Nascere disuguali

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Terenzio Maccabelli
NASCERE DISUGUALI:
CONSIDERAZIONI SU EUGENETICA
ED EREDITARISMO IN ITALIA
DSS PAPERS STO 02-08
INDICE
1.
Premessa ................................................................................... Pag. 05
2. “Migliorare la razza umana”: l’eugenetica “positiva” e
“negativa” di Francis Galton ..............................................................
3. Galton, l’eugenetica e il razzismo di Stato in Italia: continuità
o rotture? ...............................................................................................
4. Corrado Gini: dall’eugenetica “qualitativa” all’eugenetica
“quantitativa” .......................................................................................
5.
Questioni controverse ...........................................................................
3
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
- Credevo che cercaste le malattie contagiose.
- Purtroppo è stato scientificamente provato che
la mancanza di intelligenza è ereditaria e di conseguenza contagiosa in un certo senso. Non vogliamo che i nostri cittadini si mescolino con le
persone meno intelligenti.
- Che visione moderna!
Ellis Island, New York, La “quarantena” degli
immigranti, dal film Nuovomondo di Emanuele
Crialese
1.
Premessa
L’eugenetica, come il razzismo, ha dato un contribuito formidabile a
radicare nella prima metà del secolo scorso le culture della disuguaglianza
e della persecuzione, con strascichi che si sono protratti fino ai nostri tempi. Nata per opera dell’eclettico scienziato inglese Francis Galton,
l’eugenetica
si
proponeva
di
rovesciare
l’assunto
illuministico
dell’eguaglianza “naturale” degli uomini, per dare nuova linfa al principio
– radicato da millenni nell’immaginario sociale – secondo cui gli esseri
umani sono per “natura” disuguali.
Il problema della diffusione dell’eugenetica in Italia è stato a lungo trascurato dalla storiografia. Solo di recente si è cominciato a interrogarsi sulle modalità di diffusione e sulle peculiarità del pensiero eugenetico italiano.
Il rinnovato interesse per l’eugenetica si situa dopo una stagione, durata tutta gli anni novanta, durante la quale è stato profuso notevole sforzo interpretativo e documentario per inquadrare le diverse anime del razzismo italiano, cominciando a porre sul tappeto anche la questione del rapporto tra
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Terenzio Maccabelli
eugenetica e razzismo 1 . È però sopratutto in questi ultimissimi anni che si è
assistito a un approfondimento sistematico di questo tema, con la pubblicazione di importanti studi dedicati espressamente all’eugenetica 2 . Avvalendoci dei risultati raggiunti da tale storiografia, cercheremo di presentare in
questo scritto l’immagine dell’eugenetica che prevalse nell’Italia della prima metà del secolo scorso, discutendo alcuni dei problemi sui quali divergono le interpretazioni. Data la vastità dell’argomento, la lettura qui proposta sarà per forze di cose selettiva, concentrando l’attenzione solo su alcune
tematiche e solo su alcuni dei numerosi protagonisti che contribuirono a radicare anche in Italia le idee eugenetiche.
Il saggio è organizzato in quattro parti. Nella prima verrà brevemente
presentata la concezione dell’eugenetica del fondatore di tale disciplina, ossia Francis Galton. Discuteremo in particolare le due articolazione
dell’eugenetica che divennero canoniche all’inizio del secolo scorso, ossia
l’eugenetica “positiva” e l’eugenetica “negativa”. Nella seconda parte en-
1
2
6
Si veda, tra gli altri, M. Raspanti, I razzismi del fascismo, in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antifascismo razzista, a cura del centro
Studi F. Jesi, Grafis, Bologna, 1994, pp. 73-89; G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza
nell’Italia fascista, Mulino, Bologna, 1998; A. Burgio (a cura di), Nel nome della
razza. Il razzismo nella storia d’Italia, 1870-1945, Il Mulino, Bologna, 1999; R.
Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze, 1999.
C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubbettino, Soveria Monnelli, 2004 (della stessa autrice si veda anche Rigenerare la stirpe: il movimento eugenico italiano e la grande guerra
(1915-1924), “Ricerche di storia politica”, vol. 6, n. 2, giugno 2003); F. Cassata,
Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. Ad essi
si deva aggiungere anche A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano, 2001, che verte in
gran parte sull’eugenetica. Tra i contributi pionieristici sul tema della diffusione
dell’eugenetica in Italia: C. Pogliano, Scienza e stirpe: Eugenica in Italia (19121939), “Passato e presente”, n. 5, 1984, pp. 61-97, contributo ripreso in Id., Eugenisti, ma con giudizio in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella
storia d’Italia, 1870-1945, cit., pp. 423-442; M. Ciceri, Origini controllate.
L’eugenica in Italia (1900-1924), Tesi di laurea, Università di Milano, Facoltà di
Lettere e Filosofia, a.a. 1992/93 (consultabile sul sito www. tesionline.it).
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
treremo nel merito del problema fondamentale che attraversa l’intera storiografia sull’eugenetica italiana: fino a che punto essa restò fedele
all’originaria concezione galtoniana dell’eugenetica, basata come noto su
un rigido determinismo biologico? Nell’emergere del “razzismo di Stato”
che venne sancito dal Manifesto della razza e dalle leggi discriminatorie del
1938 si possono intravedere i segni di una sostanziale linea di continuità
che dall’Inghilterra di Galton, passando attraverso l’America e la Germania
nazista, portò le idee eugeniche a radicarsi anche nel nostro paese. In verità,
come avremo modo di vedere, le modalità di affermazione dell’eugenetica
in Italia seguirono strade peculiari, tanto da lasciare ancora controverso, sul
piano storiografico, l’interrogativo sull’eugenetica italiana come una delle
matrici culturali del razzismo fascista. La terza parte dello scritto è dedicata
a Corrado Gini, studioso tra i più impegnati nel diffondere l’eugenetica in
Italia e che in tutta la recente storiografia emerge come figura centrale e di
assoluto rilievo. Proprio la biografia di Gini documenta peraltro in modo
emblematico quanto ambivalenti siano stati i rapporti tra l’eugenetica italiana e il razzismo. Questo non significa, come si è a lungo pensato a proposito del razzismo, che il nostro paese ne sia rimasto sostanzialmente estraneo. Gli sforzi storiografici di questi ultimi anni hanno precisato differenze, peculiarità e specificità dell’eugenetica italiana, ma senza incorrere
in alcuna tentazione assolutoria o minimizzatrice. La quarta e conclusiva
parte discute invece alcune delle principali questioni storiografiche, a partire dal problema della continuità o meno dell’eugenetica italiana con il razzismo fascista per arrivare all’interrogativo sui fondamenti ideologici e dottrinari che – in Italia come nel mondo – originarono il fenomeno
dell’eugenetica.
7
Terenzio Maccabelli
2. “Migliorare la razza umana”: l’eugenetica “positiva” e “negativa”
di Francis Galton
“Eugenetica” – o “eugenica”, come talvolta si traduce l’inglese eugenics – è una parola introdotta da Francis Galton nella seconda metà
dell’Ottocento, per designare un nuovo campo del sapere che si proponeva
di “migliorare le qualità razziali” della specie umana agendo sui processi di
selezione naturale e sui meccanismi riproduttivi. L’idea di poter “migliorare la razza umana” si face strada nella mente di Galton in virtù di due stimoli decisivi: il primo veniva dal suo interesse per le genealogie dei “grandi uomini” da cui aveva tratto il convincimento di una sostanziale ereditarietà non solo dei tratti fisici ma anche delle capacità intellettuali; il secondo stimolo veniva dalla svolta impressa nella biologia dal cugino Charles
Darwin, attraverso la scoperta delle leggi dell’evoluzione e della selezione
naturale.
Con passione quasi maniacale Galton si dedicò per tutta la vita allo
studio dei cosiddetti “uomini di genio”, di cui volle ricostruire minuziosamente le genealogie e i pedigree familiari. Il presupposto esplicito da cui
muoveva era che la “genialità” o, più in generale, le attitudini intellettuali,
non fossero qualcosa di acquisito attraverso l’insegnamento, l’educazione o
l’ambiente ma qualcosa di congenito e trasmesso per via ereditaria. Questa
convinzione si fece strada precocemente, in particolare negli anni in cui
Galton era ancora studente universitario a Cambridge 3 , e continuò a costi-
3
8
“I think the firs evidence of the kind that strongly impressed me was in relation to
classical successes. To be Senior Classic – that is, to be the very first classic of the
Year at Cambridge, where the body of undergraduates contains picked boys from
schools in all part of the country – is a very considerable feat. Yet I found that these
senior classes were often so closely inter-related that out of forty-one of them six had
either a father, son, or brother who was a Senior Classic, or in one case a Senior
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
tuire il cuore delle sue ricerche. Gran parte della sua produzione “scientifica” successiva fu espressamente dedicata a questo tema 4 , con l’intento dichiarato di provare empiricamente le convinzione maturate negli anni giovanili.
Come ha sottolineato R.S. Cowan, questi intenti erano chiaramente esplicitati sin dalla prima sua opera sull’argomento, Heredity Talent and
Character, un’analisti statistica condotta sui dizionari biografici per individuare le relazioni parentali di uomini illustri e dal quale emergeva la sua
predilezione per lo studio quantitativo dei problemi 5 . Anche nelle opere
successive, l’approccio quantitativo rimase uno dei tratti caratteristici della
sua metodologia d’indagine. Galton si avvalse delle tecniche statistiche più
avanzate del tempo, contribuendo egli stesso a dare un stimolo decisivo alla
nascita e allo sviluppo di concetti come la correlazione e la regressione. In
Hereditary Genius, inoltre, la cui prima edizione è del 1869, Galton rappresentava la distribuzione delle attitudini intellettuali per mezzo della “curva
degli errori”, poi divenuta nota e universalmente conosciuta come curva
“normale” 6 .
4
5
6
Wrangler. No mere tuition could account for this. They must have been born with
exceptional capacity” (F. Galton, Eugenics, “Westminster Gazette”, 26th June 1908).
Tra i titoli più significativi, di per sé esplicativi dell’importanza attribuita da Galton
al problema dell’eredità del “talento”, possiamo qui ricordare Hereditary Talent and
Character (1865), Hereditary Genius (1869), English Men of Science: Their Nature
and Nurture (1874), Inquiries into Human Faculty (1883) e Natural Inheritance
(1889).
In quest’opera “Galton posed the question, ‘Can extraordinary intellectual gifts be
inherited?’ and answered the question by counting the number of men listed in a biographical dictionary who were relatives of someone else on the list. Finding the
number to be greater than the frequency of outstanding men in the general population, Galton concluded that ‘genius’ must be hereditary” (R.S. Cowan, Francis Galton’s Statistical Ideas: The Influence of Eugenics, “Isis”, vol. 63, n. 4, pp. 510-511).
È infatti soprattutto grazie a Galton che la legge degli errori e la distribuzione normale entrano nelle scienze sociali. L’intento di Galton è di perfezionare le intuizioni di
Adolphe Quetelet, al fine di dimostrare come la distribuzione delle diverse attitudini
umane, sia fisiche che mentali, riveli la forma tipica delle curve gaussiane, o normali,
9
Terenzio Maccabelli
L’obiettivo principale rimaneva comunque quello di provare che la capacità degli individui era l’esito del loro corredo biologico ereditario. Alla
base di questo determinismo biologico vi era la distinzione, formulata per
la prima volta dallo stesso Galton, tra “nature” e “nurture” 7 , i cui corrispondenti italiani (“natura” e “cultura”) rendono solo parzialmente il significato. A parere di Galton la “nature” prevaleva in misura formidabile sulla
“nurture”: l’ambiente sociale, infatti, avrebbe avuto un ruolo trascurabile
nella formazione della personalità umana, che risiedeva invece in “caratteri
innati” e biologici a cui ascrivere le fondamentali differenze individuali e di
razza (ritenute per questo immodificabili).
