CAMPAGNA ROMANA E PAESAGGIO SONORO Roberta Tucci Silenzio, rumore, musica: il paesaggio sonoro I. In una delle più famose monografie sulla Campagna romana1 Arnaldo Cervesato individua il silenzio come tratto distintivo di Roma e della sua Campagna: una qualificazione acustica che lega la città eterna a quel “deserto meraviglioso” che la cinge: Solenne oltre ogni dire, nel fulvo mareggiare delle sue piane ondulate, la Campagna romana giunge incolta sino alle porte dell’Urbe [...]. Cinge la Città in spire d’inviolato silenzio e si dilata intorno ad essa: un’immensa pianura fulva, solcata solo dalle bianche vie aperte dai consoli romani al passar delle legioni – un deserto meraviglioso, e la voce del destino pare abbia voluto lasciar vigile un’eco in ogni punto della sua vastità. [...] Nell’ora meridiana, già percorsa dal vento di ponente che effonde sulla lata campagna l’alito immenso del Tirreno, la Cupola di San Pietro s’arrotonda, argentea perla, sotto il cielo d’azzurro intenso. Roma è vicina, pure silente in modo irreale: non un rumore, non il più flebile suono giunge dall’Urbe traverso la tacita campagna2. È dunque il silenzio che promana dalla Campagna a investire Roma, contagiandola e dotandola di analoga natura acustica. Cervesato mette a confronto tre grandi metropoli europeee del suo tempo, Roma, Parigi e Londra, dal punto di vista delle diverse sonorità che ciascuna di esse esprime. Di Roma, scrive: «È la sola metropoli del mondo che abbia il silenzio per sua voce»; e a questo silenzio “intattissimo” egli attribuisce potere di fascinazione. Un potere che si amplifica dalla risonanza che lo stesso silenzio trova nella Campagna di Roma e che rinvia alla suggestione di un’umanità primigenia. A Parigi, dall’alto di Notre-Dame o di Montmartre, il tumulto sonoro della vita sale ed attrae come un abisso acustico, come un gran vortice rombante: la voce di Parigi è rumorosa. Quella di Londra, vibrante in un tono d’immenso: così l’ho udita piena e continua – come appello inesausto di gigante che ha fuso in un solo grido cupo tutti i gridi laceratori dei mondi che lavorano, martellano, fondono, alzano, abbassano, scatenano, avvianghiano tutto: i metalli, le macchine, i treni, i carichi, tutto l’universo del traffico umano approdato dai sette mari sui docks interminabili – sulle banchine del Tamigi; e la città mostruosa è tutta percorsa da quel cupo unisono, che giunge all’alto di San Paolo con la vibrazione sorda di perenne cataratta lontana. Ma, tutto il suono tremendo di queste voci senza posa frenetiche non giunge – a parer mio – a uguagliar il fascino indicibile della voce millenaria dell’Urbe, fatta ormai di solo e intattissimo silenzio. La silenziosa campagna è sempre oggi quale al tempo in cui diede i forti sogni severi ai suoi primi abitatori. Nel cerchio di un silenzio sacro come l’infinito sempre stanno le invisibili linee di un’energia primeva in cui è il soffio stesso, è il caldo alito di una febbre di altezza e di pericolo3. 1 Sulla definizione storico-geografica di questo territorio, si rimanda alla vasta letteratura esistente, fra cui: R. ALMAGIÀ, La Campagna Romana, in Lazio, “Le regioni d’Italia”, UTET, Torino, 1976, pp. 501-511; L. BORTOLOTTI, Roma fuori le mura, Laterza, Roma-Bari, 1988; E. METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, Tip. Popol. Romana, Roma, 1903, seconda ediz. riveduta e ampliata con disegni originali di D. Cambellotti, Maglione & Strini, Roma, 1924, riediz. NER, Roma, 1982; C. SCARPOCCHI, Fra Agro Romano e Campagna Romana: profilo storico e geografico, in A. Pinto Surdi (a cura di), Scrittori Americani nella Campagna Romana: l’Ottocento. Antologia, Centro di Studi Americani, Fratelli Palombi, Roma, 1999, pp. 125-136; G. TOMASSETTI, La Campagna Romana antica, medioevale e moderna, nuova edizione aggiornata a cura di L. Chiumenti e F. Bilancia, vol. I, Olschki, Firenze, 1979. Per una storia visiva della Campagna romana attraverso la fotografia, si vedano: COOPERATIVA “PAGLIACCETTO” (a cura di), I nostri cento anni. Documenti fotografici dell’Agro Romano, catalogo mostra Roma - Palazzo Braschi (febbr.-marzo 1980), Roma, 1980; ID. (a cura di) Migrazione e lavoro. Storia visiva della Campagna Romana, Mazzotta, Milano, 1984. 2 A. CERVESATO, La Campagna Romana, in «Natale e Capodanno dell’Illustrazione Italiana», numero monografico 1912-1913, in particolare pp. 1-2, “La Campagna Romana e la sua voce”. Analoga immagine è quella ironicamente sintetizzata nella poesia di Gioachino Belli, Er deserto: «da pe’ tutto un silenzio come un ojo, / che si strilli, nun c’è chi t’arisponda!», citata in R. MAMMUCARI, “I XXV” della Campagna Romana. Pittura di paesaggio a Roma e nella sua Campagna dall’Ottocento ai primi del Novecento, Edizioni tra 8&9, Velletri, 1990, p. 34. 3 CERVESATO, La Campagna Romana, cit. 23 Al pari di altri scrittori e osservatori della Campagna Romana a cavallo fra Ottocento e Novecento, Cervesato accoglie e trasmette, utilizzando un linguaggio volutamente retorico, il mito di un territorio intoccato, desertico e selvaggio, in cui egli intravede i «segni possenti delle ere passate»: una rappresentazione più che un’osservazione, uno sguardo selettivo che si riflette anche in un ascolto selettivo in cui il silenzio è complemento della rappresentazione visiva. Ma «il silenzio – scrive John Cage – non esiste. C’è sempre qualcosa che produce un suono»4. II. Murray Schafer, nella sua stimolante riflessione intorno al paesaggio sonoro5, chiarisce come questo tipo di paesaggio richieda un approccio sensoriale uditivo: «un paesaggio sonoro è fatto di eventi uditi, non di oggetti visti»6. Nell’analizzare un paesaggio sonoro «occorre, per prima cosa, scoprirne le caratteristiche significative, i suoni particolarmente importanti per la loro individualità, la loro quantità o la loro presenza dominante». Questi suoni particolarmente importanti sono individuabili in tre categorie: “toniche”, “segnali” e “impronte sonore”. Tonica è un termine musicale, è la nota che identifica la chiave o la tonalità di una particolare composizione. È in riferimento a questa nota che ogni altro momento della composizione acquista il proprio particolare significato, anche quando il materiale ruota attorno a essa, mascherandone spesso l’importanza. Le toniche non vengono necessariamente percepite in modo cosciente; esse sono sovrascoltate. Pur non venendo sempre percepite in maniera cosciente, l’estensione e la persistenza delle toniche lasciano intravvedere la possibilità d’una loro profonda e diffusa influenza sul nostro comportamento e sul nostro stato d’animo. Le toniche d’una data località sono importanti, perché ci aiutano a delineare il carattere degli uomini che vivono in essa. I segnali sono suoni in primo piano, ascoltati consapevolmente. Qualunque suono può venire ascoltato consapevolmente e diventare, quindi, figura o segnale. [...] Nello studio dei suoni all’interno d’una dimensione collettiva e comunitaria, soltanto alcuni segnali [...] svolgono una funzione di avvertimento acustico, quei segnali che devono essere ascoltati: campane, fischi, clacson, sirene, ecc. Il termine impronta sonora indica un suono comunitario che possieda caratteristiche di unicità oppure qualità tali da fargli attribuire, da parte di una determinata comunità, valore e considerazione particolari7. Ci sono poi i “suoni archetipi”, che sono «quei suoni antichi e misteriosi, dotati spesso di un preciso simbolismo, che ci sono stati tramandati fin dalla antichità più remota o dalla preistoria»8. Ma per poter inviduare le “toniche”, i “segnali”, le “impronte sonore” e i “suoni archetipi”, occorre un paesaggio sonoro hi-fi, in cui vi sia, cioè: un rapporto segnale/rumore soddisfacente. Il paesaggio sonoro hi-fi è quello in cui il basso livello del rumore ambientale permette di udire con chiarezza i singoli suoni in maniera discreta. [...] Nel paesaggio sonoro hi-fi i suoni si sovrappongono con minore frequenza; esiste la prospettiva, c’è un primo piano e c’è uno sfondo”9. Non solo, ma un «paesaggio sonoro hi-fi permette un ascolto a maggiore distanza, nello stesso modo in cui in un paesaggio rurale è possibile una visione a largo raggio»10. In questo contesto emerge, nella riflessione di Schafer la categoria del “silenzio” in rapporto al mondo rurale: un mondo non silenzioso, in cui tuttavia i suoni sono ben distinti, perché separati da quiete. Nell’atmosfera silenziosa del paesaggio sonoro hi-fi anche il più trascurabile disturbo può comunicare un’informazione importante o d’interesse vitale. [...] Quando gli uomini vivevano per lo più isolati o raccolti in piccoli gruppi, i suoni non si affastellavano l’uno sull’altro ed erano circondati da un alone di quiete e di silenzio11. Il paesaggio sonoro rurale era pieno di quiete12. 4 5 6 7 8 9 J. CAGE, Silence, Middletown, 1961, p. 191. R. M. SCHAFER, Il paesaggio sonoro, Ricordi-Unicopli, Milano, 1985. Idem, p. 19. Idem, pp. 21-22. Ibidem. Idem, p. 67. Si vedano anche: M. AGAMENNONE, I suoni della tradizione, in Storia sociale e culturale d’Italia, vol. VI (La cultura folklorica, a cura di F. Cardini), Bramante, Milano, 1988, pp. 435-522 e G. ADAMO, Il suono nella tradizione orale, in G. Giuriati (a cura di), Forme e comportamenti della musica folklorica italiana, Unicopli, Milano, 1985, pp. 155-174. Prendendo in considerazione la dimensione acustica dell’evento sonoro, Adamo traccia una prima, fondamentale differenza fra “ambiente chiuso” e “ambiente aperto”; si veda anche D. CARPITELLA, Lo spazio delle culture musicali, in R. Pozzi (a cura di), La musica e il suo spazio, Atti del Seminario di studio XXI Festival Pontino di Musica (S. Felice Circeo, 13-14 giu. 1985), Unicopli, Milano, 1987, pp. 19-22. 10 SCHAFER, Il paesaggio sonoro, cit., p. 67. 11 Idem, p. 68. 12 Idem, p. 76. 