle intenzioni del suo Fuhrer avrebbe dovuto
dominare il mondo. Il primo “assaggio” di questa nuova politica si ebbe nell’anno seguente
quando, fatto assassinare il cancelliere austriaco Dollfuss, Hitler tentò di annettersi l’Austria.
Il colpo fallì per la decisa opposizione di Mussolini: il dittatore tedesco per il momento
dovette piegarsi e preferì dedicarsi all’opera di ricostruzione del suo Reich. L’economia
tedesca, grazie alle notevoli risorse del territorio e al carattere dei suoi abitanti, compì un
prodigioso balzo in avanti, soprattutto per quando riguarda l’industria.
Contemporaneamente, in contrasto con quanto aveva stabilito il Trattato di Versailles, la
Germania si riarmò facendo delle proprie forze armate una poderosa macchina di guerra. Il
Paese, dunque, era nuovamente in piedi e appariva più minaccioso di prima, mentre le
grandi potenze europee (Francia, Inghilterra e Unione Sovietica) pareva che stessero a
guardare.
Gli antinazisti, intanto, venivano messi a tacere con i soliti sistemi propri a tutte le dittature:
particolarmente feroci furono le persecuzioni e le repressioni scatenate dalla Gestapo
(Geheime Staats Polizei = Polizia segreta di Stato). I più perseguitati, “naturalmente”, furono
gli Ebrei: si cominciò con l’emarginarli dalla società tedesca e si fini per “pianificare” nei
loro confronti la soluzione finale, la totale eliminazione! A tale scopo vennero organizzati i
lager, veri centri di sterminio, nei quali ben 6 milioni di Ebrei sarebbero stati
“scientificamente” assassinati mediante le camere a gas.
Per gli Ebrei e impossibile vivere nella Germania di Hitler
L’emarginazione procede con cautela.
Gli Ebrei tedeschi costituivano la comunità più numerosa, tra quelle presenti in Europa, che
rappresentava il centro dell’ebraismo internazionale. Integrati nella vita sociale, economica e
politica gli Ebrei tedeschi avevano contratto matrimonio con uomini o donne “cristiane” e il
così detto matrimonio misto era un fenomeno che era andato progressivamente aumentando
soprattutto nelle grandi città.
Le leggi di Norimberga del 1935 introdussero nella Germania nazista il crimine di “vergogna
razziale”, cioè gli Ebrei vennero considerati ufficialmente razza inferiore e pericolosa e
cominciò la loro emarginazione: furono vietate loro le professioni di notaio, avvocato,
giornalista, medico affiliato alla Sicurezza Sociale (una specie di servizio sanitario statale),
impiegato della pubblica amministrazione. Il regime nazista procedette gradualmente alle
restrizioni antisemite.
Gli Ebrei sono costretti ad emigrare.
Nel 1938 le restrizioni antisemite subirono un’accelerazione: furono chiusi i giornali e le
associazioni ebraiche, vennero vietati altri mestieri, fu proibito frequentare cinema e teatri,
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percorrere alcune strade. La popolazione ebraica venne sfrattata dalle proprie case e
costretta a vivere in appositi quartieri (detti ghetti) e fu obbligata a pagare
complessivamente una tassa di un miliardo di marchi. Ebbe inizio la deportazione di
numerose personalità della cultura nei campi di concentramento di Sachsenhausen,
Buchenwald e Dachau. Queste limitazioni ebbero come conseguenza l’emigrazione di gran
parte della popolazione ebraica che si rivolse agli “archivi centrali degli Ebrei tedeschi” per
rintracciare parenti residenti nei Paesi stranieri dove erano intenzionati ad andare.
Ha inizio la deportazione.
Con l’inizio della II Guerra Mondiale, nel 1939 si completò l’isolamento della popolazione
ebraica: fu proibito di uscire di notte, fu richiesta la consegna di tutti gli apparecchi radio e
telefonici, divenne obbligatoria sui documenti personali la lettera J, iniziale di “Juden”
(Giudeo, cioè Ebreo), e fu imposta l’applicazione sugli abiti della stella gialla, simbolo
ebraico. Gli archivi degli ebrei tedeschi vennero utilizzati anche dalla polizia di Stato per
ottenere informazioni su chi era sospettato di avere antenati ebrei e per completare il
censimento della popolazione ebraica. Cominciò quindi la deportazione, accompagnata alla
confisca dei beni, degli Ebrei tedeschi in vista della “soluzione finale”, la loro totale
eliminazione. Benché non fosse ben chiaro l’esito delle deportazioni, di fatto lo sterminio
immediato, pochi tra gli ebrei si illudevano del loro destino. Le deportazioni provocarono
anche proteste nella popolazione più sensibile e molti tedeschi domandarono alle autorità “di
chiudere un occhio” per un amico o un collega. Particolarmente forti furono le pressioni dei
partner “cristiani” per ottenere la liberazione del marito o della moglie di origine ebraica. Tra
la popolazione tedesca, accanto a chi ricorse alla delazione, alla vigliaccheria o alla semplice
indifferenza, ci fu anche chi rischiò la propria vita con atti di solidarietà verso amici e
conoscenti perseguitati dal regime perché Ebrei.
Lo sterminio come strumento del nuovo ordine nazista
Dopo 2 anni dall’inizio della guerra, quando ormai le armate tedesche erano padrone di gran
parte dell’Europa, si intensificò l’attuazione del Nuovo ordine europeo attraverso
l’eliminazione programmata e sistematica di tutti coloro che per motivi politici e razziali
erano considerati degli ostacoli alla diffusione del nazionalsocialismo. Furono costruiti campi di concentramento con strutture appositamente studiate per
l’eliminazione di Ebrei, Slavi, oppositori politici.
Tristemente famoso fu il campo di Aschwitz, in Polonia. Comandante di Aschwitz fu Rudolf
Hoess. Qui inizialmente vennero liquidati i prigionieri politici russi che inizialmente vennero
uccisi dai plotoni di esecuzione. Poi si scoprì che poteva essere impiegato un gas, il Cyclon B,
che veniva solitamente usato nel campo per la disinfestazione dei parassiti.
La gassazione, ad Aschwitz, venne effettuata nelle celle di detenzione del block 2; la morte
sopravveniva nelle celle stipate, subito dopo l’immissione del gas. Un breve grido, subito
soffocato e tutto era finito. La riuscita dell’esperimento diede un grande sollievo ad Hoess,
perché in questo modo avrebbe potuto evitare le fucilazioni di massa che lo atterrivano.
Nella primavera del 1942, nello stesso campo, giunsero i primi trasporti di Ebrei dall’Alta
Slesia, tutti individui da sterminare. In questa primavera centinaia di uomini e donne nel
fiore degli anni andarono così alla morte, senza per lo più intuire nulla.
Una delle
camere a gas
nel lager di
Mauthausen
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Nei campi di concentramento si vive per morire.
I campi di concentramento vennero costruiti in quasi tutti i Paesi occupati ai nazisti. Oltre ai
campi base, circa una quarantina, c’erano alcune centinaia di campi minori: tra i primi
Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau in Germania, Auschwitz e Treblinka in Polonia,
Mauthausen in Austria. In Italia, quando dopo il 1943 i Tedeschi occuparono i territori
centrosettentrionali, furono organizzati i campi di Fossoli (Modena), Griese (Bolzano) e la
Risiera di San Sabba presso Trieste. Questi erano campi di custodia e di transizione, cioè di
passaggio, verso quelli tedeschi.
Un campo di concentramento sorgeva in una zona isolata e malsana ed era circondato da una
barriera di filo spinato percosso da corrente elettrica ad alta tensione, talvolta anche da
fossati e campi minati, nei punti strategici c’erano torrette di sorveglianza, con mitragliatrici.
Ogni campo comprendeva un grande piazzale per le adunate e le pubbliche punizioni, gli
edifici per il comando e l’amministrazione, un infermeria, gli alloggi per le milizie e le
baracche per i prigionieri. Queste ultime erano generalmente di legno e, lunghe 50 m e
larghe 7-8 m, ospitavano un’incredibile numero di prigionieri.
Il controllo e la direzione dei campi era affidata alle SS, aiutate da individui scelti tra i
prigionieri stessi, in genere criminali comuni e tutti coloro che erano disponibili a trattare i
prigionieri con la stessa brutalità delle SS. Particolarmente malvisti erano i kapò ai quali era
affidato il comando dei distaccamenti di lavoro. Il generale tedesco O.Pohl organizzò lo
sfruttamento degli internati che venivano fatti lavorare nelle fabbriche, in cambio di una
paga che veniva requisita dalle SS. I prigionieri, infatti, erano privati di tutto ciò che potesse
costituire fonte di guadagno: non solo oggetti personali come occhiali e orologi, ma anche
dentiere e cappelli. Con questi ultimi venivano fabbricate suole di feltro.
Quando non erano le camere a gas a provvedere allo sterminio degli internati, contribuivano
ai decessi il supersfruttamento nel lavoro e le sevizie e le brutalità a cui venivano sottoposti i
prigionieri, tra cui gli “esperimenti”scientifici per provare la resistenza fisica dell’uomo o la
sua reazione a nuovi farmaci.