Il secondo stimolo che condusse Galton sulla strada dell’eugenetica veniva da Darwin. Attraverso le leggi dell’evoluzione biologica e della selezione naturale Darwin spiegava un fenomeno – la selezione “artificiale”
delle piante e degli animali domestici – che da secoli veniva svolto per
“tentativi” ed “errori” ma senza la conoscenza delle leggi dell’eredità ad
esso sottostanti. Nel suo Variations of Animals and Plants under Domestication, pubblicato nel 1868, Darwin aveva invece illustrato la potenza e
l’efficienza della selezione artificiale riconducendo il fenomeno alle leggi
dell’evoluzione naturale. Il termine “domestication”, talvolta “culture” 8 , si
riferiva appunto alla prassi, molto antica, di mutare le caratteristiche fisiche
7
8
10
con una frequenza concentrata intorno al valore medio (cfr. S. Gordon, The History
and Philosophy of Social Science, London, Routledge, 1991, p. 532; P.T. Manicas, A
History and Philosophy of the Social Sciences, Oxford, Basil Blackwell, 1987, p.
235).
“Nature is all that a man brings with himself into the world; nurture is every influence from without that effects him after his birth” (cit. in J.A. Field, The Progress of
Eugenics, “The Quarterly Journal of Economics”, vol. 26, n. 1, 1911, p 14).
“From a remote period, in all part of the world, man has subjected many animals and
plants to domestication or culture” (C. Darwin, Variations of Animals and Plants under Domestication, p. 2).
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
di pianti ed animali al fine di ottenere specie che soddisfacessero meglio
determinati bisogni umani. Come ha sottolineato Martin Brüne,
Charles Darwin was the first to systematically examine biological changes in species under artificial breeding conditions. Even though he did not refer to the question of
human self-domestication in his two volumes on Variations of Animals and Plants under Domestication, Darwin proposed clear definitional criteria for the process of domestication. He emphasised (1) that the domestication of animals is more than taming, (2)
that it represents a goal-oriented process for human purposes, (3) that the variability of
physical and “mental” characteristics is greater in domesticated species than in their
wild ancestors, including the occurrence of dwarfism and gigantism, (4) that the behavioural plasticity and educability of domesticated species is greater, and (5) that the brain
size of domesticated animals is smaller than that of their wild ancestors 9 .
Era però ben lungi da Darwin l’idea che qualcosa di analogo potesse attuarsi nell’ambito della specie umana. La strada che Darwin non aveva preso in considerazione fu invece seguita fino in fondo dal cugino Galton.
Senza esitazione egli aprì le breccia all’idea che la selezione artificiale costituisse un efficace strumento per controllare e migliorare la razza umana.
La derivazione dall’universo animale e vegetale di questa idea è provato
dai primi lemmi individuati dallo scienziato inglese per designare il nuovo
campo del sapere: inizialmente, Galton utilizzò infatti i termini “viriculture” 10 e “stirpculture” 11 , il secondo dei quali ebbe un discreto seguito, specie in America. Anche quest’ultimo lemma venne tuttavia abbandonato da
Galton, allorché cominciò a preferire il termine di nuova coniazione Eugenics, letteralmente “buona nascita”. Questo comparve per la prima volta nel
1883, ma in modo timido, quasi a tradire il fatto che Galton non avesse ancora maturato il convincimento di farne il proprio vessillo 12 . Era comunque
9
M. Brüne, On human self-domestication, psychiatry, and eugenics, “Philosophy, Ethics, and Humanities in Medicine”, vol. 2, n. 21, 2007.
10
F. Galton, Hereditary Improvement, “Fraser’s Magazine”, January 1873, p. 119.
11
F. Galton, A Theory of Heredity, “Contemporary Review”, December 1875, p. 81;
pubblicato anche in “Journal of the Institute”, vol. V, n. 3, January 1876, p. 330.
12
“The investigation of human eugenics – that is, of the conditions under which men of
a high type are produced – is at present extremely hampered by the want of full fam-
11
Terenzio Maccabelli
ormai matura l’idea che la nuova disciplina avesse bisogno di un termine
adeguato e che i precedenti “viriculture” e “stipculture” non fossero idonei
allo scopo.
We greatly want a brief word to express the science of improving stock, which is
by no means confined to question of judicious mating. […] The word eugenics would
sufficiently express the idea; it is at least a neater word and a more generalised one than
viriculture, which I once ventured to use 13 .
L’affermazione del nuovo termine proposto da Galton non fu tuttavia
rapidissima, sebbene i dibattiti su temi riconducibile a ciò che diventerà
l’eugenetica erano ormai all’ordine del giorno. Ci volle un periodo di incubazione che durò circa un ventennio, dopo di che, più o meno all’inizio del
nuovo secolo, il successo della parola Eugenics era ormai irreversibile.
Numerose le definizioni dell’eugenetica proposte dal suo fondatore,
nelle quali possiamo individuare due elementi ricorrenti. Il primo riguarda
l’oggetto stesso dell’eugenetica, che appunto verte sulla questione del “miglioramento delle qualità razziali” della specie umana. “Eugenics –
scriveva infatti Galton nel 1904 – is the science which deal with all influences that improve the inborn qualities of a race; also with those that develop them to utmost advantage” 14 , una definizione riproposta, con qualche
variante, anche nel 1905: “Eugenics may be defined as the science which
deals with those social agencies that influence, mentally or physically, the
racial qualities of future generations”15 . Il secondo elemento che potremmo
definire costitutivo dell’eugenetica galtoniana è il tema dell’ereditarietà.
ily histories, both medical and general, extending over three or four generations” (F.
Galton, Inquires into Human Faculty and its Development, London, 1883, p. 44).
13
F. Galton, Inquires into Human Faculty and its Development, cit., p. 24.
14
F. Galton, Eugenics: its Definition, Scope and Aims, “American Journal of Sociology”, vol. 10, n. 1, Jul. 1904, p. 1.
15
F. Galton, Studies in Eugenics, “American Journal of Sociology”, vol. 11, n. 1, Jul.
1905, p. 11.
12
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
Questo aspetto, dal punto di vista definitorio, viene enfatizzato nel 1908,
allorché Galton puntualizzava che “The Science of Eugenics (pronounced
with a soft g, as in the name of the Empress Eugénie and in the word Genesis) is based on Heredity” 16 . Uno degli aspetti più importanti
dell’ereditarismo
di
Galton
è
che
esso
concedeva
molto
poco
all’ambientalismo. Come August Wiessmann, egli riteneva che il “plasma
germinale dell’uomo non poteva subire alterazioni per le influenze esterne”
e che quindi “i mutamenti dovuti a fattori ambientali si sarebbero solo in
minima parte trasmessi per via genetica ai discendenti” 17 . Galton si poneva
in questo modo in diretto antagonismo con la tesi lamarckiana
dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, abbandonando l’ipotesi che i mutamenti fenotipici si potessero trasmettere ai discendenti.
Se miglioramento della razza ed ereditarietà erano i componenti costitutivi dall’eugenetica galtoniana, dal punto di vista pratico essa doveva porre in essere due strategie per realizzare i propri obiettivi: in primo luogo fare in modo che “the indesiderables be got rid of” e in secondo luogo “the
desiderables multiplied” 18 . Seguendo la prima strada diventava necessario
che “a stop should be put to the production of families of children likely to
include degenerates” 19 ; mentre la seconda comportava la necessità di moltiplicare il numero degli individui “superiori”, ossia che “the useful classes
in the community” fossero messi in condizione “to contribuite more than
their proportion to the next generation” 20 .
16
F. Galton, Eugenics, “Westminster Gazette”, cit.
D. Padovan, Ereditarismo e ambientalismo nel discorso sociologico sulla razza tra le
due guerre, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza, cit., p. 445.
18
F. Galton, Eugenics, “Westminster Gazette”, cit.
19
Ibid.
20
F. Galton, Eugenics: its Definition, Scope and Aims, cit., p. 3.
17
13
Terenzio Maccabelli
È degno di nota il fatto che nella concezione galtoniana questa seconda
strada avesse un rilievo maggiore rispetto alla prima, a differenza di quanto
avverrà in seguito. Come scriveva Galton, infatti “the possibility of improving the race of a nation depends on the power of increasing the productivity of the best stock. This is far more important than that of repressing
the productivity of the worst” 21 .
In virtù di questa duplice strada attraverso cui perseguire gli scopi
dell’eugenetica, a partire dai primi anni del Novecento essa cominciò a essere declinata in due modi: come eugenetica “positiva”, finalizzata al potenziamento dello stock genetico o razziale della popolazione (obiettivo da
perseguire agevolando l’accoppiamento degli individui ritenuti “superiori”); e come eugenetica “negativa”, volta a scongiurare il deterioramento
della razza attraverso la limitazione delle possibilità riproduttive degli individui ritenuti “inferiori”22 . Sebbene non sembra che Galton abbia mai fatto
21
22
F. Galton, Essay in Eugenics, cit., p. 24.
In questo scritto ci atterremo esclusivamente a questi significati dei termini eugenetica “positiva” ed eugenetica “negativa”. È doveroso tuttavia segnalare che accezioni
parzialmente diverse sono state utilizzate dalla storiografia. Roberto Maiocchi, ad esempio, parla di un’eugenetica “negativa” – diffusa nella cultura medica italiana e
nella quale rientravano l’igiene, la medicina preventiva, le bonifiche ambientali, ecc.
ecc. – per contrapporla all’eugenetica “positiva” ricondotta in senso lato alla cultura
anglosassone (cfr. R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit, pp. 57-58 e
passim). Giorgio Israel e Pietro Nastasi a loro volta propongono ulteriori declinazioni. Dopo aver ricordato che quando si parla di “‘eugenica’ si possono intendere molte
cose”, specificano che “si possono intendere le varie forme di eugenica positiva – includenti dei programmi di igiene fisica, di assistenza prima e dopo il parto, di cura e
‘miglioramento’ dell’infanzia, di determinazione delle migliori forme di alimentazione – oppure le forme di eugenica negativa che comportano un intervento diretto
sulle nascite, sui matrimoni, fino alla sterilizzazione degli individui ‘difettosi’” (G.
Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 131). I due esempi che
abbiamo riportato non solo sono discordanti tra loro ma propongono entrambi significati dei termini eugenetica “positiva” ed eugenetica “negativa” diversi da quelli che
si sono qui privilegiati.
14
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
uso dei termini “eugenetica positiva” ed “eugenetica negativa” 23 , essi traducevano abbastanza fedelmente concezioni del tutto esplicite nello stesso
fondatore dell’eugenetica. È piuttosto singolare, invece, il rovesciamento
che si ebbe, con il radicarsi del sapere eugenetico, dell’importanza relativa
attribuita ai suoi due ambiti: mentre Galton, come abbiamo visto, attribuiva
una netta preferenza per l’eugenetica “positiva” 24 , in seguito questa venne
decisamente surclassata dagli obiettivi e dai provvedimenti finalizzati
all’eugenetica “negativa”.
Partendo dall’idea che l’intelligenza fosse trasmissibile unicamente per
via ereditaria e che le leggi darwiniane della selezione naturale potessero
legittimare una “domestication” della specie umana, Galton sostenne dunque l’esigenza di una nuova scienza, l’eugenetica appunto, capace di migliorare le “qualità mentali” degli individui attraverso il controllo dei meccanismi di riproduzione. Con il primo decennio del secolo scorso la fase di
costruzione della nuova disciplina poteva dirsi conclusa, mentre cominciava contestualmente il processo di diffusione di quello che è stato definito il
23
A quanto pare, il primo a introdurre le due qualificazioni dell’eugenetica, poi divenute canoniche, è stato Caleb W. Saleeby, Parenthood and Race Culture; An Outline of
Eugenics, Yard and Company, New York, 1909. In questo libro – di fatto una delle
prime, se non la prima, sintesi organiche dell’eugenetica – la materia veniva trattata
distinguendo una parte “teorica” e una parte “pratica” o “applicata”. È appunto in
questa seconda parte applicativa che veniva introdotta l’ulteriore distinzione tra eugenetica “positiva” ed eugenetica “negativa”. Inizialmente non sono mancate critiche
ai termini scelti da Saleeby per qualificare questi due ambiti. C. R. Hugins, ad esempio, nella sua recensione al libro di Saleeby, osservava che termini come eugenetica
“costruttiva” ed eugenetica “restrittiva” avrebbero meglio reso i due ambiti
d’applicazione della nuova scienza (cfr. C. R. Hugins, Review of Caleb W. Saleeby,
Parenthood and Race Culture; An Outline of Eugenics, “American Journal of
Psychology”, vol. 22, n. 3, Jul., 1911, pp. 456-458).
