Terenzio Maccabelli NASCERE DISUGUALI: CONSIDERAZIONI SU EUGENETICA ED EREDITARISMO IN ITALIA DSS PAPERS STO 02-08 INDICE 1. Premessa ................................................................................... Pag. 05 2. “Migliorare la razza umana”: l’eugenetica “positiva” e “negativa” di Francis Galton .............................................................. 3. Galton, l’eugenetica e il razzismo di Stato in Italia: continuità o rotture? ............................................................................................... 4. Corrado Gini: dall’eugenetica “qualitativa” all’eugenetica “quantitativa” ....................................................................................... 5. Questioni controverse ........................................................................... 3 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia - Credevo che cercaste le malattie contagiose. - Purtroppo è stato scientificamente provato che la mancanza di intelligenza è ereditaria e di conseguenza contagiosa in un certo senso. Non vogliamo che i nostri cittadini si mescolino con le persone meno intelligenti. - Che visione moderna! Ellis Island, New York, La “quarantena” degli immigranti, dal film Nuovomondo di Emanuele Crialese 1. Premessa L’eugenetica, come il razzismo, ha dato un contribuito formidabile a radicare nella prima metà del secolo scorso le culture della disuguaglianza e della persecuzione, con strascichi che si sono protratti fino ai nostri tempi. Nata per opera dell’eclettico scienziato inglese Francis Galton, l’eugenetica si proponeva di rovesciare l’assunto illuministico dell’eguaglianza “naturale” degli uomini, per dare nuova linfa al principio – radicato da millenni nell’immaginario sociale – secondo cui gli esseri umani sono per “natura” disuguali. Il problema della diffusione dell’eugenetica in Italia è stato a lungo trascurato dalla storiografia. Solo di recente si è cominciato a interrogarsi sulle modalità di diffusione e sulle peculiarità del pensiero eugenetico italiano. Il rinnovato interesse per l’eugenetica si situa dopo una stagione, durata tutta gli anni novanta, durante la quale è stato profuso notevole sforzo interpretativo e documentario per inquadrare le diverse anime del razzismo italiano, cominciando a porre sul tappeto anche la questione del rapporto tra 5 Terenzio Maccabelli eugenetica e razzismo 1 . È però sopratutto in questi ultimissimi anni che si è assistito a un approfondimento sistematico di questo tema, con la pubblicazione di importanti studi dedicati espressamente all’eugenetica 2 . Avvalendoci dei risultati raggiunti da tale storiografia, cercheremo di presentare in questo scritto l’immagine dell’eugenetica che prevalse nell’Italia della prima metà del secolo scorso, discutendo alcuni dei problemi sui quali divergono le interpretazioni. Data la vastità dell’argomento, la lettura qui proposta sarà per forze di cose selettiva, concentrando l’attenzione solo su alcune tematiche e solo su alcuni dei numerosi protagonisti che contribuirono a radicare anche in Italia le idee eugenetiche. Il saggio è organizzato in quattro parti. Nella prima verrà brevemente presentata la concezione dell’eugenetica del fondatore di tale disciplina, ossia Francis Galton. Discuteremo in particolare le due articolazione dell’eugenetica che divennero canoniche all’inizio del secolo scorso, ossia l’eugenetica “positiva” e l’eugenetica “negativa”. Nella seconda parte en- 1 2 6 Si veda, tra gli altri, M. Raspanti, I razzismi del fascismo, in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antifascismo razzista, a cura del centro Studi F. Jesi, Grafis, Bologna, 1994, pp. 73-89; G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Mulino, Bologna, 1998; A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia, 1870-1945, Il Mulino, Bologna, 1999; R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze, 1999. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubbettino, Soveria Monnelli, 2004 (della stessa autrice si veda anche Rigenerare la stirpe: il movimento eugenico italiano e la grande guerra (1915-1924), “Ricerche di storia politica”, vol. 6, n. 2, giugno 2003); F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. Ad essi si deva aggiungere anche A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano, 2001, che verte in gran parte sull’eugenetica. Tra i contributi pionieristici sul tema della diffusione dell’eugenetica in Italia: C. Pogliano, Scienza e stirpe: Eugenica in Italia (19121939), “Passato e presente”, n. 5, 1984, pp. 61-97, contributo ripreso in Id., Eugenisti, ma con giudizio in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia, 1870-1945, cit., pp. 423-442; M. Ciceri, Origini controllate. L’eugenica in Italia (1900-1924), Tesi di laurea, Università di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1992/93 (consultabile sul sito www. tesionline.it). Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia treremo nel merito del problema fondamentale che attraversa l’intera storiografia sull’eugenetica italiana: fino a che punto essa restò fedele all’originaria concezione galtoniana dell’eugenetica, basata come noto su un rigido determinismo biologico? Nell’emergere del “razzismo di Stato” che venne sancito dal Manifesto della razza e dalle leggi discriminatorie del 1938 si possono intravedere i segni di una sostanziale linea di continuità che dall’Inghilterra di Galton, passando attraverso l’America e la Germania nazista, portò le idee eugeniche a radicarsi anche nel nostro paese. In verità, come avremo modo di vedere, le modalità di affermazione dell’eugenetica in Italia seguirono strade peculiari, tanto da lasciare ancora controverso, sul piano storiografico, l’interrogativo sull’eugenetica italiana come una delle matrici culturali del razzismo fascista. La terza parte dello scritto è dedicata a Corrado Gini, studioso tra i più impegnati nel diffondere l’eugenetica in Italia e che in tutta la recente storiografia emerge come figura centrale e di assoluto rilievo. Proprio la biografia di Gini documenta peraltro in modo emblematico quanto ambivalenti siano stati i rapporti tra l’eugenetica italiana e il razzismo. Questo non significa, come si è a lungo pensato a proposito del razzismo, che il nostro paese ne sia rimasto sostanzialmente estraneo. Gli sforzi storiografici di questi ultimi anni hanno precisato differenze, peculiarità e specificità dell’eugenetica italiana, ma senza incorrere in alcuna tentazione assolutoria o minimizzatrice. La quarta e conclusiva parte discute invece alcune delle principali questioni storiografiche, a partire dal problema della continuità o meno dell’eugenetica italiana con il razzismo fascista per arrivare all’interrogativo sui fondamenti ideologici e dottrinari che – in Italia come nel mondo – originarono il fenomeno dell’eugenetica. 7 Terenzio Maccabelli 2. “Migliorare la razza umana”: l’eugenetica “positiva” e “negativa” di Francis Galton “Eugenetica” – o “eugenica”, come talvolta si traduce l’inglese eugenics – è una parola introdotta da Francis Galton nella seconda metà dell’Ottocento, per designare un nuovo campo del sapere che si proponeva di “migliorare le qualità razziali” della specie umana agendo sui processi di selezione naturale e sui meccanismi riproduttivi. L’idea di poter “migliorare la razza umana” si face strada nella mente di Galton in virtù di due stimoli decisivi: il primo veniva dal suo interesse per le genealogie dei “grandi uomini” da cui aveva tratto il convincimento di una sostanziale ereditarietà non solo dei tratti fisici ma anche delle capacità intellettuali; il secondo stimolo veniva dalla svolta impressa nella biologia dal cugino Charles Darwin, attraverso la scoperta delle leggi dell’evoluzione e della selezione naturale. Con passione quasi maniacale Galton si dedicò per tutta la vita allo studio dei cosiddetti “uomini di genio”, di cui volle ricostruire minuziosamente le genealogie e i pedigree familiari. Il presupposto esplicito da cui muoveva era che la “genialità” o, più in generale, le attitudini intellettuali, non fossero qualcosa di acquisito attraverso l’insegnamento, l’educazione o l’ambiente ma qualcosa di congenito e trasmesso per via ereditaria. Questa convinzione si fece strada precocemente, in particolare negli anni in cui Galton era ancora studente universitario a Cambridge 3 , e continuò a costi- 3 8 “I think the firs evidence of the kind that strongly impressed me was in relation to classical successes. To be Senior Classic – that is, to be the very first classic of the Year at Cambridge, where the body of undergraduates contains picked boys from schools in all part of the country – is a very considerable feat. Yet I found that these senior classes were often so closely inter-related that out of forty-one of them six had either a father, son, or brother who was a Senior Classic, or in one case a Senior Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia tuire il cuore delle sue ricerche. Gran parte della sua produzione “scientifica” successiva fu espressamente dedicata a questo tema 4 , con l’intento dichiarato di provare empiricamente le convinzione maturate negli anni giovanili. Come ha sottolineato R.S. Cowan, questi intenti erano chiaramente esplicitati sin dalla prima sua opera sull’argomento, Heredity Talent and Character, un’analisti statistica condotta sui dizionari biografici per individuare le relazioni parentali di uomini illustri e dal quale emergeva la sua predilezione per lo studio quantitativo dei problemi 5 . Anche nelle opere successive, l’approccio quantitativo rimase uno dei tratti caratteristici della sua metodologia d’indagine. Galton si avvalse delle tecniche statistiche più avanzate del tempo, contribuendo egli stesso a dare un stimolo decisivo alla nascita e allo sviluppo di concetti come la correlazione e la regressione. In Hereditary Genius, inoltre, la cui prima edizione è del 1869, Galton rappresentava la distribuzione delle attitudini intellettuali per mezzo della “curva degli errori”, poi divenuta nota e universalmente conosciuta come curva “normale” 6 . 4 5 6 Wrangler. No mere tuition could account for this. They must have been born with exceptional capacity” (F. Galton, Eugenics, “Westminster Gazette”, 26th June 1908). Tra i titoli più significativi, di per sé esplicativi dell’importanza attribuita da Galton al problema dell’eredità del “talento”, possiamo qui ricordare Hereditary Talent and Character (1865), Hereditary Genius (1869), English Men of Science: Their Nature and Nurture (1874), Inquiries into Human Faculty (1883) e Natural Inheritance (1889). In quest’opera “Galton posed the question, ‘Can extraordinary intellectual gifts be inherited?’ and answered the question by counting the number of men listed in a biographical dictionary who were relatives of someone else on the list. Finding the number to be greater than the frequency of outstanding men in the general population, Galton concluded that ‘genius’ must be hereditary” (R.S. Cowan, Francis Galton’s Statistical Ideas: The Influence of Eugenics, “Isis”, vol. 63, n. 4, pp. 510-511). È infatti soprattutto grazie a Galton che la legge degli errori e la distribuzione normale entrano nelle scienze sociali. L’intento di Galton è di perfezionare le intuizioni di Adolphe Quetelet, al fine di dimostrare come la distribuzione delle diverse attitudini umane, sia fisiche che mentali, riveli la forma tipica delle curve gaussiane, o normali, 9 Terenzio Maccabelli L’obiettivo principale rimaneva comunque quello di provare che la capacità degli individui era l’esito del loro corredo biologico ereditario. Alla base di questo determinismo biologico vi era la distinzione, formulata per la prima volta dallo stesso Galton, tra “nature” e “nurture” 7 , i cui corrispondenti italiani (“natura” e “cultura”) rendono solo parzialmente il significato. A parere di Galton la “nature” prevaleva in misura formidabile sulla “nurture”: l’ambiente sociale, infatti, avrebbe avuto un ruolo trascurabile nella formazione della personalità umana, che risiedeva invece in “caratteri innati” e biologici a cui ascrivere le fondamentali differenze individuali e di razza (ritenute per questo immodificabili). Il secondo stimolo che condusse Galton sulla strada dell’eugenetica veniva da Darwin. Attraverso le leggi dell’evoluzione biologica e della selezione naturale Darwin spiegava un fenomeno – la selezione “artificiale” delle piante e degli animali domestici – che da secoli veniva svolto per “tentativi” ed “errori” ma senza la conoscenza delle leggi dell’eredità ad esso sottostanti. Nel suo Variations of Animals and Plants under Domestication, pubblicato nel 1868, Darwin aveva invece illustrato la potenza e l’efficienza della selezione artificiale riconducendo il fenomeno alle leggi dell’evoluzione naturale. Il termine “domestication”, talvolta “culture” 8 , si riferiva appunto alla prassi, molto antica, di mutare le caratteristiche fisiche 7 8 10 con una frequenza concentrata intorno al valore medio (cfr. S. Gordon, The History and Philosophy of Social Science, London, Routledge, 1991, p. 532; P.T. Manicas, A History and Philosophy of the Social Sciences, Oxford, Basil Blackwell, 1987, p. 235). “Nature is all that a man brings with himself into the world; nurture is every influence from without that effects him after his birth” (cit. in J.A. Field, The Progress of Eugenics, “The Quarterly Journal of Economics”, vol. 26, n. 1, 1911, p 14). “From a remote period, in all part of the world, man has subjected many animals and plants to domestication or culture” (C. Darwin, Variations of Animals and Plants under Domestication, p. 2). Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia di pianti ed animali al fine di ottenere specie che soddisfacessero meglio determinati bisogni umani. Come ha sottolineato Martin Brüne, Charles Darwin was the first to systematically examine biological changes in species under artificial breeding conditions. Even though he did not refer to the question of human self-domestication in his two volumes on Variations of Animals and Plants under Domestication, Darwin proposed clear definitional criteria for the process of domestication. He emphasised (1) that the domestication of animals is more than taming, (2) that it represents a goal-oriented process for human purposes, (3) that the variability of physical and “mental” characteristics is greater in domesticated species than in their wild ancestors, including the occurrence of dwarfism and gigantism, (4) that the behavioural plasticity and educability of domesticated species is greater, and (5) that the brain size of domesticated animals is smaller than that of their wild ancestors 9 . Era però ben lungi da Darwin l’idea che qualcosa di analogo potesse attuarsi nell’ambito della specie umana. La strada che Darwin non aveva preso in considerazione fu invece seguita fino in fondo dal cugino Galton. Senza esitazione egli aprì le breccia all’idea che la selezione artificiale costituisse un efficace strumento per controllare e migliorare la razza umana. La derivazione dall’universo animale e vegetale di questa idea è provato dai primi lemmi individuati dallo scienziato inglese per designare il nuovo campo del sapere: inizialmente, Galton utilizzò infatti i termini “viriculture” 10 e “stirpculture” 11 , il secondo dei quali ebbe un discreto seguito, specie in America. Anche quest’ultimo lemma venne tuttavia abbandonato da Galton, allorché cominciò a preferire il termine di nuova coniazione Eugenics, letteralmente “buona nascita”. Questo comparve per la prima volta nel 1883, ma in modo timido, quasi a tradire il fatto che Galton non avesse ancora maturato il convincimento di farne il proprio vessillo 12 . Era comunque 9 M. Brüne, On human self-domestication, psychiatry, and eugenics, “Philosophy, Ethics, and Humanities in Medicine”, vol. 2, n. 21, 2007. 10 F. Galton, Hereditary Improvement, “Fraser’s Magazine”, January 1873, p. 119. 11 F. Galton, A Theory of Heredity, “Contemporary Review”, December 1875, p. 81; pubblicato anche in “Journal of the Institute”, vol. V, n. 3, January 1876, p. 330. 12 “The investigation of human eugenics – that is, of the conditions under which men of a high type are produced – is at present extremely hampered by the want of full fam- 11 Terenzio Maccabelli ormai matura l’idea che la nuova disciplina avesse bisogno di un termine adeguato e che i precedenti “viriculture” e “stipculture” non fossero idonei allo scopo. We greatly want a brief word to express the science of improving stock, which is by no means confined to question of judicious mating. […] The word eugenics would sufficiently express the idea; it is at least a neater word and a more generalised one than viriculture, which I once ventured to use 13 . L’affermazione del nuovo termine proposto da Galton non fu tuttavia rapidissima, sebbene i dibattiti su temi riconducibile a ciò che diventerà l’eugenetica erano ormai all’ordine del giorno. Ci volle un periodo di incubazione che durò circa un ventennio, dopo di che, più o meno all’inizio del nuovo secolo, il successo della parola Eugenics era ormai irreversibile. Numerose le definizioni dell’eugenetica proposte dal suo fondatore, nelle quali possiamo individuare due elementi ricorrenti. Il primo riguarda l’oggetto stesso dell’eugenetica, che appunto verte sulla questione del “miglioramento delle qualità razziali” della specie umana. “Eugenics – scriveva infatti Galton nel 1904 – is the science which deal with all influences that improve the inborn qualities of a race; also with those that develop them to utmost advantage” 14 , una definizione riproposta, con qualche variante, anche nel 1905: “Eugenics may be defined as the science which deals with those social agencies that influence, mentally or physically, the racial qualities of future generations”15 . Il secondo elemento che potremmo definire costitutivo dell’eugenetica galtoniana è il tema dell’ereditarietà. ily histories, both medical and general, extending over three or four generations” (F. Galton, Inquires into Human Faculty and its Development, London, 1883, p. 44). 13 F. Galton, Inquires into Human Faculty and its Development, cit., p. 24. 14 F. Galton, Eugenics: its Definition, Scope and Aims, “American Journal of Sociology”, vol. 10, n. 1, Jul. 1904, p. 1. 15 F. Galton, Studies in Eugenics, “American Journal of Sociology”, vol. 11, n. 1, Jul. 1905, p. 11. 12 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia Questo aspetto, dal punto di vista definitorio, viene enfatizzato nel 1908, allorché Galton puntualizzava che “The Science of Eugenics (pronounced with a soft g, as in the name of the Empress Eugénie and in the word Genesis) is based on Heredity” 16 . Uno degli aspetti più importanti dell’ereditarismo di Galton è che esso concedeva molto poco all’ambientalismo. Come August Wiessmann, egli riteneva che il “plasma germinale dell’uomo non poteva subire alterazioni per le influenze esterne” e che quindi “i mutamenti dovuti a fattori ambientali si sarebbero solo in minima parte trasmessi per via genetica ai discendenti” 17 . Galton si poneva in questo modo in diretto antagonismo con la tesi lamarckiana dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, abbandonando l’ipotesi che i mutamenti fenotipici si potessero trasmettere ai discendenti. Se miglioramento della razza ed ereditarietà erano i componenti costitutivi dall’eugenetica galtoniana, dal punto di vista pratico essa doveva porre in essere due strategie per realizzare i propri obiettivi: in primo luogo fare in modo che “the indesiderables be got rid of” e in secondo luogo “the desiderables multiplied” 18 . Seguendo la prima strada diventava necessario che “a stop should be put to the production of families of children likely to include degenerates” 19 ; mentre la seconda comportava la necessità di moltiplicare il numero degli individui “superiori”, ossia che “the useful classes in the community” fossero messi in condizione “to contribuite more than their proportion to the next generation” 20 . 16 F. Galton, Eugenics, “Westminster Gazette”, cit. D. Padovan, Ereditarismo e ambientalismo nel discorso sociologico sulla razza tra le due guerre, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza, cit., p. 445. 18 F. Galton, Eugenics, “Westminster Gazette”, cit. 19 Ibid. 20 F. Galton, Eugenics: its Definition, Scope and Aims, cit., p. 3. 17 13 Terenzio Maccabelli È degno di nota il fatto che nella concezione galtoniana questa seconda strada avesse un rilievo maggiore rispetto alla prima, a differenza di quanto avverrà in seguito. Come scriveva Galton, infatti “the possibility of improving the race of a nation depends on the power of increasing the productivity of the best stock. This is far more important than that of repressing the productivity of the worst” 21 . In virtù di questa duplice strada attraverso cui perseguire gli scopi dell’eugenetica, a partire dai primi anni del Novecento essa cominciò a essere declinata in due modi: come eugenetica “positiva”, finalizzata al potenziamento dello stock genetico o razziale della popolazione (obiettivo da perseguire agevolando l’accoppiamento degli individui ritenuti “superiori”); e come eugenetica “negativa”, volta a scongiurare il deterioramento della razza attraverso la limitazione delle possibilità riproduttive degli individui ritenuti “inferiori”22 . Sebbene non sembra che Galton abbia mai fatto 21 22 F. Galton, Essay in Eugenics, cit., p. 24. In questo scritto ci atterremo esclusivamente a questi significati dei termini eugenetica “positiva” ed eugenetica “negativa”. È doveroso tuttavia segnalare che accezioni parzialmente diverse sono state utilizzate dalla storiografia. Roberto Maiocchi, ad esempio, parla di un’eugenetica “negativa” – diffusa nella cultura medica italiana e nella quale rientravano l’igiene, la medicina preventiva, le bonifiche ambientali, ecc. ecc. – per contrapporla all’eugenetica “positiva” ricondotta in senso lato alla cultura anglosassone (cfr. R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit, pp. 57-58 e passim). Giorgio Israel e Pietro Nastasi a loro volta propongono ulteriori declinazioni. Dopo aver ricordato che quando si parla di “‘eugenica’ si possono intendere molte cose”, specificano che “si possono intendere le varie forme di eugenica positiva – includenti dei programmi di igiene fisica, di assistenza prima e dopo il parto, di cura e ‘miglioramento’ dell’infanzia, di determinazione delle migliori forme di alimentazione – oppure le forme di eugenica negativa che comportano un intervento diretto sulle nascite, sui matrimoni, fino alla sterilizzazione degli individui ‘difettosi’” (G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 131). I due esempi che abbiamo riportato non solo sono discordanti tra loro ma propongono entrambi significati dei termini eugenetica “positiva” ed eugenetica “negativa” diversi da quelli che si sono qui privilegiati. 14 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia uso dei termini “eugenetica positiva” ed “eugenetica negativa” 23 , essi traducevano abbastanza fedelmente concezioni del tutto esplicite nello stesso fondatore dell’eugenetica. È piuttosto singolare, invece, il rovesciamento che si ebbe, con il radicarsi del sapere eugenetico, dell’importanza relativa attribuita ai suoi due ambiti: mentre Galton, come abbiamo visto, attribuiva una netta preferenza per l’eugenetica “positiva” 24 , in seguito questa venne decisamente surclassata dagli obiettivi e dai provvedimenti finalizzati all’eugenetica “negativa”. Partendo dall’idea che l’intelligenza fosse trasmissibile unicamente per via ereditaria e che le leggi darwiniane della selezione naturale potessero legittimare una “domestication” della specie umana, Galton sostenne dunque l’esigenza di una nuova scienza, l’eugenetica appunto, capace di migliorare le “qualità mentali” degli individui attraverso il controllo dei meccanismi di riproduzione. Con il primo decennio del secolo scorso la fase di costruzione della nuova disciplina poteva dirsi conclusa, mentre cominciava contestualmente il processo di diffusione di quello che è stato definito il 23 A quanto pare, il primo a introdurre le due qualificazioni dell’eugenetica, poi divenute canoniche, è stato Caleb W. Saleeby, Parenthood and Race Culture; An Outline of Eugenics, Yard and Company, New York, 1909. In questo libro – di fatto una delle prime, se non la prima, sintesi organiche dell’eugenetica – la materia veniva trattata distinguendo una parte “teorica” e una parte “pratica” o “applicata”. È appunto in questa seconda parte applicativa che veniva introdotta l’ulteriore distinzione tra eugenetica “positiva” ed eugenetica “negativa”. Inizialmente non sono mancate critiche ai termini scelti da Saleeby per qualificare questi due ambiti. C. R. Hugins, ad esempio, nella sua recensione al libro di Saleeby, osservava che termini come eugenetica “costruttiva” ed eugenetica “restrittiva” avrebbero meglio reso i due ambiti d’applicazione della nuova scienza (cfr. C. R. Hugins, Review of Caleb W. Saleeby, Parenthood and Race Culture; An Outline of Eugenics, “American Journal of Psychology”, vol. 22, n. 3, Jul., 1911, pp. 456-458). 