La denutrizione e le malattie fecero il resto.
nella terrificante
immagine, alcuni
oggetti fabbricati
nei campi di
sterminio
tedeschi usando
pelle umana.
L’annessione dell’Austria riuscì pienamente nel 1938, quando la piccola repubblica fu
occupata dalle truppe tedesche: gli austriaci erano di stirpe tedesca, quindi “dovevano” far
parte della Grande Germania! Questa volta lasciò fare anche a Mussolini, che nel frattempo
si era accostato alla Germania. Quindi fu la volta della Cecoslovacchia, a cui il fuhrer
strappò la regione dei Sudeti, abitata da 3 milioni di Tedeschi; allora Mussolini propose
all’Inghilterra, alla Francia e alla Germania di partecipare alla Conferenza di Monaco
(1938): però benché si dovesse discutere proprio della questione cecoslovacca, non fu inviato
il governo di Praga!
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Hitler ebbe partita vinta: anche i Sudeti andarono a far parte della Grande Germania, e la
Francia e l’Inghilterra si illusero di aver soddisfatto una volta per tutte le ambizioni del
dittatore tedesco, e di avere assicurato la pace all’Europa.
L’Italia fascista
Lo stesso Mussolini che nel 1911 aveva scontato un anno di carcere per essersi opposto
energicamente alla conquista della Libia ora aveva deciso che anche l’Italia dovesse avere un
proprio impero, proprio quando gli altri imperi coloniali a scricchiolare. Approfittando di
alcuni incidenti successi alla frontiera fra la Somalia italiana e l’Etiopia, Mussolini fece
aggredire quel millenario impero, costringendo il
suo negus Hailè Selassiè (1930-1975) a rifugiarsi in Inghilterra: l’Etiopia che con la Liberia e
l’Egitto era uno dei tre Stati africani indipendenti, in pochi mesi(1935-36) divenne un
possedimento italiano, e Vittorio Emanuele III ne diventò l’imperatore. Nel 1938 si formò
l’Africa Orientale Italiana, che riuniva, oltre all’Etiopia, l’Eritrea, la Somalia e
l’Oltregiuba, ma con amministrazioni separate.
A questo punto però la Francia e l’Inghilterra, che si vedevano minacciate nei loro interessi
in Africa, appoggiarono l’esule negus e fecero in modo che la Società delle Nazioni decretasse
contro l’Italia le così dette sanzioni economiche: gli Stati membri della Società, cioè, non
avrebbero dovuto commerciare col nostro Paese. Le sanzioni, in realtà, servirono soltanto al
gioco di Mussolini, sia perché non tutti i paesi le rispettarono, sia perché il Duce le usò per
far credere che l’Italia era ingiustamente perseguitata e minacciata.
A questo punto non è difficile capire perché l’Italia fascista si accostò alla Germania
nazista: nello stesso 1936, infatti, furono firmati tra i due Stati numerosi accordi culminati
nel così detto Asse Roma-Berlino, che consentì a Hitler di sviluppare indisturbato la sua
politica di aggressione all’Europa. Da quel momento il dittatore italiano scivolò sempre più
verso il ruolo di “controfigura” del tiranno nazista, e ne diede una chiara dimostrazione nel
1938, varando delle leggi razziali contro gli Ebrei italiani. La Chiesa si schierò contro
queste disposizioni fasciste.
L’aggressione all’Europa
Nel maggio del 1939 le truppe tedesche invasero ancora una volta la Cecoslovacchia che, direttamente o in forma indiretta, passò sotto il controllo del Terzo Reich: la
Francia, l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e anche gli Stati Uniti “protestarono
energicamente”. Ma non si mossero!
E fu la volta di Mussolini: per “pareggiare” il conto con l’aggressione tedesca alla
Cecoslovacchia, le truppe italiane occuparono l’Albania; Vittorio Emanuele III, già re
d’Italia e imperatore d’Etiopia, divenne anche re d’Albania!
Contemporaneamente, vennero stretti maggiormente i legami tra Hitler e Mussolini: l’Asse
fu trasformato in un Patto d’acciaio col quale i due governi si impegnavano ad aiutarsi
reciprocamente, in caso di una guerra non solo difensiva, ma anche offensiva.
Il 23 agosto la Germania nazista e la Russia comunista firmarono un patto di non
aggressione con cui le due potenze stabilivano le rispettive zone d’influenza in Europa!
L’accordo costituì un duro colpo per il fronte antifascista, che rischiò di sfaldarsi: in Italia, ad
esempio, i socialisti ruppero il patto di “unità d’azione” con i comunisti, che in Francia
vennero addirittura dichiarati i fuori legge. Ma l’accordo significava anche che Hitler, con le
spalle ormai al sicuro,non si sarebbe più fermato. E lo dimostrò una settimana più tardi!
La II Guerra Mondiale
1939: continua l’aggressione
col trattato di Versailles le potenze vincitrici avevano commesso anche il grave errore di
“spezzare” la Germania mediante il corridoio polacco, che si incuneava nel suo territorio
giungendo fino al mare. E il 1° settembre 1939 Hitler fece invadere la Polonia, che, si era
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rifiutata di cedergli il famoso corridoio,due giorni dopo (3 settembre 1939) Gran Bretagna
e Francia dichiararono guerra alla Germania.
Questo fu l’atto che diede inizio alla II Guerra Mondiale, che avrebbe sconvolto il
mondo per 6 anni (1939-1945) coinvolgendo ben 61 nazioni.
I Polacchi, innanzitutto, opposero un’accanita resistenza all’aggressione tedesca, e la Francia
e l’Inghilterra si schierarono subito al loro fianco. Mussolini, d’accordo col dittatore
nazista, dichiarò la non-belligeranza italiana: il nostro paese,cioè, per il momento non
entrava in guerra, ma neppure si dichiarava neutrale.
I primi mesi di guerra videro Germania e Unione Sovietica all’assalto dell’Europa nordorientale. La prima vittima fu la Polonia, aggredita ad ovest dai Tedeschi e a est dai Sovietici,
che rivaleggiarono in ferocia: mentre i panzer (= carri armati) di Hitler facevano
letteralmente a pezzi la cavalleria polacca; la Polonia venne divisa tra i due aggressori.
L’Unione Sovietica, quindi, occupò le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania),
che da allora anno fatto parte dell’U.R.S.S.; quindi aggredì la Finlandia, che però oppose una
disperata resistenza: benché sconfitti, i Finlandesi riuscirono a conservare l’indipendenza.
1940: la “pugnalata” alla Francia
Nel frattempo la Francia si era limitata a tenere d’occhio le truppe tedesche schierate sulla
linea Sigfrido e a completare le fortificazioni della linea Maginot, che correvano lungo
tutto il confine tra Francia e Germania e che i Francesi ritenevano invalicabili. Ma, il 10
maggio 1940 Hitler effettuò una mossa a sorpresa violando brutalmente la neutralità del
Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo che vennero invasi in soli 5 giorni. Con questo
espediente, che andava contro a tutte le regole internazionali, le truppe tedesche aggirarono
da nord la linea Maginot e travolsero l’esercito francese. Un contingente britannico, che si
trovava in Francia per dare man forte agli alleati, fu accerchiato intorno a Dunkerque e riuscì
a riattraversare la manica solo a costo di gravissime perdite.
Di fronte alle fulminee vittorie tedesche, Mussolini decise l’intervento, e così il 10 giugno
1940 l’Italia si schierò a fianco della Germania e le truppe italiane attaccarono la
Francia, già messa in ginocchio dall’esercitò tedesco. Il 14 giugno 1940 le truppe tedesche
sfilarono trionfalmente lungo i viali di Parigi. Il 22 dello stesso mese il governo di destra
presieduto dall’ottantaquattrenne Pétain firmò l’armistizio. Mentre il nord della Francia
veniva posto sotto il diretto controllo della Germania, i nazisti consentirono a Pétain di
formare nella cittadina di Vichy un governo “collaborazionista”, cioè formato da ministri
francesi, ma pronto a “collaborare” attivamente con i Tedeschi e privo di reale autonomia.
La”battaglia d’Inghilterra”
Con la sconfitta della Francia Hitler aveva portato a termine la prima parte del suo progetto:
il “Grande Reich” era una realtà, il secolare nemico era umiliato e la sconfitta del 1918 vendicata. Restava da realizzare il secondo obiettivo del piano “Spazio vitale”:
aggredire l’Unione Sovietica infrangendo il Patto Molotov-Von Ribbentrop. Per riuscire il
Fuhrer riteneva necessario trattare la pace con la Gran Bretagna, la sola potenza europea
rimasta temibile e ostile, dopo la sconfitta della Francia.
Il gruppo dirigente inglese guidato dal conservatore Winston Churchill, respinse invece
ogni trattativa e ottenne dal Paese l’impegno unanime di resistere a costo di qualunque
sacrificio contro il nemico nazista. Hitler, visto fallire il suo piano, scatenò allora l’operazione
chiamata in codice “Leone marino”, un piano alternativo già pronto che aveva un obiettivo
ambiziosissimo: l’invasione dell’Inghilterra.