24
Sul prevalere in Galton della concezione “positiva” dell’eugenetica, vedi anche D. J.
Kevles, In the Name of Eugenics. Genetics and the Use of Human Heredity, Harward
University Press, London, 1995, p. 85.
15
Terenzio Maccabelli
“movimento eugenetico”. Il momento simbolico di avvio può ritenersi il
1907, allorché venne costituita a Londra l’Eugenics Society 25 .
3.
Galton, l’eugenetica e il razzismo di Stato in Italia: continuità o
rotture?
Francis Galton non sembra avere avuto molta fortuna in Italia. Nessuna
delle sue opere risulta tradotta e sebbene fosse certamente conosciuto non
si può parlare di una sua presenza significativa nella cultura italiana. Questo nonostante l’Italia avesse tutte le credenziali per una immediata ricezione della sua opera. Grazie a Cesare Lombroso e alla sua scuola tematiche
assi vicine a quelle di Galton erano all’ordine del giorno nell’Italia di fine
Ottocento. E non sono in effetti mancati tentativi di istituire parallelismi tra
i due scienziati. Come scrive Massimo Ciceri, le loro opere presentano
analogie affatto nette: la ancestral law di Galton, che ritrova la misura dell’eredità
atavica nell’individuo, si trova analoga in Lombroso, che sull’atavismo del carattere degenerativo costruì interamente l’edificio del suo “Uomo delinquente”. E allo stesso modo […] Lombroso e Galton osservarono i caratteri eccezionali del genio convergere, nel
susseguirsi delle generazioni, verso “l’uomo medio”, secondo la galtoniana legge di
“regressione verso la media” 26 .
L’ipotesi suggestiva avanzata da Ciceri è che Lombroso sia stato una
sorta di “Galton mancato” 27 , per lo meno un autore che aveva creato un ter-
25
Su cui P.M.H. Mazumdar, Eugenics, human genetics and human failing. The Eugenics Society, its source and its critics in Britain, London, 1992.
26
M. Ciceri, Origini controllate. L’eugenica in Italia (1900-1924), cit., p. 17; F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 13.
27
“Lo ripetiamo, è solo una ipotesi. Quella che Lombroso considerasse i gruppi di persone classificati dall’antropologia come troppo instabili per tentare una azione preliminare (eugenica) o troppo stabili (e votati all’estinzione ed al carcere) per preoccuparsi della loro discendenza. […] Possiamo anzi considerare che fu proprio la crisi
delle teorie di Lombroso, inserita nella più ampia crisi del positivismo, il punto di
16
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
reno fertile per la diffusione e il radicamento delle idee galtoniane. Pur in
assenza di studi sistematici sulla ricezione di Galton in Italia, quanto emerge dalla recente storiografia è invece una sua presenza limitata nel panorama degli “eugenisti” italiani. Il caso dello psicologo e antropologo Giuseppe Sergi, tra i fondatori dell’eugenetica italiana e in rapporto personale con
lo scienziato inglese 28 , rappresenta la classica eccezione che tuttavia conferma la regola.
Diverso il discorso per la creatura di Galton, l’eugenetica, la quale molto presto cominciò ad attrarre l’attenzione anche degli studiosi italiani. Era
del resto molto difficile che questo non avvenisse. Nei decenni a cavallo
del Novecento, pochi scrittori di scienze sociali riuscirono a sottrarsi alle
illusioni di questa nuova disciplina. Numerosi problemi di carattere economico, sociale e politico vennero affrontati attraverso le griglie interpretative dell’eugenetica. Questioni come l’emigrazione, ad esempio, o anche la
distribuzione del reddito e della ricchezza, trovarono un numero consistente
di studiosi che ricorsero alle categorie concettuali dell’eugenetica per avanzare ipotesi interpretative o suggerire concrete misure di intervento 29 . Ma la
tematica che più di ogni altra, in Italia come in altri paesi, favorì il diffondersi delle idee eugenetiche, fu quella della “degenerazione”, una vera e
svolta imprescindibile, al di là del quale l’eugenica italiana poté svilupparsi per linee
autonome e ed accettabili” (M. Ciceri, Origini controllate. L’eugenica in Italia
(1900-1924), cit., p. 33; F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p.
14).
28
A cui dedicherà un Necrologio in occasione della morte (cfr. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta,
cit., p. 54).
29
Per quanto riguarda l’emigrazione, è noto che il problema maggiore, che divenne addirittura ossessivo per l’America, fu il timore della deriva disgenica provocata
dall’immigrazione, contro cui si ersero le misure restrittive. Mentre per quanto riguarda il problema della distribuzione della ricchezza, in molti si avvalsero
dell’eugenetica per provare che le disuguaglianze economiche erano da attribuire esclusivamente alle dotazioni genetiche degli individui anziché al contesto socioeconomico.
17
Terenzio Maccabelli
propria paura, o ossessione, che pervase quasi tutta la cultura occidentale di
fine Ottocento e inizio Novecento. Come ha scritto Claudia Mantovani, il
concetto di “degenerazione”, nato
come chiave diagnostica della psichiatria nell’opera […] dell’alienista francese Benedict Augustin Morel, […] si trasforma ben presto nella rappresentazione culturalmente più efficace della vera e propria crisi di identità che attanaglia la società occidentale
tra Otto e Novecento. […] È la minaccia della degenerazione biologica della specie umana che conferisce urgenza programmatica alle proposte degli eugenisti, a partire dallo
stesso Galton, preoccupato della scarsa fertilità delle classi dirigenti inglesi a confronto
con la prolificità spensierata e irresponsabile delle classi qualitativamente “indesiderabili” 30 .
Sul tema della “degenerazione” si esercitarono numerosi studiosi italiani. Non solo naturalmente Lombroso, ma anche coloro che diventeranno
i principali interpreti dell’eugenetica italiana. Giuseppe Sergi, ad esempio,
già ricordato per essere stato uno dei pochi studiosi italiani in diretto contatto con Galton, pubblicò nel 1889 una monografia dal titolo Le degenerazioni umane, nella quale troviamo una definizione del concetto di “degenerazione” destinata a molta fortuna e frequentemente citata dalla storiografia.
Chiamo degenerati – scriveva Sergi – tutti quegli esseri umani, i quali, pur sopravvivendo nella lotta per l’esistenza, sono deboli e portano i segni più o meno manifestamente di questa loro debolezza, tanto nelle forme fisiche che nel modo di operare; e
chiamo degenerazione il fatto di individui e di loro discendenti, i quali nella lotta per
l’esistenza non essendo periti, sopravvivono in condizioni inferiori, e sono poco atti a
tutti i fenomeni della lotta susseguente 31 .
L’idea della “degenerazione”, sul finire dell’Ottocento, era solitamente
supportata da due convinzioni: in primo luogo che le tare cui ascrivere le
30
31
18
C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., pp. 16-17.
G. Sergi, Le degenerazioni umane, Dumoloard, Milano, 1889, p. 210; R. Villa, La
critica antropologica: orizzonti e modelli di lettura alla fine del XIX secolo, in A.
Burgio (a cura di ), Nel nome della razza, cit., p. 413; C. Mantovani, Rigenerare la
società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 55.
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
diverse manifestazioni della degenerazione fossero ereditarie; in secondo
luogo che le selezione naturale avrebbe contribuito in modo spontaneo ad
eliminare i meno adatti alla vita (cioè gli individui degeneri) se solo questo
processo di selezione non fosse stato ostacolato in modo “artificiale” dalle
istituzioni caritatevoli e assistenziali. Queste idee erano sufficientemente
radicate nella cultura italiana, anche tra gli economisti. Il caso di Vilfredo
Pareto è emblematico al riguardo. Egli osservava infatti che “vi sono individui che possono essere decisamente nocivi e pericolosi per la società,
[…] ed è grazie alla selezione, che questi rifiuti sono eliminati e la specie si
conserva”. Come nella natura, anche nella società la selezione contribuisce
alla distruzione degli “elementi inferiori” e impedisce “ch’essi si riproducano nei loro discendenti” 32 . Se “la razza umana” non fosse investita dalla
legge di “selezione”, essa non potrebbe salvarsi “dal decadere” 33 . Ma agli
occhi di Pareto, l’opera della selezione era ostacolata dalle riforme di carattere “sociale” propugnate dagli “umanitari” (soprattutto “socialisti”), per i
quali adeguate condizioni ambientali avrebbero permesso il “miglioramento degli individui di qualità inferiore” 34 .
Questa concezione era di fatto largamente condivisa nella cultura europea di fine Ottocento. Ma, come abbiamo visto, con l’eugenetica di Galton
32
V. Pareto, Les systèmes socialistes, Cours professé à l’Université de Lausanne, vol. III, Giard & Brière, Paris, 1901-1902, trad. it. I sistemi socialisti, Utet, Torino, 1987,
pp. 540-542.
33
V. Pareto, Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale,
Società Editrice Libraria, Milano, 1906, rist., Cedam, Padova, 1974, p. 299.
34
V. Pareto, Cours d’économie politique, vol. I-II, F. Rouge, Lausanne, 1896-1897,
trad. it. Corso di economia politica, Einaudi, Torino, 1943, vol. II, p. 552. Cfr. anche
V. Pareto, Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale,
cit., p. 299: “Gli umanitari possono bene chiudere gli occhi per volontariamente ignorare questa verità, ma ciò non muta nulla ai fatti. In ogni razza nascono elementi
di scarto, che debbono essere distrutti dalla selezione. I dolori di quella selezione sono il riscatto del mantenersi e del perfezionarsi la razza; ed è uno dei tanti casi in cui
il bene dell’individuo è in contrasto col bene della specie”.
19
Terenzio Maccabelli
si era fatto un passo ulteriore. Essa non si limitava a criticare le istituzioni
sociali che in modo “artificiale” impedivano alla selezione naturale di operare; essa propugnava di dare un consistente aiuto alla selezione, addirittura
di sostituirsi ad essa, facendo in modo che gli individui ritenuti “inferiori”
fossero eliminati o per lo meno posti nelle condizioni di non riprodursi. È
questo l’assunto principale, come detto, dell’eugenetica “negativa”, la quale appunto trasformava la selezione “naturale” in selezione “artificiale”. Il
problema che gli eugenisti dovevano risolvere a questo punto era naturalmente quello di individuare le misure idonee per realizzare gli obiettivi
dell’eugenetica “negativa”, dato che queste potevano andare dalla soppressione “diretta” degli individui ritenuti “inferiori” o “limitarsi” alla loro sterilizzazione.
Ed è appunto su questo fronte, ossia la lotta alla degenerazione, che
l’eugenetica, come ha sottolineato Claudia Mantovani, “acquisisce quegli
strumenti programmatici che la renderanno tristemente famosa: dai limiti
posti alla libertà di movimento interna e internazionale di soggetti biologicamente sgraditi, ai certificati sanitari prematrimoniali, allo sterilizzazione
più o meno ‘volontaria’ di persone giudicate fisicamente, mentalmente o
moralmente ‘inadatte’ a sostenere le sfide dell’evoluzione e del progresso” 35 .
Si tenga presente, inoltre, che l’eugenetica cominciò molto presto a caricarsi di implicazioni “razziste”. I discorsi sull’inferiorità e la superiorità
degli individui andavano di pari passo con l’attribuzione di tali prerogative
a determinate tipologie razziali. È stato in verità sottolineato come, nella
sua formulazione originaria, l’eugenetica non avesse implicazioni strettamente razziste (in che non significa naturalmente che fosse una “buona”
35
20
C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 16.
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
scienza). Al contrario, alcuni interpreti hanno sottolineato il fatto che dietro
l’eugenetica di Galton prevalesse un discorso di “classe” più che di “razza” 36 . Molto presto tuttavia il sapere eugenetico divenne un alleato inseparabile del razzismo, in particolare del razzismo biologico.