24 III. Così, applicando l’interpretazione shaferiana al pensiero di Cervesato e degli altri scrittori della Campagna romana, il silenzio verrebbe a rappresentare la “tonica” di questo territorio almeno fino agli anni quaranta-cinquanta del Novecento, prima che la sua fisionomia subisse i radicali mutamenti dovuti ai processi di urbanizzazione e di modernizzazione13. Ma come sono andate le cose finché questo territorio è stato popolato da guitti, bifolchi, pecorari, vaccari, butteri, provenienti dalle tante diverse aree laziali ed extra-laziali: lavoratori stagionali che, in uno stato di seminomadismo si spostavano in Campagna e vi dimoravano da maggio a ottobre, conducendo le loro esistenze e le loro attività in stretto contatto con la terra e gli animali? Tutte le attestazioni relative al mondo dei contadini e degli allevatori che, nella sua estrema articolazione, ha costituito, almeno dalla seconda metà dell’Ottocento e fino al secondo dopoguerra, la fluttuante popolazione della Campagna romana14, riconducono a un sistema culturale in cui la musica e i suoni ricoprono un ruolo non secondario. Nelle raffigurazioni iconografiche, pittoriche (oli, acquerelli, disegni, incisioni, ecc.) e fotografiche dell’Ottocento e del Novecento, relative alla Campagna, le esistenze e le attività dei suoi abitanti appaiono molto spesso connotate in modo sonoro o musicale: canti, zampogne, organetti, flauti, tamburelli, danze, giochi sonori, campanacci di animali, vi appaiono come elementi di centrale presenza e di valore sociale e culturale. Allo stesso modo, la vasta e diversa letteratura sulla e intorno alla Campagna romana offre grande ricchezza di testimonianze riferite alle molteplici occasioni in cui le diverse forme sonore trovavano collocazione nella vita sociale e lavorativa, e sottolinea spesso le affinità e le differenze fra forme e stili delle diverse aree di provenienza, interne ed esterne al Lazio15. Le ricerche di etnomusicologia, avviate a partire dagli anni venti-trenta del Novecento e proseguite con l’ausilio della registrazione sonora dalla fine degli anni quaranta in poi, hanno messo in luce una cultura musicale propria della Campagna, data da una compresenza di forme, generi e stili delle diverse aree di provenienza, ma anche da processi sincretici quando tutte queste espressività si accostavano fra loro e, come sempre avviene, si mescolavano, sia pure nella necessità di mantenere chiare le diverse identità etniche. Le testimonianze letterarie, etnografiche ed etnomusicologiche, come pure le documentazioni sonore e visive, sembrano contraddire l’interpretazione del silenzio come “tonica” storica della Campagna romana. Certamente molto dipende dal punto di osservazione e da quanto si “restringa” o si “allarghi” il campo dell’obiettivo, o del microfono: quel silenzio che da lontano sembra prevalere diventa suono, rumore e musica man mano che ci si accosta ai gruppi sociali e alle loro attività, in un’ottica di partecipazione di valore antropologico, che molti, seppure non antropologi, hanno saputo attuare, spinti dalla curiosità e dalla fascinazione dell’incontro con le diversità culturali. 13 Oggi poco resta dell’immagine della Campagna romana trasmessaci attraverso le “inquadrature” dei tanti artisti e fotografi che l’han- no ritratta nell’Ottocento e nel Novecento e tuttavia non mancano tracce residuali. Alcune tenute e casali sono in attività e conservano una diffusa memoria storica del passato più recente; si veda, ad esempio, P. O. BERTELLI (a cura di), La tenuta del Cavaliere. Una storia nella campagna romana, Bonsignori editore, Roma, 1995. Pur non essendovi più le grandi aziende armentizie, la pastorizia e l’allevamento rappresentano attività tuttora praticate secondo modelli che prevedono l’esercizio di saperi e di tecniche tramandate oralmente: greggi di pecore si incontrano con una certa frequenza sul territorio, metntre in alcune aree sopravvive l’allevamento brado di bovini condotto da butteri a cavallo, la cui formazione si realizza esclusivamente all’interno di un sistema “chiuso” di carattere familiare e parentale. 14 Giuseppe Orlando sottolinea come i grandi proprietari della Campagna romana avessero puntato tutto sul grano e sul pascolo: «il primo perché richiedeva uomini soltanto nei mesi della mietitura e delle trebbiatura; il secondo perché rappresentava un momento, quello autunno-vernino, di un sistema di transumanza e di spostamento delle greggi e degli uomini verso la montagna abruzzese durante il periodo primaverile-estivo. In realtà si trattava di un sistema complesso. Dagli Appennini scendevano gli uomini per lavorare la terra, e non scenedevano soltanto gli armenti per il pascolo invernale. La pianura con le sue grandi proprietà nobiliari aveva bisogno della montagna e non poteva fare a meno delle sue risorse umane e produttive, cominiciando dagli “aquilani” e dai “marchigiani”». G. ORLANDO, Le campagne: agro e latifondo, montagna e palude, in A. Caracciolo (a cura di), Il Lazio, “Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi”, Einaudi, Torino, 1991, pp. 81-165, in particolare pp. 118-119. 15 «La provincia romana, con la foggiana e la grossetana, è considerata zona di lunga migrazione rispetto alle altre province […]. Ma il peso di queste provenienze “esterne” – Marche, Abruzzo, Umbria (un’Umbria che è soprattutto Rieti) – è controbilanciato da quelle “interne”, che oscillano sul 40-50 per cento e più. Sono soprattutto nei Prenestini, nei Simbruini, nei Lepini i paesi che si vuotano sull’onda del ciclo agrario più che nelle montagne e colline povere e/o sovrappopolate a maggiore distanza, a testimoniare della mobilità come carattere regionale profondo della società rurale». G. NENCI, Realtà contadine, movimenti contadini, in Caracciolo, Il Lazio, cit., pp. 167-251, in particolare p. 177. Metalli lega le provenienze dei lavoratori stagionali ad alcune specifiche attività agricole: i guitti al basso Lazio (ex provincia di Caserta) o agli Abruzzi; i tagli dei mietitori al Lazio, alla Sabina, alle Marche, agli Abruzzi; i sementarelli al Reatino, le roste (bruciatura delle stoppie) all’alta valle dell’Aniene; cfr. METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., pp. 63-74. Per quel che riguarda l’emigrazione periodica dei contadini sabini verso la Campagna romana in particolare, si veda R. LORENZETTI, Studi e materiali per una storia sociale e economica della Sabina, Istituto “E. Cirese”, Rieti, 1989, pp. 342-353. Fra i contributi al popolamento della Campagna romana sono da ricordare anche i coloni romagnoli del litorale di Ostia, che questo volume non prende in considerazione e per i quali si rimanda a G. LATTANZI, V. LATTANZI, P. ISAJA, Pane e lavoro. Storia di una colonia cooperativa: i braccianti romagnoli e la bonifica di Ostia, Marsilio, Venezia, 1986. 25 Resta forte la suggestione del silenzio, non soltanto come immagine letteraria e mitica, ma anche come elemento che in qualche modo si lega al territorio. Forse, riprendendo le teorie di Schafer, si potrebbe attribuire al silenzio il valore di “suono archetipo”, proprio nel senso di un suono antico e misterioso: un suono che tuttavia – dal momento che il silenzio “non esiste” – non è che la sommatorie di suoni diversi. Il lavoro contadino, l’allevamento del bestiame, la ritualità e la religiosità, le feste, la musica e l’espressività orale, i giochi, la convivialità, gli spostamenti, sono tutti elementi caratterizzati da grande articolazione sonora. Le diverse provenienze geografiche e culturali, la stagionalità, la concentrazione delle attività in un breve periodo dell’anno, la convivenza fra i gruppi sociali e la necessità di mantenere i riferimenti identitari, sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere ancor più multiforme tale articolazione, la cui realtà non è passata inosservata a chi ha frequentato la Campagna di Roma prima della sua moderna trasformazione. Forme e contesti Il lavoro I. Il lavoro dei contadini è corale: include una quantità di effetti sonori ritmicamente legati, o meno, all’attività che viene fatta in gruppo. In alcuni casi occorre coordinare i gesti e i movimenti, ad esempio nella battitura del grano per mezzo del correggiato, un attrezzo formato da due bastoni incernierati fra di loro mediante un laccio di cuoio16. A volte una parte del grano viene trebbiata con un correggiato. Per settimane risuonano tutto intorno le grida degli uomini addetti alla trita, lo sbatacchiare del correggiato e il rumore del grano passato attraverso il vaglio; e tutte le notti, passata la mezzanotte, l’aria risuona dei cori dei contadini, che, stesi sull’erba, cantano le loro canzoni popolari. È usanza, dopo che il grano è stato tutto trebbiato e immagazzinato, organizzare un ballo sull’aia […]17. Il lavoro nei campi è spesso accompagnato dal canto. Canti in forme e stili diversi vengono eseguiti con emissione di voce quasi sempre forzata, gridata18, funzionale alla propagazione a distanza: devono sentirsi da lontano per potersi intrecciare fra i vari gruppi di lavoratori. Essi costituiscono una vera e propria forma di comunicazione: ascoltati da vicino, veicolano significati semantici in forma poetica; ascoltati da lontano, determinano un ben riconoscibile tessuto sonoro. Ad essi si mescolano, nei campi, una quantità di altre espressioni vocali (grida, incitamenti, preghiere) che determinano spesso una coralità “eterofonica”. È bello […] vedere un campo in piena semina; là i taciturni aquilani i quali lavorano di pala, qua i bifolchi che cantano e bestemmiano, e i guitti che si sgolano coi loro ritornelli, interrotti dalle risate argentine delle ragazze a qualche troppo spinta allusione; e i comandi burberi dei fattoretti, ai quali risponde, quasi in senso canzonatorio, il monotono: fora, foo...! dello “scacciacornacchie”; e fra tutto quel movimento e quella vita si aggira, ora qua ora là, il vigile fattore al passo della sua cavalcatura. [...] Le donne in lunghe file rompono il terriccio bruno colle loro zappe corte, cantando le laudi della Madonna con una nenia lentissima19. E i canti non vengono intonati unicamente nella Campagna stessa, ma dappertutto – nelle vigne, nei campi di grano, nelle montagne, nelle vallate, da gruppi di persone che lavorano insieme, da solitari contadini – ovunque si riescano a provare i sentimenti e le sensazioni creati dalla Campagna romana. Durante tutto l’arco dei caldi giorni estivi, mentre si trovano nei campi con il grano fino alla cintola, oppure mentre affondano la pesante zappa nel terreno, o ancora raccolgono i grappoli di uva violacea, essi cantano a squarciagola le ballate e le canzoni con toni così stentorei da poter essere uditi a miglia di distanza. Nella stagione del raccolto si riuniscono di notte sull’aia alla luce della luna e cantano in coro le loro semplici melodie20. 16 Si vedano: P. SCHEUERMEIER, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana, Longa- nesi, Milano, 1980, vol. 2, pp. 123-128; F. GIACINTI, Il ciclo del grano, in F. Fedeli Bernardini, P. E. Simeoni (a cura di), Ricerca e territorio. Lavoro, storia, religiosità nella valle dell’Aniene, Leonardo - De Luca, Roma, 1991, pp. 59-67, in particolare p. 65. 17 W.W. STORY, Roba di Roma. La Campagna Romana, Chapman & Hall, London, 1862-76, traduzione italiana parziale in Pinto Surdi, Scrittori Americani nella Campagna Romana, cit., pp. 67-68. 18 Un modo di cantare che viene considerato tipico delle culture mediterranee è quello caratterizzato da «emissione a gola chiusa e voce forte, alta, “lacerata”»; si vedano: A. LOMAX, Nuova ipotesi sul canto folkloristico italiano, in «Nuovi Argomenti», 17-18, 1956, pp. 109135; R. LEYDI, I canti popolari italiani, Milano, Mondadori, 1973, p. 15. 19 CERVESATO, La Campagna Romana, cit., pp. 15-16. Si veda anche METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., p. 66. 20 STORY, Roba di Roma. La Campagna Romana, cit., p. 79. 