Tema n. 6 Il candidato, dopo aver delineato la disciplina dell

Tema n. 6
Il candidato, dopo aver delineato la disciplina
dell’esercizio di un diritto e dell’adempimento del
dovere in funzione scriminante, analizzi la rilevanza
penale dei fatti commessi in occasione di operazioni
sotto copertura, anche in riferimento alla normativa
sovranazionale
RIFERIMENTI NORMATIVI
Art. 51 c.p.
SCHEMA DI TRATTAZIONE
●● L’esercizio di un diritto: nozione.
●● Il diritto scriminante: le fonti.
●● Limiti di operatività della scriminante.
●● Il diritto di cronaca.
●● Il diritto di critica.
●● L’adempimento del dovere: nozione.
●● Il dovere imposto da norme giuridiche.
●● L’ordine dell’autorità.
●● Fonti normative delle cd. operazioni sotto copertura.
●● Disciplina processuale.
Una delle cause di giustificazione di maggior rilievo del nostro
sistema penale (sul piano dogmatico-interpretativo, nonché per frequenza applicativa) è quella disciplinata dall’art. 51 c.p., sotto la
denominazione «esercizio di un diritto».
Dispone, in particolare, il primo comma della citata disposizione
che «l’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità».
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In ordine a questa scriminante si pongono problemi in relazione
alla individuazione delle fonti che prevedono il diritto, al concetto
stesso di diritto ed ai limiti dello stesso.
In relazione alla portata del concetto nella prassi applicativa si
interpreta il termine diritto in modo restrittivo nel senso che si richiede un vero e proprio diritto soggettivo protetto dalla norma in
modo individuale e diretto e di cui sia titolare il cittadino uti singulus.
La dottrina dominante, invece, tende a conferire all’espressione
la massima estensione possibile per cui vi si fa rientrare qualsiasi
potere giuridico di agire quale che sia la relativa denominazione legislativa o dogmatica. In questo senso la scriminante abbraccia tutte
le attività giuridicamente autorizzate. Non rientrano, invece, gli interessi legittimi e semplici in quanto non strutturalmente suscettibili
di esercizio.
Quanto alla fonte del diritto l’opinione tradizionale ritiene che
possa essere la più varia: la legge ordinaria, il regolamento, il provvedimento amministrativo, il contratto di diritto privato, la legge
regionale, la consuetudine etc. Alcuni autori però escludono la legge
regionale perché come non può contenere precetti penali allo stesso
modo non può contenere limitazioni agli stessi.
L’esistenza e l’esercizio del diritto non valgono di per sé ad escludere la punibilità occorrendo all’uopo un’altra serie di condizioni.
In primo luogo occorre che il soggetto ponga in essere una condotta che costituisce estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto e
di conseguenza la scriminante non è invocabile se l’esercizio del
potere esuli dal fine per il quale è attribuito.
È necessario, quindi, un rapporto di congruenza tra esercizio del
diritto e fatto commesso; in tal senso si afferma che non basta che
l’ordinamento attribuisca un diritto perché il fatto commesso nel suo
esercizio non sia punibile ma occorre che la legge consenta di esercitarlo, quantomeno implicitamente, proprio attraverso quella determinata azione che costituisce reato; si richiede cioè che la condotta
con i caratteri concreti posti in essere dall’agente rientri tra quelle
previste dalla norma attributiva del diritto.
Esercizio di un diritto e adempimento del dovere
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Ai fini della operatività della causa di giustificazione, il fatto penalmente rilevante deve essere stato determinato dalla necessità di
esercitare il diritto.
Poiché è necessario un rapporto di proporzione tra interesse protetto dal diritto ed interesse leso, occorre individuare i limiti cui va
incontro l’esercizio del diritto per la salvaguardia di altri interessi
meritevoli di tutela.
In proposito si è soliti distinguere tra limiti interni e limiti esterni.
I primi derivano dalla natura e funzione del diritto esercitato per
cui essi segnano l’esatto ambito della norma attributiva del diritto.
I secondi, invece, vanno ricavati dal complesso delle norme giuridiche di rango pari o superiore alla norma attributiva e consistono
nella salvaguardia di quei diritti o interessi che abbiano valore uguale, o addirittura maggiore, di quello del cui esercizio si discute.
Quanto ai diritti riconosciuti da norme costituzionali essi non
possono essere limitati da norme di rango inferiore; i relativi limiti
vanno desunti a livello costituzionale e non dalla norma penale che
può tradurre in illeciti solo limiti già costituzionalmente previsti.