Per realizzare lo sbarco di intere divisioni tedesche sull’isola, tuttavia, l’aviazione tedesca, la
Luftwaffe, avrebbe dovuto conquistarsi il dominio dei cieli, compensando l’inferiorità della
marina germanica rispetto a quella britannica e annientando la non meno attrezzata
aviazione inglese, la R.A.F. (Royal Air Force). Si scatenò così tra le due aviazioni la prima
grande battaglia aerea della storia: la “Battaglia d’Inghilterra”, appunto. Per tutta l’estate
del 1940 si susseguirono micidiali bombardamenti che decimarono e terrorizzarono la
popolazione delle città inglesi, mentre in cielo trovavano la morte centinaia di piloti. Ma la
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resistenza della Raf riuscì a bloccare la Luftwaffe e alla fine costrinse lo Stato Maggiore
tedesco ad abbandonare il progetto di invasione.
Mentre l’aviazione inglese cominciava ormai a bombardare a sua volta le città tedesche, fu
chiaro che, per la prima volta, il Fuhrer aveva mancato uno dei suoi principali obiettivi: la
“guerra–lampo” era fallita; il conflitto si sarebbe trascinato molto più a lungo del
previsto.
Dopo l’intervento dell’Italia in Francia, che si concluse con la “vittoria” della Francia,
Mussolini ordinò allora di attaccare i possedimenti inglesi in Africa, che in molti casi
confinavano con le colonie italiane, ottenendo successi iniziali in Sudan e nella Somalia
britannica. Nel frattempo una sanguinosa guerra navale impegnava la Marina italiana nel
mare Mediterraneo, che era presidiato dalla potente flotta inglese la quale aveva basi
navali a Gibilterra, Malta, Alessandria d’Egitto e in Grecia. Nonostante le molte prove di
coraggio dei marinai e dei comandanti, la guerra navale volse a sfavore degli Italiani, i quali
erano gravemente svantaggiati sia dall’assenza di portaerei, sia dalla loro impreparazione al
combattimento notturno. In esso invece gli Inglesi erano all’avanguardia perché
possedevano il radar, un sistema elettronico che emetteva onde radio e ne captava l’eco
individuando la presenza di navi nemiche anche al buio.
L’attacco alla Grecia
Nel 1940 Mussolini firmò con la Germania e il Giappone il “Patto tripartito”, detto
anche “Asse Roma-Berlino-Tokio”, che prevedeva la spartizione del mondo tra
le potenze dell’Asse, quindi si gettò in una nuova avventura militare: l’attacco alla
Grecia.
Ancora una volta l’operazione, creduta facile, fu preparata male. I Greci, aiutati dagli
Inglesi, opposero una forte resistenza che durò dall’ottobre 1940 all’aprile 1941;
furono poi i Tedeschi discesi attraverso la Jugoslavia, a occupare il piccolo Stato evitando
così al nostro esercito un nuovo cocente insuccesso. Al Duce e al fascismo essa procurò per la
prima volta una diffusa impopolarità in Italia; molti incerti, dopo la campagna di Grecia,
portarono definitivamente le spalle al regime.
La campagna d’Africa
Anche in Africa la guerra voluta dal fascismo stava ormai volgendo al peggio. Gli Inglesi
non solo avevano riconquistato le posizioni perdute, ma stavano occupando le colonie
italiane a una a una: la Pirenaica, l’Etiopia-che fu restituita al Negus-la Somalia e
l’Eritrea. Ancora una volta fu la Germania a trarre d’impaccio il suo incapace alleato: nel
Marzo 1941 giunsero in Nordafrica rinforzi corazzati al comando di Erwin Rommel uno
dei più brillanti strateghi agli ordini del Fuhrer, che riconquistò la Pirenaica. Il fallimento di
tutte le campagne militari in cui si era impegnata l’Italia fino a quel momento costrinse
Mussolini a una posizione subalterna rispetto a Hitler, il quale, piegata la Grecia, soggiogata
la Francia, tenuta l’Africa sotto controllo, passò alla seconda parte del suo
piano:l’aggressione all’Unione Sovietica.
L’ “operazione Barbarossa”
All’alba del 22 giugno 1941 le divisioni tedesche invasero l’Unione Sovietica con
3milionie mezzo di uomini, 10.000 carri armati e 3.000 aerei. Erano fiancheggiata da
220.000 Italiani che Mussolini aveva inviato in tutta fretta, per non essere escluso dalla
“gloriosa impresa” e che costituivano l’Armir (Armata Italiana in Russia). Aveva inizio così
l’ “operazione Barbarossa” preparata da Hitler in gran segreto, essa costituiva l’obiettivo
finale della sua strategia: distruggere il bolscevismo e ridurre in schiavitù i popoli
slavi. Stalin fu colto impreparato, perché si fidava dal patti di non aggressione
Molotov-Von Ribbentrop firmato solo 2 anni prima. Perciò applicò la tattica tradizionale
russa: una lenta ritirata del grosso dell’esercito con limitate azioni di guerriglia
eseguite da piccoli gruppi d’assalto contro reparti tedeschi rimasti isolati, e l’attesa
dell’inverno, mentre agiva per rinforzare adeguatamente l’Armata Rossa, affidata
all’abilissimo Generale Zukov.
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Perché ciò potesse avvenire in tempi brevi strinse un’alleanza con la Gran Bretagna e
con gli Stati Uniti (questi ultimi pur essendo ancora in guerra, sostenevano gli Inglesi con
rifornimenti di armi e di viveri) i quali aderirono volentieri nonostante la loro radicata
differenza verso l’Unione Sovietica. L’apertura di un nuovo fronte, quello russo, distoglieva
infatti una parte rilevante dell’esercito tedesco dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Africa;
inoltre, se Stalin avesse resistito, una disfatta in Russia avrebbe potuto significare la fine del
nazismo.
Mentre Stalin ricostituiva l’esercito grazie anche agli aiuti inglesi e americani, le truppe
tedesche avanzavano con precisione e velocità su un fronte lungo ben 1600 Km che si
estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero. L’ordine ricevuto era “sterminio!” perciò, esse
lasciavano dietro di se terra bruciata distruggendo città e villaggi, facendo strage di gruppi di
resistenza e spedendo nei lager la popolazione inerme; si impadronirono inoltre delle
fabbriche e delle riserve di petrolio dei Paesi Baltici, dell’Ucraina e della Crimea,
necessarie per rifornire di carburante auto, camion, motociclette e carri armati. Alla fine di
settembre la Germania aveva conquistato quasi tutta la Russia europea: era a 60 Km da
Mosca e assediava Leningrado.
Ma Leningrado oppose per 900 giorni una resistenza tanto eroica da entrare nella
leggenda e da nord i Tedeschi non riuscirono più ad avanzare. Alla fine di ottobre l’inverno
russo calò su aggressori aggrediti mentre la guerra-lampo immaginata da Hitler si
trasformava in una logorante guerra di posizione. L’esercito tedesco famoso per la sua
efficienza e per lo splendore impeccabile delle sue divise, cominciò
a trasformarsi in una schiera di gente torturata dalla fame, intrappolata dalla neve, decimata
dalle imboscate dei Partigiani, cioè dei civili russi volontari che agivano clandestinamente
nelle zone occupate. La stessa tragedia si abbatté sull’armata italiana.
Pearl Harbor: l’entrata in guerra degli Stati Uniti
Ma il teatro della guerra era destinato ad allargarsi fino a diventare, per la seconda volta,
“mondiale”. Infatti alla fine del 1941, proprio mentre l’avanzata tedesca si arrestava davanti
alle grandi città russe, la guerra si allargò all’Oceano Pacifico. Gli alti comandi
giapponesi erano convinti che prima o poi ai loro progetti di espansione nel Pacifico si
sarebbero opposti con le armi la Gran Bretagna, che vi manteneva importanti possedimenti e
gli Stati Uniti, che controllavano le Hawai e le Filippine. Decisero quindi di approfittare della
guerra in Europa per colpire di sorpresa le due grandi forze navali avversarie. Il 7 dicembre
1941, senza aver consegnato la dichiarazione di guerra, i Giapponesi lanciarono un
improvviso e massiccio attacco aereo che inflisse gravi perdite alla flotta americana ancorata
a Pearl Harbor, nelle Hawai. Tre giorni dopo il Giappone effettuò un’analoga operazione in
Siam, contro la flotta britannica. Questa iniziativa, tuttavia, ottenne l’effetto contrario a
quello voluto, le perdite furono gravi, ma non decisive. Tra le navi distrutte si salvarono le
preziose portaerei che, per puro caso erano uscite dal porto; inoltre, grazie alla sua enorme
capacità produttiva, l’industria americana riuscì a rimpiazzare in tempo utile i molti
incrociatori perduti. Ma la conseguenza più importante fu che quell’attacco a tradimento
sollevò un’ondata di sdegno nell’opinione pubblica e convinse gli Stati Uniti a entrare
in guerra con tutto il peso della loro forza industriale e militare per battere le potenze
dell’Asse ed estirpare il fascismo dalla scena mondiale. Tuttavia, fino alla primavera del
1942, il dominio militare del Pacifico rimase in mano ai Giapponesi, grazie alla loro
eccellente organizzazione aeronavale, alla totale devozione dei soldati e all’abilità
dell’ammiraglio Yamamoto comandante in capo della marina. In soli 6 mesi il Giappone
conquistò il controllo del sud-est asiatico dell’Indonesia, delle Filippine, di gran
parte dell’Oceania e giunse a minacciare da vicino l’Australia e l’India.