26 […] A volte gruppi diversi si alternano nel canto delle strofe di alcuni ritornelli, in un gioco di botta e risposta. Ve n’è una quantità infinita sparsa nelle montagne e nei paesi, come fiori selvatici, e non bisogna far altro che scegliere quello che si preferisce21. I canti, le grida, eseguiti in modo così particolare, si fondano su sistemi musicali propri e autonomi, difficilmente restituibili attraverso la scrittura su pentagramma, proprio in virtù della loro alterità: Osserviamo i canti che accompagnano i lavori campestri, le grida dei rari venditori ambulanti, le voci per il richiamo degli armenti e delle mandrie intonati esclusivamente su la scala naturale, prodotta dal risuonare degli armonici di una nota fondamentale, sono di difficile trascrizione con l’attuale notazione musicale; bisognerebbe usare dei segni diacritici come se ne usano ormai per fissare le pronuncie dei varii dialetti. Ma per ora, in mancanza di una notazione adeguata, limitiamoci a ricordare che questi canti, queste grida si basano sul primo elemento musicale fornitoci dalla natura, la scala degli armonici, e che perciò riscontriamo in essi l’uso della settima minore invece della settima maggiore e l’uso della quarta alterata leggermente calante (undicesimo armonico)22. Non solo, ma, l’idea musicale che è alla base di quei suoni e di quei canti appare inscindibilmente legata all’ambiente naturale e umano in cui essi prendono vita. Vengono i tagliatori di boschetti e di macchie ed i cioccatori che tramutano le selve in prati da riserva, con il loro lungo fischio modulato; ecco il pellicciaro, il vero telefono Marconi della Campagna, dice il Metalli; costui è il continuatore degli antichi Jongleurs ed alla vendita ed alla compera delle bestie bovine ed ovine, volpi, tassi, martore, lontre, uniscono il commercio minuto della merceria e di mille altre piccole cose: veri empori ambulanti e veri gazzettini parlanti e cantanti. Ricchi delle novità più o meno recenti, questi bazar ambulanti si recano da fattoria a fattoria, annunciandosi con i loro mille stornelli, con i loro tanti ritornelli. Ed ancora: spigarole, cicoriare, gramicciari, ossari, topari, violari, asparagiari, giuncarolari, ranocchiari, salnitrari, mignattari e calzolari con i loro richiami caratteristici, con i loro brevi componimenti poetici atti a destare attenzione e ad invogliare nelle compere e nelle vendite”23. I grandi lavori agricoli stagionali, come la mietitura, richiamano le opere, o i tagli, dei braccianti e determinano una particolare concentrazione musicale in cui ai canti si uniscono strumenti musicali come la zampogna, l’organetto, il tamburello. Ecco un lavoro allegro e pieno di straordinaria animazione, perché essendo i tagli, cioè le compagnie, composti d’ambo i sessi e di ogni età, i canti e i frizzi mordaci s’incrociano da una gavetta all’altra, mentre le zampogne, o i tamburi o gli organini suonano a distesa marce e ballate24. Ogni gruppo è accompagnato da un carro decorato con drappi colorati [...]. Qualche bracciante sale sul carro, mentre gli altri gli camminano accanto, o lo seguono, suonando i tamburelli, le cornamusa, i pifferi, e altri strumenti. Danzando, cantando e ridendo queste allegre processioni [...] si snodano pittorescamente lungo la Campagna in direzione del loro dorato terreno di mietitura. […] Ma al tramonto questo aggruppamento di persone diventa ancor più espressivo: appena il lavoro della giornata ha termine, cominciano a divertirsi; la zampogna emette il suo suono monotono mentre i nervosi pifferi la accompagnano in un ricamo di variazioni e i cimbali dei tamburelli tintinnano in unisono25. Vi è anche una dimensione individuale del canto, legata al lavoro solitario, ai tempi lunghi degli spostamenti. E tuttavia è sempre un canto che si spande nell’ambiente, che arriva lontano e che si apprezza nel modo migliore proprio attraverso l’ascolto a distanza. Mentre percorrete la Campagna in carrozza, da lontano vi giunge il lungo e triste lamento della canzone di un contadino che sta lavorando la terra. A volte un solitario lavoratore allevia il suo lavoro cantando a squarciagola26. Bianchi buoi dalle grandi corna tirano faticosamente verso casa dei carri cigolanti. In lontananza, il lamento della canzone di un contadino di ritorno dal lavoro viene interrotto di tanto in tanto dal suo grido di richiamo al bestiame27. 21 Idem, p. 76. 22 G. NATALETTI, I canti della Campagna Romana, in «l’Italia musicale», III, 5, 1930, pp. 1-2. Si veda anche D. CARPITELLA, L’insufficienza del- la semiografia culta nelle trascrizioni etnomusicologiche, in Id., Musica e tradizione orale, Palermo, Flaccovio, 1973, pp. 225-231. NATALETTI, I canti della Campagna Romana, cit. METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., p. 68 STORY, Roba di Roma. La Campagna Romana, cit, p. 66. Idem, p. 76. Idem, p. 65. 23 24 25 26 27 27 Perfino nelle strade più frequentate di Roma si può a volte sentire un contadino intonare una delle limpide canzoni della Campagna, mentre cammina accanto al suo carretto [...]. Queste canzoni hanno una forma molto primitiva ed il loro ritmo è stato probabilmente ripreso dai canti di chiesa. Sono in chiave minore e normalmente formate da due frasi che finiscono con un acuto monotono, prolungato fino a quando viene a mancare il fiato al cantante, ma anche, spesso, portato in decrescendo, a chiusura del canto, fino a formare una confusa scala cromatica. Ma appena il motivo finisce, viene ripreso improvvisamente da un prestissimo e poi di nuovo rallentato. Ascoltato da vicino, questo canto è assordante e spiacevole. Se ascoltato in lontananza, invece, ha un suono triste e piacevole e sembra far parte del luogo. I1 lungo lamento e la tipica forma con cui il canto termina raccolgono infatti in sé la melanconia dalla Campagna28. I canti eseguiti dai carrettieri durante i loro spostamenti sono spesso rafforzati e sostenuti dal ritmico risonare metallico di campanacci (campani), campanelle e bubboli29, collocati al collo o nelle finiture degli animali da traino: si tratta di oggetti che sonorizzano il mezzo di trasporto e il paesaggio circostante, assolvendo a una pluralità di funzioni, non solo segnalatorie. In particolare il “carretto a vino”, in uso fino ai primi anni sessanta, era dotato di due congegni fonici strutturali, la ferriera e il secchione, mediante i quali il mezzo stesso assume un’accentuata natura sonora, necessaria per il suo riconscimento al pari delle stesse botticelle del vino30. La ferriera (feriera), appesa a una catena fissata sulla “forcina” del carretto (il bastone ramificato a cui è assicurata la cappotta a soffietto), è una sonagliera costituita da un grappolo di campane e di bubboli, spesso con un capanaccio al centro, tenuti appesi a una piastra metallica di forma semicircolare, mantenuta in posizione contro la base di una sorta di secchio pure metallico. Il secchione, costituito da un bigoncio31 dotato di due puntali di ferro che si agganciano ai bordi dell’apertura, è fissato al di sotto del carretto, in posizione longitudinale, in due punti in modo tale da poter oscillare lungo il suo asse verticale; le estremità terminali dei puntali poggiano, inserite entro appositi alloggiamenti, contro l’assale metallico delle ruote. Quando il carretto era in movimento, trainato dal cavallo, la ferriera entrava in vibrazione facendo risonare le varie campane, mentre il secchione, oscillando e urtando periodicamente contro l’assale, produceva una cupa percussione intermittente, amplificata dal suo stesso corpo. La combinazione della ferriera con il secchione, a cui si aggiungevano gli zoccoli del cavallo sul selciato e l’abbaiare secco del cane volpino – sempre presente nel “carretto a vino” – conferivano a questo mezzo di trasporto una peculiare sonorità, di considerevole volume e di particolare timbro: una sonorità che ne consentiva il riconoscimento a grandi distanze e che costituiva anche, per il carrettiere, una propria personale impronta. Il secchione, infatti, poteva venire “intonato”, di concerto con la ferriera, regolandone, mediante una cinghia di pelle di cavallo, l’inclinazione e quindi l’ampiezza dell’oscillazione, variando la quale si potevano ottenere suoni diversi32. Appare così evidente come la funzione dell’apparto fonico, nel “carretto a vino”, fosse rappresentativa, oltre che segnalatoria. Questa “rumorosità” alla quale il carrettire a vino aggiungeva i suoi richiami al cavallo e lo schioccare della frusta, era fatta sia per vanteria sia per avvertire gli incauti pedoni33. II. L’allevamento del bestiame ha avuto grande rilievo nella Campagna romana. I pastori e le aziende ovinicole hanno costituito un elemento caratterizzante del territorio fino alla metà del Novecento: ce ne hanno lasciate dettagliate descrizioni Ercole Metalli e soprattutto Romolo Trinchieri34. I pastori della Campagna romana era- 28 Idem, pp. 78-79. 29 Campanacci (campane per animali) e campanelle, dotati di battagli appesi internamente, si distinguono dai bubboli (campane a sfe- ra), in cui una sfera libera è inserita in una cavità globulare. 30 Sul “carretto a vino” si vedano: G. CIARALLI, Il tramonto del carrettiere a vino, in «Capitolium», XVII, 5, 1942, pp. 148-155; M. GRILLANDI, I carrettieri a vino, in Strenna dei romanisti, Staderini, Roma, 1962, pp. 166-170; M. LA STELLA, Antichi mestieri di Roma, Newton Compton, Roma, 1982, pp. 128-131. Due esemplari di “carretto a vino” sono conservati a Roma, rispettivamente presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari e presso il Museo di Roma in Trastevere; si vedano, per il primo, Progetto cultura. Il legno nell’arte. Lazio, IGER, Roma, 1995, pp. 162-163 e per il secondo la relativa scheda di catalogo ivi conservata, compilata da E. Rossi nel 2000. 31 Recipiente di legno a doghe, di forma tronco-conica, con apertura nella base più larga, privo di manici e di coperchio; è usato per trasportare l’uva durante la vendemmia. 32 Informazioni fornite da Vincenzo Petrucci. 33 LA STELLA, Antichi mestieri di Roma, cit., p. 128. 34 Si vedano: METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit.; R. TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, Fratelli Palombi, Roma, 1953; R. TRINCHIERI, Vita di pastori della Campagna Romana nel periodo estivo quando transumano sui monti dell’Appennino abbruzzese, in «Lares», XXII, vol. unico, 1956, pp. 206-219. Sulla pastorizia nella Campagna romana si vedano anche: R. CIANFERONI, La pastorizia nel Lazio e nell’Abruzzo, INEA, Roma, 1969; A. D’ALESSANDRI, Vocaboli, usi agricoli e consuetudini della Campagna Romana, in «Roma. Rivista di studi e di vita romana», VIII, 5, 1930, pp. 193-208 (Introduzione), VIII, 6, 1930, pp. 263-272 (A - G); VIII, 8, 1930, pp. 353-362 (G - Z); e ancora di R. TRINCHIERI, Un sistema di numerazione di pecore in gregge e modi di contabilità pastorizia, in 28 no transumanti; la maggior parte di essi proveniva dall’Abruzzo, dagli altopiani della catena del Gran Sasso, l’altopiano dell’Amatrice, i campi di Pizzo, di Sevo e di Gorzano, i burroni della Maiella e del Morrone, la Marsica35: parte di questi territori sono stati annessi al Lazio solo nel 1927. Oggi, nell’area “storica” della Campagna romana è ancora praticata un piccola pastorizia ed è da segnalare soprattutto la presenza, in parte sostitutiva, dei pastori sardi e anche di quelli provenienti dall’Europa orientale, mentre i territori più meridionali del Lazio restano il luogo di maggiore persistenza dell’allevamento ovino nella regione. C’è anche una certa presenza dei butteri, sia pure meno consistente rispetto alla Maremma laziale e grossetana; i butteri costituiscono una categoria di allevatori specializzati, dotati di una doppia competenza: l’allevamento brado dei bovini e la conduzione del cavallo. La loro cultura prevede forme e comportamenti socialmente condivisi in modo quasi “corporativo”, riguardanti le tecniche lavorative, l’espressività orale, il lessico36. Pastori e allevatori posseggono ovunque un particolare rapporto con il suono, di cui si servono per il loro lavoro e attraverso cui in qualche modo si rappresentano37. I campanacci che impongono agli animali costituiscono un sistema sonoro di