Quanto di tutto questo venne recepito in Italia? Che forma assunse nel
nostro paese l’eugenetica? Essa fu accondiscendente nei confronti
dell’eugenetica galtoniana e anglosassone o se ne differenziò? Sono questi
alcuni degli principali interrogativi ai quali la recente storiografia ha cercato di rispondere. Per meglio evidenziare i problemi sottostanti a tali interrogativi cercheremo a questo punto di discutere alcune forme assunte
dall’eugenetica in Italia cominciando con un salto temporale che ci porta
negli anni del “razzismo di Stato” del Fascismo, cioè negli anni più favorevoli alla diffusione dei diktat dell’eugenetica di stampo ereditarista e biologico.
I rapporti tra eugenetica e fascismo sono sempre stati molto stretti. Gli
stessi cultori dell’eugenetica, nella stragrande maggioranza, furono tra i più
convinti sostenitori del Regime. L’entrata in vigore della legislazione antiebraica non poteva che offrire un ulteriore e decisivo contributo nel dare
“nuova visibilità e risonanza” alle idee eugenetiche 37 . Il fatto di leggere,
nella “Difesa della razza” del 1942, un brano come quello di seguito ripor-
36
“Eugenics should be seen a an ideology of the professional middle class, and in particular of the ‘modern’ rather than the ‘traditional’ sector. Eugenic ideas were put
forward as legitimation of the social position of the professional middle class, and as
an argument for its enhancement. […] British eugenics was unique in many respects.
In particular, it was a class rather than a ‘racist’ phenomenon, and unlike its German
and United States equivalents is not to be understood in terms of preoccupation with
Jews, Blacks or immigrants” (D. MacKenzie, Eugenics in Britain, “Social Studies of
Science”, Special Issue: Aspects of the Sociology of Science: Papers from a Conference, University of York, UK 16-18 September 1975, Vol. 6, n. 3/4, Sep. 1976, p.
501).
37
A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit.
21
Terenzio Maccabelli
tato potrebbe pertanto far pensare a un filo rosso che senza soluzione di
continuità parte da Galton e arriva al “razzismo di Stato” dell’Italia fascista:
Se qualcuno ci domandasse come si potremmo realizzare un razzismo positivo nel
campo strettamente biologico, risponderemmo che basterebbe stimolare al massimo gli
elementi meglio dotati dal punto di vista razziale del nostro popolo, di porre in condizioni favorevoli di sviluppo la grande massa degli elementi medi (i nove decimi circa
della popolazione globale) e infine di far diminuire con misure energetiche, come la sterilizzazione e la castrazione, fino a farla sparire del tutto, la massa grigia degli elementi
tarati ed asociali. Un’azione di tal genere dovrebbe essere accompagnata da una profonda riforma di carattere sociale ed economico. Noi siamo sicuri che il problema delle aristocrazie verrebbe di per sé risolto in breve tempo allorché si adottassero misure di tal
genere da noi proposte. E per la nostra Patria, anche se ci fosse qualche lieve diminuzione quantitativa, un potenziamento degli elementi migliori e l’eliminazione di quelli
peggiori sarebbe veramente salutare 38 .
Come si vede, questo brano riprende in modo fedele i principi cardine
dell’eugenetica galtoniana, in particolare le due dimensioni dell’eugenetica
“positiva”, finalizzata al potenziamento dello stock genetico o razziale della popolazione agevolando l’accoppiamento degli individui ritenuti “superiori”, e dell’eugenetica “negativa”, volta a sopprimere le possibilità riproduttive degli individui ritenuti “inferiori”. Una concezione dell’eugenetica,
come detto, supportata da un rigido determinismo biologico, in virtù del
quale tanto i tratti razziali quanto le attitudini culturali degli individui si trasmettono per eredità.
Autore di questo brano è Guido Landra, uno dei protagonisti della
“svolta” attuata dal regime nel 1938 allorché i fermenti razzisti, già ampiamente presenti nella società italiana, si trasformarono in “razzismo di
Stato” 39 . Landra, come è noto, è il compilatore del Manifesto del razzismo
38
G. Landra, Razzismo biologico e scientismo, “Difesa della razza”, vol. VI, n. 1, 5 novembre, 9-11; C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, cit., p. 442.
39
“Nel 1938, ‘anno cruciale e terribile per l’ebraismo europeo, si assiste in Italia al passaggio da un razzismo frammentato, composto di pregiudizi xenofobi e di atteggiamenti intolleranti, a un razzismo di stato” (M. Raspanti, I razzismi del fascismo, cit.)
22
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
italiano, redatto nel 1938 sulla base delle indicazioni dello stesso Mussolini: ed è altrettanto noto che tale Manifesto è completamente pervaso da una
concezione “biologica” del razzismo, con gli italiani che improvvisamente
entravano nell’olimpo delle razze elette, ossia le razze “ariane” 40 . Tutto lascerebbe insomma supporre che anche in Italia, come avvenuto nella Germania nazional-socialista, eugenetica e razzismo biologico si siano legati a
filo doppio fornendo le basi “scientifiche” per legittimare le leggi discriminatorie e persecutorie del 1938.
Come la recente storiografia ha messo in evidenza, il quadro è tuttavia
molto più complesso. La stessa vicenda di Landra è esemplare 41 . Nel 1942,
quando scrive il brano sopra ricordato, non è infatti più tra favoriti del Duce. Subito dopo avergli affidato l’incarico di redigere il Manifesto, Mussolini lo aveva posto a capo del neo Ufficio studi sulla razza istituito presso il
Ministero della cultura popolare. Landra, allora giovanissimo assistente universitario e ancora misconosciuto, saliva così alla ribalta del dibattito politico. Ma improvvisamente, all’inizio dell’anno successivo, veniva rimosso
dall’incarico, e assegnato a funzioni molto meno prestigiose. Nel 1940 verrà addirittura licenziato dal Ministero, lasciandolo a ventisette anni praticamente disoccupato.
I retroscena di questa singolare vicenda sono oggi abbastanza conosciuti. Landra fu una pedina usata da Mussolini per avviare nel 1938 una frene-
40
Tra i pronunciamenti più espliciti del decalogo noto come Manifesto della razza, possiamo qui ricordare il terzo (“Il concetto di razza è concetto puramente biologico”) e
il quarto (“La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e
la sua civiltà ariana”). Il Manifesto della razza è riprodotto integralmente, tra gli altri,
da R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., pp. 327-329.
41
Tra i contributi più recenti, cfr. A. Gilette, Guido Landra and the Office of Racial
Studies in Fascist Italy, “Holocaust and Genocide Studies”, vol. 16, n. 3, Winter
2002, pp. 357-375.
23
Terenzio Maccabelli
tica campagna propagandistica a favore del razzismo biologico 42 . Questa
campagna sanciva anche sul piano culturale il “patto d’acciaio” con la
Germania e fu lo stesso Landra a svolgere un ruolo fondamentale nei rapporti con l’alleato. Egli divenne infatti strettissimo sodale di Eugen Fisher,
esponente di punta dell’eugenetica tedesca, e arrivò a essere insignito da
Hitler con la Croce di I classe dell’Ordine della Croce Rossa tedesca. Il dato rilevante di questa prima fase del razzismo di Stato fu l’identificazione
della razza italiana con quella ariana.
Probabilmente però questa campagna non ebbe l’effetto sperato
sull’opinione pubblica, che forse percepì come eccessivamente schiacciata
sul modello tedesco la politica “razzista” mussoliniana. Come già in precedenza, Mussolini non si fece troppe remore a cambiare rotta, indirizzando
la campagna propagandistica inizialmente verso un “nazional-razzismo” e
poi verso un “razzismo esoterico-tradizionalista”43 . L’intento era naturalmente quello di individuare una concezione autoctona, svincolandola dal
razzismo biologico che veniva sempre più identificato con la Germania44 .
Questi dibattiti furono prevalentemente “dottrinari”, senza effetti di rilievo sulla macchina persecutoria nei confronti degli ebrei, ormai completamente avviata. Alcune ripercussioni tuttavia vi furono. Si tenga presente
infatti che il rigido fondamento biologico del Manifesto portava ad attribui-
42
Sull’infatuazione mussoliniana per il razzismo biologico, cfr. M. Sarfatti, Mussolini
contro gli ebrei: cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino,
1994, p. 22.
43
M. Raspanti, I razzismi del fascismo, cit.
44
Come ricorda Aaron Gillette, non tutte le elite fasciste erano disposte ad accettare
l’identità “ariana” del popolo italiano. “Some influential Fascists and scientists began
to rally for a more traditional racial identity. They believed that that Italians belonged
to a ‘Mediterranean’ race more antagonistic towards Germans than towards Jews.
Their efforts contributed to Mussolini’s decision to purge the Racial Office in February 1939, removing Landra and his allies from positions of power” (A. Gilette,
Guido Landra and the Office of Racial Studies in Fascist Italy, cit., p. 358).
24
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
re la razza ebraica anche a coloro che, figli di ebrei, non professavano la religione ebraica. Le successive versioni del razzismo tendevano invece a
“salvare” chi si fosse convertito, una concezione evidentemente molto più
appetibile per il Vaticano.
Le ricerche di questi ultimi anni stanno insomma dimostrando in modo
sempre più puntuale un dato rimasto a lungo nell’ombra: Mussolini appare
terribilmente incerto sul tipo di “razzismo” cui fare riferimento, con frequenti ripensamenti, inversioni di rotta e improvvisi dietro-front. La questione non è tanto quella, ipotizzata da certa storiografia, di una supposta
“via italiana” al razzismo, come tale “blanda”, “tollerante” e per questo
meno esecrabile. Il razzismo rimane un dato fondante del fascismo, e il fatto che esso sia stato declinato in modi diversi non significa affatto che fosse
meno radicato. Piuttosto, si deve riconoscere il dato di un universo complesso e variegato della cultura italiana, nella quale appunto si erano formate diverse correnti dottrinarie per ciò che concerne i criteri identificativi
delle razze, e dalla quale Mussolini attinse in modi e forme diverse durante
il ventennio fascista.
Le modalità di diffusione e affermazione dell’eugenetica in Italia non
fanno che confermare il quadro appena sommariamente delineato. Molti
studiosi hanno parlato di “una via moderata all’eugenetica” 45 propria della
tradizione italiana, caratterizzata da significative peculiarità rispetto alla
concezione ortodossa che si era affermata nei paesi nordici e anglosassoni.
Ciò che divide gli interpreti è tuttavia la relazione tra la tradizione autoctona e la svolta razziale del 1938. Mentre per alcuni tale svolta era implicita
nella cultura eugenetica precedente, per altri tale legame apparirebbe più
debole, avendo prevalso nella tradizione italiana un’impostazione in cui
45
A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., pp. 276-279.
25
Terenzio Maccabelli
mancava, o comunque era debole, uno degli ingredienti fondamentali del
razzismo: ossia “il mito della ‘purezza’ della razza, della difesa della sua
identità biologica dalle contaminazioni esterne”. In particolare, sarebbe stato lo stesso fondatore dell’eugenetica, Francis Galton, ad avere avuto scarsa
eco in Italia, come più in generale l’idea del determinismo biologico per ciò
che concerne la trasmissione dei caratteri “qualitativi”. La posizione di
Landra che abbiamo sopra ricordato, non era in sostanza affatto maggioritaria, ma si inseriva in un quadro composito e articolato di posizioni. La biografia scientifica-politica di Corrado Gini, da questo punto di vista, rappresenta senza dubbio una efficace cartina di tornasole.
4.
Corrado Gini: dall’eugenetica “qualitativa” all’eugenetica “quantitativa”
Scrittore poliedrico come pochi altri, Gini è innanzitutto famoso come
statistico – tra l’altro primo presidente dell’Istat – oltre che come demografo, sociologo, economista ed anche politico 46 . Ma oltre a tutto questo Gini è
stato anche una figura centrale dell’eugenetica italiana.
La storiografia individua negli anni dieci del secolo scorso il momento
di avvio, anche per l’Italia, di un vero e proprio “movimento eugenetico”.