Il 1942-43: l’anno della svolta
La seconda metà del 1942 e l’inizio del 1943 segnarono la svolta della guerra. Ebbero fine le
vittorie dell’Asse e gli Alleati riconquistarono terreni su tutti i Fronti.
FRONTE RUSSO. I Tedeschi e i loro alleati sferrarono contro le difese sovietiche
un’offensiva generale che prevedeva tra l’altro la conquista della città di Stalingrado, con la
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quale avrebbero inferto un colpo definitivo alle truppe nemiche. Qui dal luglio 1942 al
febbraio 1943 si svolse una delle battaglie più lunghe e sanguinose della storia, che si
concluse con l’accerchiamento e la sconfitta delle forze tedesche. Cominciò allora la tragica
ritirata di Russia, che si concluse nella primavera del 1944, nella quale perse la vita
l’80% dei Tedeschi e degli Italiani partiti.
FRONTE DEL PACIFICO. Tra il maggio e il giugno del 1942 gli Americani capovolsero le
sorti della guerra grazie a 3 grandi vittorie sulla flotta giapponese di cui fu decisiva quella di
Midway, nel Pacifico centrale. Nel 1943 iniziarono quindi una lunga e difficile marcia di
avvicinamento al territorio giapponese attraverso le innumerevoli isolette del Pacifico. Ci
vollero quasi 3 anni e centinaia di azioni dei marines, le truppe da sbarco statunitensi, per
strappare il controllo di quell’immenso oceano agli irriducibili soldati del Sol Levante.
FRONTE AFRICANO. Nel 1942 fu la battaglia di El Alamein, in Egitto, a segnare la svolta
in favore degli Alleati. Poco dopo gli Anglo-Americani, guidati dal generale Eisenhower,
sbarcarono in Algeria e in Marocco e nel 1943 costrinsero gli Italo-Tedeschi ad abbandonare
l’Africa settentrionale.
Lo sbarco alleato in Italia
Il vittorioso sbarco anglo-americano in Africa settentrionale decise l’Alto comando
interalleato a invadere l’Italia immediatamente, per sfruttare il successo conseguito nel
Mediterraneo.
Il 10 luglio 1943, ebbe inizio lo sbarco alleato in Sicilia: le truppe italiane opposero una
debole resistenza e, in poco più di un mese, gli Anglo-Americani occuparono l’intera isola,
accolti trionfalmente dalla popolazione. Questa prima sconfitta del fascismo sul
“Fronte Interno” dimostrò che militari e civili erano delusi e stanchi della
guerra,affrontata con deplorevole impreparazione e costellata di insuccessi, perdite,
disorganizzazione.
Il Paese, infatti, giudicava ormai inevitabile la sconfitta: i bombardamenti sulle città si
erano intensificati a partire dall’autunno del 1942, avevano mietuto molte vittime e ridotto in
macerie fabbriche, porti e interi quartieri; a Milano, che fu la più colpita, fu distrutto il 60%
delle abitazioni; i turni di lavoro in fabbrica erano durissimi; l’alimentazione era
regolamentata dalle “tessere annonarie” che concedevano solo il necessario per sopravvivere.
Chi aveva denaro da spendere poteva rivolgersi ai “pescecani”, cioè a coloro che praticavano
il mercato nero vendendo a prezzi astronomici i generi, ormai rari, di prima necessità. Un
kg di sale, nel 1944 costava l’equivalente di 10 giorni di stipendio di un impiegato. A migliaia
le persone fuggivano andando a formare l’esercito degli sfollati in cerca di rifugio nelle
campagne.
La caduta del fascismo
Quando gli Alleati, completata l’occupazione della Sicilia, cominciarono a risalire lentamente
la penisola contendendone la terra palmo a palmo ai Tedeschi, il fascismo era ormai in
agonia. La maggioranza della popolazione era esasperata e nel marzo del 1943 il
malcontento della classe operaia esplose con grandi scioperi che partirono da Torino e si
diffusero in tutte le grandi città del Nord; ma il malessere era evidente anche nei ceti medi e
nelle campagne. La grande industria cominciò a nutrire il timore di una rivoluzione ed
ebbe incontri segreti con i gerarchi, gli ambienti di corte e i capi militari perché ordissero un
colpo di Stato che eliminasse il Duce, ponesse fine all’alleanza con la Germania e salvasse
l’Italia dalla catastrofe.
Il 25 luglio, d’accordo con il re che fino all’ultimo aveva tentennato di fronte a queste
esortazioni, il Gran Consiglio del Fascismo votò una mozione di sfiducia nei
confronti del Duce e invitò Vittorio Emanuele III a riprendere il comando delle forze
armate. Il re allora affidò il governo al generale Badoglio, costrinse Mussolini alle
dimissioni, lo fece arrestare e lo esiliò sul Gran Sasso determinando la caduta del
fascismo. Alla notizia, la popolazione dilagò per le strade. Scoppiarono disordini che
Badoglio represse spietatamente: in 45 giorni ci furono 100 morti, 500 feriti, 2500 arresti.
La maggior parte delle manifestazioni tuttavia nasceva da un incontenibile entusiasmo, non
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tanto per la riconquistata libertà, quanto per l’ingenua convinzione che il crollo di Mussolini
significasse anche la fine della guerra: ingenua, perché invece la guerra era ben lontana dalla
fine.
L’otto settembre del ‘43
Il nuovo governo presieduto dal maresciallo Badoglio, negoziò segretamente l’armistizio
con gli alleati e lo rese noto l’otto settembre del ’43, ma con una frase atrocemente
ambigua: “l’armistizio è stato firmato. La guerra continua”. Intanto il re abbandonava in gran
segreto la capitale e fuggiva a Brindisi sotto la protezione della flotta americana.
Fu il caos e per qualche ora tutti si posero una domanda cui le autorità non davano risposta:
“i tedeschi restano amici o diventano nemici?”. Alcuni reparti delle forze armate italiane di
istanza a Roma puntarono le armi contro le SS che stavano già cominciando a rastrellare le
strade in cerca di militari da fare prigionieri. Ad essi si unirono gruppi di civili e avvennero
scontri a Porta San Paolo che sono considerati il primo episodio della resistenza
italiana.
Una sorte atroce toccò ai soldati italiani al Fronte, ai quali arrivarono ordini contrastanti:
arrendersi ai tedeschi, resistere per salvare l’onore, comportarsi come volevano. Moltissimi
si rifiutarono di consegnare le armi e opposero una strenua resistenza alle truppe naziste, ma finirono per soccombere e furono passati per le armi, come
accadde all’eroica divisione Acqui, impegnata a Cefalonia (Corfù).
La Repubblica di Salò e il Regno del Sud.
Hitler, in preda all’ira per il tradimento del re d’Italia, fece liberare Mussolini da un
commando di paracadutisti tedeschi, che si lanciarono sul Gran Sasso e lo portarono in
Germania. Qui il Fuhrer lo spinse a fondare la Repubblica Sociale Italiana, chiamata
anche Repubblica di Salò dal paesino sul lago di Garda dove aveva la sua capitale, e a
ricomporre un esercito che avrebbe collaborato con quello tedesco allo scopo di bloccare
l’avanzata anglo-americana attraverso l’Italia e poi attraverso la Germania. Intanto gli
Alleati risalivano lentamente la penisola. Quando furono nelle vicinanze di Napoli, i tedeschi
inasprirono la rappresaglie contro la popolazione; allora, il 1° ottobre del 1943, l’intera
città si sollevo combattendo per le strade e costringendo i nazisti alla fuga il 4 ottobre: furono
queste le gloriose “Quattro giornate di Napoli”.
A Cassino, però, le truppe anglo-americane furono bloccate per mesi dalla furiosa
resistenza dei tedeschi. L’Italia restò così divisa in due:
 Il Centro-Nord occupato dai tedeschi e governato da Mussolini attraverso la
Repubbl. Sociale;
 Il Meridione “liberato”, occupato dagli Alleati e chiamato Regno del Sud, perché
formalmente governato dal re Vittorio Emanuele III.
La Resistenza.
Alla leva della Repubblica sociale molti giovani non risposero perché la gente comune
aveva un unico sogno: che la guerra finisse. Inoltre continuare a combattere con i tedeschi,
che stavano chiaramente perdendo, sembrò a molti un’idea assurda. Almeno all’inizio,
quindi, una parte dei giovani del Nord non entrò a far parte dell’esercito di Salò
semplicemente perché si nascose per evitare la leva. Con il passare dei mesi, tuttavia, a molti
sembrò sensato combattere sì, ma contro i tedeschi che della guerra erano i massimi
responsabili e che con la loro ostinazione sembravano rischiare di prolungarla all’infinito.