valore funzionale all’allevamento, ma anche simbolico38. Consentono di ricoscere gli animali da lontano e vengono acquistati in base a una scelta sonora: essi rappresenteranno il gregge e il pastore stesso39. Nel gergo lavorativo dei pastori della Campagna romana vi è il «Campano. Campana più o meno grossa di forma speciale che si mette al collo delle bestie, provvista di cinghia di cuoio»40. Il campano veniva messo al guidarello: «montone con campano che serve da guida alle mandre»41. A S. Antonio (17 gennaio) il vergaro consegna a quasi tutti i pecorari che hanno in custodia un branco, un follato (o castrato), e una corda (o fune) nuova. Il pastore allora lega la fune al collo dell’animale e non gliela toglie più finché non sarà riuscito ad ammaestrarlo, cioé fino a che non risponderà alla sua voce col tremulo belato. Poi gli cingerà il collo di un grosso collare di cuoio, con sonoro campano. Il castrato diventerà allora manziero ed assurgerà alla funzione di guidarello42. Il guidarello, così dotato del suo campano rappresenza una proiezione sonora del pastore stesso, e in quanto tale assume un valore simbolico oltre che economico. A conferma di ciò è un significativo proverbio pastorizio raccolto da Trinchieri nell’ambito della sua «ricerca di etnografia pastorale»43: «l’onore del gregge è rappresentato dal campano»; «chi rubasse per oltraggio o per astio il montone che porta il campano, se scoperto, provocherebbe certo qualche fatto di sangue»44. Il campano inoltre è indispensabile nella transumanza: Il campano è messo al collo del manziero quando il gregge inizia la transumanza. Per lo più è grosso ed il suono che ne esce, è in relazione alla maniera di procedere dell’animale che sotto il peso di esso è istintivamente portato ad alzare ed abbassare lievemente il collo, onde ne esce un suono cadenzato, cupo, fesso, caratteristico. Serve così bene di richiamo e di orientamento da far si che un manziero possa guidare tutta una colonna di pecore in marcia, anche costituita da più branchi45. Poi, in inverno il campano viene tolto e sostituito con una campanella46. «Archivio per la Raccolta e lo Studio delle Tradizioni Popolari Italiane», XV, 1-2, 1940, pp. 21-26, e Vocabolario della pastorizia della campagna romana, in «Quaderni di semantica», XV, 2, 1994, pp. 327-395. 35 TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 53. 36 Sui butteri si vedano: METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit. pp. 127-134; R. SIMBOLI, I “Cow boys” della Campagna Romana (I butteri), in «Noi e il mondo», III, 8, 1913, pp. 117-132. 37 Un’approfondita analisi degli aspetti sonori e acustici di una comunità di pastori calabresesi è in A. RICCI, Ascoltare il mondo. Antropologia dei suoni in un paese del Sud d’Italia, Il Trovatore, Roma, 1996. 38 La maggior parte delle culture mondiali, fin dall’antichità, hanno attribuito alla campana funzioni segnalatorie associate a poteri apotropaici, esorcistici ed evocativi. Per questo argomento si rimanda alle osservazioni di A. SCHAEFFNER, Origine degli strumenti musicali, Sellerio, Palermo, 1978, pp. 126-152 e C. SACHS, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano, 1980, pp. 118-119. 39 Si veda RICCI, Ascoltare il mondo, cit., pp. 120-132 (“I campanacci”). Per analoghi significati, con riferimento alla Francia, si veda P. LAURENCE, Une tradition utile. Les cloches et sonnailles du monde pastoral, in L’homme, l’animal et la musique, FAMDT Editions, SaintJouin-de-Milly, 1994, pp. 10-19. 40 D’ALESSANDRI, Vocaboli, usi agricoli e consuetudini della Campagna Romana, cit., VIII, 6, 1930, p. 267. 41 Idem; qui, in particolare, VIII, 6, 1930, p. 272. 42 TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 19; cfr. anche p. 73. 43 Idem, p. 133. 44 Idem, p. 19. Per analoghe ideologie connese ai furti dei campanacci, con particolare riferimento alla Sardegna e alla Calabria, si vedano: G. ANGIONI, I pascoli erranti. Antropologia del pastore in Sardegna, Olschki, Firenze, 1989, p. 116 e RICCI, Ascoltare il mondo, cit., p. 130-131. 45 TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 73. 46 Ibidem. 29 Campanacci vengono anche imposti a vacche, bufale, cavalli e muli. A volte si tratta di campane di bronzo, dette bronzine. Quasi sempre gli animali addetti al traino di carri sono muniti di questo tipo di campanacci particolarmente sonori, che si prestano a rendere il veicolo udibile da lontano, come nel caso della gabbia, carretto a tre cavalli usato per trasferire le pecore, o del carretto con muli, utilizzato durante le transumanze per il trasporto delle attrezzature lavorative47. Ma, oltre all’uso dei campanacci, l’attività lavorativa del pastore comporta una grande quantità di fischi, che costituiscono un vero e proprio linguaggio non verbale a cui rispondono sia il gregge, sia i cani, sia gli altri pastori. I fischi vengono emessi «tra i denti»48 secondo una ricca gamma di tecniche esecutive variabili in base al contenuto dei comandi stessi. Nell’intonazione, intermittenza, intensità, gradazione, prolungamento, ripetizione, ecc., del fischio c’è tutta un’abilità e una tecnica che solo il provetto pecoraro cresciuto da bambino tra le pecore conosce ed usa nelle varie contingenze della sua attività giornaliera (ad es. rivoltare da un senso all’altro tutto il branco, richiamare una pecora che sbanda, richiamare i cani, dare un ordine convenuto al biscino, avvertire un compagno lontano, facilitare l’abbeveraggio ad un animale condotto al fontanile, ecc.). Il profano sottilizzando le sue osservazioni sul fischio, più o meno acuto, sibilante e prolungato o spezzato finirà per afferrarne il significato, così come avviene in un paese di montagna quando dalla varietà del suono delle campane si finisce per comprendere l’avvenimento che la Chiesa con esse dà (messa alta, messa bassa, suono a festa, suono a scuola, battesimo, dottrina, ecc.)49. Si tratta di suoni che propriamente afferiscono alla categoria dei “segnali”, secondo l’accezione a essa data da Shafer50. A questa stessa categoria appartengono anche molte altre azioni sonore dotate di analoga funzione segnalatoria: ad esempio, quella che, durante la permanenza delle pecore nella Campagna romana, fa il caciaro per dare la sveglia la mattina, ponendosi all’aperto e battendo il fondo di un secchio con un corto bastone51. I momenti di maggiore concentrazione sonora si determinano negli spostamenti delle transumanze: soprattutto gli arrivi e le partenze sono sottolineati da una copiosa produzione di suoni, la stessa che, nel periodo estivo, accompagna le uscite e i rientri quotidiani del gregge, rispettivamente la mattina all’alba e la sera al tramonto. Così Trinchieri descrive la partenza delle greggi dall’aquilano laziale verso la Campagna romana: Ecco una massa ondosa di pecore che giù dagli sbocchi di Cittaducale […], seguendo i guidarelli muniti di campanacci, sotto la cura attenta di una folla varia di pecorari, nel latrare dei cani e al richiamo di fischi sonori e di uncini adunchi, il vergaro e i butteri a cavallo delle mule, gli altri appiedati, un branco dopo l’altro, come tanti reggimenti in marcia, il giorno per via, la notte all’addiaccio, ecco, le greggi tornano alla pianura52. Anche la devozione religiosa, che accompagna le operazioni lavorative del pastore sottoponendole alla protezione divina, dà luogo a eventi sonori, quali preghiere, rosari, litanie, in forme recitate o cantate: […] la recita del Rosario della Madonna intorno alla fornacella nelle lunghe notti invernali mentre si accudisce alla preparazione o alla rifinitura del frugale pasto, e così anche il canto delle litanie della Vergine mentre nel vato, si munge il latte o nella capanna si manipola il latte nella caldara53. Un’atmosfera poeticamente sintetizzata da Sindici nella sua quartina: Li pecorari co na fiacca lenta, finito er mugne, intoneno li canti mentr’ar callaro bulle la pulenta, e dicheno li sarmi de li santi54. Trinchieri aggiunge che «spesso la preghiera prende forma e sostanza in cantilene gravi e lente, talora effondendosi nell’ora del tramonto accompagnata dalla vetusta zampogna»55. 47 48 49 50 51 52 53 54 55 Idem, pp. 31 e 54. Idem, p. 38. Idem, p. 121n. SCHAFER, Il paesaggio sonoro, cit., p. 22. TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 90. Idem, p. 53. Idem, p. 61; si veda anche p. 86. A. SINDICI, XIV Leggende della Campagna romana. Poesie in dialetto romanesco, Optima, Roma, 1930, pp. 1-16, in particolare p. 11. TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 61. 30 Le preghiere accompagnavano anche i grandi lavori stagionali, come la tosatura delle pecore, quando all’inizio e alla fine della giornata di lavoro, il più anziano della compagnia dei carosini recitava preghiere al Signore, ai Santi e alla Madonna del Divino Amore, affinché il raccolto fosse abbondante, il gregge prosperasse e il padrone fosse in buona salute56. L’espressività musicale vocale del pastore è varia e comprende soprattutto il canto “a poeta” (si veda oltre), ma anche altre forme, eseguite secondo modalità caratterizzate dall’appropriazione dell’ambiente mediante la sua sonorizzazione: Oltre il cantare a braccio, in ottave, ho trovato, specie tra i giovani pastori, l’abilità nello stornellare. […] In montagna, tempo addietro assistetti a un’originale improvvisazione di stornelli. Era l’ora calda, in cui le pecore sono tra loro ammucchiate sotto il sole, ammurrianate ed in un punto in cui correvano strette valli, tra montuosità vicine. Un giovane pastore tutto brio ed intelligenza, a voce forte, diresse uno stornello ad un compagno lontano. Costui, a sua volta, formò un altro stornello dirigendolo ad un altro compagno, e così il terzo a un quarto, il quale rispose al primo, poi intrecciandosi ed alternandosi, in combinazioni varie e s’intende con toni di voce vari, uno rispondeva all’altro. E gli stornelli erano descrittivi di scene pastorali concatenate tra loro […]. Ne fui sorpreso ed ammirato. Mi fu spiegato che in quel gruppo di pastori, che io per combinazione avevo avvicinato, questo richiamarsi di stornelli, in andata e ritorno, era un divertimento che li entusiasmava divertendoli e facendogli così trascorrere le ore canicolari57. Il pastore è anche suonatore: suona e in parte costruisce strumenti come flauti (di canna, di legno, di osso e, in primavera, di corteccia), ciaramelle (oboi popolari) e zampogne. La zampogna, che nell’alto reatino è detta ciaramella, le ciaramelle, è lo strumento pastorale per eccellenza, che il pastore dota dell’otre, ricavandolo dalla pelle di una pecora o di una capra. Con questo strumento egli occupa i tempi del pascolo e governa gli animali. I pastori rompono la monotonia delle lunghe giornate, mentre vigilano il gregge e occupano il loro tempo disponibile e i ritagli di tempo, in maniera differente, chi suonando la ciaramella o la cornamusa, chi leggendo, chi fabbricando oggetti di uso domestico58. Nelle belle giornate poi, sempre invigilando sul gregge, si occupano di mille faccenduole; chi legge, chi fa la calza o rattoppa e lava i panni, chi canta o suona con la zampogna e chi tende i lacci alla selvaggina59. La ciaramella, un tempo, accompagnava sempre i pastori sia in palude sia in montagna e non mancava mai nelle loro feste60. Proprio l’origine di questo strumento viene miticamente associata ai pastori: La ciaramella è nata con i pecorari perché è stato il primo strumento musicale da questi creato61. Ed è un’origine sacra, perché connessa alla nascita di Gesù Cristo: “da allora” i pastori, nel periodo di Natale diventano “pifferari” e scendono nelle città portandovi i loro suoni. Preziose restano tuttavia le occasioni in cui è possibile imbattersi nelle loro solitarie performances musicali negli ambienti naturali, al pascolo, così come ci vengono descritte da Gregorovius: Il paesaggio [di Paliano] è animato da greggi di buoi e di pecore. Vi si può vedere il pifferaio della Roma natalizia nel suo ambiente naturale e si odono i toni strani della cornamusa che fa risuonare il pastore quando segue il suo gregge, che irrequieto pascola tra la arsa erba62. Oppure da Story: I pifferari non possono veramente essere ascoltati al loro meglio nelle strade di Roma. In montagna il suono dei pifferi e delle zampogne è totalmente diverso, e mi rammento di averli sentiti una volta verso il tramonto a San Germano: l’effetto era incantevole. 