Nell’eventuale contrasto tra diritti costituzionalmente protetti e norme incriminatrici, prevalgono i primi.
Importanti applicazioni dell’art. 51 c.p. si rinvengono in relazione
ai diritti di cronaca e di critica.
La giurisprudenza ritiene che il diritto di cronaca giornalistica,
sia questa giudiziaria o di altra natura, rientra nella più ampia categoria dei diritti pubblici soggettivi relativi alla libertà di pensiero e
di stampa consacrati dall’art. 21 Cost. per cui il suo esercizio scrimina eventuali reati commessi.
Posta questa premessa si è allora affermato che il diritto di cronaca può essere esercitato anche quando derivi danno all’altrui reputazione purché vengano rispettati determinati limiti e cioè, che la notizia sia vera o, quantomeno, seriamente accertata (cd. limite della
verità) e che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti
medesimi nel senso che la loro divulgazione contribuisca alla formazione di una opinione pubblica su fatti oggettivamente rilevanti per
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la comunità (limite della pertinenza) ed infine che la esposizione
della notizia sia mantenuta nei limiti della obiettività, serenità ed
adeguatezza del linguaggio senza che si travalichi da una esposizione e da una critica civile anche se vivace (limite della continenza).
Dal diritto di cronaca occorre distinguere il diritto di critica in
quanto quest’ultimo, a differenza del primo, non si sostanzia nella
narrazione di fatti bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che
essere fondata sull’interpretazione necessariamente soggettiva di
fatti e comportamenti.
Il fondamento del diritto di critica, anch’esso riconducibile all’art.
21 Cost., va rinvenuto nella circostanza che, svolgendo il soggetto la
sua attività in campi che interessano tutti i consociati, può da tutti
essere valutato positivamente o negativamente.
Il limite essenziale del diritto di critica è costituito dal principio
del neminem laedere e dal rispetto del decoro e di conseguenza la
critica deve mantenersi nell’ambito della correttezza del linguaggio
e del rispetto dell’onore e della reputazione altrui. Tale limite può
ritenersi superato quando l’agente trascenda ad attacchi personali,
diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di interesse pubblico, la figura morale del soggetto criticato giacchè in tal
caso l’esercizio del diritto, lungi dal rimanere nell’ambito di una
critica misurata ed obiettiva, trascende nel campo dell’aggressione
alla sfera morale altrui, penalmente protetta.
Ciò detto in merito alla scriminante dell’esercizio del diritto, è ora
possibile analizzare la seconda figura richiesta dalla traccia, anch’essa disciplinata dall’art. 51 c.p.: l’adempimento di un dovere.
L’art. 51 c.p. al comma primo stabilisce che «[…] l’adempimento
di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo
della pubblica autorità esclude la punibilità». Anche la ratio di questa
scriminante va ravvisata nel principio di non contraddizione: è infatti impensabile che l’ordinamento da un lato imponga una determinata condotta e dall’altro ne faccia derivare una sanzione penale.
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Il dovere può derivare da una norma giuridica o da un ordine
di una autorità pubblica. Deve trattarsi di dovere giuridico per cui
è escluso che possa giustificare la commissione di un reato l’adempimento di un dovere morale.
Il problema che si pone al riguardo attiene alla individuazione
delle possibili fonti della norma impositiva del dovere.
Nulla quaestio se si tratta di legge ordinaria o di atto equiparato.
Posizioni diverse in dottrina si riscontrano per i doveri che hanno la
loro fonte nelle leggi regionali, nei regolamenti e nella consuetudine.
Infatti chi ritiene che il principio di stretta legalità attenga anche alla
materia delle cause di giustificazione esclude l’efficacia scriminante di
un dovere posto da fonte inferiore alla legge ordinaria che non può
porre limiti alla norma penale prevista da una fonte di rango primario.
Questa tesi è invece respinta da coloro che ritengono che le norme
che prevedono cause di giustificazione non hanno natura penalistica
e quindi non sono soggette al principio di stretta legalità e sono desumibili dall’intero ordinamento giuridico.
Si afferma, conseguentemente, che l’ordine scriminante può derivare anche da legge regionale, conforme ai principi della legge
statuale, da regolamento conforme alla legge, da consuetudine secundum legem.