L’evento che sancì l’inizio di tale movimento fu il primo congresso internazionale di eugenetica che si tenne a Londra nel 1912 al quale partecipò
una nutrita delegazione italiana. Ne faceva parte anche Gini, allora ancora
giovane e non affermato studioso. Nel 1912 non era probabilmente il capo-
46
26
Cfr. F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Carocci,
Roma, 2006.
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
fila della delegazione italiana che si recò a Londra; era tuttavia destinato a
diventarlo nel volgere di un brevissimo arco temporale.
Pochi anni prima del Congresso di Londra, nel 1909, Gini aveva pubblicato sul “Giornale degli economisti” un importante contributo nel quale
affrontava una della questioni fondamentali dell’eugenetica, ossia la diversa prolificità delle classi sociali. In un clima culturale totalmente pervaso
dalla paura della “degenerazione”, lo scarto tra le potenzialità riproduttive
dei ceti inferiori rispetto a quello delle elite pareva una prova ulteriore
dell’incombente peggioramento qualitativo della specie umana 47 . In un
scenario di questo tipo, Gini assunse invece una posizione controcorrente.
Egli cominciava col chiedersi se le diffuse declamazioni sul “diverso
accrescimento delle classi sociali” avessero un effettivo fondamento empirico. Avvalendosi dei pur limitati dati statistici allora disponibili, giungeva
alla conclusione che effettivamente tale tendenza avesse un riscontro reale,
arrivando addirittura ad avanzare la tesi che tale tendenza fosse l’esito di
una sorta di “legge naturale”. Dall’indagine statistica Gini traeva infatti la
conclusione che “il diverso accrescimento delle classi sociali”, lungi
dall’essere “una peculiarità del nostro tempo”, deve ritenersi “una legge
generale delle società umane” 48 . Questo non giustificava tuttavia le conclusioni apocalittiche che molti avevano tratto da questa tendenza demografica. Per spiegare i motivi per cui la bassa prolificità dei ceti superiori non
doveva essere percepita come un problema, Gini poneva in essere un approccio metodologico fortemente interdisciplinare che sarò il tratto tipico
47
Per alcuni era addirittura in corso “un suicidio di classe”, dovuto a questa scarsa prolificità delle classi superiori.
48
C. Gini, Il diverso accrescimento delle classi sociali e la concentrazione della ricchezza, “Giornale degli economisti”, s. II, gennaio 1909, p. 58.
27
Terenzio Maccabelli
della sua lunga carriera di studioso 49 . Osservava infatti che il “diverso accrescimento delle classi sociali” era un fenomeno di “vitale importanza”
non solo per la demografia, ma anche per la biologia, la sociologia, la storia, la politica, l’antropologia, la statistica e l’economia50 . È singolare che
non venga menzionata l’eugenetica, a riprova del fatto che nel 1909 questa
“scienza” non aveva ancora ricevuto attenzione in Italia. Ma le spiegazioni
che Gini si accingeva a dare del fenomeno in questione, diverranno l’asse
portante del discorso eugenetico che si svilupperà in Italia dopo il 1912, a
seguito del menzionato Congresso di Londra. È quindi doveroso riassumere
le tesi formulate nel 1909, ancorché non ancora collocate nel quadro organico nella scienza denominata “eugenetica”.
Gini abbozza per la prima volta in questo saggio uno dei capisaldi della
sua teoria sociale, fortemente debitrice della teoria paretiana della circolazione delle aristocrazie. Pareto aveva espresso forte riserve sulla tesi sostenuta da Galton e da molti suoi seguaci secondo la quale l’eccellenza, il genio, e in genere la superiorità si riproducono solo nell’ambito di elite chiuse. In particolare, Pareto aveva rovesciato l’idea che gli individui provenienti dal “basso” potessero “inquinare” le elite o le aristocrazie 51 . Secondo
l’economista di Losanna, se non ci fosse questo “ricambio”, se non ci fosse
un processo continuo di ascensione di individui dal basso verso l’alto, la
società sarebbe destinata a perire. Sono pertanto proprio i soggetti prove49
Non dobbiamo dimenticare che proprio in questo saggio Gini formulava per la prima
volta, seppure in forma embrionale, quello che sarà destinato a diventare il suo contributo più famoso anche a livello internazionale, ossia l’indice di misura della disuguaglianza noto appunto come “indice di Gini”.
50
C. Gini, Il diverso accrescimento delle classi sociali, cit., p. 61.
51
Una delle affermazioni più celebri di Pareto è quella dei ceti inferiori come “crogiuolo ove si elaborano le future aristocrazie”, fonte continua di “elementi che salgono
nella regione superiore” (V. Pareto, Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale, cit., p. 273; Id., Cours d’économie politique, cit., vol. II, p.
414).
28
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
nienti dai ceti inferiori che permettono al sistema sociale di rinnovarsi continuamente e di sopravvivere.
Anche agli occhi di Gini, la questione “demografica” del “diverso accrescimento delle classi sociali” aveva innanzitutto una fondamentale valenza “sociologica” e “politica”. Egli osservava infatti che dalla “grande
massa” delle “classi povere, […] come da un immenso vivaio, sorgono
continuamente […] gli eletti”. […] Le classi basse di oggi saranno il popolo di domani, da esso sorgeranno i governanti futuri”. Oltre che importante
dal punto di vista politico e sociale, la circolazione delle elite aveva inoltre
una fondamentale rilevanza dal punto “biologico”, poiché chiamava in causa i meccanismi della selezione naturale (che Gini talvolta chiama “cernita
naturale”) e dell’evoluzione della specie. Il problema era come sopperire
agli ostacoli frapposti alla selezione naturale dalla rigida organizzazione
gerarchica delle società umane, nelle quali “il minor accrescimento delle
classi ricche” costituiva effettivamente, come molti temevano, una potenziale “causa di peggioramento”. Tuttavia, esisteva secondo Gini un potentissimo fattore di compensazione grazie al quale, seppure in modo difforme
e talvolta in modo meno efficiente rispetto all’universo naturale, la selezione naturale poteva agire anche nelle società umane. A questo contribuiva
quell’“immane divisione del lavoro” che ha posto, da una parte, “i meglio
dotati per vivere, i ricchi e gli intellettuali, le classi dominanti e dirigenti” e
dall’altra “le classi lavoratrici”, cioè “i continuatori della specie” 52 .
Per dirimere il quesito sulla natura progressiva o meno della circolazione delle aristocrazie era a questo punto necessario chiamare in causa la
controversia tra “ereditaristi” e “ambientalisti” sul ruolo giocato rispettivamente dalla “natura” e dalla “cultura” nella formazione della personalità
52
C. Gini, Il diverso accrescimento delle classi sociali, cit., pp. 62-64.
29
Terenzio Maccabelli
umana. A questo riguardo Gini prendeva esplicito partito a favore della
“cultura”. Riteneva infatti assai poco probabile e comunque non ancora dimostrato “che i figli delle classi basse, che noi vediamo crescere in ambiente sfavorevole, privi di una sufficiente educazione, sarebbero riusciti inferiori ai figli delle classi elevate, qualora fin dalla nascita avessero goduto
delle agiatezze e delle attenzioni di cui questi godono”53 . Da tutto questo
Gini traeva una conclusione perentoria: “il minor accrescimento delle classi
elevate […] non conduce al deterioramento della razza umana” e nemmeno
impedisce l’evoluzione della specie. Esso mette viceversa in moto “una
corrente ascensionale dalle basse alle alte classi sociali”, un processo ritenuto “progressivo” e di cui egli intendeva mettere in evidenza la rilevanza
da molteplici prospettive disciplinari, dalla sociologia alla biologia
dall’economia all’antropologia54 .
Come anticipato, nel 1909 Gini non aveva ancora maturato l’idea di
collocare il proprio discorso nel quadro dell’eugenetica, scienza che appunto ambiva a ricomprendere al proprio interno diversi orizzonti disciplinari.
Ma con la partecipazione al primo congresso internazionale di eugenetica
la scelta di Gini diventa inequivocabile, innestando l’eugenetica “al centro
della propria ‘demografia integrale’, intreccio di discipline che dalla biologia s’estendeva alla sociologia” 55 .
Nel proprio intervento al congresso di Londra, Gini riprende pertanto le
linee direttrici del saggio del 1909, per ribadire le implicazioni “positive”
della “fertilità differenziale” delle classi sociali. Ciò gli permetteva di prendere le distanze non solo dalle paure degenerative diffuse nella cultura eu-
53
Ibid., p. 62.
Ibid., p. 82.
55
C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, cit., p. 463.
54
30
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
genetica anglosassone ma anche dal principio cardine dell’eugenetica “positiva”.
Finché non sia dimostrato – scrive infatti Gini – che i figli delle classi basse, se fossero sottoposti fin dal concepimento alle stesse condizioni di ambiente dei figli delle
classi elevate, riuscirebbero peggiori di questi, non è dimostrato che, stimolando la riproduttività delle classi elevate, si provvederebbe al vantaggio della razza meglio che
lasciando che il loro posto sia preso dai figli del popolo 56 .
Lo scetticismo sulla concezione ortodossa dell’eugenetica, intrisa di determinismo biologico, verrà continuamente ribadito da Gini nei suoi numerosi contributi successivi. Gli aspetti sui quali egli maggiormente insisterà
sono due. In primo luogo sul fatto che erano ancora scarse le conoscenze
sui meccanismi della trasmissione ereditaria, comunque tali da non provare
con certezza che caratteri qualitativi come il “genio” o le “attitudini” avessero un alto grado di ereditarietà. In secondo luogo, egli insisteva sul ruolo
fondamentale dell’“ambiente” e della “cultura”, recuperando in questo modo una sorta di “lamarkismo sociale” che ridimensionava notevolmente il
determinismo biologico o genetico.
Il problema demografico sul quale Gini aveva concentrato l’attenzione
nei suoi primissimi studi, ossia la diversa capacità riproduttiva delle classi
sociali, venne pertanto rovesciato, trasformandolo da “problema” a “ricchezza” vantaggiosa per la specie umana. Questo assunto “fu il punto il
punto di partenza della teoria ciclica della popolazione propriamente detta
che Gini iniziò a formulare dal 1912 e poi sviluppò attraverso successivi
56
C. Gini, Contributi statistici al problema dell’eugenica, “Rivista italiana di sociologia”, vol. XVI, n. 3-4, maggio agosto 1913, versione italiana della relazione presentata al congresso di Londra pubblicata in Aa.Vv., Problems in Eugenics. Papers
communicated to the First International Eugenics Congress held at University of
London July 24th to 30th, Eugenics Education Society, London, 1912; C. Mantovani,
Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni
Trenta, cit., p. 76; F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 45.
31
Terenzio Maccabelli
perfezionamenti che vanno fino agli anni Quaranta” 57 . Tra gli aspetti di rilievo, la reiterata condanna delle visioni apocalittiche sulla “degenerazione” o sul “suicidio di classe” 58 , e la sottolineatura dell’apporto decisivo dei
ceti inferiori non solo per la sopravvivenza della specie ma per le elite stesse.
Tutto questo comportò uno spostamento del cuore del discorso eugenetico dal problema della “qualità” al problema della “quantità”. Divenuto
Gini uno dei leader indiscussi del movimento eugenetico italiano, questo
orientamento risultò vincente. Negli anni successivi al primo conflitto
mondiale, prevalse infatti in Italia un eugenetica di impostazione “quantitativa”, avallata in larga parte dalla concezioni demografiche, sociali e politiche di Gini, che lasciò uno spazio ridotto alla declinazione in chiave “qualitativa” dell’eugenetica.
È difficile in effetti non pensare a Gini come mentore del famoso discorso dell’Ascensione di Mussolini, tenuto il 26 maggio 1927 alla Camera
dei Deputati, nel quale vennero tracciate le direttive demografiche del regime. “Il numero è la forza dei popoli”, aveva affermato Mussolini, individuando nella crescita demografica l’unica strada per rafforzare la potenza e
la vitalità dell’Italia59 . Nessuna apertura dunque nei confronti dei “limitato-
57
G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 125.