Più consapevole era la linea tenuta dai militari anti-fascisti (comunisti, socialisti, liberali,
cattolici, tra i quali molti sacerdoti) che erano vissuti nella clandestinità o che erano partiti in
esilio per Parigi e che ora tornavano. Bisognava combattere per dimostrare agli Alleati di
aver contribuito per liberare l’Italia dai tedeschi e soprattutto per estirpare i residui del
fascismo e costruire dopo la pace una nuova Italia. Su queste basi, già nel 1943 si era
formato a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) che coordinava “ le
Brigate Garibaldi”, comuniste, i reparti di “Giustizia e Libertà” del Partito d’Azione, le
“Brigate Matteotti”, socialiste, e formazioni minori in cui confluirono liberali, monarchici e
cattolici. Nel 1944 ne assunsero il comando generale Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri e
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Luigi Longo. Nacquero così i primi nuclei partigiani, cioè di volontari armati che si
proponevano di combattere per la libertà contrastando le truppe regolari tedesche e fasciste.
Essi organizzarono la Resistenza, dando vita ad azioni di guerriglia e di sabotaggio, spesso
richieste e coordinate dal comando alleato. Nelle grandi città, come Roma, le azioni di
sabotaggio furono dirette contro i nazisti, ma sulle Prealpi, nella Pianura Padana e
sull’Appennino Tosco-Emiliano, gli antifascisti si scontrarono in armi anche contro i fascisti.
Furono quindi italiani coloro che si combatterono spietatamente aprendo il tristissimo periodo della Guerra civile, la quale costò complessivamente
70.000 morti.
Spesso contro i partigiani o contro civili innocenti intervennero direttamente le SS naziste
che si resero personalmente responsabili degli eccedi delle Fosse Ardeatine a Roma (335
morti), di Sant’Anna di Stazzema, vicino a Lucca (500 morti) e di Marzabotto, a sud di
Bologna ( oltre 1.000 morti).
La gente comune non fece mancare la propria solidarietà ai partigiani e agli ebrei ricercati,
offrendo loro, a rischio della propria vita, rifugio, viveri, informazioni.
La Liberazione.
All’inizio del 1944poco dopo lo sfondamento delle linee Tedesche a Cassino, una divisione
alleata sbarcò ad Anzio ma riuscirono a raggiungere Roma solo il 4 giugno. Le armate del
Fuhrer si attestarono allora sulla cosiddetta “Linea gotica”, che tagliava l’Italia da Rimini a
Forte dei Marmi, mentre Firenze veniva liberata dai partigiani l’11 agosto.
Anche a causa di diffidenze e di incomprensioni con il Cln, gli Alleati rallentarono l’iniziativa
per tutto l’inverno 1944-45. ma a primavera l’offensiva riprese: in aprile gli Anglo-Americani
oltrepassarono il Po e il 25 aprile 1945 il Cln potè proclamare l’insurrezione generale
dell’Italia settentrionale liberando le grandi città dai nazifascisti. Qualche giorno dopo le
truppe tedesche in Italia si arrestarono e cadde la Repubblica di Salò.
Mussolini fu catturato dai partigiane mentre tentava di fuggire in Svizzera e fu fucilato il
28 aprile.
Il crollo del terzo Reich
All’alba del 6 giugno del 1944, sotto la direzione del generale Eisenhower, era avvenuta
intanto la più grandiosa operazione di sbarco mai tentata, l’ “Operazione Overlord”, con la
quale un enorme contingente anglo-americano, appoggiato da 12.00 aerei, 3.00 navi da
guerra e 4.000 mezzi da sbarco di vario tipo, aveva effettuato lo sbarco in Normandia
(Francia settentrionale).
La superiorità degli Alleati sui Tedeschi era schiacciante, ma il successo fu raggiunto solo
dopo aspri combattimenti e gravissime perdite da ambo le parti. In agosto sbarcarono in
Provenza (Francia meridionale) altre forze, mentre Parigi insorgeva e accoglieva il generale
Charles De Grulle, che da Londra aveva coordinato la Resistenza francese. A settembre
le forze americane penetrarono da occidente in territorio tedesco, dopo aver liberato il Belgio
e l’Olanda, preceduti dai bombardieri che rasero al suolo le città tedesche una per una.
La Germania subì l’invasione anche da oriente, dove avveniva l’avanzata delle truppe
sovietiche, mentre nei Balcani i partigiani del maresciallo Tito liberavano la Jugoslavia.
In quei mesi Hitler si era trasferito con i suoi collaboratori in un buncher, cioè in un rifugio
sotterranei corazzato nel cuore di Berlino, e da lì dirigeva le operazioni. Era ancora convinto
di poter vincere e ordinò la leva dei ragazzi di 14 anni, che mandò inutilmente a morire
quando ormai tutto era perduto. Il 30 aprile 1945 i Sovietici entrarono a Berlino. Hitler si
suicidò nel buncher insieme alla sua compagna Eva Braun e alla famiglia Goering.
Il 7 maggio 1945 una Germania materialmente e immoralmente distrutta firmò la resa. La
guerra in Europa era finita.
La resa del Giappone e la fine della guerra
Continuava la guerra nel pacifico, dove gli Americani avevano espulso i Giapponesi da
tutte le zone occupate e avevano distrutto la loro flotta togliendo all’impero del Sol Levante
ogni possibilità di vittoria.
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Contro ogni logica, tuttavia, il governo giapponese animato da un esasperato senso
dell’onore, resisteva. Anzi mandava a schiantarsi contro le navi americane con i loro aerei
pieni di bombe e i suoi piloti migliori, i kamikaze ovvero “vento divino”, e non si curava delle
centinaia di migliaia di morti provocati dai bombardamenti americani sulle città. Tutto
faceva prevedere che l’inutile massacro di entrambi i contendenti sarebbe durato ancora
molti mesi.
Roosevelt morì nell’aprile del 1945 e il nuovo presidente degli Stati Uniti, Harry Truman,
esaminò la possibilità di usare contro la popolazione civile giapponese un’arma di tale
potenza da indurre i capi militari alla resa. Dopo 2 anni di lavoro, infatti, une equipe formata
dai più grandi fisici dell’epoca e guidata da J. Robert Oppenheimer, aveva appena
sperimentato a Los Alamos in California, la 1° bomba atomica.
Truman inviò al Giappone un ultimatum nel quale minacciava la distruzione totale del Paese
se l’esercito non si fosse arreso. L’ultimatum, fu respinto e gli Stati Uniti, ottenuto il
consenso di Stalin, presero la gravissima decisione di sganciare su due città giapponesi le
bombe nucleari.
Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica esplose su Hiroshima. La città fu rasa al suolo,
90.000 persone morirono all’istante e altre 80.000 furono contaminate dalle radiazioni. 3
giorni dopo ne esplose una seconda a Nagasaki.
Solo il 2 settembre 1945 l’imperatore del Giappone Hirohito si rassegnò a firmare la resa,
mentre i suoi capi di stato maggiore si suicidavano facendo harakiri, come i loro antenati,
cioè pugnalandosi nell’addome.
Ora la guerra era veramente finita. I popoli potevano contare i loro morti più di 55 milioni.
6 AGOSTO – ore 9.35.17 L’INFERNO SCENDE SULLA TERRA
Da un Boeing B.29 il puntatore TOM FEREBEE premuto il pulsante per lo sgancio, contò i
35 secondi necessari alla bomba per raggiungere il suolo, poi da 18 km nel frattempo
percorsi, si accinse a guardare fuori l’“effetto”; rimase impietrito. "Mi parve che il sole
fosse calato d'improvviso sulla terra, per poi risalire. Dio mio che cosa abbiamo fatto!”.
Un lampo, un ciclone di fuoco, un fungo gigantesco che saliva al cielo, poi un vento della
forza di 1200 chilometri e la città scomparve dalla faccia della Terra, non con una morte
nera ma con un abbagliante sole sceso sulla terra. Vite umane liquefatte, ritornate atomi,
calcinati i corpi, ustionati, piagati e contaminati dalle radiazioni dal punto zero fino a
dodici chilometri di raggio. Nemmeno l'Apocalisse aveva mai accennato ad un castigo
divino così sterminatore.
Fu questione di un attimo, per molti abitanti appena il tempo di percepire l’immenso lampo
luminoso. Nella zona dell’ipocentro la temperatura balzò in meno di un decimo di
secondo a 3000-5000 °C. Ogni forma di vita nel raggio di ottocento metri svanì in seguito
all’evaporazione dovuta al tremendo calore.
Truman secondo i presenti esclamò "É questo il più grande avvenimento della
Storia". Il Giappone invece non si era ancora nemmeno reso conto di quanto era
accaduto; una città intera, alla radio, ai telefoni, sembrava scomparsa, volatilizzata; pochi
minuti prima era stato segnalato quasi con noncuranza un solo aereo in quella zona, ad
altissima quota, ma poi più nulla; la città si era "eclissata".
Ed era proprio così, alcuni esseri umani sull'asfalto avevano lasciato solo l'ombra di un sole
devastatore fabbricato da altri umani; la loro anima era salita in cielo insieme al lampo che
aveva visto il pilota, e il loro corpo continuava a salire in cielo insieme al grande fungo.