24 Sul prevalere in Galton della concezione “positiva” dell’eugenetica, vedi anche D. J. Kevles, In the Name of Eugenics. Genetics and the Use of Human Heredity, Harward University Press, London, 1995, p. 85. 15 Terenzio Maccabelli “movimento eugenetico”. Il momento simbolico di avvio può ritenersi il 1907, allorché venne costituita a Londra l’Eugenics Society 25 . 3. Galton, l’eugenetica e il razzismo di Stato in Italia: continuità o rotture? Francis Galton non sembra avere avuto molta fortuna in Italia. Nessuna delle sue opere risulta tradotta e sebbene fosse certamente conosciuto non si può parlare di una sua presenza significativa nella cultura italiana. Questo nonostante l’Italia avesse tutte le credenziali per una immediata ricezione della sua opera. Grazie a Cesare Lombroso e alla sua scuola tematiche assi vicine a quelle di Galton erano all’ordine del giorno nell’Italia di fine Ottocento. E non sono in effetti mancati tentativi di istituire parallelismi tra i due scienziati. Come scrive Massimo Ciceri, le loro opere presentano analogie affatto nette: la ancestral law di Galton, che ritrova la misura dell’eredità atavica nell’individuo, si trova analoga in Lombroso, che sull’atavismo del carattere degenerativo costruì interamente l’edificio del suo “Uomo delinquente”. E allo stesso modo […] Lombroso e Galton osservarono i caratteri eccezionali del genio convergere, nel susseguirsi delle generazioni, verso “l’uomo medio”, secondo la galtoniana legge di “regressione verso la media” 26 . L’ipotesi suggestiva avanzata da Ciceri è che Lombroso sia stato una sorta di “Galton mancato” 27 , per lo meno un autore che aveva creato un ter- 25 Su cui P.M.H. Mazumdar, Eugenics, human genetics and human failing. The Eugenics Society, its source and its critics in Britain, London, 1992. 26 M. Ciceri, Origini controllate. L’eugenica in Italia (1900-1924), cit., p. 17; F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 13. 27 “Lo ripetiamo, è solo una ipotesi. Quella che Lombroso considerasse i gruppi di persone classificati dall’antropologia come troppo instabili per tentare una azione preliminare (eugenica) o troppo stabili (e votati all’estinzione ed al carcere) per preoccuparsi della loro discendenza. […] Possiamo anzi considerare che fu proprio la crisi delle teorie di Lombroso, inserita nella più ampia crisi del positivismo, il punto di 16 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia reno fertile per la diffusione e il radicamento delle idee galtoniane. Pur in assenza di studi sistematici sulla ricezione di Galton in Italia, quanto emerge dalla recente storiografia è invece una sua presenza limitata nel panorama degli “eugenisti” italiani. Il caso dello psicologo e antropologo Giuseppe Sergi, tra i fondatori dell’eugenetica italiana e in rapporto personale con lo scienziato inglese 28 , rappresenta la classica eccezione che tuttavia conferma la regola. Diverso il discorso per la creatura di Galton, l’eugenetica, la quale molto presto cominciò ad attrarre l’attenzione anche degli studiosi italiani. Era del resto molto difficile che questo non avvenisse. Nei decenni a cavallo del Novecento, pochi scrittori di scienze sociali riuscirono a sottrarsi alle illusioni di questa nuova disciplina. Numerosi problemi di carattere economico, sociale e politico vennero affrontati attraverso le griglie interpretative dell’eugenetica. Questioni come l’emigrazione, ad esempio, o anche la distribuzione del reddito e della ricchezza, trovarono un numero consistente di studiosi che ricorsero alle categorie concettuali dell’eugenetica per avanzare ipotesi interpretative o suggerire concrete misure di intervento 29 . Ma la tematica che più di ogni altra, in Italia come in altri paesi, favorì il diffondersi delle idee eugenetiche, fu quella della “degenerazione”, una vera e svolta imprescindibile, al di là del quale l’eugenica italiana poté svilupparsi per linee autonome e ed accettabili” (M. Ciceri, Origini controllate. L’eugenica in Italia (1900-1924), cit., p. 33; F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 14). 28 A cui dedicherà un Necrologio in occasione della morte (cfr. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 54). 29 Per quanto riguarda l’emigrazione, è noto che il problema maggiore, che divenne addirittura ossessivo per l’America, fu il timore della deriva disgenica provocata dall’immigrazione, contro cui si ersero le misure restrittive. Mentre per quanto riguarda il problema della distribuzione della ricchezza, in molti si avvalsero dell’eugenetica per provare che le disuguaglianze economiche erano da attribuire esclusivamente alle dotazioni genetiche degli individui anziché al contesto socioeconomico. 17 Terenzio Maccabelli propria paura, o ossessione, che pervase quasi tutta la cultura occidentale di fine Ottocento e inizio Novecento. Come ha scritto Claudia Mantovani, il concetto di “degenerazione”, nato come chiave diagnostica della psichiatria nell’opera […] dell’alienista francese Benedict Augustin Morel, […] si trasforma ben presto nella rappresentazione culturalmente più efficace della vera e propria crisi di identità che attanaglia la società occidentale tra Otto e Novecento. […] È la minaccia della degenerazione biologica della specie umana che conferisce urgenza programmatica alle proposte degli eugenisti, a partire dallo stesso Galton, preoccupato della scarsa fertilità delle classi dirigenti inglesi a confronto con la prolificità spensierata e irresponsabile delle classi qualitativamente “indesiderabili” 30 . Sul tema della “degenerazione” si esercitarono numerosi studiosi italiani. Non solo naturalmente Lombroso, ma anche coloro che diventeranno i principali interpreti dell’eugenetica italiana. Giuseppe Sergi, ad esempio, già ricordato per essere stato uno dei pochi studiosi italiani in diretto contatto con Galton, pubblicò nel 1889 una monografia dal titolo Le degenerazioni umane, nella quale troviamo una definizione del concetto di “degenerazione” destinata a molta fortuna e frequentemente citata dalla storiografia. Chiamo degenerati – scriveva Sergi – tutti quegli esseri umani, i quali, pur sopravvivendo nella lotta per l’esistenza, sono deboli e portano i segni più o meno manifestamente di questa loro debolezza, tanto nelle forme fisiche che nel modo di operare; e chiamo degenerazione il fatto di individui e di loro discendenti, i quali nella lotta per l’esistenza non essendo periti, sopravvivono in condizioni inferiori, e sono poco atti a tutti i fenomeni della lotta susseguente 31 . L’idea della “degenerazione”, sul finire dell’Ottocento, era solitamente supportata da due convinzioni: in primo luogo che le tare cui ascrivere le 30 31 18 C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., pp. 16-17. G. Sergi, Le degenerazioni umane, Dumoloard, Milano, 1889, p. 210; R. Villa, La critica antropologica: orizzonti e modelli di lettura alla fine del XIX secolo, in A. Burgio (a cura di ), Nel nome della razza, cit., p. 413; C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 55. Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia diverse manifestazioni della degenerazione fossero ereditarie; in secondo luogo che le selezione naturale avrebbe contribuito in modo spontaneo ad eliminare i meno adatti alla vita (cioè gli individui degeneri) se solo questo processo di selezione non fosse stato ostacolato in modo “artificiale” dalle istituzioni caritatevoli e assistenziali. Queste idee erano sufficientemente radicate nella cultura italiana, anche tra gli economisti. Il caso di Vilfredo Pareto è emblematico al riguardo. Egli osservava infatti che “vi sono individui che possono essere decisamente nocivi e pericolosi per la società, […] ed è grazie alla selezione, che questi rifiuti sono eliminati e la specie si conserva”. Come nella natura, anche nella società la selezione contribuisce alla distruzione degli “elementi inferiori” e impedisce “ch’essi si riproducano nei loro discendenti” 32 . Se “la razza umana” non fosse investita dalla legge di “selezione”, essa non potrebbe salvarsi “dal decadere” 33 . Ma agli occhi di Pareto, l’opera della selezione era ostacolata dalle riforme di carattere “sociale” propugnate dagli “umanitari” (soprattutto “socialisti”), per i quali adeguate condizioni ambientali avrebbero permesso il “miglioramento degli individui di qualità inferiore” 34 . Questa concezione era di fatto largamente condivisa nella cultura europea di fine Ottocento. Ma, come abbiamo visto, con l’eugenetica di Galton 32 V. Pareto, Les systèmes socialistes, Cours professé à l’Université de Lausanne, vol. III, Giard & Brière, Paris, 1901-1902, trad. it. I sistemi socialisti, Utet, Torino, 1987, pp. 540-542. 33 V. Pareto, Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale, Società Editrice Libraria, Milano, 1906, rist., Cedam, Padova, 1974, p. 299. 34 V. Pareto, Cours d’économie politique, vol. I-II, F. Rouge, Lausanne, 1896-1897, trad. it. Corso di economia politica, Einaudi, Torino, 1943, vol. II, p. 552. Cfr. anche V. Pareto, Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale, cit., p. 299: “Gli umanitari possono bene chiudere gli occhi per volontariamente ignorare questa verità, ma ciò non muta nulla ai fatti. In ogni razza nascono elementi di scarto, che debbono essere distrutti dalla selezione. I dolori di quella selezione sono il riscatto del mantenersi e del perfezionarsi la razza; ed è uno dei tanti casi in cui il bene dell’individuo è in contrasto col bene della specie”. 19 Terenzio Maccabelli si era fatto un passo ulteriore. Essa non si limitava a criticare le istituzioni sociali che in modo “artificiale” impedivano alla selezione naturale di operare; essa propugnava di dare un consistente aiuto alla selezione, addirittura di sostituirsi ad essa, facendo in modo che gli individui ritenuti “inferiori” fossero eliminati o per lo meno posti nelle condizioni di non riprodursi. È questo l’assunto principale, come detto, dell’eugenetica “negativa”, la quale appunto trasformava la selezione “naturale” in selezione “artificiale”. Il problema che gli eugenisti dovevano risolvere a questo punto era naturalmente quello di individuare le misure idonee per realizzare gli obiettivi dell’eugenetica “negativa”, dato che queste potevano andare dalla soppressione “diretta” degli individui ritenuti “inferiori” o “limitarsi” alla loro sterilizzazione. Ed è appunto su questo fronte, ossia la lotta alla degenerazione, che l’eugenetica, come ha sottolineato Claudia Mantovani, “acquisisce quegli strumenti programmatici che la renderanno tristemente famosa: dai limiti posti alla libertà di movimento interna e internazionale di soggetti biologicamente sgraditi, ai certificati sanitari prematrimoniali, allo sterilizzazione più o meno ‘volontaria’ di persone giudicate fisicamente, mentalmente o moralmente ‘inadatte’ a sostenere le sfide dell’evoluzione e del progresso” 35 . Si tenga presente, inoltre, che l’eugenetica cominciò molto presto a caricarsi di implicazioni “razziste”. I discorsi sull’inferiorità e la superiorità degli individui andavano di pari passo con l’attribuzione di tali prerogative a determinate tipologie razziali. È stato in verità sottolineato come, nella sua formulazione originaria, l’eugenetica non avesse implicazioni strettamente razziste (in che non significa naturalmente che fosse una “buona” 35 20 C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 16. Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia scienza). Al contrario, alcuni interpreti hanno sottolineato il fatto che dietro l’eugenetica di Galton prevalesse un discorso di “classe” più che di “razza” 36 . Molto presto tuttavia il sapere eugenetico divenne un alleato inseparabile del razzismo, in particolare del razzismo biologico. Quanto di tutto questo venne recepito in Italia? Che forma assunse nel nostro paese l’eugenetica? Essa fu accondiscendente nei confronti dell’eugenetica galtoniana e anglosassone o se ne differenziò? Sono questi alcuni degli principali interrogativi ai quali la recente storiografia ha cercato di rispondere. Per meglio evidenziare i problemi sottostanti a tali interrogativi cercheremo a questo punto di discutere alcune forme assunte dall’eugenetica in Italia cominciando con un salto temporale che ci porta negli anni del “razzismo di Stato” del Fascismo, cioè negli anni più favorevoli alla diffusione dei diktat dell’eugenetica di stampo ereditarista e biologico. I rapporti tra eugenetica e fascismo sono sempre stati molto stretti. Gli stessi cultori dell’eugenetica, nella stragrande maggioranza, furono tra i più convinti sostenitori del Regime. L’entrata in vigore della legislazione antiebraica non poteva che offrire un ulteriore e decisivo contributo nel dare “nuova visibilità e risonanza” alle idee eugenetiche 37 . Il fatto di leggere, nella “Difesa della razza” del 1942, un brano come quello di seguito ripor- 36 “Eugenics should be seen a an ideology of the professional middle class, and in particular of the ‘modern’ rather than the ‘traditional’ sector. Eugenic ideas were put forward as legitimation of the social position of the professional middle class, and as an argument for its enhancement. […] British eugenics was unique in many respects. In particular, it was a class rather than a ‘racist’ phenomenon, and unlike its German and United States equivalents is not to be understood in terms of preoccupation with Jews, Blacks or immigrants” (D. MacKenzie, Eugenics in Britain, “Social Studies of Science”, Special Issue: Aspects of the Sociology of Science: Papers from a Conference, University of York, UK 16-18 September 1975, Vol. 6, n. 3/4, Sep. 1976, p. 501). 37 A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit. 21 Terenzio Maccabelli tato potrebbe pertanto far pensare a un filo rosso che senza soluzione di continuità parte da Galton e arriva al “razzismo di Stato” dell’Italia fascista: Se qualcuno ci domandasse come si potremmo realizzare un razzismo positivo nel campo strettamente biologico, risponderemmo che basterebbe stimolare al massimo gli elementi meglio dotati dal punto di vista razziale del nostro popolo, di porre in condizioni favorevoli di sviluppo la grande massa degli elementi medi (i nove decimi circa della popolazione globale) e infine di far diminuire con misure energetiche, come la sterilizzazione e la castrazione, fino a farla sparire del tutto, la massa grigia degli elementi tarati ed asociali. Un’azione di tal genere dovrebbe essere accompagnata da una profonda riforma di carattere sociale ed economico. Noi siamo sicuri che il problema delle aristocrazie verrebbe di per sé risolto in breve tempo allorché si adottassero misure di tal genere da noi proposte. E per la nostra Patria, anche se ci fosse qualche lieve diminuzione quantitativa, un potenziamento degli elementi migliori e l’eliminazione di quelli peggiori sarebbe veramente salutare 38 . Come si vede, questo brano riprende in modo fedele i principi cardine dell’eugenetica galtoniana, in particolare le due dimensioni dell’eugenetica “positiva”, finalizzata al potenziamento dello stock genetico o razziale della popolazione agevolando l’accoppiamento degli individui ritenuti “superiori”, e dell’eugenetica “negativa”, volta a sopprimere le possibilità riproduttive degli individui ritenuti “inferiori”. Una concezione dell’eugenetica, come detto, supportata da un rigido determinismo biologico, in virtù del quale tanto i tratti razziali quanto le attitudini culturali degli individui si trasmettono per eredità. Autore di questo brano è Guido Landra, uno dei protagonisti della “svolta” attuata dal regime nel 1938 allorché i fermenti razzisti, già ampiamente presenti nella società italiana, si trasformarono in “razzismo di Stato” 39 . Landra, come è noto, è il compilatore del Manifesto del razzismo 38 G. Landra, Razzismo biologico e scientismo, “Difesa della razza”, vol. VI, n. 1, 5 novembre, 9-11; C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, cit., p. 442. 39 “Nel 1938, ‘anno cruciale e terribile per l’ebraismo europeo, si assiste in Italia al passaggio da un razzismo frammentato, composto di pregiudizi xenofobi e di atteggiamenti intolleranti, a un razzismo di stato” (M. Raspanti, I razzismi del fascismo, cit.) 22 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia italiano, redatto nel 1938 sulla base delle indicazioni dello stesso Mussolini: ed è altrettanto noto che tale Manifesto è completamente pervaso da una concezione “biologica” del razzismo, con gli italiani che improvvisamente entravano nell’olimpo delle razze elette, ossia le razze “ariane” 40 . Tutto lascerebbe insomma supporre che anche in Italia, come avvenuto nella Germania nazional-socialista, eugenetica e razzismo biologico si siano legati a filo doppio fornendo le basi “scientifiche” per legittimare le leggi discriminatorie e persecutorie del 1938. Come la recente storiografia ha messo in evidenza, il quadro è tuttavia molto più complesso. La stessa vicenda di Landra è esemplare 41 . Nel 1942, quando scrive il brano sopra ricordato, non è infatti più tra favoriti del Duce. Subito dopo avergli affidato l’incarico di redigere il Manifesto, Mussolini lo aveva posto a capo del neo Ufficio studi sulla razza istituito presso il Ministero della cultura popolare. Landra, allora giovanissimo assistente universitario e ancora misconosciuto, saliva così alla ribalta del dibattito politico. Ma improvvisamente, all’inizio dell’anno successivo, veniva rimosso dall’incarico, e assegnato a funzioni molto meno prestigiose. Nel 1940 verrà addirittura licenziato dal Ministero, lasciandolo a ventisette anni praticamente disoccupato. I retroscena di questa singolare vicenda sono oggi abbastanza conosciuti. Landra fu una pedina usata da Mussolini per avviare nel 1938 una frene- 40 Tra i pronunciamenti più espliciti del decalogo noto come Manifesto della razza, possiamo qui ricordare il terzo (“Il concetto di razza è concetto puramente biologico”) e il quarto (“La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana”). Il Manifesto della razza è riprodotto integralmente, tra gli altri, da R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., pp. 327-329. 41 Tra i contributi più recenti, cfr. A. Gilette, Guido Landra and the Office of Racial Studies in Fascist Italy, “Holocaust and Genocide Studies”, vol. 16, n. 3, Winter 2002, pp. 357-375. 23 Terenzio Maccabelli tica campagna propagandistica a favore del razzismo biologico 42 . Questa campagna sanciva anche sul piano culturale il “patto d’acciaio” con la Germania e fu lo stesso Landra a svolgere un ruolo fondamentale nei rapporti con l’alleato. Egli divenne infatti strettissimo sodale di Eugen Fisher, esponente di punta dell’eugenetica tedesca, e arrivò a essere insignito da Hitler con la Croce di I classe dell’Ordine della Croce Rossa tedesca. Il dato rilevante di questa prima fase del razzismo di Stato fu l’identificazione della razza italiana con quella ariana. Probabilmente però questa campagna non ebbe l’effetto sperato sull’opinione pubblica, che forse percepì come eccessivamente schiacciata sul modello tedesco la politica “razzista” mussoliniana. Come già in precedenza, Mussolini non si fece troppe remore a cambiare rotta, indirizzando la campagna propagandistica inizialmente verso un “nazional-razzismo” e poi verso un “razzismo esoterico-tradizionalista”43 . L’intento era naturalmente quello di individuare una concezione autoctona, svincolandola dal razzismo biologico che veniva sempre più identificato con la Germania44 . Questi dibattiti furono prevalentemente “dottrinari”, senza effetti di rilievo sulla macchina persecutoria nei confronti degli ebrei, ormai completamente avviata. Alcune ripercussioni tuttavia vi furono. Si tenga presente infatti che il rigido fondamento biologico del Manifesto portava ad attribui- 42 Sull’infatuazione mussoliniana per il razzismo biologico, cfr. M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei: cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino, 1994, p. 22. 43 M. Raspanti, I razzismi del fascismo, cit. 44 Come ricorda Aaron Gillette, non tutte le elite fasciste erano disposte ad accettare l’identità “ariana” del popolo italiano. “Some influential Fascists and scientists began to rally for a more traditional racial identity. They believed that that Italians belonged to a ‘Mediterranean’ race more antagonistic towards Germans than towards Jews. Their efforts contributed to Mussolini’s decision to purge the Racial Office in February 1939, removing Landra and his allies from positions of power” (A. Gilette, Guido Landra and the Office of Racial Studies in Fascist Italy, cit., p. 358). 24 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia re la razza ebraica anche a coloro che, figli di ebrei, non professavano la religione ebraica. Le successive versioni del razzismo tendevano invece a “salvare” chi si fosse convertito, una concezione evidentemente molto più appetibile per il Vaticano. Le ricerche di questi ultimi anni stanno insomma dimostrando in modo sempre più puntuale un dato rimasto a lungo nell’ombra: Mussolini appare terribilmente incerto sul tipo di “razzismo” cui fare riferimento, con frequenti ripensamenti, inversioni di rotta e improvvisi dietro-front. La questione non è tanto quella, ipotizzata da certa storiografia, di una supposta “via italiana” al razzismo, come tale “blanda”, “tollerante” e per questo meno esecrabile. Il razzismo rimane un dato fondante del fascismo, e il fatto che esso sia stato declinato in modi diversi non significa affatto che fosse meno radicato. Piuttosto, si deve riconoscere il dato di un universo complesso e variegato della cultura italiana, nella quale appunto si erano formate diverse correnti dottrinarie per ciò che concerne i criteri identificativi delle razze, e dalla quale Mussolini attinse in modi e forme diverse durante il ventennio fascista. Le modalità di diffusione e affermazione dell’eugenetica in Italia non fanno che confermare il quadro appena sommariamente delineato. Molti studiosi hanno parlato di “una via moderata all’eugenetica” 45 propria della tradizione italiana, caratterizzata da significative peculiarità rispetto alla concezione ortodossa che si era affermata nei paesi nordici e anglosassoni. Ciò che divide gli interpreti è tuttavia la relazione tra la tradizione autoctona e la svolta razziale del 1938. Mentre per alcuni tale svolta era implicita nella cultura eugenetica precedente, per altri tale legame apparirebbe più debole, avendo prevalso nella tradizione italiana un’impostazione in cui 45 A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., pp. 276-279. 25 Terenzio Maccabelli mancava, o comunque era debole, uno degli ingredienti fondamentali del razzismo: ossia “il mito della ‘purezza’ della razza, della difesa della sua identità biologica dalle contaminazioni esterne”. In particolare, sarebbe stato lo stesso fondatore dell’eugenetica, Francis Galton, ad avere avuto scarsa eco in Italia, come più in generale l’idea del determinismo biologico per ciò che concerne la trasmissione dei caratteri “qualitativi”. La posizione di Landra che abbiamo sopra ricordato, non era in sostanza affatto maggioritaria, ma si inseriva in un quadro composito e articolato di posizioni. La biografia scientifica-politica di Corrado Gini, da questo punto di vista, rappresenta senza dubbio una efficace cartina di tornasole. 4. Corrado Gini: dall’eugenetica “qualitativa” all’eugenetica “quantitativa” Scrittore poliedrico come pochi altri, Gini è innanzitutto famoso come statistico – tra l’altro primo presidente dell’Istat – oltre che come demografo, sociologo, economista ed anche politico 46 . Ma oltre a tutto questo Gini è stato anche una figura centrale dell’eugenetica italiana. La storiografia individua negli anni dieci del secolo scorso il momento di avvio, anche per l’Italia, di un vero e proprio “movimento eugenetico”. L’evento che sancì l’inizio di tale movimento fu il primo congresso internazionale di eugenetica che si tenne a Londra nel 1912 al quale partecipò una nutrita delegazione italiana. Ne faceva parte anche Gini, allora ancora giovane e non affermato studioso. Nel 1912 non era probabilmente il capo- 46 26 Cfr. F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Carocci, Roma, 2006. Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia fila della delegazione italiana che si recò a Londra; era tuttavia destinato a diventarlo nel volgere di un brevissimo arco temporale. Pochi anni prima del Congresso di Londra, nel 1909, Gini aveva pubblicato sul “Giornale degli economisti” un importante contributo nel quale affrontava una della questioni fondamentali dell’eugenetica, ossia la diversa prolificità delle classi sociali. In un clima culturale totalmente pervaso dalla paura della “degenerazione”, lo scarto tra le potenzialità riproduttive dei ceti inferiori rispetto a quello delle elite pareva una prova ulteriore dell’incombente peggioramento qualitativo della specie umana 47 . In un scenario di questo tipo, Gini assunse invece una posizione controcorrente. Egli cominciava col chiedersi se le diffuse declamazioni sul “diverso accrescimento delle classi sociali” avessero un effettivo fondamento empirico. Avvalendosi dei pur limitati dati statistici allora disponibili, giungeva alla conclusione che effettivamente tale tendenza avesse un riscontro reale, arrivando addirittura ad avanzare la tesi che tale tendenza fosse l’esito di una sorta di “legge naturale”. Dall’indagine statistica Gini traeva infatti la conclusione che “il diverso accrescimento delle classi sociali”, lungi dall’essere “una peculiarità del nostro tempo”, deve ritenersi “una legge generale delle società umane” 48 . Questo non giustificava tuttavia le conclusioni apocalittiche che molti avevano tratto da questa tendenza demografica. Per spiegare i motivi per cui la bassa prolificità dei ceti superiori non doveva essere percepita come un problema, Gini poneva in essere un approccio metodologico fortemente interdisciplinare che sarò il tratto tipico 47 Per alcuni era addirittura in corso “un suicidio di classe”, dovuto a questa scarsa prolificità delle classi superiori. 48 C. Gini, Il diverso accrescimento delle classi sociali e la concentrazione della ricchezza, “Giornale degli economisti”, s. II, gennaio 1909, p. 58. 27 Terenzio Maccabelli della sua lunga carriera di studioso 49 . Osservava infatti che il “diverso accrescimento delle classi sociali” era un fenomeno di “vitale importanza” non solo per la demografia, ma anche per la biologia, la sociologia, la storia, la politica, l’antropologia, la statistica e l’economia50 . È singolare che non venga menzionata l’eugenetica, a riprova del fatto che nel 1909 questa “scienza” non aveva ancora ricevuto attenzione in Italia. Ma le spiegazioni che Gini si accingeva a dare del fenomeno in questione, diverranno l’asse portante del discorso eugenetico che si svilupperà in Italia dopo il 1912, a seguito del menzionato Congresso di Londra. È quindi doveroso riassumere le tesi formulate nel 1909, ancorché non ancora collocate nel quadro organico nella scienza denominata “eugenetica”. Gini abbozza per la prima volta in questo saggio uno dei capisaldi della sua teoria sociale, fortemente debitrice della teoria paretiana della circolazione delle aristocrazie. Pareto aveva espresso forte riserve sulla tesi sostenuta da Galton e da molti suoi seguaci secondo la quale l’eccellenza, il genio, e in genere la superiorità si riproducono solo nell’ambito di elite chiuse. In particolare, Pareto aveva rovesciato l’idea che gli individui provenienti dal “basso” potessero “inquinare” le elite o le aristocrazie 51 . Secondo l’economista di Losanna, se non ci fosse questo “ricambio”, se non ci fosse un processo continuo di ascensione di individui dal basso verso l’alto, la società sarebbe destinata a perire. Sono pertanto proprio i soggetti prove49 Non dobbiamo dimenticare che proprio in questo saggio Gini formulava per la prima volta, seppure in forma embrionale, quello che sarà destinato a diventare il suo contributo più famoso anche a livello internazionale, ossia l’indice di misura della disuguaglianza noto appunto come “indice di Gini”. 50 C. Gini, Il diverso accrescimento delle classi sociali, cit., p. 61. 51 Una delle affermazioni più celebri di Pareto è quella dei ceti inferiori come “crogiuolo ove si elaborano le future aristocrazie”, fonte continua di “elementi che salgono nella regione superiore” (V. Pareto, Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale, cit., p. 273; Id., Cours d’économie politique, cit., vol. II, p. 414). 28 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia nienti dai ceti inferiori che permettono al sistema sociale di rinnovarsi continuamente e di sopravvivere. Anche agli occhi di Gini, la questione “demografica” del “diverso accrescimento delle classi sociali” aveva innanzitutto una fondamentale valenza “sociologica” e “politica”. Egli osservava infatti che dalla “grande massa” delle “classi povere, […] come da un immenso vivaio, sorgono continuamente […] gli eletti”. […] Le classi basse di oggi saranno il popolo di domani, da esso sorgeranno i governanti futuri”. Oltre che importante dal punto di vista politico e sociale, la circolazione delle elite aveva inoltre una fondamentale rilevanza dal punto “biologico”, poiché chiamava in causa i meccanismi della selezione naturale (che Gini talvolta chiama “cernita naturale”) e dell’evoluzione della specie. Il problema era come sopperire agli ostacoli frapposti alla selezione naturale dalla rigida organizzazione gerarchica delle società umane, nelle quali “il minor accrescimento delle classi ricche” costituiva effettivamente, come molti temevano, una potenziale “causa di peggioramento”. Tuttavia, esisteva secondo Gini un potentissimo fattore di compensazione grazie al quale, seppure in modo difforme e talvolta in modo meno efficiente rispetto all’universo naturale, la selezione naturale poteva agire anche nelle società umane. A questo contribuiva quell’“immane divisione del lavoro” che ha posto, da una parte, “i meglio dotati per vivere, i ricchi e gli intellettuali, le classi dominanti e dirigenti” e dall’altra “le classi lavoratrici”, cioè “i continuatori della specie” 52 . Per dirimere il quesito sulla natura progressiva o meno della circolazione delle aristocrazie era a questo punto necessario chiamare in causa la controversia tra “ereditaristi” e “ambientalisti” sul ruolo giocato rispettivamente dalla “natura” e dalla “cultura” nella formazione della personalità 52 C. Gini, Il diverso accrescimento delle classi sociali, cit., pp. 62-64. 29 Terenzio Maccabelli umana. A questo riguardo Gini prendeva esplicito partito a favore della “cultura”. Riteneva infatti assai poco probabile e comunque non ancora dimostrato “che i figli delle classi basse, che noi vediamo crescere in ambiente sfavorevole, privi di una sufficiente educazione, sarebbero riusciti inferiori ai figli delle classi elevate, qualora fin dalla nascita avessero goduto delle agiatezze e delle attenzioni di cui questi godono”53 . Da tutto questo Gini traeva una conclusione perentoria: “il minor accrescimento delle classi elevate […] non conduce al deterioramento della razza umana” e nemmeno impedisce l’evoluzione della specie. Esso mette viceversa in moto “una corrente ascensionale dalle basse alle alte classi sociali”, un processo ritenuto “progressivo” e di cui egli intendeva mettere in evidenza la rilevanza da molteplici prospettive disciplinari, dalla sociologia alla biologia dall’economia all’antropologia54 . Come anticipato, nel 1909 Gini non aveva ancora maturato l’idea di collocare il proprio discorso nel quadro dell’eugenetica, scienza che appunto ambiva a ricomprendere al proprio interno diversi orizzonti disciplinari. Ma con la partecipazione al primo congresso internazionale di eugenetica la scelta di Gini diventa inequivocabile, innestando l’eugenetica “al centro della propria ‘demografia integrale’, intreccio di discipline che dalla biologia s’estendeva alla sociologia” 55 . Nel proprio intervento al congresso di Londra, Gini riprende pertanto le linee direttrici del saggio del 1909, per ribadire le implicazioni “positive” della “fertilità differenziale” delle classi sociali. Ciò gli permetteva di prendere le distanze non solo dalle paure degenerative diffuse nella cultura eu- 53 Ibid., p. 62. Ibid., p. 82. 55 C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, cit., p. 463. 54 30 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia genetica anglosassone ma anche dal principio cardine dell’eugenetica “positiva”. Finché non sia dimostrato – scrive infatti Gini – che i figli delle classi basse, se fossero sottoposti fin dal concepimento alle stesse condizioni di ambiente dei figli delle classi elevate, riuscirebbero peggiori di questi, non è dimostrato che, stimolando la riproduttività delle classi elevate, si provvederebbe al vantaggio della razza meglio che lasciando che il loro posto sia preso dai figli del popolo 56 . Lo scetticismo sulla concezione ortodossa dell’eugenetica, intrisa di determinismo biologico, verrà continuamente ribadito da Gini nei suoi numerosi contributi successivi. Gli aspetti sui quali egli maggiormente insisterà sono due. In primo luogo sul fatto che erano ancora scarse le conoscenze sui meccanismi della trasmissione ereditaria, comunque tali da non provare con certezza che caratteri qualitativi come il “genio” o le “attitudini” avessero un alto grado di ereditarietà. In secondo luogo, egli insisteva sul ruolo fondamentale dell’“ambiente” e della “cultura”, recuperando in questo modo una sorta di “lamarkismo sociale” che ridimensionava notevolmente il determinismo biologico o genetico. Il problema demografico sul quale Gini aveva concentrato l’attenzione nei suoi primissimi studi, ossia la diversa capacità riproduttiva delle classi sociali, venne pertanto rovesciato, trasformandolo da “problema” a “ricchezza” vantaggiosa per la specie umana. Questo assunto “fu il punto il punto di partenza della teoria ciclica della popolazione propriamente detta che Gini iniziò a formulare dal 1912 e poi sviluppò attraverso successivi 56 C. Gini, Contributi statistici al problema dell’eugenica, “Rivista italiana di sociologia”, vol. XVI, n. 3-4, maggio agosto 1913, versione italiana della relazione presentata al congresso di Londra pubblicata in Aa.Vv., Problems in Eugenics. Papers communicated to the First International Eugenics Congress held at University of London July 24th to 30th, Eugenics Education Society, London, 1912; C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 76; F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 45. 31 Terenzio Maccabelli perfezionamenti che vanno fino agli anni Quaranta” 57 . Tra gli aspetti di rilievo, la reiterata condanna delle visioni apocalittiche sulla “degenerazione” o sul “suicidio di classe” 58 , e la sottolineatura dell’apporto decisivo dei ceti inferiori non solo per la sopravvivenza della specie ma per le elite stesse. Tutto questo comportò uno spostamento del cuore del discorso eugenetico dal problema della “qualità” al problema della “quantità”. Divenuto Gini uno dei leader indiscussi del movimento eugenetico italiano, questo orientamento risultò vincente. Negli anni successivi al primo conflitto mondiale, prevalse infatti in Italia un eugenetica di impostazione “quantitativa”, avallata in larga parte dalla concezioni demografiche, sociali e politiche di Gini, che lasciò uno spazio ridotto alla declinazione in chiave “qualitativa” dell’eugenetica. È difficile in effetti non pensare a Gini come mentore del famoso discorso dell’Ascensione di Mussolini, tenuto il 26 maggio 1927 alla Camera dei Deputati, nel quale vennero tracciate le direttive demografiche del regime. “Il numero è la forza dei popoli”, aveva affermato Mussolini, individuando nella crescita demografica l’unica strada per rafforzare la potenza e la vitalità dell’Italia59 . Nessuna apertura dunque nei confronti dei “limitato- 57 G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 125. “Il progressivo ridursi dei discendenti delle classi superiori” – scrive infatti Gini non può “senz’altro riguardarsi come un danno sociale” e sono pertanto “da accogliersi con riserva, per questo lato, i funesti presagi di deterioramento sociale, che ne trasse la scuola biometrica inglese” (C. Gini, Eugenetica, “Rivista italiana di sociologia”, fasc. 1, 1914, p. 6; C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 76). 