“Il progressivo ridursi dei discendenti delle classi superiori” – scrive infatti Gini non
può “senz’altro riguardarsi come un danno sociale” e sono pertanto “da accogliersi
con riserva, per questo lato, i funesti presagi di deterioramento sociale, che ne trasse
la scuola biometrica inglese” (C. Gini, Eugenetica, “Rivista italiana di sociologia”,
fasc. 1, 1914, p. 6; C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle
origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 76).
59
Il principio del “numero come forza” venne ribadito da Mussolini anche l’anno successivo, in un articolo pubblicato su “Gerarchia” nel settembre del 1928 e nella prefazione alla traduzione italiana del volume di Richard Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli (Libreria del Littorio, Roma, 1928). Anche in queste circostanze,
Mussolini definì la questione demografica come “il problema dei problemi”, assecondando di fatto l’impostazione che vi aveva dato Gini.
58
32
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
ri” e dei “controllori” delle nascite, tra i quali vi erano naturalmente anche
gli eugenisti ortodossi, dalle cui politiche demografiche sarebbero scaturite
de-natalità e decadenza. L’influenza di Gini nel rafforzarsi di questa concezione è del tutto palese.
Nella teoria di Gini vi erano tuttavia anche alcune implicazioni che potevano non accordarsi pienamente con la politica demografica del regime,
divergenze inizialmente latenti ma destinate a emergere in modo più vistoso circa un decennio dopo. Nella sua teoria del ricambio sociale – una sorta
di “eugenetica rinnovatrice“, come è stata definita 60 – veniva infatti espressamente postulata la positività degli incroci razziali61 . Agli occhi di Gini,
gli incroci non comportavano un rischio di “contaminazione” ma erano viceversa vitali dal punto di vista della “reviviscenza” dell’organismo nazione, purché naturalmente nell’ambito di stirpi “geneticamente ‘compatibili’
o meglio ‘complementari’”62 (un discorso, in sostanza, limitato alle popolazioni bianche, anche se su questo punto il discorso di Gini non è privo di
ambiguità). Nella teoria di Gini vi erano dunque numerosi aspetti piena60
“All’eugenetica anglosassone, di tipo ‘conservatore’, incentrata sulla difesa delle élite
biologiche e sull’eliminazione dei tarati, Gini contrappone […] un’eugenetica ‘rinnovatrice’, prevalentemente interessata allo studio dei fattori della nascita, evoluzione e morte delle nazioni” (F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit.,
p. 163). Cfr. C. Gini, Discorso d’apertura, pp. 26-27, cit. in F. Cassata, Molti, Sani e
Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 163: “Come sorgono i cespiti nuovi? Ammesso
che provengano in definitiva dalla massa oscura della popolazione, quali circostanze
ne determinano l’ascesa? Evidentemente non può questa avvenire per un’eredità dei
fattori superiori, che per l’addietro non esistevano. Può trovarsene l’origine in combinazioni fortunate, sorte da incroci fra cespiti non troppo diversi e favorite dalla
cernita naturale? Può contribuirvi il cambiamento di ambiente derivante dalle migrazioni? E quale importanza ha la selezione che nelle migrazioni si opera?”.
61
“Nella seconda metà degli anni venti, oltre a intensificare la battaglia contro il birth
control e la selezione eugenetica del matrimonio”, Gini aveva infatti precisato,
“sempre in polemica con l’eugenetica anglo-americana, la propria interpretazione
degli incroci razziali”, nei confronti dei quali si era mostrato favorevole (F. Cassata,
Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 155).
62
Cfr. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., pp. 340-341.
33
Terenzio Maccabelli
mente compatibili con la politica pro-natalista mussoliniana, “ma ve ne erano altri che ponevano non pochi problemi”. La sua concezione del ricambio sociale e la sua visione positiva degli incroci, in particolare, potevano
“entrare in contrasto con l’idea della purezza razziale” 63 , cosa che in effetti
avvenne dopo la metà degli anni Trenta.
Ma negli anni che precedono la svolta razziale del regime, la posizione
di Gini non soltanto appare del tutto congeniale alla politica demografica
del regime, ma anche largamente condivisa tra i cultori italiani di eugenetica, che in generale guardano con occhi parzialmente diversi rispetto ai colleghi tedeschi e americani al problema degli incroci razziali. A partire dal
1929 si crea pertanto un’apparente unanimità intorno alle posizioni dello
statistico padovano e il contrasto con le “aberrazioni” dell’eugenetica ortodossa si faceva sempre più forte 64 . In particolare, prevaleva “un clima di
diffuso scetticismo, quando non di aperta ostilità, per gli aspetti più visibilmente ‘interventisti’ dell’eugenetica anglo-germanica” 65 .
Questo contrasto, inizialmente solo dottrinario, divenne un problema di
diplomazia “politica” allorché, tra il 1933 e il 1935, prende ufficialmente
avvio la politica eugenetica nazista. Nel 1935 si tenne a Berlino un Congresso internazionale della popolazione in cui la maggior parte degli eugenisti internazionali (in particolare quelli americani) espressero supporto alla
politica razzista della Germania. Gli studiosi italiani rimasero invece in disparte, preferendo non intervenire direttamente su questioni scottanti come
quelle eugenetiche e razziali 66 . Secondo Anna Treves 67 questo avvenne per
63
G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 127-128.
C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, cit., p. 438.
65
C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., p. 259.
66
Tanto la rivista di Livio Livi (“Economia”) quanto quella di Gini (“Genus”) mantengono le distanze dai dibattiti sull’eugenetica, con pochi interventi sull’argomento.
64
34
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
ordine di Mussolini, non ancora deciso sull’atteggiamento da tenere
sull’argomento. Si tenga presente che “in quel periodo Mussoloni aveva più
volte dimostrato di voler prendere pubblicamente le distanze dal razzismo
biologico nazista. ‘La scienza […] non garantisce la ‘purità’ del sangue di
nessuno’, aveva scritto in un articolo uscito nell’estate 1934 con il titolo significativo di Fallacia ariana” 68 . Almeno per un certo periodo, l’Italia si
differenziò e in parte prese le distanze dalle politiche eugenetiche di sterilizzazione attuate in molti paesi anglosassoni e nella Germania di Hitler,
che si proponevano appunto di limitare la proliferazione degli individui ritenuti “tarati”.
Appunto per sancire questa differenza, nel 1935 Gini avanza l’idea di
un eugenismo latino diverso da quello della tradizione anglosassone, così
da conciliare con il punto centrale della sua teoria sociale, secondo cui “gli
incroci tra razze potevano essere positivi” 69 . E Mussolini stesso, tra il 1936
e il 1937, “aveva continuato a richiamarsi alla tradizione di una via moderata all’eugenetica”70 .
Ma dietro le quinte del potere fascista le cose stavano lentamente cambiando, in quanto si stava profilando un graduale avvicinamento alla Germania. Il primo passo, come è noto, fu l’emanazione, nel 1937, delle leggi
sul meticciato, che in qualche modo si scontravano con la valutazione posi-
Tra le poche voci discordanti per motivazioni “etiche” al razzismo tedesco sono da
ricordare quella dello statistico cattolico Marcello Boldrini. Anche nel Congresso internazionale della popolazione di Parigi del 1937 gli italiani rimasero defilati. In sostanza, ritiene Treves, “dopo il 1933 i demografi e demografi-statistici, nel loro insieme, tacquero; non vollero confrontarsi col sorgere e con l’imporsi della politica
razzista ed antisemita in Germania” (A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del
Novecento, cit., p. 296).
67
Cfr. A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., p. 285.
68
Ibid., p. 285.
69
Ibid., p. 289.
70
Ibid., p. 296.
35
Terenzio Maccabelli
tiva che Gini aveva dato della questione dell’ibridazione razziale. In verità,
come anticipato, Gini aveva limitato alle stirpi ritenute complementari il
proprio discorso, tanto che fin dal 1932 aveva richiamata la necessità di un
disciplinamento degli incroci, “soprattutto nel contesto coloniale africano” 71 . Ma la sua posizione continuò ad essere piuttosto ambivalente: da un
lato approvava la scelta del regime, dall’altro continuava a ribadire “i suoi
argomenti sul valore positivo dell’incrocio” 72 . Un ambivalenza che verrà
utilizzata, durante il processo di epurazione, per cercare di dimostrare la
sua non compromissione con la politica razziale del regime 73 .
La posizione di Gini in questo fatidico torno temporale è in verità difficile da valutare. È certo tuttavia che almeno a partire dalla metà degli anni
trenta egli non è più il demografo e lo statistico prediletto dal Duce. A sancire questo distacco è l’ingresso dell’avversario di Gini, lo statistico Livio
Livi, alla direzione dei principali centri di studio dedicati della popolazione. Come osserva Cassata, “è probabilmente da individuare in questo momento l’inizio dell’estromissione di Gini da una politica demografica fascista, che tende progressivamente ad avvicinarsi, nella seconda metà degli
anni Trenta, al modello nazionalsocialista e che ha come protagonista principale la figura di Livio Livi”. Nello stesso anno delle leggi sul meticciato,
infatti, il regime aveva inaugurato la svolta “familista” nella politica demo71
Ibid., p. 179. Cfr., soprattutto, C. Gini, Prefazione a L. Cipriani, Considerazioni sopra
il passato e l’avvenire delle popolazioni africane, 1932, cit. in F. Cassata, Molti, Sani
e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 180: “Riconoscere la necessità degli incroci per
la conservazione delle stirpi, ammettere a seconda degli elementi razziali che vi concorrono, la varia qualità dei loro prodotti e la diversità, altresì, dal punto di vista sociale, del valore di questi in relazione alle diverse esigenze dell’ambiente, non significa negare l’importanza del problema eugenico degli incroci, ma se mai, accentuarla, in quanto riconosciuto il carattere inevitabile del fenomeno, più evidente appare la
necessità di disciplinarlo”.
72
Cfr. F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 180.
73
Si veda l’intervista a Genesio Eugenio Del Monte durante il processo di epurazione
nei confronti di Gini riportata da Cassata (cfr. Ibid., pp. 180-181).
36
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
grafica, incorporando il “modello tedesco dei prestiti matrimoniali, sostenuto da Livio Livi e costantemente osteggiato, invece, da Gini e dalla maggior parte degli altri demografi italiani” 74 .
E arriviamo di nuovo al 1938, quando le ambiguità, il “doppio gioco”
del regime cessano improvvisamente. All’emanazione, nel 1937, delle leggi
che vietavano il meticciato sui territori coloniali, seguì l’anno successivo,
la pubblicazione del Manifesto della razza. Gli obiettivi del regime non sono più soltanto quelli di “perseguire […] l’incremento della natalità e della
popolazione, [ma] anche la difesa della razza nelle sue caratteristiche storiche e biologiche” 75 . Come dirà Mussolini il 18 settembre 1938, in un celebre discorso a Trieste, era giunto il momento di una “chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma anche delle
superiorità nettissime” 76 .
Come abbiamo anticipato nel paragrafo precedente, Mussolini aveva in
sostanza optato per una declinazione biologica del razzismo e
dell’eugenetica, secondo i capisaldi che troviamo nel decalogo del Manifesto sulla razza. Non deve stupire che a rappresentare le scienze statistiche,
demografiche ed economiche non sia Gini, il cui nome appunto non compare tra i firmatari del Manifesto, ma Savorgnan, fautore invece di un determinismo biologico molto vicino a quello tedesco 77 . Sul fatto che già
all’inizio dell’anno successivo Mussolini fosse costretto a reindirizzare il
proprio razzismo in una direzione diversa, torneremo tra poco, dopo due
considerazioni finali sul lungo itinerario intellettuale di Gini.
74
F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, cit., p. 133.
A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., p. 312.
76
Il discorso continuava indivudando nell’ebraismo il “principale nemico del partito”.
77
La cosa non è di poco conto, se si tiene presente che Gini era stato il solo, tra i cultori
di scienze sociale, a firmare nel 1925 il Manifesto degli intellettuali del fascismo.