56 57 58 59 60 61 62 Idem, p. 85. Idem, p. 89. Idem, p. 65. METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., p. 145. TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 76. Idem, p. 75. F. GREGOROVIUS, Wanderjahre in Italien, Brockhaus Verlag, Leipzig, 1856-58, 5 Bände: “Aus der Campagna von Rom” (trad. italiana Passeggiate per l’Italia, Ulisse Carboni, Roma, 1906: “La Campagna romana”, pp. 1-88, in particolare p. 122). 31 Poco prima di raggiungere il paese, la strada passa a un tiro di schioppo dall’antico anfiteatro – menzionato da Plinio – costruito da Umidia Quadratilla. [...] Udimmo provenire da lontano il suono del piffero e della zampogna di alcuni pastori che eseguivano una melodia melanconica. Niente poteva essere più incantevole, più perfetto e più in armonia con le montagne e con le rovine. Non avrei mai creduto che quei suoni potessero provenire da tale strumento. Addolciti dalla lontananza, essi perdevano il tono nasale e giungevano dolci all’orecchio con il fascino che anche la più primitiva musica locale acquista se udita nel luogo d’origine. Ammaliati, stavamo ad ascoltare, mentre il nostro sguardo si posava sulle montagne e nella vallata [...]63. La festa, il rito, il gioco I. I “pifferari” costituiscono una fondamentale immagine oleografica nell’iconografia di Roma e della sua Campagna, ripetuta e riproposta infinite volte nelle incisioni, nei dipinti, nelle fotografie, nelle descrizioni letterarie: sono i pastori dei paesi di montagna che, nel periodo compreso fra l’8 e il 24 dicembre, si recano nelle città «per celebrare con la loro “musica” le feste di Natale»64. Molti autori ce ne hanno dato un vivo quadro. Così Cervesato: Sono originariamente pastori, questi pifferari e scendono in città nel loro costume usuale composto di calzoni corti, mantello lungo, “cioce” e cappello duro a pan di zucchero, adorno di nastri colorati e spesso anche di immagini sacre; e così, a due a due – e a tre a tre, quando il padre d’alcun di essi, assai vecchio, li accompagni (soltanto per indicar loro le “poste”) percorrono la città, il più anziano con la piva otricolare formata di un otre armonico a tre canne, il più giovane con una specie di ottavino acutissimo, chiamato appunto piffero, con cui, in discreto accordo, suonano antichissime arie campestri e variate cantilene pastorali. Il loro arrivo torna gradito a tutti i popolani, specie perché rammenta in forma poeticamente giuliva che siamo “sotto” le feste di Natale. Scopo della loro venuta, naturalmente, è il lucro; pel quale si prestano a fare prima la novena della Vergine Immacolata, poi quella di Natale. In genere essi sono chiamati da popolani e bottegai, i quali poi li compensano con “due paoli” per ogni novena, – con poco più di una lira. Man mano, poi, che s’imbattono nei vecchi clienti, offrono loro il dono di una cucchiaia di faggio – lavorata da loro stessi mentre facevano pascolare le pecore, o quando erano sequestrati nei domestici abituri dalla neve – e per sentire se anche in quell’anno desiderano venga fatta la novena; la quale consiste nel recarsi, per nove giorni di seguito, in casa o in bottega di quanti li richiedono, per suonare e cantare dinanzi a immagini sacre una pastorale che comincia con un allegro, prosegue con un medio largo e si risolve in una stretta finale movimentata e briosa. Talvolta queste novene si fanno anche dinanzi a qualcuna delle tante icone che si trovano nelle vie: ed ecco qual’è, allora, il procedimento: Giunti davanti all’immagine destinata, i pifferai si levano il cappello in segno di rispetto e quello di loro che suona la piva otricolare, che è sempre il più anziano, lo appende a una delle canne dello strumento; il più giovane, invece, se lo pone sotto l’ascella sinistra, poi subito dà fiato al suo piffero con tutta la forza dei polmoni, e tratto tratta intramezza il suono con certe salutazioni rimate che l’altro seconda e accompagna con la zampogna65. Così Trinchieri: La prima domenica dell’Avvento, quando in Roma s’accendeva la legna in tutti i caminetti, scendevano dalle montagne d’Abruzzo e dalla Ciociaria i pifferari. […] Dando fiato al piffero e alla zampogna i pastori fanno udire delle ariette villereccie, che preludiano con patetiche note alle loro cantilene pastorali; e allo squillo dei zufoli, al musicale tremolio delle ciaramelle, la gioia si spande nelle case di tutta Roma66. Così il folklorista Maes: Il segnale dell’inverno è dato dai pifferai. Nel giorno 25 novembre (Santa Caterina) in cui s’incominciava ad accender le legna nei caminetti ecco in Roma i pifferari, che a drappelli numerosi percorrono le vie […]. Muovono questi poveri villici dalle estreme fimbrie dell’Appennino presso le sponde del Liri nell’Abruzzo. […] I pifferari si dividono a due e talvolta a tre, se il padre già cadente per età debba insegnare al provetto genero, ed al figlio adolescente le case degli antichi clienti, o, com’essi dicono, le poste67. 63 64 65 66 67 STORY, Roba di Roma. La Campagna Romana, cit., p. 75. CERVESATO, La Campagna Romana, cit., pp. 32-33; ripubblicato in questo volume. Ibidem. TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 60. C. MAES, Curiosità romane, Stabilimento tipografico E. Perino, Roma, 1885, rist. anast. Edizioni del Pasquino, Roma, 1983, vol. III, pp. 37-43. Sui “pifferari” si veda anche G. ZANAZZO, Usi, Costumi e Pregiudizi del popolo di Roma, 1907-10, rist. anast. La Bancarella Romana, Tarquinia, 1994, pp. 168-170. 32 La tradizione dei “pifferari”, a Roma e nei centri laziali, è rimasta ininterrotta fino ad oggi. I suonatori, provenienti per lo più dalla valle di Comino, oppure dalla limitrofa provincia di Isernia in Molise, ogni anno portano la novena di Natale nelle città, nei paesi e nelle case, ripetendo molte delle azioni e dei comportamenti descritti da Cervesato, Trinchieri, Maes e altri. A Villa Latina (Fr), antico centro di costruzione di zampogne e ciaramelle, si registra una sorprendente concentrazione di suonatori attivi per le novene e le altre occasioni festive. Qui ha anche sede un Museo della zampogna. II. Il rumore è molto spesso associato al sacro e alla religione68. A Genazzano, Gregorovius osserva la festa della Madonna del Buon Consiglio e la descrive lungamente, mettendondone in luce gli aspetti sonori e musicali che ne costituiscono perno. In particolare, egli nota come il canto, durante la processione dei pellegrini, assolva alla duplice funzione di regolare il cammino e al tempo stesso di incalzare i partecipanti, rilanciandone la tensione emotiva: I pellegrini entrano nel territorio del santuario [...] cantando fervorosamente dei cori [...]. Dirigeva i cori una vecchia [...]. Quindi la processione si mise in moto di nuovo, e quantunque quel continuo canto dovesse stancare, v’era sempre un uomo od una donna che riprendeva la litania. Quel canto monotono ed uniforme, che è la più semplice espressione del sentimento religioso di questa gente e che si avvicenda come il movimento regolare delle onde, esercita una profonda suggestione su quella folla. Sembra quasi che la processione prosegua il suo cammino, cullata da quest’armonia melanconica, più leggera e più regolata e che il canto regoli i movimenti del corpo e le impressioni dell’animo, tenendo gli uni e gli altri costantemente diretti verso la meta del pellegrinaggio. Ho notato che le pause erano sempre brevissime e che allorquando negli intervalli i pellegrini cominciavano a tacere o a favellare fra loro, la conduttrice del coro riprendeva subito il canto69. Le numerose immagini e descrizioni delle feste dell’uva, le cosiddette “ottobrate” che si svolgevano nella Campagna di Roma, fuori porta, ci restituiscono un clima di grande eccitazione, dominato dal ballo e dal ritmo dei tamburelli, suonati da donne di tutte le età. Molti autori vi hanno visto una sopravvivenza degli antichi baccanali: gli orgiastici rituali in onore di Dioniso, incentrati sul ballo e sulla musica affidata prevalentemente agli auleti (suonatori di doppi aerofoni ad ancia a suono continuo, progenitori della zampogna) e alle menadi, con i loro tamburi a cornice: i tamburelli (o le tamburelle) di cui abbondano tanto le descrizioni letterarie quanto l’iconografia70. Quando il vino è pronto inizia la processione della vendemmia. […] La processione è condotta dal contadino più bello […]. È seguito da gruppi di donne vestite nei loro costumi più ricchi, con sul capo cesti carichi d’uva, e da ragazzi che portano in mano i grappoli. Bacchantes e Lenoe lo circondano agitando delle canne intrecciate con tralci di vite, percuotendo tintinnanti tamburelli, strimpellando chitarre o mandolini, e gonfiando ritmicamente le fisarmoniche71. Restano famose le “ottobrate” di Testaccio, da molti descritte: Siccome Testaccio stà vvicino a Roma, l’ottobbere ce s’annava volontieri, in carozza e a piedi. Arivati llà sse magnava, se bbeveva quer vino che usciva da le grotte che zampillava, poi s’annava a bballa’ er sartarèllo o ssur prato, oppuramente su lo stazzo dell’osteria del Capannone, o sse cantava da povèti, o sse gîocava a mmòra. La sera s’aritornava a Roma ar sôno de le tammurèlle, dde le gnàcchere e dde li canti: A la reale, L’ottobbre è ffatto com’er carnovale! E tanto se faceva a curre tra carozze e carrettelle, che succedevano sempre disgrazie72. Ballo e tamburelli sono elementi che si ritrovano in molte feste. Ad esempio, durante l’infiorata del Corpus Domini a Genzano. 68 Si veda, per tutti, C. LÉVI-STRAUSS, Du miel aux cendres, Librairie Plon, Paris, 1966; trad. it. Dal miele alle ceneri, Il Saggiatore, Milano, 1970. 69 GREGOROVIUS, Passeggiate per l’Italia, “La Campagna romana”, cit., pp. 45-46; ripubblicato in questo volume. 70 Si vedano, ad esempio: A. BÉLIS, Musica e “trance” nel corteggio dionisiaco, in D. Restani (a cura di), Musica e mito nella Grecia antica, Il Mulino, Bologna, 1995 (ediz. orig. 1988), pp. 271-281; L. B. LAWLER, The Maenads: a contribution to the study of the dance in ancient Greece, in «Memoirs of the American Academy in Rome», 1927, pp. 69-112, Plates 12-22. 71 STORY, Roba di Roma. La Campagna Romana, cit., p. 70. 72 ZANAZZO, Usi, Costumi e Pregiudizi del popolo di Roma, cit., pp. 166-167. 