L’indirizzo consolidato in giurisprudenza ritiene, invece, che la
locuzione «dovere imposto da norma giuridica» vada inteso nel senso più lato, comprensivo di qualunque precetto giuridico non importa se emanato dal potere legislativo o esecutivo.
Quanto all’ordine dell’autorità, consiste in una manifestazione di
volontà che il soggetto, munito per legge di un potere di supremazia
di diritto pubblico, rivolge al subordinato imponendogli di tenere una
determinata condotta.
Affinché l’esecuzione dell’ordine possa avere efficacia scriminante occorre quindi che tra i due soggetti intercorra un rapporto di
supremazia di diritto pubblico mentre non scrimina l’adempimento di un ordine di un’autorità privata come accade nel campo del
lavoro subordinato.
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In ordine al concetto di pubblica autorità è pacifico che vi rientrano i pubblici ufficiali mentre si discute se siano compresi anche gli
incaricati di pubblico servizio o gli esercenti servizi di pubblica necessità.
Affinché sorga l’obbligo di una determinata condotta, e quindi
l’efficacia giustificante dell’adempimento del dovere, occorre che
l’ordine sia legittimo da un punto di vista formale e sostanziale.
Sotto il primo profilo l’ordine deve essere emanato da soggetto
munito del relativo potere, diretto al soggetto competente ad eseguirlo, e rivestito dei requisiti di forma previsti dalla legge.
Sotto il secondo profilo devono sussistere i presupposti previsti
dalla legge.
L’ordine legittimo scrimina chi lo dà e chi lo esegue.
Se l’ordine è illegittimo di regola il destinatario ha la possibilità
di sindacarne la legittimità formale e sostanziale e, in caso di esito
negativo della valutazione, ha l’obbligo di non eseguirlo.
Se lo esegue, del fatto commesso in esecuzione dell’ordine, risponde chi lo ha impartito unitamente con chi lo abbia eseguito.
La responsabilità penale presuppone la possibilità di sindacato da
parte del subordinato e quindi, che tale responsabilità non sussiste
laddove l’ordine è insindacabile. Tanto prevede l’ultimo comma
dell’art. 51 c.p. a mente del quale «non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato
sulla legittimità dell’ordine».
Quando tale possibilità manchi si parla di ordine illegittimo vincolante, come accade nei rapporti di natura militare o assimilati in
cui si richiede all’esecutore la più stretta e pronta obbedienza.
Anche quando l’ordine è insindacabile si tratta sempre di una
insindacabilità relativa nel senso che il sottoposto non può valutarne
la legittimità sostanziale (così l’agente di Polizia Giudiziaria deve
eseguire l’ordinanza di custodia cautelare anche se emessa in mancanza dei gravi indizi di colpevolezza) ma può sempre sindacarne la
legittimità formale (non deve eseguirla invece se non è emessa dal
Giudice per le Indagini Preliminari o se difetta della sottoscrizione).
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Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere l’esistenza di
un limite alla stessa insindacabilità sostanziale dell’ordine da parte
del subordinato astretto alla più rigorosa osservanza: tale limite è
individuato nella manifesta criminosità dell’ordine.
Circa i requisiti della manifesta criminosità dell’ordine, parte della dottrina più recente, in contrasto con l’orientamento tradizionale,
propende per un parametro non esclusivamente oggettivo: in questo
senso ove l’inferiore gerarchico ha ottemperato ad un ordine della cui
criminosità abbia consapevolezza pur non essendo essa manifesta in
modo tale da apparire a qualunque uomo medio, il medesimo non
potrà usufruire della scriminante dell’adempimento del dovere.
Se il soggetto, pur avendo la possibilità di sindacato della legittimità dell’ordine, per errore di fatto ritiene di eseguire un ordine
legittimo (es. ordine di carcerazione abilmente falsificato), non risponderà del fatto commesso giovandosi di una causa di esclusione
dell’elemento psicologico.
Se, infine, l’errore è dovuto a colpa dell’esecutore, questi ne risponde qualora il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo.