59 Il principio del “numero come forza” venne ribadito da Mussolini anche l’anno successivo, in un articolo pubblicato su “Gerarchia” nel settembre del 1928 e nella prefazione alla traduzione italiana del volume di Richard Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli (Libreria del Littorio, Roma, 1928). Anche in queste circostanze, Mussolini definì la questione demografica come “il problema dei problemi”, assecondando di fatto l’impostazione che vi aveva dato Gini. 58 32 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia ri” e dei “controllori” delle nascite, tra i quali vi erano naturalmente anche gli eugenisti ortodossi, dalle cui politiche demografiche sarebbero scaturite de-natalità e decadenza. L’influenza di Gini nel rafforzarsi di questa concezione è del tutto palese. Nella teoria di Gini vi erano tuttavia anche alcune implicazioni che potevano non accordarsi pienamente con la politica demografica del regime, divergenze inizialmente latenti ma destinate a emergere in modo più vistoso circa un decennio dopo. Nella sua teoria del ricambio sociale – una sorta di “eugenetica rinnovatrice“, come è stata definita 60 – veniva infatti espressamente postulata la positività degli incroci razziali61 . Agli occhi di Gini, gli incroci non comportavano un rischio di “contaminazione” ma erano viceversa vitali dal punto di vista della “reviviscenza” dell’organismo nazione, purché naturalmente nell’ambito di stirpi “geneticamente ‘compatibili’ o meglio ‘complementari’”62 (un discorso, in sostanza, limitato alle popolazioni bianche, anche se su questo punto il discorso di Gini non è privo di ambiguità). Nella teoria di Gini vi erano dunque numerosi aspetti piena60 “All’eugenetica anglosassone, di tipo ‘conservatore’, incentrata sulla difesa delle élite biologiche e sull’eliminazione dei tarati, Gini contrappone […] un’eugenetica ‘rinnovatrice’, prevalentemente interessata allo studio dei fattori della nascita, evoluzione e morte delle nazioni” (F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 163). Cfr. C. Gini, Discorso d’apertura, pp. 26-27, cit. in F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 163: “Come sorgono i cespiti nuovi? Ammesso che provengano in definitiva dalla massa oscura della popolazione, quali circostanze ne determinano l’ascesa? Evidentemente non può questa avvenire per un’eredità dei fattori superiori, che per l’addietro non esistevano. Può trovarsene l’origine in combinazioni fortunate, sorte da incroci fra cespiti non troppo diversi e favorite dalla cernita naturale? Può contribuirvi il cambiamento di ambiente derivante dalle migrazioni? E quale importanza ha la selezione che nelle migrazioni si opera?”. 61 “Nella seconda metà degli anni venti, oltre a intensificare la battaglia contro il birth control e la selezione eugenetica del matrimonio”, Gini aveva infatti precisato, “sempre in polemica con l’eugenetica anglo-americana, la propria interpretazione degli incroci razziali”, nei confronti dei quali si era mostrato favorevole (F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 155). 62 Cfr. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., pp. 340-341. 33 Terenzio Maccabelli mente compatibili con la politica pro-natalista mussoliniana, “ma ve ne erano altri che ponevano non pochi problemi”. La sua concezione del ricambio sociale e la sua visione positiva degli incroci, in particolare, potevano “entrare in contrasto con l’idea della purezza razziale” 63 , cosa che in effetti avvenne dopo la metà degli anni Trenta. Ma negli anni che precedono la svolta razziale del regime, la posizione di Gini non soltanto appare del tutto congeniale alla politica demografica del regime, ma anche largamente condivisa tra i cultori italiani di eugenetica, che in generale guardano con occhi parzialmente diversi rispetto ai colleghi tedeschi e americani al problema degli incroci razziali. A partire dal 1929 si crea pertanto un’apparente unanimità intorno alle posizioni dello statistico padovano e il contrasto con le “aberrazioni” dell’eugenetica ortodossa si faceva sempre più forte 64 . In particolare, prevaleva “un clima di diffuso scetticismo, quando non di aperta ostilità, per gli aspetti più visibilmente ‘interventisti’ dell’eugenetica anglo-germanica” 65 . Questo contrasto, inizialmente solo dottrinario, divenne un problema di diplomazia “politica” allorché, tra il 1933 e il 1935, prende ufficialmente avvio la politica eugenetica nazista. Nel 1935 si tenne a Berlino un Congresso internazionale della popolazione in cui la maggior parte degli eugenisti internazionali (in particolare quelli americani) espressero supporto alla politica razzista della Germania. Gli studiosi italiani rimasero invece in disparte, preferendo non intervenire direttamente su questioni scottanti come quelle eugenetiche e razziali 66 . Secondo Anna Treves 67 questo avvenne per 63 G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 127-128. C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, cit., p. 438. 65 C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 259. 66 Tanto la rivista di Livio Livi (“Economia”) quanto quella di Gini (“Genus”) mantengono le distanze dai dibattiti sull’eugenetica, con pochi interventi sull’argomento. 64 34 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia ordine di Mussolini, non ancora deciso sull’atteggiamento da tenere sull’argomento. Si tenga presente che “in quel periodo Mussoloni aveva più volte dimostrato di voler prendere pubblicamente le distanze dal razzismo biologico nazista. ‘La scienza […] non garantisce la ‘purità’ del sangue di nessuno’, aveva scritto in un articolo uscito nell’estate 1934 con il titolo significativo di Fallacia ariana” 68 . Almeno per un certo periodo, l’Italia si differenziò e in parte prese le distanze dalle politiche eugenetiche di sterilizzazione attuate in molti paesi anglosassoni e nella Germania di Hitler, che si proponevano appunto di limitare la proliferazione degli individui ritenuti “tarati”. Appunto per sancire questa differenza, nel 1935 Gini avanza l’idea di un eugenismo latino diverso da quello della tradizione anglosassone, così da conciliare con il punto centrale della sua teoria sociale, secondo cui “gli incroci tra razze potevano essere positivi” 69 . E Mussolini stesso, tra il 1936 e il 1937, “aveva continuato a richiamarsi alla tradizione di una via moderata all’eugenetica”70 . Ma dietro le quinte del potere fascista le cose stavano lentamente cambiando, in quanto si stava profilando un graduale avvicinamento alla Germania. Il primo passo, come è noto, fu l’emanazione, nel 1937, delle leggi sul meticciato, che in qualche modo si scontravano con la valutazione posi- Tra le poche voci discordanti per motivazioni “etiche” al razzismo tedesco sono da ricordare quella dello statistico cattolico Marcello Boldrini. Anche nel Congresso internazionale della popolazione di Parigi del 1937 gli italiani rimasero defilati. In sostanza, ritiene Treves, “dopo il 1933 i demografi e demografi-statistici, nel loro insieme, tacquero; non vollero confrontarsi col sorgere e con l’imporsi della politica razzista ed antisemita in Germania” (A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., p. 296). 67 Cfr. A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., p. 285. 68 Ibid., p. 285. 69 Ibid., p. 289. 70 Ibid., p. 296. 35 Terenzio Maccabelli tiva che Gini aveva dato della questione dell’ibridazione razziale. In verità, come anticipato, Gini aveva limitato alle stirpi ritenute complementari il proprio discorso, tanto che fin dal 1932 aveva richiamata la necessità di un disciplinamento degli incroci, “soprattutto nel contesto coloniale africano” 71 . Ma la sua posizione continuò ad essere piuttosto ambivalente: da un lato approvava la scelta del regime, dall’altro continuava a ribadire “i suoi argomenti sul valore positivo dell’incrocio” 72 . Un ambivalenza che verrà utilizzata, durante il processo di epurazione, per cercare di dimostrare la sua non compromissione con la politica razziale del regime 73 . La posizione di Gini in questo fatidico torno temporale è in verità difficile da valutare. È certo tuttavia che almeno a partire dalla metà degli anni trenta egli non è più il demografo e lo statistico prediletto dal Duce. A sancire questo distacco è l’ingresso dell’avversario di Gini, lo statistico Livio Livi, alla direzione dei principali centri di studio dedicati della popolazione. Come osserva Cassata, “è probabilmente da individuare in questo momento l’inizio dell’estromissione di Gini da una politica demografica fascista, che tende progressivamente ad avvicinarsi, nella seconda metà degli anni Trenta, al modello nazionalsocialista e che ha come protagonista principale la figura di Livio Livi”. Nello stesso anno delle leggi sul meticciato, infatti, il regime aveva inaugurato la svolta “familista” nella politica demo71 Ibid., p. 179. Cfr., soprattutto, C. Gini, Prefazione a L. Cipriani, Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni africane, 1932, cit. in F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 180: “Riconoscere la necessità degli incroci per la conservazione delle stirpi, ammettere a seconda degli elementi razziali che vi concorrono, la varia qualità dei loro prodotti e la diversità, altresì, dal punto di vista sociale, del valore di questi in relazione alle diverse esigenze dell’ambiente, non significa negare l’importanza del problema eugenico degli incroci, ma se mai, accentuarla, in quanto riconosciuto il carattere inevitabile del fenomeno, più evidente appare la necessità di disciplinarlo”. 72 Cfr. F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 180. 73 Si veda l’intervista a Genesio Eugenio Del Monte durante il processo di epurazione nei confronti di Gini riportata da Cassata (cfr. Ibid., pp. 180-181). 36 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia grafica, incorporando il “modello tedesco dei prestiti matrimoniali, sostenuto da Livio Livi e costantemente osteggiato, invece, da Gini e dalla maggior parte degli altri demografi italiani” 74 . E arriviamo di nuovo al 1938, quando le ambiguità, il “doppio gioco” del regime cessano improvvisamente. All’emanazione, nel 1937, delle leggi che vietavano il meticciato sui territori coloniali, seguì l’anno successivo, la pubblicazione del Manifesto della razza. Gli obiettivi del regime non sono più soltanto quelli di “perseguire […] l’incremento della natalità e della popolazione, [ma] anche la difesa della razza nelle sue caratteristiche storiche e biologiche” 75 . Come dirà Mussolini il 18 settembre 1938, in un celebre discorso a Trieste, era giunto il momento di una “chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma anche delle superiorità nettissime” 76 . Come abbiamo anticipato nel paragrafo precedente, Mussolini aveva in sostanza optato per una declinazione biologica del razzismo e dell’eugenetica, secondo i capisaldi che troviamo nel decalogo del Manifesto sulla razza. Non deve stupire che a rappresentare le scienze statistiche, demografiche ed economiche non sia Gini, il cui nome appunto non compare tra i firmatari del Manifesto, ma Savorgnan, fautore invece di un determinismo biologico molto vicino a quello tedesco 77 . Sul fatto che già all’inizio dell’anno successivo Mussolini fosse costretto a reindirizzare il proprio razzismo in una direzione diversa, torneremo tra poco, dopo due considerazioni finali sul lungo itinerario intellettuale di Gini. 74 F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, cit., p. 133. A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., p. 312. 76 Il discorso continuava indivudando nell’ebraismo il “principale nemico del partito”. 77 La cosa non è di poco conto, se si tiene presente che Gini era stato il solo, tra i cultori di scienze sociale, a firmare nel 1925 il Manifesto degli intellettuali del fascismo. 