33 Mentre si avvicina il crepuscolo, al rumore ritmico dei tamburelli e delle nacchere, ritroviamo numerosi gruppi intenti a ballare il salterello – il ballo nazionale romano che prende il nome dal piccolo passo saltellante che lo caratterizza. Non vi è limite al numero delle coppie che può danzarlo, sebbene il ballo sia perfetto anche se danzato in due soli. [...]73 Il tamburello in particolare, onnipresente nelle feste e nelle occasioni rituali, è sempre ritratto in mani femminili, come nella fiera di Valmontone, che ha ispirato ad Augusto Sindici una poesia: Porteno sur cappello Madonnelle, penne, rame de fiori de la festa!... E le rigazze co le tamburelle74. III. Il rumore è anche elemento dominante nella ritualità extra-liturgica, soprattutto quella di carattere apotropaico ed esorcistico, volta a tenere lontano o a scacciare il male. Così i matrimoni fra vedovi o fra persone di età molto differenziate fra di loro, che sfidano e mettono in stato di rischio le regole della comunità, scatenano fragorose esplosioni sonore affidate ai ragazzi e ai bambini: le cosiddette scampanate75. A una di esse Gregorovius ha modo di assistere, a Genazzano: Vidi tutti i ragazzi di Genazzano riuniti innanzi ad una casa, intenti a darvi una specie di concerto. […] Gli uni soffiavano in conchiglie marine ricavandone orribili fischi, un altro dava di fiato in un corno di bue, certi picchiavano con falci sopra zappe e padelle, alcuni agitavano a tutta forza pezzi di ferro vecchio di ogni specie legati insieme con una corda, un altro ancora faceva ruzzolare per terra una vecchia casseruola attaccata ad una funicella. Dieci o dodici monelli scampanellavano rumorosamente con quelle campane che si appendono al collo delle vacche76. Analogamente, De Nino descrive una scampanacciata a Montereale, in Abruzzo al confine con l’alta Sabina laziale: In quei luoghi come anche altrove c’è il costume di sonare i campanacci, quando si celebrano i matrimoni fra vedovi, e massime se vecchi77. Nel suo racconto, il corteo nuziale viene accolto da uno spaventoso fragore, prodotto da una quantità di emissioni sonore diverse, sovrapposte a un tessuto di base dato dal suono dei campanacci: Il corteo nuziale procedeva allegro, e dietro veniva lunga tratta di gente. Si sentiva un rumore simile ai tuoni prolungati che si sentono a primavera; e poi un eco lontano di questi tuoni. Al suono dei campanacci si aggiungeva il rumore delle molle, delle palette, delle padelle, dei coperchi, dei mazzi di chiavi: e poi gridi e fischi, sempre in coro. Non mancò il martellare delle incudini che i ferrai avevano messe fuori di bottega. Gli speziali lavoravano coi pestelli di bronzo. I più festosi avevano spiccata da un campanile una discreta campana, e dàgli a battocchiare. E per fare onore alla campana, altri avevano afferrato barili e secchi, e li sonavano nel fondo, come tamburi78. IV. Anche i giochi, sia degli adulti sia dei bambini, hanno spesso natura sonora e utilizzano linguaggi ritmici o particolari timbri che sono parte intergrante del gioco stesso. Fra i giochi degli adulti, la morra ha in sé un’importante componente acustica: sono soprattutto il ritmo e l’emissione vocale dati dai giocatori a caratterizzare questo gioco, che viene eseguito con modalità analoghe in tutta l’Italia centro-meridionale e insulare. In una sintetica ma significativa descrizione, Giggi Zanazzo ha saputo cogliere tale componente acustica e metterla in relazione con la dinamica stessa del gioco. Questa forzata precipitazione, l’estrema attenzione che esige per non isbagliare, la rapidità dei giri fanno sì che tutti e due slancino le loro voci in un tono molto vibrato. I volti degli interessati, come quelli degli spettatori, si fanno estremamente ardenti e concitati, finché le voci ansanti e rauche pronunciano, con una secchezza gutturale, i numeri compendiati in grida monosillabiche: Du’! Quatr’! Un’! Tre! Se’! Cinq’!...79. 73 74 75 76 77 78 79 STORY, Roba di Roma. La Campagna Romana, cit., pp. 57-60. SINDICI, XIV Leggende della Campagna romana, cit., p. 192. Sulla scampanata si veda J. LE GOFF, J.-C. SCHMITT, Le Charivari, Mouton Editeur, Paris, 1981. GREGOROVIUS, Passeggiate per l’Italia, “La Campagna romana”, cit., pp. 40-41; ripubblicato in questo volume. A. DE NINO, Usi abruzzesi, vol. I, Barbèra, Firenze, 1879, ristampa Adelmo Polla, Cerchio (Aq), 1988, pp. 63-64. Ibidem. ZANAZZO, Usi, Costumi e Pregiudizi del popolo di Roma, cit., pp. 370-372. Il testo completo è ripubblicato in questo volume. 34 L’espressività poetico-musicale I. Una delle forme poetico-musicali più diffuse nella Campagna romana è quella che va sotto il nome di “canto a poeta”, in quartine o in ottave. Il “canto a poeta” in ottave si configura tipicamente come “ottava rima”: una forma monodica dall’andamento sillabico, priva di accompagnamento strumentale, il cui testo verbale è strutturato su una strofa di otto versi endecasillabi con rima ABABABCC, mentre la melodia si basa su uno schema di quattro sezioni, corrispondenti ai primi quattro versi, che viene poi ripetuto per i secondi quattro versi. L’esecuzione cantata mette in atto diverse modalità di variazione individuali. L’ottava rima rappresenta un veicolo di comunicazione poetica che si esprime attraverso un linguaggio altamente formalizzato, con cui vengono cantati testi poetici classici come quelli di Dante, testi epici come quelli di Ariosto o del Tasso e testi improvvisati su vari temi, anche d’attualità80. Nella Campagna i poeti improvvisatori sono soprattutto i pastori, la cui pratica poetico-musicale si lega ai lunghi tempi solitari del pascolo ma anche alla lettura e, spesso, alla scrittura81. […] Tanti pastori recitano a memoria o i canti dell’Orlando Furioso o della Gerusalemme Liberata, o le terzine di Dante o i versi di Virgilio […]. Scrivono anche versi e improvvisano ottave con un canto cadenzato perché tutti i pastori, per la vita che vivono, sono poeti che nessuno altro supera per gentilezza di pensiero e per armonia di versi. […] La mitologia poi è perfettamente conosciuta dai pastori e sono anche frequenti i poeti improvvisatori secondo la ispirazione del momento82. Il bagaglio di letture dei pastori-poeti è riassunto nel termine “libri di pellicceria” che Romolo Trinchieri include nel suo Vocabolario della pastorizia della campagna romana: Libri di pellicceria – così, nei tempi passati erano chiamati i libri che formavano la biblioteca dei pecorari desiderosi di leggere. Vi trovavi: I Reali di Francia, La Gerusalemme liberata, La strage degli innocenti, il poemetto Paris e Vienna, Il testamento dell’abata Veccei, ed inoltre varie leggende popolari […]83. I poeti improvvisatori cantano soprattutto “a braccio”, alternandosi, in due o più, nell’esecuzione di ottave elaborate estemporaneamente e spesso contrastando su temi opposti. L’alternarsi delle ottave segue il criterio dell’ “incatenatura”, secondo cui ogni ottava deve iniziare riprendendo la rima degli ultimi due versi di quella precedente; chi fa “cader la rima” non si dimostra all’altezza del suo ruolo. I contrasti danno luogo a gare, più o meno formalizzate, che possono avvenire in occasione di feste religiose o di feste di piazza, o anche in occasioni sociali più “interne” alle comunità: È un uso antico […] tra i giovani pecorari con tendenze poetiche, ed è quello di improvvisare ottave in gara un con l’altro, svolgendo un tema che loro assegnerà il più esperto. […] Intorno ai poeti a braccio si radunano allegre comitive di pecorari che seguono ansiosi e entusiasti lo svolgersi della gara […]. Le gare a braccio si usano nelle lunghe serate d’inverno riuniti alla capanna o alla dispensa84. I poeti-pastori della Campagna provengono in gran parte dall’alta Sabina: un’area laziale originariamente abruzzese che tuttora condivide molti tratti culturali con il territorio oltre confine. Gli “aquilani” che stagional- 80 Riferimento fondamentale per l’ottava rima è il lavoro di G. KEZICH, I poeti contadini. Introduzione all’ottava rima popolare: imma- ginario poetico e paesaggio sociale, Bulzoni, Roma, 1986. Per gli aspetti di carattere etnomusicologico, si veda, nello stesso volume, il saggio di M. AGAMENNONE, Cantar l’ottava, pp. 171-218. Scritti “storici” sull’argomento sono quelli di G. NATALETTI: Poeti a braccio, in «Rassegna Dorica», III, 1, 1931, pp. 10-13 (ripubblicato in questo volume); Rassegna del poeta a braccio, in «Rassegna Dorica», IV, 3, 1933, pp. 62-64; Improvvisatori ed improvvisazioni di popolo, in «Musica d’oggi», XVII, 8-9, 1935, pp. 301-307 (ripubblicato in questo volume). Si vedano inoltre: G. KEZICH, L. SAREGO (a cura di), L’ottava popolare moderna. Studi e ricerche, Atti della 1° Rassegna nazionale del canto a braccio (Amatrice 1987) e del Convegno “Ottava rima, canto a braccio e sapere contadino” (Allumiere 1988), Nuova Immagine, Siena, [1990], con molti diversi e densi contributi; P. NARDINI (a cura di), L’arte del dire. Atti del convegno di studi sull’improvvisazione poetica (Grosseto 14-15 Marzo 1997), Comune di Grosseto, Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana, Grosseto, 1999. 81 Sulla pratica della scrittura da parte dei pastori, si veda E. SILVESTRINI, Pastori e scrittura, in «La Ricerca Folklorica», 5, 1982, pp. 103118. 82 TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 64. 83 TRINCHIERI, Vocabolario della pastorizia della campagna romana, cit., p. 359; si veda anche M. ALINEI, In margine al Vocabolario della pastorizia della campagna romana di Trinchieri, in «Quaderni di semantica», XV, 2, 1994, pp. 323-325. Un precedente vocabolario sullo stesso tema è quello di D’ALESSANDRI, Vocaboli, usi agricoli e consuetudini della Campagna Romana, cit. 84 TRINCHIERI, Vita di pastori nella Campagna Romana, cit., p. 74. Si veda, in quello stesso volume, Una domenica di aprile presso una dispensa della Campagna Romana, pp. 97-106, qui ripubblicato. 