Quanto alla tematica delle operazioni sotto copertura, viene
risolta quando il legislatore unifica la materia nell’art. 9 (Operazioni
sottocopertura o anche dette Operazioni Undercover) L. 16 marzo
2006, n. 146. Successivamente, il legislatore, sulla scorta delle indicazioni derivanti dalla giurisprudenza di Strasburgo e raccolte dalla
giurisprudenza di legittimità nazionale, nel 2010 (L. 136/2010) ha
modificato l’art. 9, L. 146/2006 circoscrivendo così l’ambito di operatività soggettivo di questa speciale causa di giustificazione ai soli
agenti sotto copertura, escludendo esplicitamente gli agenti provocatori in senso stretto. Possono rivestire il ruolo di agenti sotto copertura (o cd. agenti provocatori) gli ufficiali di polizia giudiziaria
della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della
Guardia di Finanza, gli appartenenti alla DIA (Direzione Investigativa Antimafia) o alle strutture specializzate, che abbiano superato
prove selettive e ricevuto un particolare addestramento. Il ruolo
dell’undercover è quello di infiltrarsi, occultando la propria identità.
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La sua attività è strumentale all’acquisizione di elementi di prova,
mediante l’instaurazione di contatti e/o rapporti più o meno intensi
con esponenti di sodalizi od organizzazioni criminali.
Sotto il profilo investigativo, l’attività degli undercover è limitata
all’espletamento di compiti soltanto di controllo, di osservazione e
di contenimento dell’altrui azione illecita. Tuttavia può commettere
reati senza essere punito. Il legislatore italiano si è occupato della
materia soprattutto dal punto di vista del diritto penale sostanziale.
Infatti, le indagini sotto copertura e l’agente provocatore pongono il
problema della punibilità dell’agente che, nell’ambito delle indagini,
ha preso parte ai fatti di reato. La rilevanza penale del suo operato
viene scriminata in virtù delle disposizioni di cui all’art. 51 c.p., che
contempla tra le cause di non punibilità l’adempimento di un dovere.
La ratio della norma trova fondamento nel fatto che un agente provocatore (o undercover/sotto sopertura) per infiltrarsi efficacemente
nell’ambito di organizzazioni criminali, dovrebbe apparire quanto
meno disponibile all’attività illecita. Tuttavia, l’agente undercover
non ha il privilegio di restare impunito per qualsiasi reato commesso
nell’ambito delle operazioni sotto copertura. I reati, per la commissione dei quali resta impunito, sono tassativamente indicati dall’art.
9 della L. 146/2006, successivamente ampliati alle indagini per i
reati di estorsione (art. 629 c.p.), usura (art. 644 c.p.), sequestro di
persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anche nelle ipotesi non aggravate, attività
organizzate per il traffico illecito di rifiuti, reati in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Inoltre, sul versante soggettivo si è estesa la speciale causa di non
punibilità delle attività sotto copertura anche alle interposte persone,
delle quali possono avvalersi gli ufficiali di polizia giudiziaria e i loro
ausiliari. Viene, poi, ampliata la fattispecie di reato di rivelazione o
divulgazione indebita dei nomi del personale di polizia giudiziaria
impegnato in operazioni sotto copertura, anche oltre i limiti temporali precedentemente sanciti in relazione allo svolgimento delle
suddette attività di polizia. Sotto il profilo strettamente operativo,
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invece, è stato previsto che delle operazioni debba essere data preventiva comunicazione all’autorità giudiziaria competente per le
indagini, indicando il nominativo dell’ufficiale di polizia giudiziaria
responsabile, nonché degli eventuali ausiliari e interposte persone
impiegati nelle operazioni, se necessario o se richiesto dal pubblico
ministero e, per le attività antidroga, anche dalla Direzione centrale
per i servizi antidroga. In ogni caso, il pubblico ministero deve essere informato senza ritardo, nel corso dell’operazione, delle modalità
e dei soggetti che vi partecipano, nonché dei risultati della stessa.
Inoltre, è consentita la ritardata od omessa esecuzione di atti di
propria competenza da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria,
nell’ambito delle rispettive attribuzioni, e delle autorità doganali,
limitatamente alle sole ipotesi di cui agli artt. 70, co. 4, 6 e 10, 73 e
74, D.P.R. 309/1990, quando sia necessario per acquisire rilevanti
elementi probatori ovvero per l’individuazione o la cattura dei responsabili. In ogni caso, deve essere dato immediato avviso, anche
oralmente, al pubblico ministero, con la trasmissione di motivato
rapporto entro le successive quarantotto ore. Qualora si svolgano
attività antidroga, tale immediato avviso deve pervenire anche alla
Direzione centrale per i servizi antidroga per il necessario coordinamento in ambito internazionale. Le comunicazioni e i provvedimenti adottati dal pubblico ministero sono trasmessi senza ritardo al
Procuratore Generale presso la Corte d’appello e, limitatamente ai
delitti di cui all’art. 51, comma 3bis-3quinquies, c.p.p., al procuratore nazionale antimafia.