75
37
Terenzio Maccabelli
Come abbia visto egli era sostenitore, pur con qualche notevole eccezione, “della positività della mescolanza fra le razze”. Secondo Treves 78 ,
inoltre, almeno per quanto riguarda la politica razzista del fascismo, Gini
non piegò la sua teoria sociale a giustificazione di essa. “Certo negli scritti
di Gini di questi anni vi sono molte ambiguità. Ma mi sembra si possa dire
con relativa tranquillità che proprio colui che aveva introdotto la ‘scienza’
eugenica in Italia, colui che già prima della guerra e negli anni seguenti aveva parlato di razza, da quando la razza era divenuta politica dello Stato,
alla razza smise di dedicare attenzione. Sul problema della razza tacque.
Pur rimanendo un fascista dichiarato. Un silenzio di cui non è facile cogliere il significato” 79 .
È questo sufficiente per dire che siamo di fronte a qualcosa di diverso
dal razzismo, magari qualcosa di più debole e quindi meno esecrabile? Dove appunto l’adesione al razzismo fascista, come implicitamente sembra
emergere del lavoro di Anna Treves, assume le vesti di “una scelta inconsapevole, indifferente o opportunistica”? In verità, come ha osservato Cassata 80 , con il razzismo di Gini siamo di fronte a “un razzismo per molti aspetti più sottile e subdolo” di quello più rude di stampo biologico, ma pur
sempre da qualificare come “razzismo”. A riprova di questo due episodi
appaiono significativi.
Negli anni quaranta Gini aveva condotto ricerche sui caraimi, un nucleo di popolazione insediato principalmente in Polonia e Lituania, proprio
nel momento in cui i nazisti, ritenendole di stirpe semitica, avevano avviato
lo sterminio di tali popolazioni. Attraverso la mediazione del ministro ple-
78
Cfr. A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, cit., p. 335.
Ibid., p. 337. Occorre dire, però, che quello che non fece Gini venne fatto da Nora
Federici, sua strettissima allieva.
80
Cfr. F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, cit., p. 14.
79
38
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
nipotenziario d’Italia a Riga, erano stati fatti pervenire in Germania i risultati delle ricerche di Gini e della sua equipe, le quali “dimostravano
l’appartenenza dei caraimi alla stirpe ugro-finnica e non a quella semitica”.
Lo sterminio cessò. Gini avrà modo di dire, durante il processo di epurazione già ricordato, che “tentare di salvare gli ebrei sarebbe naturalmente
stato inutile, ma si poteva sperare di salvare, ed effettivamente si sono salvati, i caraimi”. Cassata commenta al riguardo osservando che fu “un senso
di deontologia scientifica, non un’effettiva opposizione allo sterminio degli
ebrei, il principio guida-guida dell’intervento in difesa dei cariami” 81 .
Il secondo episodio è degli anni cinquanta, in concomitanza degli Statements on Race dell’Unesco che stabilivano l’infondatezza del concetto di
razza. Si creò in America un significativo movimento di opposizione ai dettami dell’Unesco, che ruotava attorno alla rivista “Mankind Quarterley”, e
che ebbe come principale interlocutore italiano proprio Gini, che appunto
condivideva la lotta contro “l’egualitarismo e l’antirazzismo sostenuti
dall’Unesco e dagli Statements on Race” 82 .
Anche in questo caso ci troviamo insomma di fronte all’elemento cardine che accomuna la biografica scientifico-politica di Gini, il gruppo di intellettuali americani che negli anni cinquanta e sessanta ripropongono le tesi dell’ereditarismo eugenico e i continui ripensamenti di Mussolini sui
fondamenti dottrinari da dare a quegli eventi drammatici che furono la persecuzione ebraica avviata nel 1938: dietro ognuno di questi fenomeni si intravede il tentativo di inseguire una chimera, quale fu e continua ad essere
qualsiasi definizione del concetto di razza umana.
81
82
Ibid., pp. 139-141.
F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 377.
39
Terenzio Maccabelli
5. Questioni controverse
La biografia di Gini appare rivelatrice, sotto molti di vista, dei numerosi interrogativi, molti dei quali ancora senza risposta, che circondano il
problema delle modalità di affermazione e diffusione delle idee eugenetiche. In questo paragrafo conclusivo intendiamo riprendere alcuni di questi
interrogativi, al fine mettere maggiormente in evidenza le questioni controverse sulle quali in larga parte divergono le correnti interpretazioni storiografiche. In modo schematico, gli interrogativi su cui vorrei soffermarmi
sono i seguenti: 1) Esiste o no continuità tra la tradizione autoctona di eugenetica e l’avvento del razzismo di Stato sul finire degli anni Trenta, intriso come abbiamo visto di ereditarismo biologico? 2) Quali fattori e quali
forze contribuirono a far prevalere in Italia – negli anni appunto precedenti
il 1938 – una concezione dell’eugenetica orientata più in senso “quantitativo” che “qualitativo”? 3) A quali cause ascrivere, infine, la nascita e la parziale eclisse dell’eugenetica, allargando in questo caso l’orizzonte oltre lo
specifico italiano?
Il primo quesito è già stato richiamato numerose volte in questo scritto,
allorché abbiamo osservato come uno problemi fondamentali messo in evidenza dalla recente storiografia sia quello dei rapporti tra la tradizione italiana di eugenetica e la repentina svolta razziale del Fascismo. Il quesito è
molto complesso e non deve stupire che gli storici non siano affatto concordi sul problema.
L’idea che il razzismo sia stato una sorta di corpo estraneo alla società
italiana, arrivato solo per importazione, appare ormai poco condivisibile. I
fermenti razzisti erano radicati anche nel nostro paese e alla loro diffusione
contribuirono in modo significativo anche numerosi scienziati italiani, appartenenti a diverse discipline. Tra queste, l’eugenetica sembrerebbe quella
40
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
che più di ogni altra avesse i requisiti per alimentare il razzismo nella sua
più rude declinazione “biologica” ed “ereditarista”. Ma il prevalere in Italia
di quella che è stata chiamata una “via moderata” all’eugenetica, portatrice
di un determinismo biologico molto più debole rispetto a quello tedesco e
anglosassone, sembrerebbe incrinare questo assunto, fino al punto da spingere taluni interpreti ad affermare che nella storia dell’eugenetica italiana
non si dovrebbero necessariamente leggere i prodromi dell’avvento del razzismo di Stato. Questa ipotesi interpretativa è stata avanzata dal primo studioso che ha studiato la diffusione dell’eugenetica in Italia, Claudio Pogliano, ed è stata recentemente ripresa anche da Claudia Mantovani. La tesi che
emerge dai loro studi è che il razzismo di Stato si collochi su una linea di
sostanziale discontinuità con la tradizione degli eugenisti italiani, in quanto
le loro “ambizioni ‘rigeneratrici’ […] non si saldano tanto al mito – improbabile e indigesto – della ‘purezza’ biologico-razziale quanto al mito rassicurante e religiosamente corretto del ‘nativismo’ vitale ed espansivo”83 . La
svolta verso il razzismo biologico sarebbe pertanto dovuta più a ragioni
“politiche”, in particolare al “patto d’acciaio” con la Germania, e solo in
minima parte da inscrivere all’idee espresse dal movimento eugenetico italiano
Sul fronte opposto si situano invece coloro che intravedono nella diffusione delle idee eugenetiche una variabile chiave attraverso cui spiegare la
svolta razzista del regime. La tesi in questo caso è che nell’eugenetica italiana, come in quella tedesca, vi fossero tutte le premesse perché questa si
tramutasse nell’azione discriminatoria e persecutoria suggellata dalle leggi
del 1938. Il giudizio sull’eugenetica come una delle fondamentali matrici
culturali del razzismo fascista viene argomentata tanto nella monografia di
83
C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit.
41
Terenzio Maccabelli
Roberto Maiocchi che in quella di Giorgio Israel e Pietro Nastasi. Emerge
da questi lavori una visione dell’eugenetica come “brodo di cultura” del
razzismo nostrano: ancorché prevalentemente declinata in chiave “quantitativa”, l’eugenetica italiana non si precluse un progressivo “scivolamento”
verso l’ortodossia “qualitativa”, del tutto congeniale alla politica di discriminazione razziale attuata dal regime. Secondo questa lettura, in sostanza,
difficilmente si comprenderebbe l’avvento del razzismo di Stato se non si
guardasse al clima favorevole per il suo sviluppo che era stato precedentemente creato dai numerosi scienziati italiani che avevano contribuito in
modo decisivo allo sviluppo dell’eugenetica 84 .
In una posizione per certi versi intermedia rispetto alle due qui succintamente richiamate si colloca la lettura di Francesco Cassata. Da una parte
egli ritiene che la tesi del progressivo “scivolamento” sia debitrice di un
approccio storiografico che tende a ricostruire la tradizione del razzismo e
dell’eugenetica alla luce di quello che fu il genocidio nazista, correndo per
questo il rischio di leggere in tutte le declamazioni su “razza” e “eugenetica” che imperversarono tra Otto e Novecento i segni premonitori della soluzione finale. D’altra parte, egli ritiene tuttavia che l’interpretazione opposta corra seriamente il rischio di ridimensionare in modo eccessivo le “responsabilità del pensiero eugenetico nell’elaborazione del discorso razzio-
84
42
“Il razzismo italiano fu, in parte, il risultato obbligato di processi di lunga durata in
atto ben prima del 1938 nella nostra cultura scientifica e […] i suoi caratteri specifici
furono parzialmente determinati da tali processi e in essi trovano una giustificazione
razionale. In altri termini la scienza italiana non fu affatto estranea alla preparazione
di un terreno favorevole al razzismo e, quando questo divenne attuale per la ragion di
Stato, essa contribuì a configurarne alcune vistose caratteristiche” (R. Maiocchi,
Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 6). “Il razzismo scientifico italiano è esistito, ha avuto consistenza. Anzi è nella corrente della demografia e dell’eugenica
che è stato allevato l’interesse per la questione razziale, anche come questione politica, e sono costruite le giustificazioni per le scelte pratiche poi assunte” (G. Israel, P.
Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 10).
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
logico italiano”. Il prevalere in seno alla tradizione dell’eugenetica italiana
di una “via moderata”, orientata più alla “quantità” che alla “qualità”, non
significherebbe in sostanza che i suoi cultori siano per questo da ritenersi
meno coinvolti “nelle vicende del razzismo fascista” 85 .
Le possibilità di dirimere questa controversia storiografica appaiono
molto difficili. Sono in gioco, da una parte, il problema delle responsabilità
“morali” dei protagonisti, dall’altra quello dei processi e dei contesti storici
entro cui effettivamente maturarono le idee eugenetiche. È comunque indubbio che dietro gli sforzi storiografici di questi ultimi anni, anche di
quelli che hanno sottolineato le peculiarità della tradizione italiana e le differenze rispetto all’ortodossia galtoniana, non emerge alcuna tentazione assolutoria o mistificatrice.
Altrettanto complesso il secondo quesito che circonda le vicende
dell’eugenetica italiana. Perché la declinazione in senso “qualitativo” non
riuscì ad attecchire, o comunque a diventare maggioritaria nel nostro Paese? Le risposte avanzate a questo proposito sono sostanzialmente tre. La
prima è quella maggiormente condivisa, in quanto mette in evidenza il dato, inequivocabile, del ruolo fondamentale svolto da Corrado Gini nelle vicende dell’eugenetica italiana. Fu infatti lo statistico padovano a insistere
più di ogni altro sulla declinazione in chiave “quantitativa” dell’eugenetica
riuscendo, come abbiamo visto, a far risultare vincente questa impostazione. Non è un caso che il repentino spostamento avvenuto nella seconda metà degli anni Trenta in una direzione “qualitativa” abbia coinciso con la fase di minore influenza politica e scientifica dello statistico padovano.
Una seconda risposta chiama in causa il fatto che il discorso eugenetico, sul finire dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, era andato sempre più
85
F. Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, cit., p. 18.
43
Terenzio Maccabelli
sovrapponendosi al razzismo biologico, nell’ambito del quale la tipologia
“mediterranea” occupava i gradini più bassi nella gerarchia delle razze.