NISHIMA, il fisico nucleare giapponese, quando solo il giorno dopo arrivarono le prime
notizie, ebbe un dubbio, ma ebbe appena il tempo di intuire che era stata una esplosione
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nucleare, che subito su Nagasaki si levò un altro lampo. Altri 102.275 morti e una città
in cenere. Un altro "esperimento", questa volta una bomba al Plutonio, un'altra
dimostrazione della "favolosa potenza distruttiva" che ora ha l'uomo che "giudica"
concepisce un'arma micidiale e "punisce" in questo modo altri uomini.
15 AGOSTO - Alle ore 16 il Giappone, annunciò alla radio il messaggio di HIRO HITO.
Parlò con una voce quasi irreale, piena di dolore ma decisa, commovente ma
autorevole; l'imperatore, rivolgendosi a milioni di giapponesi di tutto il paese che
ascoltavano nelle piazze, negli uffici, nelle case, sulle navi, nelle caserme, nei campi di
battaglia, tutti in ginocchio, lesse la breve capitolazione. Mai, in nessun altro momento
della storia umana, così tanta gente irruppe in lacrime. C'era il dolore, l'umiliazione, la
tragedia, ma anche l'innegabile senso di sollievo che il terribile incubo del "sole atomico"
era
finito.
La
Seconda
Guerra
Mondiale
pure.
Mentre Hiro Hito parlava - in una giornata spettrale e caliginosa che nessuno aveva mai
visto prima in vita sua – su milioni di giapponesi in ginocchio, 200.000 esseri umani,
inconsapevoli che il loro sacrificio aveva messo la parola fine alla guerra mondiale, si
aggiravano ancora sulle loro teste, in atomi e molecole che volteggiavano nell'aria
insieme alle nuvole di un cielo tetro; Hiro Hito con la sua voce commosse, ma uomini
e donne si sentirono profondamente turbati non solo per questo, ma perchè erano tutti
coscienti che a ogni loro respiro, nell'aria, c'era una piccolissima parte di quelle anime
volate in cielo in un lampo, e che i loro corpi sottoforma di atomi e molecole erano in
quello strano pulviscolo che modellavano quelle stranissime e cupe nuvole.
Qualora le truppe di TITO avessero invaso il Veneto per arrivare poi fino a Milano per
unirsi ai comunisti italiani che avevano conquistato già la città, sarebbe bastata una
bomba sul Veneto e una su Milano per sbarazzarsi in un colpo solo, dei tedeschi, dei
comunisti, dei fascisti e mandato un forte segnale alla Russia, esattamente come in
Giappone: infatti a STALIN, con la bomba su Nagasaki e Hiroshima il segnale gli giunse
forte
e
chiaro.
L'Italia avrebbe anticipato Hiroshima? Non lo si esclude alla luce dei fatti del dopo e dei
comportamenti avuti in Giappone così molto slegati dalle operazioni militari in corso.
Sarebbe comunque curioso sapere se c'erano, e quanti anglo americani il 25 aprile si
trovavano nella Pianura Padana. Le fonti dicono quasi nessuno. Solo alle 12.38 del 25 aprile
gli
americani
varcarono
il
Po
nel
passaggio
ferrarese
di
Corbola.
Circa un mese prima dello sgancio, il 16 luglio, sappiamo con certezza che
esistevano 12 bombe atomiche negli hangar americani (credibilmente pronte fin da
marzo-aprile); 6 all'uranio (1 sganciata su Hiroshima) e 6 al Plutonio (1 sganciata
su Nagasaki). A disposizione ne rimanevano 10, pronte ad essere impiegate nel
conflitto. Non dimentichiamo che TRUMAN andò al potere il 13 Aprile (12 giorni
prima della resa dell'Italia e 24 giorni prima della resa della Germania) e avendo le
bombe negli hangar, lui le voleva usare subito per far finire definitivamente la guerra.
TRUMAN non voleva più nessun americano morto, né in Italia, né in Germania, né in
Giappone.
Successivamente, il 2 settembre - Dopo "sei anni e un giorno" (Hitler l'aveva cominciata il
1° settembre 1939) TERMINA LA 2a GUERRA MONDIALE:
55.000.000 di vittime, 35.000.000 di feriti. Paesi e popoli distrutti.
Oltre a questi morti, la grande tragedia degli Ebrei. Nei campi di concentramento si calcola
che, nella hitleriana antirazziale "soluzione di massa", nei forni crematori siano
scomparsi circa 6.000.000 di individui. In Italia la comunità Ebrea era composta di
47.252 individui, ne deportarono 8369 e a fine guerra ne ritornarono 980.
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Le reazioni nucleari
Forse il più importante progresso nella tecnologia del Novecento è stato la
scoperta delle reazioni nucleari, che permettono di sfruttare un nuovo tipo di
energia meno inquinante ma molto più pericolosa delle altre: l’energia
nucleare.
Tutta la materia che ci circonda compreso il nostro corpo è formata da atomi
organizzati in molecole. Gli atomi sono piccolissimi e invisibili per l’occhio
umano. L’atomo è costituito da diverse particelle:
- gli elettroni, che hanno carica elettrica negativa e che si muovono intorno al
nucleo dell’atomo;
- i protoni, che hanno carica elettrica positiva;
- i neutroni che non hanno carica elettrica.
Nell’atomo si trova un nucleo formato da protoni e da neutroni.
Il numero degli elettroni, dei neutroni e dei protoni è caratteristico per ogni
elemento.
L’elemento naturale più pesante è l’uranio, perché esso ha il nucleo più grosso
tra tutti gli elementi.
I processi fondamentali che permettono di ricavare energia dalla materia sono
due:
- la fissione nucleare;
- la fusione nucleare;
La fissione nucleare fu scoperta da un fisico tedesco Otto Hahn che aveva
ottenuto la prima reazione di fissione (cioè di scissione) nucleare in laboratorio.
Enrico Fermi, un fisico italiano che si trasferì negli Stati Uniti, formulò la prima
la teoria sulla possibilità di ottenere energia atomica dalla fissione dell’atomo.
Questo era il maggiore esperto al mondo di neutroni , le particelle del nucleo
atomico con cui si bombardano gli atomi. Egli, inoltre, aveva scoperto che
rallentando i neutroni con acqua essi aumentavano il loro potere collisionatore
invece di ridurlo. Fermi aveva come obiettivo la realizzazione di elementi
radioattivi artificiali , ma senza accorgersene ottenne la scissione dell’atomo.
Messo al corrente della scoperta ,del fisico tedesco, capì che con la fissione
nucleare, si potevano ottenere tanti neutroni quanti se ne voleva. La fissione
nucleare avviene quando un nucleo di particolari elementi si scinde
producendo una grande quantità di energia.
Questi particolari elementi sono l’Uranio e i tre isotopi di questo: 238U che ha
92 protoni e 146 neutroni ed è molto diffuso ,235U che ha 92 protoni e 143
neutroni e l’233U . È l‘235U che può subire la fissione se viene bombardato dai
neutroni, da questa si originano due frammenti, un atomo di bario e un atomo
di kripton, due neutroni e mezzo, molta energia e un neutrino. Di conseguenza
la reazione nucleare di fissione si potrà indicare così:
235U+n=139Ba+94Kr+E+2,5n+y
I neutroni emessi mediante la fissione di un nucleo di uranio possono a loro
volta produrre altri neutroni che sono capaci di provocare la fissione di altri
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nuclei, solo se rallentati con acqua e riscaldati, neutroni termici, perché
altrimenti si trovano ad alta velocità mentre occorrono che siano lenti in modo
che girino intorno al nucleo di uranio e possano entrarvi lentamente. Questo
processo costituisce una reazione a catena.
La fusione nucleare o reazione termonucleare è il processo opposto alla
fissione, è una reazione nella quale si ha l’associazione o fusione di più nuclei
leggeri per darne uno di peso atomico maggiore.
Di solito si ottiene utilizzando i due isotopi dell’idrogeno: il deuterio, 2H , che
possiede un protone e un neutrone, e il trizio, 3H , che possiede un protone e
due neutroni. La fusione nucleare può avvenire mediante la fusione di due
nuclei di deuterio o un nucleo di deuterio e uno di trizio.
Dall’associazione di questi due nuclei, si ottiene un nucleo di un elemento più
pesante che è in questo caso un gas nobile, l’elio. Oltre alla formazione di
quest’elemento, si ottiene energia, un neutrone e un neutrino. Di conseguenza
possiamo indicarla così:
2H+2H=3He+E+n oppure 2H+3H=4He+E+n
La fusione e la fissione sono reazioni che partendo da nuclei meno stabili
(molto leggeri o molto pesanti) producono nuclei di massa intermedia e quindi
più stabili, da ciò si può liberare una grande quantità di energia che è pari alla
differenza di energia di legame dei nuclei risultanti e dei nuclei iniziali. In
entrambi i casi le masse dei prodotti sono inferiori a quelle di partenza, perché
il difetto di massa è stato tramutato in energia, secondo la teoria di Einstein.