35 mente popolavano la Campagna romana afferivano a località che oggi sono sia laziali sia abruzzesi: Amatrice, Leonessa, Preta in provincia di Rieti; Montereale, Campotosto in provincia dell’Aquilia85. Ma nella Campagna romana vi sono anche altre importanti aree di presenza di poeti a braccio: Civitavecchia e i Monti della Tolfa (Tolfa è sempre stata sede di gare poetiche)86, i Castelli romani, i versanti romani dei monti Prenestini e dei monti Lepini. In queste aree l’ottava rima appare meno esclusivamente legata alla pastorizia ed è praticata in ambienti contadini e dai butteri. Provengono per lo più da Cisterna, Bassiano, Bracciano, Toscanella, ecc.; questi paesi sono chiamati dai butteri le patrie ed esiste una specie di consorteria fra quelli della stessa patria. [...] Quando capitano vicino ai loro paesi d’origine fanno dei festini omerici nei quali sciupano anche lo stipendio di due mesi. Se ci sono le corse scommettono sino un barile di vino, e finita la sfida bevono in compagnia di tutta la masseria o si sfidano nelle gare poetiche. Vi sono butteri celebri come improvvisatori di versi, quasi a rime baciate, assonanti o consonanti e persino ad ottave87. Nell’alta Sabina il canto a braccio si esegue anche con l’accompagnamento della zampogna, e in questo caso anziché in ottave si modella in terzine o in quartine88. Il “canto a poeta” improvvisato può realizzarsi infine su altre forme strofiche del cosiddetto canto lirico, tutte basate sul metro endecasillabo: distici, quartine, sestine, rispetti, ottave siciliane89. Tali forme, tuttavia, nell’esecuzione cantata vengono spesso alterate e contraddette dalle strutture musicali e dagli stili locali che vi si applicano, modellandole e modificandole: possono verificarsi ripetizioni di versi o di emistichi che ampliano la strofa, oppure segmentazioni, frammentazioni di versi che mutano il modello metrico allontanandolo dal suo riferimento letterario. Se nella gran maggioranza delle raccolte di canti popolari dell’Ottocento e del Novecento le trascrizioni dei testi verbali appaiono quasi sempre uniformate a forme-base corrispondenti a modelli metrico-letterari, ciò si spiega perché, al di fuori dello stretto ambito etnomusicologico, è prevalsa la prassi di trascrivere i canti a partire dalla loro recitazione anziché dalla loro esecuzione musicale90. Inoltre nel canto lirico il materiale verbale, poetico, che di volta in volta viene utilizzato è il derivato di un’azione di ripetizione-improvvisazione di carattere formulare, che si realizza estemporaneamente nell’esecuzione. Chi canta può attingere a un vasto formulario fatto di emistichi, versi, strofe, stereotipìe verbali e proverbiali, modelli sintattici, ecc., che si possono utilizzare componendoli e scomponendoli in diversi modi. Questo meccanismo fa sì che ogni esecuzione si presenti come unica e irripetibile, prodotto contingente di un’elabora85 Sui poeti-pastori alto sabini si vedano: A. DE NINO, Usi abruzzesi, vol. II, Barbèra, Firenze, 1879, ristampa Adelmo Polla, Cerchio (Aq), 1988, pp. 86-87; G. PALOMBINI, L’ottava rima in Alta Sabina: una ricerca etnomusicologica, in Kezich, Sarego, L’ottava popolare moderna, cit., pp. 83-120; P. G. ARCANGELI, G. PALOMBINI, M. PIANESI, La Sposa lamentava e l’Amatrice... Poesia e musica della tradizione altosabina tra l’Abruzzo e il Lazio, Editrice “Nova Italica”, Pescara, 2001, pp. 85-105; L. SAREGO, Nel laboratorio dei poeti: processi innovativi e sollecitazioni tradizionali, in Kezich, Sarego, L’ottava popolare moderna, cit., pp. 149-178; L. SAREGO, Le patrie dei poeti. Storia e costume del canto a braccio nella provincia di Rieti (1850-1986), Nuova Immagine, Edizioni della B.I.G., Rieti, 1987; L. SAREGO, Appennini e Campagna. Poeti e pastori dell’Alto Velino, in «Lares», LXI, 3, 1995, pp. 333-372; R. TRINCHIERI, Il canto a braccio tra pastori-poeti nel Monterealese, in «Lares», XXV, vol. unico, 1959, pp. 267-280, ripubblicato in questo volume; E. VEO, “Trattoria nostra” o degli improvvisatori, in A. Jandolo, E. Veo (a cura di), Osterie romane, Ceschina, Milano, 1929, ristampa 1949, pp. 117-124; si veda anche M. CIARALLI, Il paese dei dotti: Cornillo Nuovo. La storia, le immagini, Roma, 1997. 86 Si veda la raccolta 154 M dell’Archivio Etnico Linguistico-Musicale della Discoteca di Stato, realizzata da Marco Müller negli anni 196264, 1967-68, da cui sono tratti due brani pubblicati nel CD qui allegato (brani 6 e 7). Si veda anche, dello stesso M. MÜLLER, Il canto a poeta nel Lazio: esperienze di ricerca a Tolfa, in «Il Nuovo Canzoniere Italiano», III Serie, 1, 1975, pp. 15-24. 87 SIMBOLI, I “Cow boys” della Campagna Romana, cit., p. 126. 88 G. PALOMBINI, Le ciaramelle di Amatrice. La tradizione della zampogna in Alta Sabina, LP Albatros VPA 8494, 1989; ARCANGELI, PALOMBINI, PIANESI, La Sposa lamentava e l’Amatrice..., cit., pp. 119-123. 89 Sulle forme del canto lirico monostrofico e più in generale sulla morfologia della poesia popolare italiana, si veda V. SANTOLI, I canti popolari italiani. Ricerche e questioni, Sansoni, Firenze, 1968. 90 Si vedano, ad esempio, P. E. VISCONTI, Saggio di canti popolari della provincia di Marittima e Campagna, Tipografia Salviucci, Roma, 1830 (in parte ripubblicato in questo volume), oppure A. MARSILIANI, Canti popolari dei dintorni del lago di Bolsena, di Orvieto e delle campagne del Lazio, Orvieto, 1886, rist. anast. Forni, Bologna, 1968. Sulle questioni di metrica nella versificazione popolare si veda A. M. CIRESE, Ragioni metriche. Versificazione e tradizioni orali, Sellerio, Palermo, 1988. Sui meccanismi che regolano la creazione- trasformazione dei testi verbali nell’esecuzione cantata, si vedano: G. ADAMO, G. TAVANI, Metrica cantata, metrica recitata, in Il verso cantato. Atti del Seminario di studi (aprile-giugno 1988), Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Roma, 1994, pp. 55-75; D. CARPITELLA, Sistema metrico e sistema ritmico nei canti popolari, in G. Stefani (a cura di), Actes du 1er Congrès International de sémiotique musicale, Pesaro, Centro di Iniziativa Culturale, 1975, pp. 40-43; F. GIANNATTASIO, Il concetto di musica. Contributi e prospettive della ricerca etnomusicologica, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1992, pp. 171-189. Per saggi sullo stesso tema, riferiti ad altre regioni italiane, si vedano: R. DE SIMONE, Testo verbale e strutture musicali nei canti popolari, in D. Carpitella (a cura di), L’etnomusicologia in Italia, Flaccovio, Palermo, 1975, pp. 151-158 (relativo alla Campania); A. RICCI, R. TUCCI, I “Canti” di Raffaele Lombardi Satriani. La poesia cantata nella tradizione popolare calabrese, A.M.A. CALABRIA, Lamezia Terme, 1997, con due CD allegati; S. BONANZINGA, Introduzione, in F. Bose, Musiche popolari siciliane raccolte da Giacomo Meyerbeer, a cura di Id., Sellerio, Palermo, pp. 11-69. 36 zione, concepita secondo uno stile formule proprio dell’oralità, le cui radici affondano in un lontano passato91. Al tempo stesso, questo vasto corpus di formule appare condiviso almeno in tutta l’area centro-meridionale italiana: ciò spiega le ricorrenze che si riscontrano nelle diverse racccolte, sia letterarie, sia di documenti sonori92. Proprio questo meccanismo di ripetizione-improvvisazione fà del canto a poeta un vero e proprio linguaggio, un veicolo di comunicazione. Il canto può essere di argomento amoroso, come le seguenti due quartine, raccolte da Giorgio Nataletti «nel territorio di Gallicano nel Lazio, Comune posto al confine della Campagna Romana, tra Tivoli e Palestrina, alle falde del Guadagnolo»93 e da lui più volte ripubblicate nei suoi scritti perché ritenute esemplari di un certo tipo di poetica e di suggestione, tipiche della Campagna di Roma: Rosa del mio giardino, la bbella pianta, ssei piccolina e ssei tanto odorente. In petto ce le porti ddu’ rose bbianche, riluce lo splennore a l’oriente. In testa ce la porti ’na ritta crina, ’mezzo a lo petto ’na chiara funtana; e chi ce prenne l’acqua la mattina morti e feriti tutti l’aresana94 Il canto a poeta può anche avere come oggetto il lavoro agricolo: un tema su cui è stata raccolta una quantità di materiali strofici, come la seguente quartina, che costituisce «l’inizio del contrasto comunissimo tra due lavoratori all’aratro, tra due bifolchi» e si riferisce all’abilità e all’orgoglio di saper tracciate il solco drittto dell’aratura95: E ttu che ssei poeta e ssei dell’arte spaccheme un sorco in mezzo a ’stà pianura; de qua e de là la tera se sparte, bravo capoccia dell’agricoltura96. Oppure il canto a poeta può essere satirico e nell’orizzonte agro-pastorale della Campagna romana è spesso il pastore a venire preso in giro per l’apparente limitatezza del suo microcosmo: Lu pecorari quanno va a Maremma se crede d’esse giudice e notaru la coda de la pecora è la penna lu secchiu de lu latte è u calamaru97 Oppure ancora, il canto a poeta può tracciare – come in un blues – situazioni di carattere esistenziale ed emozionale di chi canta, spesso espresse attraverso motivi stereotipati come, ad esempio, quello della nascita sfortunata: 91 Si veda E. A. HAVELOCK, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari, 1973. 92 Si veda F. SABATINI, La lirica nei canti popolari romani, in Id. (a cura di), Il volgo di Roma. Raccolta di tradizioni e costumanze popo- lari, vol. I, Loescher, Roma, 1890, pp. 35-54, dove l’autore mostra come i testi di alcuni canti popolari romani non siano esclusivi di Roma ma trovino i loro corrispettivi in altre regioni centro-meridionali. Tuttavia l’approccio ottocentesco di Sabatini lo spinge a ipotizzare, per ogni canto, un’unica origine e successive irradiazioni: un’ipotesi ormai superata dalle teorie della formulareità. Per una recente applicazione di quest’ultima, si veda RICCI, TUCCI, I “Canti” di Raffaele Lombardi Satriani, cit. 93 G. NATALETTI, Otto canti popolari della Campagna romana, in «Lares», V, 1, 1934, pp. 35-42; ripubblicato in questo volume. 94 Si veda anche NATALETTI, I canti della Campagna Romana, cit., anch’esso ripubblicato in questo volume. Nataletti apprezzò così tanto questi versi, che proprio ad essi si ispirò nell’intitolare la trasmissione radiofonica della RAI, “Chiara fontana”, da lui stesso condotta: la trasmissione rappresentò un importante veicolo di diffusione delle diverse culture musicali italiane, proponendo l’ascolto delle registrazioni effettuate nell’ambito delle attività di rilevamento sonoro del Centro Nazionale Studi di musica Popolare dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ora Archivi di Etnomusicologia; si veda «EM. Annuario degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia», I, 1993. 95 La tiratura del solco è una delle operazioni di maggiore responsabilità fra quelle che competono al bifolco: il solco deve essere dritto secondo una concezione etica-estetica che include anche l’attribuzione di significati simbolici di carattere propiziatorio. Si vedano, con riferimento alla tiratura rituale del solco dritto in una comunità dell’alto Lazio: R. LUZI, La tiratura del solco dritto nel Ferragosto verentano, nota introduttiva di A.M. Di Nola, Scipioni, Viterbo, 1980; B. MANCINI, La bifolcina. L’aratro e la Madonna, in Valentano. Contadini, terre e pane, Gruppo Archeologico Verentum, Valentano, 1996, pp. 51-58. Nella narrativa orale legata alla Campagna romana, è nota la leggenda di Pagliaccetto (da cui il toponimo Torre de Pajaccetto), capoccia del principe Falconieri. La leggenda ha come tema centrale una sfida, fra Pagliaccetto e un porcaro, per chi tira il solco più lungo e più dritto, METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., pp. 155-158. 96 NATALETTI, Otto canti popolari della Campagna romana, cit. 97 METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., p. 146. 