Come sottolinea ad esempio Maiocchi, uno dei motivi per cui l’eugenetica
a sfondo biologico, nelle sua veste estremista, non ebbe fortuna in Italia è
dovuto al fatto che essa fosse supportata da una concezione razziale che
postulava una “netta inferiorità degli italiani rispetto ai nordici” e attribuiva
una “superiore missione civilizzatrice” ai “popoli ariani che avevano invaso
la Penisola” 86 . Certamente questo aspetto viene frequentemente richiamato
dalla storiografia. Tuttavia andrebbe forse maggiormente tematizzato ed evidenziato. Deve insomma avere avuto un certo rilievo il fatto che la “razza
mediterranea” fosse costantemente esclusa dall’olimpo delle razze “elette”
nella totalità dei discorsi eugenetici a livello mondiale, premessa che non
poteva che fungere da ostacolo a una piena accettazione delle dottrine eugenetiche.
Il terzo tipo di risposta enfatizza infine il ruolo della Chiesa cattolica, il
suo ergersi a baluardo contro il dilagare dell’eugenismo di matrice anglosassone. Diverse furono in effetti le voci del mondo cattolico che si scagliarono contro gli eccessi dell’eugenetica anglosassone. Da qui l’idea che la
presenza della Chiesa cattolica sarebbe stata un importante fattore di moderazione, peraltro in grado di mitigare anche molte posizioni esterne
all’universo cattolico, che avrebbero rinunciato a porsi su una piano di
scontro frontale nei confronti della Chiesa cattolica. Sarebbe stata dunque
la presenza della Chiesa cattolica che avrebbe evitato all’Italia le misure
draconiane, come ad esempio le sterilizzazioni dei malati psichiatrici, che
cominciavano ad attuarsi in altri Paesi.
86
R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 323.
44
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
Sul ruolo svolto dalla cultura cattolica nella vicende della diffusione
dell’eugenetica le chiavi di lettura possono tuttavia divergere, poiché è indubbio che molti suoi esponenti diedero un contributo significativo a radicare le idee dell’eugenetica. Ma in questa chiave il discorso potrebbe facilmente scivolare su un piano di scontro ideologico alla fine assai poco
produttivo sul piano storiografico. Una battaglia fatta a colpi di citazioni
per provare che molti cattolici erano intrisi di pregiudiziali eugenetiche da
contrapporre alla tesi che la loro eugenetica era comunque altro da quella
degli inglesi, americani o tedeschi porterebbe poco lontano. Dietro il problema del ruolo giocato dalla cultura cattolica emerge in verità la questione
più generale delle cause che generano la nascita dell’eugenetica e che ci
portano ad indagare le risposte proposte in merito al terzo quesito.
Il discorso, a questo punto, fuoriesce dai confini nazionali, in quanto
riguarda in un’ottica più generale la questione delle matrici culturali
dell’eugenetica. Appare ormai assodato che l’eugenetica, lungi dall’essere
un orientamento esclusivamente conservatore o reazionario, finì per far
presa sugli indirizzi politici più disparati, socialisti e progressisti compresi.
Questo dato emerge con forza della ricerca comparativa su scala internazionale di questi ultimi anni. La questione assume pertanto una rilevanza
che travalica i confini nazionali, rimandando a una dimensione “globale”
anziché “locale”.
Perché dunque prese corpo nella cultura occidentale un sapere come
quello eugenetico? Secondo Claudia Mantovani, l’eugenetica si situa “alla
confluenza di due snodi fondamentali della storia della cultura e della società contemporanea”. Il primo rimanda all’affermazione “di un paradigma
laico e scientifico di comprensione e di gestione della realtà sociale – come
esito del processo di secolarizzazione del pensiero e della politica, nonché
della straordinaria legittimazione culturale conferita al pensiero scientifico
45
Terenzio Maccabelli
da un progresso tecnologico senza precedenti”. A questo paradigma sarebbe da ascrivere l’emergenza, tra Otto e Novecento, di quella tendenza definita dall’autrice come “biologizzazione del sociale” che, abbinata alla “fortuna del binomio degenerazione-rigenerazione”, diede all’eugenetica la sua
ragione d’essere come “scienza politica” 87 .
Il secondo snodo enfatizza ancora più la dimensione politica. Questo
sarebbe infatti da individuare nelle “tensioni provocate in seno all’ideologia
liberale dalla democratizzazione e dalla massificazione della società, con
l’emergere di modelli politici collettivisti che alla centralità dell’individuo
sostituiscono la centralità del ‘sociale’ quale supremo manager delle risorse
umane e materiali della collettività ma anche quale sommo interprete e personificatore dell’etica collettiva”. Questo spinge l’autrice a sostenere uno
stretto legame tra eugenetica e “cultura progressista e riformista degli appassionati della ‘questione sociale’, dei riformatori sessuali, dei medici del
lavoro e della maternità”, arrivando a insinuare tra le righe che proprio dentro questo milieu abbiano preso corpo gli ideali eugenici. Non deve stupire
che le prime pagine della monografia di Claudia Mancina siano dedicate ad
alcuni criminologi, psichiatri, medici, antropologi accomunati dall’interesse
per la costituenda scienza “eugenetica” e dalla simpatia, in senso lato, per
la “questione sociale” e quindi per il socialismo.
L’indubbio merito di aver messo in evidenza, anche per il caso italiano,
la ramificazione del paradigma eugenetico in ambiti ideologici prima trascurati lascia tuttavia il dubbio che si sia arrivati a una rappresentazione distorta della realtà. Un conto è mettere in evidenza la pervasività del discorso eugenetico e la sua capacità di far presa anche in un universo apparentemente estraneo come quello “socialista”; altro è invece alludere a questa
87
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C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, cit., pp. 277-278.
Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
cultura, in virtù del suo anelito “collettivista”, come sorgente dell’utopia
eugenica. Il discorso è del tutto speculare a quello sopra accennato sulla
Chiesa cattolica. Vi sarebbero tutte le condizioni per una battaglia serratissima tesa a dimostrare, su un fronte, i tanti socialisti che abbracciarono una
delle tante versioni dell’eugenetica e, sull’altro, l’estraneità di questo socialismo al “vero” socialismo.
A modesto parere di chi scrive, i due snodi messi in evidenza da Claudia Mancina danno una risposta fuorviante al quesito sui fattori che generarono la nascita dell’eugenetica (questo senza nulla togliere ai meriti storiografici della sua ricerca). Tanto la categoria della “biologizzazione del sociale” quanto quella dell’etica “collettivista” si prestano a una lettura inequivocabile: l’eugenetica è figlia, da una parte, del positivismo laico e
scientifico fiducioso nei progressi della scienza; dall’altra, della filosofia
sociale anti-individualista. Come a dire: furono queste deviazioni dal fiume
della cultura occidentale che partorirono il mostro eugenetico 88 .
L’insoddisfazione per questa lettura è che essa tende in qualche modo
ad acquietare le coscienze, senza fare i conti fino in fondo con quello che fu
l’eugenetica e il razzismo biologico. Questi furono il prodotto della “cultura occidentale” tout court e non di una qualche sua diramazione. Puntare il
dito verso lo scientismo piuttosto che il collettivismo non è meno fuorviante di puntarlo, come a lungo si è fatto, esclusivamente sulla cultura conservatrice, reazionaria o imperialista.
Il dato che emerge in modo sempre più significativo è piuttosto quello
dell’assoluta pervasività all’interno della cultura occidentale tra Otto e No88
Vanno in questa direzione anche Giorgio Israel e Pietro Nastasi. Sul primo punto, i
due studiosi sono espliciti nel ricondurre al secolo dei Lumi e alla concezione “materialista” dell’antropologia che “pretende di studiare l’uomo con lo stesso rigore delle
scienze fisiche-matematiche” i prodromi del razzismo scientifico e dell’eugenetica
(G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 42, 61).
47
Terenzio Maccabelli
vecento di idee e concetti riconducibili o all’eugenetica o al razzismo, nelle
loro pur differenti manifestazioni. Come ha scritto di recente Jennifer M.
Hecht, “we have little idea today of how utterly convinced many people
were that the [human] races were physiologically measurable and socially
irreconcilable” 89 . Se vi fu uno snodo fondamentale nella cultura occidentale, questo andrebbe forse ricondotto al venire meno del principio illuministico dell’uguaglianza “naturale” degli esseri umani, un principio ritenuto
indiscutibile da autori anche molto diversi tra loro 90 . Questo principio venne rovesciato verso la metà del diciannovesimo secolo, allorché, come ha
osservato il fondatore dell’antropologia culturale, M. Harris,
non c’era ‘verità’ più ‘autoevidente’ del fatto che gli uomini siano stati creati disuguali. Nessuna ‘verità’ esercitò mai un’influenza più dannosa sullo sviluppo della scienza sociale. Il determinismo razziale fu la forma che assunse l’avanzante onda della
scienza della cultura mentre si frangeva sulle rive del capitalismo industriale 91 .
Anche gli studi che recentemente hanno cercato di comprendere
l’ascesa e il declino del movimento eugenetico su scala globale tendono a
sottolineare questo aspetto. Pur nelle diversità dei singoli casi nazionali, la
periodizzazione, vista in una prospettiva generale, appare difficilmente
contestabile. Dopo un periodo di incubazione iniziato nella seconda metà
dell’Ottocento, il movimento eugenetico avvia la propria ascesa nel primo
Novecento raggiungendo l’apice nel periodo tra le due guerre. Dopo la fine
del secondo conflitto mondiale, l’eugenetica perde improvvisamente qual89
J. M. Hecht, Vacher de Lapouge and the Rise of Nazi Science, “The Journal of the
History of Ideas”, n. 61, April 2000, p. 304.
90
Autori come Burke, Rousseau, Smith o Malthus hanno teorie politiche profondamente
diverse tra loro. Ma tutti sono accomunati dal ritenere che la “disuguaglianza” sia un
fatto “economico-sociale”, ossia il prodotto dell’evoluzione storica e delle convenzioni sociali. Ciò che divide gli autori ricordati è il giudizio sull’esito di tale processo, se cioè la creazione della disuguaglianze sia stato un fatto positivo per la civiltà
oppure no, ma non l’uguaglianza originaria degli esseri umani.
91
M. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Mulino, Bologna, 1971, p. 109.
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Nascere disuguali: considerazioni su eugenetica ed ereditarismo in Italia
siasi diritto di cittadinanza sia come disciplina scientifica che come indirizzo politico-sociale. L’orrore del genocidio nazista è indubbiamente un fattore scatenante. Ma questo va posto in relazione anche con mutamenti ideologici più generali che si manifestano a livello di cultura globale. Deborah
Barrett e Charles Kurzman hanno sottolineato al riguardo che “the egalitarian ideology of personhood raised a massive barrier to the eugenics movement. […] Eugenicists found themselves frozen out as the global culture
of racial hierarchy gave way to a discourse of equality and right” 92 . In modo del tutto speculare, l’ascesa e la successiva affermazione dell’eugenetica
su scala mondiale erano processi avvenuti pressoché contestualmente al radicarsi in seno alla cultura occidentale di fondamentali pregiudizi disegualitari e gerarchici. Per riprendere ancora le categorie proposte da Barrett e
Kurzman, dopo la seconda metà dell’Ottocento avevano prevalso concezioni della personalità umana in cui giocavano un ruolo fondamentale le distinzioni “between ‘fit’ and ‘unfit’ individuals, often based on ‘race’ or rather pseudo biological charactersics” 93 .
Ma queste concezioni erano pregiudiziali al sapere scientifico, non un
prodotto della scienza o della fiducia positivistica nella conoscenza scientifica; allo stesso modo esse furono trasversali a diversi indirizzi dottrinari –
filosofici, politici, sociali, ecc. – e non furono il prodotto di un indirizzo di
pensiero identificabile con precisione; esse, infine, supportarono l’azione
discriminatoria di paesi con regimi politici profondamente diversi, dalla
“democratica” America fino alla totalitaria e collettivista Germania nazista.
92
D. Barrett, C. Kurzman, Globalizing Social Movement Theory: The Case of Eugenics,
“Theory and Society”, vol. 33, n. 5, Oct. 2004, p. 513.
93
Ibid., p. 496.
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Terenzio Maccabelli
Eugenetica e razzismo furono in sostanza fenomeni nati dal grembo
della cultura occidentale, la quale per lungo tempo non riuscì a produrre anticorpi che fossero in grado di debellare i loro effetti cancerosi.
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