Più significative, da un punto di vista contenutistico, le modifiche
concernenti il codice di procedura penale (art. 497, co. 2bis) e le
relative disposizioni di attuazione (artt. 115 e 147bis), il cui obiettivo
è garantire, in ogni stato e grado del procedimento, l’anonimato dei
soggetti coinvolti in attività sotto copertura. La disciplina novellata
stabilisce, infatti, che nelle annotazioni di polizia eseguite durante le
indagini preliminari possa essere menzionata solo l’identità fittizia
degli ufficiali o agenti impegnati in tali attività (art. 115, co. 1bis,
disp. att. c.p.p.); che, tali soggetti, nonché i loro ausiliari o interposte
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persone, nel corso dell’esame dibattimentale e in qualsiasi deposizione effettuata in ogni stato e grado del procedimento, indichino le
sole generalità di copertura (art. 497, co. 2bis, c.p.p.); che l’esame
dibattimentale si svolga con le cautele idonee alla tutela e alla riservatezza della persona esaminata, onde evitare la visibilità del volto,
ovvero con lo strumento della videoconferenza. Degna di nota, a tal
fine, la modifica dell’art. 147bis disp. att. c.p.p., estendendo la rubrica (finora circoscritta alle figure dei collaboratori di giustizia e degli
imputati di reato connesso) anche all’ipotesi degli operatori sotto
copertura, introducendo nella norma il comma 1bis secondo cui
«l’esame in dibattimento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, anche appartenenti ad organismi di polizia esteri, degli
ausiliari e delle interposte persone, che abbiano operato in attività
sotto copertura ai sensi dell’articolo 9 della legge 16 marzo 2006,
n. 146, (…) si svolge sempre con le cautele necessarie alla tutela e
alla riservatezza della persona sottoposta all’esame e con modalità
determinate dal giudice o, nei casi di urgenza, dal presidente, in ogni
caso idonee a evitare che il volto di tali soggetti sia visibile», ed
inserendo nel terzo comma la lettera c-bis) che stabilisce che l’esame
si svolga a distanza (salvo che il giudice ritenga assolutamente necessaria la presenza del dichiarante) «quando devono essere esaminati ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, anche appartenenti ad
organismi di polizia esteri, nonché ausiliari e interposte persone, in
ordine alle attività dai medesimi svolte nel corso delle operazioni
sotto copertura di cui all’articolo 9 della legge 16 marzo 2006, n.
146», con la precisazione che «in tali casi, il giudice o il presidente
dispone le cautele idonee ad evitare che il volto di tali soggetti sia
visibile». Viene quindi introdotto, nel nostro sistema processuale, uno
«statuto speciale» applicabile al personale di polizia giudiziaria e ai
suoi collaboratori privati che sono stati impegnati in attività sotto
copertura. Si tratta di una disciplina eccezionale che impone: a) di
menzionare esclusivamente l’identità fittizia assunta dai soggetti in
questione nelle annotazioni redatte dalla polizia giudiziaria nel corso
delle indagini preliminari; b) di indicare soltanto le medesime gene-
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ralità di copertura nell’esame dibattimentale e nelle ulteriori deposizioni effettuate dai predetti soggetti in ogni stato e grado del procedimento; c) di procedere all’esame dibattimentale con le cautele
idonee ad evitare che il volto di tali soggetti sia visibile e, di regola,
con il mezzo della videoconferenza. Gli atti delle indagini preliminari e del dibattimento che attengono alle attività sotto copertura
vengono, quindi, compiuti con modalità che derogano nettamente
rispetto alle ordinarie forme di esercizio del diritto al contraddittorio
nella formazione della prova.
Si sono, così, posti anche altri problemi riguardo alle indagini
sotto copertura. Innanzitutto, si è posto il problema del sequestro di
corpo del reato e cose pertinenti al reato ottenuti nel corso di indagini sotto copertura illegittime. La giurisprudenza si è divisa: secondo
una parte, trattandosi di un modo illegittimo di apprensione delle
cose, il sequestro è anch’esso illegittimo e le cose vanno restituite;
altra parte ha invece fatto applicazione del principio male captum
bene retentum, dichiarando che il sequestro è un atto dovuto e quindi ritenendo che il sequestro sia valido nonostante l’illiceità delle
indagini (cfr. Bortolin).