L’eccessiva temperatura necessaria per far avvenire la fusione nucleare ha
spinto numerosi scienziati a cercare nuove soluzioni. Negli USA alcuni chimici
hanno elaborato un metodo che consente di provocare la “fusione a freddo”,
cioè senza ricorrere ai circa 100 milioni di gradi di temperatura. In Italia il
professore Scaramuzzi ha ripetuto l’esperimento seguendo un metodo più
semplice ed è giunto allo stesso risultato. La fusione nucleare a freddo consiste
nel provocare la fusione dei nuclei atomici comprimendoli con metodi chimici e
fisici a temperatura ambiente o sottozero. I ricercatori americani hanno usato
particolari metalli quali il titanio e il palladio che agendo come spugne
s’imbevono di deuterio creando una reazione elettrochimica che innesca la
fusione nucleare. Il metodo seguito dal professore Scaramuzzi è più semplice:
in particolari condizioni di temperatura e pressione il titanio viene posto a
contatto con il deuterio allo stato gassoso innescando cosi la fusione.
Gli esperimenti continueranno per cercare di ottenere un’energia pulita e
abbondante che segnerà una nuova era per l’umanità.
La bomba atomica
Nella bomba atomica avviene una reazione nucleare a catena non controllata.
Nel corso della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti realizzarono una
manovra offensiva ai danni del Giappone intervenendo con massicci
bombardamenti .
Una bomba atomica era già stata sganciata in via sperimentale nella pianura di
Jornada del Muerto, nel nuovo Messico, il 16 luglio 1945. Un’altra bomba
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all’235U fu sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945. I danni furono gravissimi:
gli edifici risultarono per ¾ distrutti; dei 350.000 abitanti circa 100.000
morirono al momento della esplosione, decine di migliaia negli anni seguenti a
causa di numerose malattie insorte a causa delle radiazioni; negli anni
successivi nacquero numerosi bambini con tremende malformazioni e
mutilazioni.
Una seconda bomba atomica al 238Pl ottenuto dal bombardamento dell’uranio
naturale con neutroni, fu sganciata il 9 agosto 1945 su Nagasaki.
I danni causati dall’esplosione furono minori di quelli causati tre giorni prima
a Hiroshima, le vittime furono circa 40.000.
Le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, oltre a quella
sganciata sulla pianura di Jornada del Muerto, furono le uniche bombe
atomiche allora costruite. Allora il governo statunitense decise di costruirne
altre ancora più potenti, ma era necessario sperimentarle fu scelto di farlo
sull’atollo di Bikini nell’Oceano Pacifico. La popolazione che viveva qui fu
trasferita in un’altra isola e cominciarono gli esperimenti che furono 23 in tutto
e si svolsero dal 1948 al 1956. Su Bikini venne sperimentata la bomba H, o ad
idrogeno, ottenuta mediante la fusione nucleare dell’idrogeno. La potenza di
questa bomba venne sottovalutata poiché le radiazioni raggiunsero un’isola che
si trovava a 200 km di distanza ed un peschereccio giapponese, uno dei marinai
morì nei giorni seguenti e tre dei quattro bambini ustionati per aver giocato
nell’acqua inquinata dalle radiazioni, svilupparono negli anni seguenti, tumori
alla tiroide e uno di questi morì circa vent’anni dopo per leucemia.
Le bombe atomiche aprirono una nuova era , quella in cui le armi costruite
dall’uomo sarebbero state in grado di distruggere la vita sul pianeta.
La risposta più semplice è che nel nucleo profondo del Sole, un numero
sufficiente di protoni può entrare in collisione con sufficiente velocità da unirsi
a formare nuclei di elio e generare una enorme quantità di energia. Questo
processo è chiamato fusione nucleare. Ogni secondo, una stella come il nostro
Sole trasforma 4 milioni di tonnellate del suo materiale in calore e luce
attraverso il processo di fusione nucleare.
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Il SOLE
Il nostro Sole ha emesso una quantità di luce e di calore sostanzialmente
costante negli ultimi 4 miliardi e mezzo di anni. Che cosa ha generato questa
energia per così tanto tempo ? Gli scienziati del 19esimo secolo credevano che il
Sole fosse alimentato da reazioni chimiche. Tuttavia, i calcoli mostrarono che
una stella alimentata dalla sola energia chimica sarebbe durata forse un
migliaio di anni. Verso la metà del 1800 due fisici, Lord Kelvin e Hermann von
Helmholtz, avanzarono l'ipotesi che il gigantesco peso degli strati più esterni
del Sole ne causassero la continua contrazione. Mentre il Sole si contrae, i gas al
suo interno diventano compressi e quando un gas si comprime la sua
temperatura aumenta. Kelvin e Helmholtz pensarono che la contrazione
gravitazionale del Sole rendesse il gas abbastanza caldo da poter irradiare
energia nello spazio. Questo processo avviene in effetti nelle protostelle, cioè le
sfere di gas che stanno per diventare setlle; si tratta del primo meccanismo di
produzione di energia, prima che si inneschino le reazioni di fusione nucleare al
loro interno. Tuttavia, questo tipo di contrazione non può essere la sorgente
principale dell'energia stellare per miliardi di anni, casomai solo per un
centinaio di milioni di anni.
Un indizio della possibile sorgente di energie stellare fu fornito da Albert
Einstein. Nel 1905, mentre sviluppava la teoria della Relatività Ristretta,
Einstein mostrò che la massa può essere convertita in energia e viceversa.
Queste quantità sono correlate fra loro dalla relazione massa-energia
E = mc2
dove E è l'energia rilasciata (in unità dette Joules) dalla conversione di una
massa m (in unità di kg), e c è la velocità della luce nel vuoto (in metri al
secondo). Nel 1920, l'astronomo britannico Arthur S. Eddington propose la
teoria che il Sole e le altre stelle fossero alimentate da reazione nucleari. Hans
Bethe si rese conto che un protone che urta un altro protone con forza
sufficiente potrebbe essere la reazione che alimenta il Sole. Nel 1938, Bethe e i
suoi colleghi pubblicarono lo schema di una catena completa di reazioni
protone-protone che converte idorogeno in elio, e che è in grado di permettere
al Sole di splendere per circa 10 miliardi di anni. Il ciclo protone-protone, come
viene chiamato, è noto oggi come il responsabile del 98% della produzione di
energia da parte del Sole nel suo nucleo. Bethe vinse il Premio Nobel per la
fisica nel 1967 per il suo lavoro riguardante la produzione di energia nelle stelle.
Il pianeta Terra, i nostri corpi e le stelle sono fatti degli stessi costituenti di base
della materia. Per capire perché le stelle brillano, dobbiamo prima capire come
si comportano le minuscole particelle di cui la materia è composta.
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Gli scienziati hanno studiato la materia nei loro laboratori per moltissimi anni:
hanno imparato che la materia è composta da molti diversi tipi di atomi; atomi
di idrogeno, di carbonio, di ferro, per esempio. Ogni tipo di atomo è fatto da un
certo numero di particelle chiamati protoni, neutroni ed elettroni. I protoni e i
neutroni si raggruppano nel centro dell'atomo, quello che è chiamato nucleo.
Gli elettroni orbitano attorno al nucleo.
Gli atomi sono molto, molto piccoli. Se si potesse mettere un centinaio di
milioni di atomi uno dopo l'altro in riga, la fila sarebbe lunga circa 2,5 cm !
Il tipo più semplice di atomo è quello dell'idrogeno. Il nucleo di un atomo di
idrogeno consiste di un singolo protone. Attorno a esso orbita un solo elettrone.
L'idrogeno è l'elemento chimico in assoluto più abbondante dell'Universo.
L'elio è il secondo atomo più semplice. Consiste di un nucleo contenente due
protoni e due neutroni, attorno al quale orbitano due elettroni. Un nucleo di
elio può essere creato facendo urtare fra loro un numero sufficiente di protoni
finché essi si "attaccano" fra loro, processo detto "fusione nucleare".
Il grandissimo calore e l'enorme pressione nel nucleo del Sole, sono così grandi
che i protoni al suo interno possono urtarsi fra loro con tanta violenza da
fondersi insieme. Se quattro protoni si fondono, il risultato della fusione è di
due protoni + due neutroni (cioè un nucleo di elio), insieme a due particelle
dette "positroni" e a una certa quantità di energia. Un positrone è una
minuscola particelle simile a un elettrone, ma con carica elettrica positiva.
(Ricordiamo che i protoni hanno carica elettrica positiva, gli elettroni negativa e
i neutroni non hanno carica elettrica).
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Le fasi del ciclo protone-protone.
Da dove viene l'energia prodotta insieme al nucleo di elio ? Einstein mostrò che
E=mc2, il che ci dice che qualsiasi perdita di materia (m) corrisponde ad una
emissione di energia (E). c è la velocità della luce, ed è una costante che vale
300.000 km/sec. Un nucleo di elio ha una massa pari al 99.3% della somma
delle masse dei quattro protoni che lo hanno prodotto, dunque la massa
mancante è stata convertita in energia. È questa energia che fa brillare il Sole e
le altre stelle, impedendo loro di collassare sotto il proprio stesso peso.