75 37 Terenzio Maccabelli Come abbia visto egli era sostenitore, pur con qualche notevole eccezione, “della positività della mescolanza fra le razze”. Secondo Treves 78 , inoltre, almeno per quanto riguarda la politica razzista del fascismo, Gini non piegò la sua teoria sociale a giustificazione di essa. “Certo negli scritti di Gini di questi anni vi sono molte ambiguità. Ma mi sembra si possa dire con relativa tranquillità che proprio colui che aveva introdotto la ‘scienza’ eugenica in Italia, colui che già prima della guerra e negli anni seguenti aveva parlato di razza, da quando la razza era divenuta politica dello Stato, alla razza smise di dedicare attenzione. Sul problema della razza tacque. Pur rimanendo un fascista dichiarato. Un silenzio di cui non è facile cogliere il significato” 79 . È questo sufficiente per dire che siamo di fronte a qualcosa di diverso dal razzismo, magari qualcosa di più debole e quindi meno esecrabile? Dove appunto l’adesione al razzismo fascista, come implicitamente sembra emergere del lavoro di Anna Treves, assume le vesti di “una scelta inconsapevole, indifferente o opportunistica”? In verità, come ha osservato Cassata 80 , con il razzismo di Gini siamo di fronte a “un razzismo per molti aspetti più sottile e subdolo” di quello più rude di stampo biologico, ma pur sempre da qualificare come “razzismo”. A riprova di questo due episodi appaiono significativi. Negli anni quaranta Gini aveva condotto ricerche sui caraimi, un nucleo di popolazione insediato principalmente in Polonia e Lituania, proprio nel momento in cui i nazisti, ritenendole di stirpe semitica, avevano avviato lo sterminio di tali popolazioni. Attraverso la mediazione del ministro ple- 78 Cfr. A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., p. 335. Ibid., p. 337. Occorre dire, però, che quello che non fece Gini venne fatto da Nora Federici, sua strettissima allieva. 80 Cfr. F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, cit., p. 14. 79 38 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia nipotenziario d’Italia a Riga, erano stati fatti pervenire in Germania i risultati delle ricerche di Gini e della sua equipe, le quali “dimostravano l’appartenenza dei caraimi alla stirpe ugro-finnica e non a quella semitica”. Lo sterminio cessò. Gini avrà modo di dire, durante il processo di epurazione già ricordato, che “tentare di salvare gli ebrei sarebbe naturalmente stato inutile, ma si poteva sperare di salvare, ed effettivamente si sono salvati, i caraimi”. Cassata commenta al riguardo osservando che fu “un senso di deontologia scientifica, non un’effettiva opposizione allo sterminio degli ebrei, il principio guida-guida dell’intervento in difesa dei cariami” 81 . Il secondo episodio è degli anni cinquanta, in concomitanza degli Statements on Race dell’Unesco che stabilivano l’infondatezza del concetto di razza. Si creò in America un significativo movimento di opposizione ai dettami dell’Unesco, che ruotava attorno alla rivista “Mankind Quarterley”, e che ebbe come principale interlocutore italiano proprio Gini, che appunto condivideva la lotta contro “l’egualitarismo e l’antirazzismo sostenuti dall’Unesco e dagli Statements on Race” 82 . Anche in questo caso ci troviamo insomma di fronte all’elemento cardine che accomuna la biografica scientifico-politica di Gini, il gruppo di intellettuali americani che negli anni cinquanta e sessanta ripropongono le tesi dell’ereditarismo eugenico e i continui ripensamenti di Mussolini sui fondamenti dottrinari da dare a quegli eventi drammatici che furono la persecuzione ebraica avviata nel 1938: dietro ognuno di questi fenomeni si intravede il tentativo di inseguire una chimera, quale fu e continua ad essere qualsiasi definizione del concetto di razza umana. 81 82 Ibid., pp. 139-141. F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 377. 39 Terenzio Maccabelli 5. Questioni controverse La biografia di Gini appare rivelatrice, sotto molti di vista, dei numerosi interrogativi, molti dei quali ancora senza risposta, che circondano il problema delle modalità di affermazione e diffusione delle idee eugenetiche. In questo paragrafo conclusivo intendiamo riprendere alcuni di questi interrogativi, al fine mettere maggiormente in evidenza le questioni controverse sulle quali in larga parte divergono le correnti interpretazioni storiografiche. In modo schematico, gli interrogativi su cui vorrei soffermarmi sono i seguenti: 1) Esiste o no continuità tra la tradizione autoctona di eugenetica e l’avvento del razzismo di Stato sul finire degli anni Trenta, intriso come abbiamo visto di ereditarismo biologico? 2) Quali fattori e quali forze contribuirono a far prevalere in Italia – negli anni appunto precedenti il 1938 – una concezione dell’eugenetica orientata più in senso “quantitativo” che “qualitativo”? 3) A quali cause ascrivere, infine, la nascita e la parziale eclisse dell’eugenetica, allargando in questo caso l’orizzonte oltre lo specifico italiano? Il primo quesito è già stato richiamato numerose volte in questo scritto, allorché abbiamo osservato come uno problemi fondamentali messo in evidenza dalla recente storiografia sia quello dei rapporti tra la tradizione italiana di eugenetica e la repentina svolta razziale del Fascismo. Il quesito è molto complesso e non deve stupire che gli storici non siano affatto concordi sul problema. L’idea che il razzismo sia stato una sorta di corpo estraneo alla società italiana, arrivato solo per importazione, appare ormai poco condivisibile. I fermenti razzisti erano radicati anche nel nostro paese e alla loro diffusione contribuirono in modo significativo anche numerosi scienziati italiani, appartenenti a diverse discipline. Tra queste, l’eugenetica sembrerebbe quella 40 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia che più di ogni altra avesse i requisiti per alimentare il razzismo nella sua più rude declinazione “biologica” ed “ereditarista”. Ma il prevalere in Italia di quella che è stata chiamata una “via moderata” all’eugenetica, portatrice di un determinismo biologico molto più debole rispetto a quello tedesco e anglosassone, sembrerebbe incrinare questo assunto, fino al punto da spingere taluni interpreti ad affermare che nella storia dell’eugenetica italiana non si dovrebbero necessariamente leggere i prodromi dell’avvento del razzismo di Stato. Questa ipotesi interpretativa è stata avanzata dal primo studioso che ha studiato la diffusione dell’eugenetica in Italia, Claudio Pogliano, ed è stata recentemente ripresa anche da Claudia Mantovani. La tesi che emerge dai loro studi è che il razzismo di Stato si collochi su una linea di sostanziale discontinuità con la tradizione degli eugenisti italiani, in quanto le loro “ambizioni ‘rigeneratrici’ […] non si saldano tanto al mito – improbabile e indigesto – della ‘purezza’ biologico-razziale quanto al mito rassicurante e religiosamente corretto del ‘nativismo’ vitale ed espansivo”83 . La svolta verso il razzismo biologico sarebbe pertanto dovuta più a ragioni “politiche”, in particolare al “patto d’acciaio” con la Germania, e solo in minima parte da inscrivere all’idee espresse dal movimento eugenetico italiano Sul fronte opposto si situano invece coloro che intravedono nella diffusione delle idee eugenetiche una variabile chiave attraverso cui spiegare la svolta razzista del regime. La tesi in questo caso è che nell’eugenetica italiana, come in quella tedesca, vi fossero tutte le premesse perché questa si tramutasse nell’azione discriminatoria e persecutoria suggellata dalle leggi del 1938. Il giudizio sull’eugenetica come una delle fondamentali matrici culturali del razzismo fascista viene argomentata tanto nella monografia di 83 C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit. 41 Terenzio Maccabelli Roberto Maiocchi che in quella di Giorgio Israel e Pietro Nastasi. Emerge da questi lavori una visione dell’eugenetica come “brodo di cultura” del razzismo nostrano: ancorché prevalentemente declinata in chiave “quantitativa”, l’eugenetica italiana non si precluse un progressivo “scivolamento” verso l’ortodossia “qualitativa”, del tutto congeniale alla politica di discriminazione razziale attuata dal regime. Secondo questa lettura, in sostanza, difficilmente si comprenderebbe l’avvento del razzismo di Stato se non si guardasse al clima favorevole per il suo sviluppo che era stato precedentemente creato dai numerosi scienziati italiani che avevano contribuito in modo decisivo allo sviluppo dell’eugenetica 84 . In una posizione per certi versi intermedia rispetto alle due qui succintamente richiamate si colloca la lettura di Francesco Cassata. Da una parte egli ritiene che la tesi del progressivo “scivolamento” sia debitrice di un approccio storiografico che tende a ricostruire la tradizione del razzismo e dell’eugenetica alla luce di quello che fu il genocidio nazista, correndo per questo il rischio di leggere in tutte le declamazioni su “razza” e “eugenetica” che imperversarono tra Otto e Novecento i segni premonitori della soluzione finale. D’altra parte, egli ritiene tuttavia che l’interpretazione opposta corra seriamente il rischio di ridimensionare in modo eccessivo le “responsabilità del pensiero eugenetico nell’elaborazione del discorso razzio- 84 42 “Il razzismo italiano fu, in parte, il risultato obbligato di processi di lunga durata in atto ben prima del 1938 nella nostra cultura scientifica e […] i suoi caratteri specifici furono parzialmente determinati da tali processi e in essi trovano una giustificazione razionale. In altri termini la scienza italiana non fu affatto estranea alla preparazione di un terreno favorevole al razzismo e, quando questo divenne attuale per la ragion di Stato, essa contribuì a configurarne alcune vistose caratteristiche” (R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 6). “Il razzismo scientifico italiano è esistito, ha avuto consistenza. Anzi è nella corrente della demografia e dell’eugenica che è stato allevato l’interesse per la questione razziale, anche come questione politica, e sono costruite le giustificazioni per le scelte pratiche poi assunte” (G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 10). Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia logico italiano”. Il prevalere in seno alla tradizione dell’eugenetica italiana di una “via moderata”, orientata più alla “quantità” che alla “qualità”, non significherebbe in sostanza che i suoi cultori siano per questo da ritenersi meno coinvolti “nelle vicende del razzismo fascista” 85 . Le possibilità di dirimere questa controversia storiografica appaiono molto difficili. Sono in gioco, da una parte, il problema delle responsabilità “morali” dei protagonisti, dall’altra quello dei processi e dei contesti storici entro cui effettivamente maturarono le idee eugenetiche. È comunque indubbio che dietro gli sforzi storiografici di questi ultimi anni, anche di quelli che hanno sottolineato le peculiarità della tradizione italiana e le differenze rispetto all’ortodossia galtoniana, non emerge alcuna tentazione assolutoria o mistificatrice. Altrettanto complesso il secondo quesito che circonda le vicende dell’eugenetica italiana. Perché la declinazione in senso “qualitativo” non riuscì ad attecchire, o comunque a diventare maggioritaria nel nostro Paese? Le risposte avanzate a questo proposito sono sostanzialmente tre. La prima è quella maggiormente condivisa, in quanto mette in evidenza il dato, inequivocabile, del ruolo fondamentale svolto da Corrado Gini nelle vicende dell’eugenetica italiana. Fu infatti lo statistico padovano a insistere più di ogni altro sulla declinazione in chiave “quantitativa” dell’eugenetica riuscendo, come abbiamo visto, a far risultare vincente questa impostazione. Non è un caso che il repentino spostamento avvenuto nella seconda metà degli anni Trenta in una direzione “qualitativa” abbia coinciso con la fase di minore influenza politica e scientifica dello statistico padovano. Una seconda risposta chiama in causa il fatto che il discorso eugenetico, sul finire dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, era andato sempre più 85 F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 18. 