Altro problema che si è posto è quello dell’utilizzabilità delle
registrazioni delle conversazioni intervenute fra polizia giudiziaria
e informatori, registrazione fatta dalla p.g. all’insaputa degli informatori. La Corte di Cassazione ha sul punto risolto un contrasto
giurisprudenziale con la sentenza “Torcasio”, a sezioni unite (Cass.,
Sez. Un., n. 36747/2003). È stato ritenuto, innanzitutto, che non si
tratta di intercettazioni perché il soggetto che capta non è terzo, ma
è parte della comunicazione e quindi diventa legittimamente possessore delle informazioni, di cui può disporre. La questione non ricade
sotto l’art. 15 Cost., perché questo protegge dall’intrusione di terzi
nella comunicazione. In ogni caso, tale prova, che ha carattere documentale, potrebbe essere inutilizzabile ex art. 191 c.p.p., laddove
l’attività della polizia sia stata illegittima. Dunque, queste registrazioni sono inutilizzabili quando servono a eludere i divieti di testimonianza, oppure ad acquisire informazioni indizianti senza la pre-
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senza del difensore, oppure ancora quando servirebbero ad aggirare
il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria. Sono
utilizzabili invece quando non servano ad aggirare limiti probatori o
comunque in caso di irripetibilità della prova ex art. 512 c.p.p.
Si è visto, dunque, quali sono i campi di legittimità delle indagini
sotto copertura. Gli esempi sono tratti principalmente da attività
anti-droga, ma si ricordi che questo è il campo utilizzabile anche in
tema di antiterrorismo, ex art. 9 L. 146/2006, comma 1, lett. b).
Peraltro, in seguito all’emergenza terroristica, è intervenuto il D.L.
7/2015, conv. in L. 43/2015 con novità anche in materia di indagini
sotto copertura. Così, il comma 2 dell’art. 2 dispone che, ai fini dello
svolgimento di indagini sotto copertura contro il terrorismo, l’organo
del Ministero dell’Interno dedicato alla sicurezza delle telecomunicazioni aggiorna costantemente un elenco di siti internet utilizzati per
attività terroristiche, nel quale confluiscono le segnalazioni della p.g.
Quanto, infine, al processo penale, a parte le modifiche terminologiche relative alla Direzione e al Procuratore nazionale antimafia e
antiterrorismo, sono da segnalare a riguardo: la modifica dell’art. 497,
comma 2bis, c.p.p., che consentirà — oltre che agli ufficiali e agenti
di polizia giudiziaria, ai loro ausiliari e alle interposte persone che
abbiano svolto attività sotto copertura — anche ai dipendenti dei
servizi di informazione per la sicurezza, chiamati a deporre in ordine
alle loro attività svolte ai sensi della pertinente disciplina di cui alla
L. 124/2007, di indicare le proprie generalità di copertura (art. 8 del
decreto legge); la modifica degli artt. 24 e 27 della L. 124/2007 sulla
disciplina dei servizi, che consentirà agli appartenenti agli stessi, da
un lato, di utilizzare le proprie identità di copertura negli atti dei
procedimenti penali di cui all’articolo 19, dandone comunicazione
con modalità riservate all’autorità giudiziaria procedente contestualmente all’opposizione della causa di giustificazione; e, dall’altro, di
deporre in ogni stato o grado del procedimento con identità di copertura, anche al di fuori delle ipotesi disciplinate dal (novellato) art.
497, co. 2bis, c.p.p. (art. 8 del decreto legge) ed, infine, l’attribuzione al pubblico ministero che proceda per delitti di terrorismo, allorché
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sussistano concreti elementi che consentano di ritenere che taluno
stia compiendo detti delitti per via telematica, del potere di ordinare,
con decreto motivato, «ovvero ai soggetti che comunque forniscono
servizi di immissione e gestione, attraverso i quali il contenuto relativo alle medesime attività è reso accessibile al pubblico, di provvedere alla rimozione dello stesso. In caso di contenuti generati dagli
utenti e ospitati su piattaforme riconducibili a soggetti terzi, è disposta la rimozione dei soli specifici contenuti illeciti. I destinatari
adempiono all’ordine immediatamente e comunque non oltre quarantotto ore dal ricevimento della notifica. In caso di mancato adempimento, si dispone l’interdizione dell’accesso al dominio internet
nelle forme e con le modalità di cui all’art. 321 c.p.p., garantendo
comunque, ove tecnicamente possibile, la fruizione dei contenuti
estranei alle condotte illecite».