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La popolazione americana prima e dopo la conquista
Il crollo demografico americano ha suscitato un ampio dibattito fra gli storici, che hanno
particolarmente evidenziato il ruolo decisivo giocato dalle epidemie infettive e il peso del trauma
culturale subito dagli indios.
Nella Brevissima relazione della distruzione delle Indie, pubblicata nel 1552 ma scritta una decina
d’anni prima, Las Casas affermò che Hispaniola (76 200 kmq) aveva in origine tre milioni di
abitanti e che di questi ne erano rimasti in vita solo poche centinaia. Mentre sull’estinzione degli
indiani di Hispaniola possono esistere pochi dubbi, la valutazione di Las Casas della popolazione
iniziale (40 ab./kmq) è sembrata a lungo poco compatibile con l’agricoltura primitiva che doveva
esservi praticata e a essa sono state contrapposte cifre molto più basse, mezzo milione o solo 60000
abitanti.
Gli storici ammettevano densità elevate solo per le aree dove erano esistite agricolture più evolute
ed erano sorti gli imperi azteco e inca.
I calcoli dei demografi di Berkeley
Per il Messico e il Perú le tesi a favore di cifre assai più alte hanno però finito per prevalere, via via
che ci si è resi conto che la produttività dell’agricoltura basata sul mais e sulle altre maggiori piante
americane (la manioca, i fagioli e le patate) era stata assai sottovalutata. Con le loro indagini degli
anni cinquanta e sessanta, basate sulla ricostruzione della “capacità di carico ambientale” delle aree
più evolute, i demografi dell’università di Berkeley (in particolare Woodrow Borah e Sheburne F.
Cook) sono arrivati via via a proporre per il Messico centrale, la prima regione studiata a fondo,
dapprima 11 milioni di abitanti nel 1519, poi 17 e infine 25, cifra oggi comunemente accettata.
Las Casas e la “leggenda nera”
Nella già ricordata Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Las Casas scrisse che in
quarant’anni gli spagnoli avevano provocato la morte di 12 o perfino 15 milioni di indiani,
attraverso le violenze dirette e lo sfruttamento del lavoro, «non da altri mossi che dalla sfrenata
brama dell’oro, dal desiderio di empirsi di ricchezze e di elevarsi ad alte posizioni, affatto». Ciò che
Las Casas riferisce è una orrenda sequela di massacri sanguinosi e crudeltà senza alcuna
giustificazione compiute dagli spagnoli «allo scopo di spargere e inculcare il terrore della loro
ferocia». È sulla base di questo resoconto che nacque quella che gli spagnoli definirono una
“leggenda nera”, alimentata poi dalla propaganda dei nemici della Spagna, inglesi in testa.
Il dibattito sul ruolo delle epidemie
Le testimonianze di Las Casas trovano riscontro in quelle fornite da altri ecclesiastici, ma
dall’interminabile elenco degli atti di sadica efferatezza alle cifre nell’ordine dei molti milioni c’è
ancora un salto molto grande. Negli anni cui si riferisce Las Casas, fra i conquistadores e gli indios
vi era un rapporto numerico non inferiore a uno a quattro o cinquemila e verrebbe da pensare che
gli spagnoli non possedessero mezzi di sterminio in grado di portarli al genocidio.
Lo storico americano A.W. Crosby (Lo scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali
del 1492, 1972) ha esaminato il ruolo ricoperto dalle malattie infettive importate dagli europei nel
facilitare l’opera dei conquistadores. Vaiolo e morbillo avevano acquisito in Europa un decorso
molto particolare: chi sopravviveva all’infezione ne restava immunizzato e perciò a ogni nuova
epidemia esse si manifestavano tipicamente come malattie infantili. «Si può invece presumere»
scrive Crosby» che nel caso di un gruppo mai colpito in precedenza, il morbo infetti quasi tutti gli
individui con cui viene in contatto.»
Il crollo demografico americano dipese da un fattore “aumento della mortalità”, nel quale le
epidemie ebbero un peso quantitativo superiore a quello delle violenze dirette. Tuttavia, come ha
scritto David Stannard (Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, 1992)
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concentrandosi quasi esclusivamente sulla malattia e attribuendo la responsabilità di uno sterminio
di massa a un esercito di microbi invasori, gli studiosi contemporanei hanno dato l’impressione
che l’eliminazione di quelle decine di milioni di persone non sia stata intenzionale, ma piuttosto
una triste ma inevitabile “involontaria conseguenza” delle migrazioni.
Giustamente, perciò, altri storici (come John Hemming, La fine degli incas, 1970) hanno tenuto
conto anche delle conseguenze del profondo trauma culturale subito dagli indiani.
A partire dalla morte di Huyana-Capac il popolo del Perù era vissuto attraverso una serie
impressionante di catastrofi. La sua società, calma e rigidamente organizzata, era stata
frantumata, in rapida successione, da una feroce guerra civile, dalla sconvolgente conquista per
mano di stranieri totalmente “alieni” per razza e concezioni, da due vigorosi tentativi di resistenza,
e da una micidiale sequenza di lotte fratricide fra gli invasori. In tempi così tragici, molti indigeni
si demoralizzarono tanto profondamente da perdere la stessa volontà di vivere.
Suicidi, infanticidi e riduzione del numero delle nascite dettero certo un grande contributo allo
spopolamento dell’America.
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