43 Terenzio Maccabelli sovrapponendosi al razzismo biologico, nell’ambito del quale la tipologia “mediterranea” occupava i gradini più bassi nella gerarchia delle razze. Come sottolinea ad esempio Maiocchi, uno dei motivi per cui l’eugenetica a sfondo biologico, nelle sua veste estremista, non ebbe fortuna in Italia è dovuto al fatto che essa fosse supportata da una concezione razziale che postulava una “netta inferiorità degli italiani rispetto ai nordici” e attribuiva una “superiore missione civilizzatrice” ai “popoli ariani che avevano invaso la Penisola” 86 . Certamente questo aspetto viene frequentemente richiamato dalla storiografia. Tuttavia andrebbe forse maggiormente tematizzato ed evidenziato. Deve insomma avere avuto un certo rilievo il fatto che la “razza mediterranea” fosse costantemente esclusa dall’olimpo delle razze “elette” nella totalità dei discorsi eugenetici a livello mondiale, premessa che non poteva che fungere da ostacolo a una piena accettazione delle dottrine eugenetiche. Il terzo tipo di risposta enfatizza infine il ruolo della Chiesa cattolica, il suo ergersi a baluardo contro il dilagare dell’eugenismo di matrice anglosassone. Diverse furono in effetti le voci del mondo cattolico che si scagliarono contro gli eccessi dell’eugenetica anglosassone. Da qui l’idea che la presenza della Chiesa cattolica sarebbe stata un importante fattore di moderazione, peraltro in grado di mitigare anche molte posizioni esterne all’universo cattolico, che avrebbero rinunciato a porsi su una piano di scontro frontale nei confronti della Chiesa cattolica. Sarebbe stata dunque la presenza della Chiesa cattolica che avrebbe evitato all’Italia le misure draconiane, come ad esempio le sterilizzazioni dei malati psichiatrici, che cominciavano ad attuarsi in altri Paesi. 86 R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 323. 44 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia Sul ruolo svolto dalla cultura cattolica nella vicende della diffusione dell’eugenetica le chiavi di lettura possono tuttavia divergere, poiché è indubbio che molti suoi esponenti diedero un contributo significativo a radicare le idee dell’eugenetica. Ma in questa chiave il discorso potrebbe facilmente scivolare su un piano di scontro ideologico alla fine assai poco produttivo sul piano storiografico. Una battaglia fatta a colpi di citazioni per provare che molti cattolici erano intrisi di pregiudiziali eugenetiche da contrapporre alla tesi che la loro eugenetica era comunque altro da quella degli inglesi, americani o tedeschi porterebbe poco lontano. Dietro il problema del ruolo giocato dalla cultura cattolica emerge in verità la questione più generale delle cause che generano la nascita dell’eugenetica e che ci portano ad indagare le risposte proposte in merito al terzo quesito. Il discorso, a questo punto, fuoriesce dai confini nazionali, in quanto riguarda in un’ottica più generale la questione delle matrici culturali dell’eugenetica. Appare ormai assodato che l’eugenetica, lungi dall’essere un orientamento esclusivamente conservatore o reazionario, finì per far presa sugli indirizzi politici più disparati, socialisti e progressisti compresi. Questo dato emerge con forza della ricerca comparativa su scala internazionale di questi ultimi anni. La questione assume pertanto una rilevanza che travalica i confini nazionali, rimandando a una dimensione “globale” anziché “locale”. Perché dunque prese corpo nella cultura occidentale un sapere come quello eugenetico? Secondo Claudia Mantovani, l’eugenetica si situa “alla confluenza di due snodi fondamentali della storia della cultura e della società contemporanea”. Il primo rimanda all’affermazione “di un paradigma laico e scientifico di comprensione e di gestione della realtà sociale – come esito del processo di secolarizzazione del pensiero e della politica, nonché della straordinaria legittimazione culturale conferita al pensiero scientifico 45 Terenzio Maccabelli da un progresso tecnologico senza precedenti”. A questo paradigma sarebbe da ascrivere l’emergenza, tra Otto e Novecento, di quella tendenza definita dall’autrice come “biologizzazione del sociale” che, abbinata alla “fortuna del binomio degenerazione-rigenerazione”, diede all’eugenetica la sua ragione d’essere come “scienza politica” 87 . Il secondo snodo enfatizza ancora più la dimensione politica. Questo sarebbe infatti da individuare nelle “tensioni provocate in seno all’ideologia liberale dalla democratizzazione e dalla massificazione della società, con l’emergere di modelli politici collettivisti che alla centralità dell’individuo sostituiscono la centralità del ‘sociale’ quale supremo manager delle risorse umane e materiali della collettività ma anche quale sommo interprete e personificatore dell’etica collettiva”. Questo spinge l’autrice a sostenere uno stretto legame tra eugenetica e “cultura progressista e riformista degli appassionati della ‘questione sociale’, dei riformatori sessuali, dei medici del lavoro e della maternità”, arrivando a insinuare tra le righe che proprio dentro questo milieu abbiano preso corpo gli ideali eugenici. Non deve stupire che le prime pagine della monografia di Claudia Mancina siano dedicate ad alcuni criminologi, psichiatri, medici, antropologi accomunati dall’interesse per la costituenda scienza “eugenetica” e dalla simpatia, in senso lato, per la “questione sociale” e quindi per il socialismo. L’indubbio merito di aver messo in evidenza, anche per il caso italiano, la ramificazione del paradigma eugenetico in ambiti ideologici prima trascurati lascia tuttavia il dubbio che si sia arrivati a una rappresentazione distorta della realtà. Un conto è mettere in evidenza la pervasività del discorso eugenetico e la sua capacità di far presa anche in un universo apparentemente estraneo come quello “socialista”; altro è invece alludere a questa 87 46 C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., pp. 277-278. Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia cultura, in virtù del suo anelito “collettivista”, come sorgente dell’utopia eugenica. Il discorso è del tutto speculare a quello sopra accennato sulla Chiesa cattolica. Vi sarebbero tutte le condizioni per una battaglia serratissima tesa a dimostrare, su un fronte, i tanti socialisti che abbracciarono una delle tante versioni dell’eugenetica e, sull’altro, l’estraneità di questo socialismo al “vero” socialismo. A modesto parere di chi scrive, i due snodi messi in evidenza da Claudia Mancina danno una risposta fuorviante al quesito sui fattori che generarono la nascita dell’eugenetica (questo senza nulla togliere ai meriti storiografici della sua ricerca). Tanto la categoria della “biologizzazione del sociale” quanto quella dell’etica “collettivista” si prestano a una lettura inequivocabile: l’eugenetica è figlia, da una parte, del positivismo laico e scientifico fiducioso nei progressi della scienza; dall’altra, della filosofia sociale anti-individualista. Come a dire: furono queste deviazioni dal fiume della cultura occidentale che partorirono il mostro eugenetico 88 . L’insoddisfazione per questa lettura è che essa tende in qualche modo ad acquietare le coscienze, senza fare i conti fino in fondo con quello che fu l’eugenetica e il razzismo biologico. Questi furono il prodotto della “cultura occidentale” tout court e non di una qualche sua diramazione. Puntare il dito verso lo scientismo piuttosto che il collettivismo non è meno fuorviante di puntarlo, come a lungo si è fatto, esclusivamente sulla cultura conservatrice, reazionaria o imperialista. Il dato che emerge in modo sempre più significativo è piuttosto quello dell’assoluta pervasività all’interno della cultura occidentale tra Otto e No88 Vanno in questa direzione anche Giorgio Israel e Pietro Nastasi. Sul primo punto, i due studiosi sono espliciti nel ricondurre al secolo dei Lumi e alla concezione “materialista” dell’antropologia che “pretende di studiare l’uomo con lo stesso rigore delle scienze fisiche-matematiche” i prodromi del razzismo scientifico e dell’eugenetica (G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 42, 61). 47 Terenzio Maccabelli vecento di idee e concetti riconducibili o all’eugenetica o al razzismo, nelle loro pur differenti manifestazioni. Come ha scritto di recente Jennifer M. Hecht, “we have little idea today of how utterly convinced many people were that the [human] races were physiologically measurable and socially irreconcilable” 89 . Se vi fu uno snodo fondamentale nella cultura occidentale, questo andrebbe forse ricondotto al venire meno del principio illuministico dell’uguaglianza “naturale” degli esseri umani, un principio ritenuto indiscutibile da autori anche molto diversi tra loro 90 . Questo principio venne rovesciato verso la metà del diciannovesimo secolo, allorché, come ha osservato il fondatore dell’antropologia culturale, M. Harris, non c’era ‘verità’ più ‘autoevidente’ del fatto che gli uomini siano stati creati disuguali. Nessuna ‘verità’ esercitò mai un’influenza più dannosa sullo sviluppo della scienza sociale. Il determinismo razziale fu la forma che assunse l’avanzante onda della scienza della cultura mentre si frangeva sulle rive del capitalismo industriale 91 . Anche gli studi che recentemente hanno cercato di comprendere l’ascesa e il declino del movimento eugenetico su scala globale tendono a sottolineare questo aspetto. Pur nelle diversità dei singoli casi nazionali, la periodizzazione, vista in una prospettiva generale, appare difficilmente contestabile. Dopo un periodo di incubazione iniziato nella seconda metà dell’Ottocento, il movimento eugenetico avvia la propria ascesa nel primo Novecento raggiungendo l’apice nel periodo tra le due guerre. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’eugenetica perde improvvisamente qual89 J. M. Hecht, Vacher de Lapouge and the Rise of Nazi Science, “The Journal of the History of Ideas”, n. 61, April 2000, p. 304. 90 Autori come Burke, Rousseau, Smith o Malthus hanno teorie politiche profondamente diverse tra loro. Ma tutti sono accomunati dal ritenere che la “disuguaglianza” sia un fatto “economico-sociale”, ossia il prodotto dell’evoluzione storica e delle convenzioni sociali. Ciò che divide gli autori ricordati è il giudizio sull’esito di tale processo, se cioè la creazione della disuguaglianze sia stato un fatto positivo per la civiltà oppure no, ma non l’uguaglianza originaria degli esseri umani. 91 M. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Mulino, Bologna, 1971, p. 109. 48 Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia siasi diritto di cittadinanza sia come disciplina scientifica che come indirizzo politico-sociale. L’orrore del genocidio nazista è indubbiamente un fattore scatenante. Ma questo va posto in relazione anche con mutamenti ideologici più generali che si manifestano a livello di cultura globale. Deborah Barrett e Charles Kurzman hanno sottolineato al riguardo che “the egalitarian ideology of personhood raised a massive barrier to the eugenics movement. […] Eugenicists found themselves frozen out as the global culture of racial hierarchy gave way to a discourse of equality and right” 92 . In modo del tutto speculare, l’ascesa e la successiva affermazione dell’eugenetica su scala mondiale erano processi avvenuti pressoché contestualmente al radicarsi in seno alla cultura occidentale di fondamentali pregiudizi disegualitari e gerarchici. Per riprendere ancora le categorie proposte da Barrett e Kurzman, dopo la seconda metà dell’Ottocento avevano prevalso concezioni della personalità umana in cui giocavano un ruolo fondamentale le distinzioni “between ‘fit’ and ‘unfit’ individuals, often based on ‘race’ or rather pseudo biological charactersics” 93 . Ma queste concezioni erano pregiudiziali al sapere scientifico, non un prodotto della scienza o della fiducia positivistica nella conoscenza scientifica; allo stesso modo esse furono trasversali a diversi indirizzi dottrinari – filosofici, politici, sociali, ecc. – e non furono il prodotto di un indirizzo di pensiero identificabile con precisione; esse, infine, supportarono l’azione discriminatoria di paesi con regimi politici profondamente diversi, dalla “democratica” America fino alla totalitaria e collettivista Germania nazista. 92 D. Barrett, C. Kurzman, Globalizing Social Movement Theory: The Case of Eugenics, “Theory and Society”, vol. 33, n. 5, Oct. 2004, p. 513. 93 Ibid., p. 496. 49 Terenzio Maccabelli Eugenetica e razzismo furono in sostanza fenomeni nati dal grembo della cultura occidentale, la quale per lungo tempo non riuscì a produrre anticorpi che fossero in grado di debellare i loro effetti cancerosi. 50