Stelle
Osservando il cielo, le stelle appaiono come migliaia di puntini luminosi, diversi
per intensità, colore e dimensione, che si trovano stampati su di un'unica
superficie a disegnare le piu' svariate forme. Sin dai tempi antichi allora,
nonostante esse occupino queste zone contigue del cielo solo per effetto
prospettico, essendo distanti fra loro a volte per migliaia di anni luce, è stato
possibile raggruppare le più luminose in modo da formare quelle figure a cui si
è dato il nome di costellazioni.
Le stelle si sono meritate inoltre nel corso dei secoli l'appellativo di fisse, anche
se in effetti, al pari di tutti i corpi del sistema solare, si muovono (moto
proprio), ma in maniera talmente lenta che per notare degli spostamenti
bisognerebbe attendere millenni. Questo perchè, a differenza dei pianeti, si
trovano ad una distanza talmente grande da rendere l'angolo che deriva dallo
spostamento quasi impercettibile.
Le stelle si distinguono in base alla magnitudine relativa (luminosità
apparente), una scala di valori centrata sullo zero, corrispondente al valore
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della stella Vega, con i valori piu' alti espressi con numeri negativi. La
differenza fra le prime e le ultime è di circa 1 a 500, vale a dire che le stelle di 1a
magnitudine saranno 500 volte piu' luminose di quelle dell'ultima classe (25a).
Un'attenta valutazione va posta dunque alle distanze ed alle dimensioni stellari,
che se non correttamente valutate possono portare a considerazioni errate. Il
Sole infatti, una stella di medie dimensioni, che è anche la piu' vicina a noi
(dista in media 149,6 milioni di chilometri, pari a 8 minuti luce), ci sembra ben
piu' grande e luminoso di tante altre stelle, che pur emettendo luce per migliaia
di volte tanto, appaiono molto deboli e minuscole a causa della loro lontananza.
Per risolvere questo problema, e considerando che l'intensità della luce
diminuisce col quadrato della distanza della sorgente, si usa allora la
magnitudine assoluta (luminosità effettiva), ossia si considerano i corpi
stellari come posti tutti alla stessa distanza, fissata per convenzione in 10
parsec, equivalenti a circa 32 anni luce.
Per risalire alla distanza stellare, un metodo molto usato è quello che sfrutta il
fenomeno della parallasse annua. Infatti, considerando il nostro pianeta in
un punto qualsiasi della sua orbita, e puntando da esso una stella x, dopo sei
mesi, quando la Terra sarà in un punto esattamente opposto, si vedrà lo stesso
astro spostato sullo sfondo celeste di un angolo che sarà tanto piu' piccolo
quanto esso sarà distante da noi. Misurando dunque l'entità di tale angolo, e
conoscendo il raggio dell'orbita terrestre, 1 U.A., dalla trigonometria avremo la
distanza D=1: tgA espressa in parsec.
Tuttavia per le stelle piu' lontane, essendo l'angolo risultante talmente piccolo
da non poter essere misurato, si usano altri metodi come quello
spettroscopico o quello delle cefeidi.
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Il primo consiste nello scomporre la luce della stella nelle sue componenti
fondamentali facendola passare attraverso un prisma. Analizzandola si notano
le bande colorate dello spettro che risultano separate da righe oscure, che non
sono altro che assorbimenti da parte dei gas che compongono il corpo stellare.
Da queste è dunque facile risalire alla composizione chimica ed alla
magnitudine assoluta delle stelle, che poi posta a confronta con quella
apparente ci darà la distanza.
Spesso si ricorre anche alle cefeidi, da Delta Cephei, la prima stella con queste
proprietà ad essere stata scoperta, che hanno la caratteristica di variare in
modo regolare la loro luminosità secondo un periodo ben determinato che è
direttamente proporzionale alla stessa intensità luminosa. Dunque piu' lungo
sarà questo periodo, maggiore risulterà la magnitudine assoluta, dalla quale
otterremo poi quella apparente e quindi la distanza.
Evoluzione stellare
La nascita delle prime stelle è sicuramente riconducibile a quella dell'intero
universo, configurabile nella teoria, attualmente la piu' accreditata, del BigBang. Infatti, come abbiamo detto per il sistema solare, ed in particolar modo
per il Sole, esse si sono formate, e continuano a formarsi, a partire da materiale
interstellare, ricco di polveri e gas, che vaga per lo spazio galattico.
Spesso esso si addensa in fitte nubi, come quelle che occupano il piano
equatoriale della galassia, così che al loro interno la materia inizierà a
raggrupparsi, per effetto delle reciproche interazioni gravitazionali fra le
particelle, in agglomerati, detti comunemente globuli di Bok, dei veri e propri
embrioni stellari. Ognuno di questi a sua volta accumulerà sempre piu' materia,
in modo tale da far crescere anche le forze gravitazionali, che di conseguenza
contrarranno sempre piu' gli strati interni facendone aumentare la temperatura
e la densità.
Quando la temperatura avrà raggiunto i dieci milioni di gradi, si innescheranno
allora le reazioni termonucleari, che provocando una pressione interna capace
di controbilanciare la contrazione, creeranno uno stato di equilibrio con l'avvio
del processo di nucleosintesi stellare, nel quale l'idrogeno si fonde in elio con
conseguente produzione di enormi quantità di energia.
Tutto questo avviene nell'arco di milioni di anni, in maniera piu' o meno veloce
a seconda della massa iniziale della nube, sino ad arrivare ad un punto, definito
sequenza principale, la fase di maggior attività di ogni stella, che durerà per
un tempo dipendente dalla quantità di materia. Infatti, tanto piu' sarà la massa
stellare, di altrettanto la stella brillerà di splendore, bruciando però piu'
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velocemente le proprie risorse energetiche. Di conseguenza le stelle massiccie
avranno una vita inferiore rispetto a quelle di dimensioni minori.
A questo punto inizia inoltre un meccanismo di autoregolazione dell'attività
stellare, che permette ad ogni stella di dosare le proprie risorse energetiche. In
pratica ad ogni abbassamento di temperatura, corrisponderà una contrazione
del corpo stellare, e quindi un riscaldamento, viceversa ad ogni aumento di essa
corrisponderà invece una dilatazione, e perciò un raffreddamento.
Successivamente, quando il combustibile nucleare inizierà ad esaurirsi, ossia
quando tutto l'idrogeno si sarà tramutato in elio, il nucleo centrale della stella
non riuscirà piu' a produrre quella quantità di energia necessaria a contrastare
le forze gravitazionali, che così torneranno a contrarre l'astro. I conseguenti
aumenti di temperatura, riscaldando gli strati adiacenti al nucleo, causeranno
l'espansione degli strati gassosi esterni, che liberi ormai da vincoli
gravitazionali, si estenderanno per centinaia di milioni di km (gigante rossa).
Per le fasi successive gli studiosi pensano che il nucleo stellare continui a
contrarsi dando fondo a tutte le risorse energetiche. Gli ultimi elementi
fonderanno allora in altri sempre piu' pesanti (idrogeno, elio, carbonio, ecc...),
sino a raggiungere uno stato di squilibrio dove, a seconda delle dimensioni
della stella, essa evolve in differenti maniere. Facendo infatti riferimento ad
una massa pari a quella del Sole, abbiamo che le stelle concludono la loro vita
in:

Nana bianca - lo stadio finale di quelle con massa fino ad 1,4 masse
solari. In essa praticamente, dopo l'espulsione degli strati esterni, rimarrà
un involucro gassoso in espansione che creerà una nebulosa planetaria, al
centro della quale vi sarà il nucleo stellare che, essendo composto da
materia degenerata per le intense forze gravitazionali, non irradierà più
energia, raffreddandosi quindi in maniera molto lenta sino a diventare
una nana nera.

Stella di neutroni - se la massa è compresa fra 1,4 masse solari fino ad
un valore di 2-3 volte tanto. In questo caso il corpo stellare, passando per
una fase di supernova, espanderà gli strati esterni espellendo piu' o
meno violentemente la materia che creerà poi un involucro gassoso in
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rapida espansione. Il nucleo invece, diminuendo le proprie dimensioni,
aumenterà allo stesso tempo la densità, così da risultare alla fine una
sfera estremamente compatta (con un diametro di una decina di km), che
per effetto delle grandi forze risultanti e dell'intenso campo magnetico,
inizierà a girare vorticosamente attorno al proprio asse emettendo
particolari impulsi sotto forma di onde radio (pulsar). La composizione
della materia subirà inoltre cambiamenti radicali mutando tutti i propri
elettroni e protoni in neutroni.

Buco nero - quando la massa ammonta ad oltre 3 volte quella del Sole.
In questo caso la stella inizia a contrarsi per effetto delle grandi forze
gravitazionali, ed in maniera molto piu' massiccia, che non nelle stelle di
dimensioni minori. La densità crescerà allora all'infinito dando inizio ad
una fase di contrazione, che nemmeno la degenerazione della materia
riuscirà ad arrestare, mentre di pari passo aumenteranno le sue capacità
attrattive, sino ad impedire persino alla luce di sfuggire.
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