37 In corpo alla mia madre cominciai A non aver mai bene in vita mia, E nelle fasce dove m’infasciai Erano piene di malinconia La concolina dove mi lavai Non era rotta e l’acqua se n’uscia E quando mi portorno a battezzare Il prete mi si morse per la via98 Infine, anche il “mondo alla rovescia”, tipico tema della fantasia popolare, può divenire oggetto del canto lirico. Nel tempo che regnava il re Pipino. Le tartarughe andavano alla guerra, Il rospo lo faceva il tamburino La ranocchia portava la bandiera Lo scardafone ch’era lo più dotto Faceva le palle per caricà lo schioppo99 II. Altra forma poetico-musicale largamente diffusa nella Campagna romana è lo stornello: anch’esso un “contenitore” dotato di forti valenze comunicative. Analogamente al canto a poeta, anche lo stornello viene improvvisato sulla base di un formulario tradizionale, la cui applicazione lo rende un vero e proprio linguaggio cantato in grado di adattarsi alle più diverse situazioni. Dal punto di vista metrico-letterario si presenta nelle due consuete forme strofiche100: due endecasillabi preceduti da un quinario (“fiore”), con rima o assonanza alterna e consonanza del secondo verso: Fior di granato la vigna non può star senza canneto manco la donna senza innamorato101 oppure tre endecasillabi con analoghe modalità di rima: M’affaccio a la finestra e vvedo l’onne vvedo le mi’ miserie che so’ granne chiamo l’amore meo nun m’arisponne102 Il “fiore” costituisce una formula improvvisativa di apertura che favorisce la composizione dei due versi successivi. Essa infatti fornisce un vasto bagaglio di rime, perché tutto può essere “fiore”(fiore d’argento, fiore di more, fiore di latte, fior d’uva passa, fior di pisello) e vi è un “fiore” adatto a ogni rima. Nell’esecuzione musicale la ripetizione di versi, soprattutto nella seconda forma, dà sovente luogo a strofe ampliate, di quattro e più sezioni, che si riconnettono al canto a poeta di cui si è già detto. Come il canto a poeta, anche lo stornello appare una forma fluttuante, i cui concreti riferimenti metrici sono dati dalle singole contingenti esecuzioni cantate. Nella Campagna Romana lo stornello appare frequentemente modellato sull’immaginiario dell’ambiente dei butteri: Il mio amore quattro bovi attacca Prima si fa la croce e poi li tocca Poi tutto il giorno pensa alla ragazza103 Lo mio amore le para le vacche E quanno è ’na cert’ora le rimette Fa la giuncata e a me mi da lo latte104 198 199 100 101 102 103 104 38 Idem, pp. 247-248. Idem, p. 248. SANTOLI, I canti popolari italiani, cit. METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., p. 255. NATALETTI, I canti della Campagna Romana, cit. METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, cit., p. 253. Idem, p. 254. Fior di pisello ho visto un capobuttero a cavallo m’ha fatto innamorar quant’era bello105 Lo stornello della Campagna viene cantato secondo diverse forme musicali, monodiche o polivocali, con o senza accompagnamento strumentale. Rispetto allo stornello romano, caratterizzato da un elevato tasso melismatico, si presenta più sillabico ma non mancano forme infiorettate. Può essere cantato alla stesa (a distesa) e allora la voce si allunga sulle cadenze finali per raggiungere la lontananza dei campi, oppure per fondersi con i suoni della zampogna o dell’organetto. Può venire eseguito a voce sola, come nei canti alla carrara con cui il carrettiere colma i tempi lenti dei suoi spostamenti, oppure in forme polivocali. Accompagnato da una varietà di strumenti musicali può essere eseguito a saltarello, sia per accompagnare il ballo, sia in forme esecutive stereotipate e defunzionalizzate. III. Esecuzioni polivocali caratterizzano soprattutto i canti che prendono vita durante i lavori agricoli per opera delle squadre di braccianti femminili o maschili: sono canti legati soprattutto alla mietitura (a mete, alla metitora) e alle altre lavorazioni delle colture cerealicole (ad esempio la “monda”). Vengono eseguiti secondo forme locali caratterizzate per lo più da una struttura a due parti, con entrate in successione e cadenza finale all’unisono: una voce solista dà avvio al canto determinandone altezza e ritmo, e le altre voci si aggiungono raddoppiando la linea melodica a una stessa distanza intervallare (parallelismi), oppure tenendo o ribattendo un suono (bordoni). Altre più complesse tecniche di combinazioni fra le voci prevedono melodie “a intreccio”: discanti, in cui due voci si sovrappongono nota contro nota con diverso andamento melodico, e contrappunti, caratterizzati dalla sovrapposizione di melodie con diverso ritmo106. Una particolare forma di contrappunto a due voci (diafonia), detta a pennese, si ritrova nell’area dei Monti Lucretili, a Marcellina107. La danza Danza tradizionale della Campagna romana è il saltarello, detto anche saltarella: un ballo di corteggiamento, saltato, con tempo a suddivisione ternaria e metro binario, accompagnato prevalentemente da zampogna e tamburello, oppure da organetto e tamburello, ed eseguito in coppia. Nello stesso terrritorio si ritrova pure una variante, denominata ballarella, proveniente dal Lazio meridionale e già influenzata dalla tarantella. Nominalmente il saltarello della Campagna è condiviso dal saltarello di Roma, di cui però non resta traccia nella tradizione urbana. Nataletti ritiene che nella prassi esecutiva le due danze si differenziano per una serie di tratti concernenti tanto l’aspetto musicale quanto quello coreutico vero e proprio. Egli coglie una delle differenze nell’accompagnamento strumentale, dato, a Roma dal calascione108, nella Campagna dalla zampogna e dai suoi moderni sostituti, l’organetto diatonico e la fisarmonica109. Tale differenziazione dell’organico 105 Idem, p. 255. 106 Per una definizione delle polifonie di tradizione popolare, comprensiva di un glossario specifico, si veda S. FACCI, Polifonia, in M. Agamennone, S. Facci, F. Giannattasio, G. Giuriati, Grammatica della musica etnica, Bulzoni, Roma, 1991, pp. 201-242. Per un’analisi dei procedimenti polifonici e una classificazione delle diverse tecniche di combinazione fra le voci nelle forme di polivocalità popolare, si vedano: S. FACCI, Quindici esempi di polifonia tradizionale, in G. Giuriati (a cura di), Forme e comportamenti della musica folklorica italiana, Unicopli, Milano, 1985, pp. 45-93; M. AGAMENNONE, S. FACCI, F. GIANNATTASIO, I procedimenti polifonici nella musica tradizionale italiana. Proposta di tassonomia generale, in M. Agamennone (a cura di), Polifonie. Procedimenti, tassonomie e forme: una riflessione “a più voci”, Il Cardo, Venezia, 1996, pp. 239-277. Sulle forme polivocali a due parti dell’alta Sabina si veda ARCANGELI, PALOMBINI, PIANESI, La Sposa lamentava e l’Amatrice..., cit., pp. 78-85. Esemplificazioni di polifonia vocale popolare sono date dai brani nn. 3, 20-22 del disco allegato a questo volume. 107 Si veda M. AGAMENNONE, Modalità di variazione in due forme vocali, in Giuriati, Forme e comportamenti della musica folklorica italiana, cit., pp. 95-130, ripubblicato in questo volume. Un’esemplificazione è data dal brano 20 del disco allegato. 108 Strumento a corda della famiglia dei liuti pizzicati. Con il temine colascione, calascione, generalmente si intende un liuto a manico lungo, armato di due o tre corde, imparentato con analoghi strumenti diffusi nell’Asia centro-occidentale e nei Balcani. Lo stesso termine, tuttavia, individua anche una mandola del XVIII secolo: un liuto con tavola piatta e ponticello-cordiera, dotato di un corto e largo manico e di un più ampio numero di corde. Non è improbabile che a questa mandola siano da ricondurre i molti riferimenti letterari che indicano il colascione come strumento tipico degli ambienti popolani di Roma e di altre città dell’Italia meridionale; si veda R. TUCCI, Catalogo, in P. S. Simeoni, R. Tucci (a cura di), Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. La collezione degli strumenti musicali, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1991, pp. 55-378, in particolare pp. 325-329. 109 Si veda G. NATALETTI, Il saltarello, in «Il Musicista», IX, 1, 1942, pp. 59-66 (ripubblicato in questo volume), dove sono anche riportate le trascrizioni musicali di un saltarello di Roma e di un saltarello della Campagna. Si veda anche, dello stesso autore, Il saltarello a Roma e nella Campagna romana, in Strenna dei romanisti, Staderini, Roma, 1942, pp. 245-253. 39 strumentale si ripercuote anche nelle forme musicali: la zampogna, per le sue stesse caratteristiche organologiche, rappresenta una musicalità arcaica, aspra “selvaggia”, non mediata; la mandola e gli strumenti a essa affini affondano le loro radici in una tradizione urbana “cortigiana” e quando interpretano i repertori musicali popolari lo fanno mettendo in atto meccanismi di stilizzazione che ne alterano sensibilmente le originarie fisionomie. C’è poi il tamburello, che è elemento comune a Roma e nella Campagna, anch’esso soggetto a modalità differenziate di uso. Il tamburello resta in ogni caso l’immagine-simbolo del saltarello: In lontananza si possono udire le risate delle ragazze […] ed il vibrare di lontani tamburelli lì dove qualcuno sta ballando il saltarello110. Dal punto di vista coreutico, è difficile immaginare un confronto fra il saltarello di Roma e quello della Campagna, dove è ancora possibile osservare il ballo in funzione. Nataletti ci fornisce alcune indicazioni: In Roma la coppia dei danzatori non si unisce quasi mai: non così nella campagna ove spesso i ballerini si appoggiano reciprocamente con le mani sulle spalle, sia intrecciando le braccia dietro il corpo, ponendosi l’uno accanto all’altro, sia mettendosi di fronte111. In realtà, al di là delle figurazioni – su cui molti autori si soffermano in lunghe descrizioni – la caratteristica principale del saltarello della Campagna è la sua grande carica di sensualità e il suo forte coinvolgimento corporale: È un ballo molto stancante, a causa dei movimenti rapidi ed interrotti, e i volti dei ballerini avvampano di calore e di eccitazione […]. Uomini e donne non si fermano fino a quando non hanno più forze e respiro112. L’iconografia più calzante del saltarello è quella riferita alle “ottobrate”, proprio perché in essa viene colto l’elemento orgiastico di questo ballo, insito nelle sue radici più profonde113. E in questa dimensione sono soprattutto le donne, con i loro tamburelli, ad assumere ruoli di protagonismo. Nell’alta Sabina la saltarella, tipicamente eseguita con zampogna e tamburello, o con organetto e tamburello (ma gli anziani preferiscono ballarla con la zampogna), è tuttora fatta oggetto di gare, che vengono organizzate in varie occasioni nei diversi centri dell’area114. Gli strumenti musicali Nella letteratura e nell’iconografia relative alla Campagna romana gli strumenti musicali vi compaiono con particolare frequenza; sono soprattutto le zampogne dei pifferari e dei pastori, i tamburelli delle ragazze. Ma non solo: una varietà di altri strumenti di tradizione agro-pastorale o artigiano-paesana è rappresentata e collocata nei diversi contesti ambientali e sociali di uso. A essi fa contorno il vasto corpus delle varie tipologie e misure di campane metalliche (in lamiera di ferro, in bronzo) utilizzate per l’allevamento e per il trasporto: campanacci di pecore, capre, vacche, buoi, bufali; bubboli di asini e cavalli, ferriere di “carretti a vino”. Si tratta di oggetti sonori, spesso utilizzati in serie, il cui suono non è soltanto il risultato deterministico dei movimenti degli animali (o dei carretti), ma è anche frutto di precise scelte sonore da parte dei pastori o degli allevatori: questi, nell’acquisto delle campane e nella successiva “accordatura” che vi applicano, perseguono un’idea musicale basata sull’ottenimento di precise distanze intervallari. Spesso il punto di riferimento per tali distanze intervallari è dato dalle canne della zampogna115: un ulteriore elemento relazionale fra lo strumento e i pastori. 110 111 112 113 STORY, Roba di Roma. La Campagna Romana, cit, p. 65. Ibidem. Idem, p. 63. Si veda D. CARPITELLA, Ritmi e melodie di danze popolari in Italia, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma, 1956, anche in Id. Musica e tradizione orale, cit., pp. 145-166. Il saltarello della Campagna romana presenta, nelle sue funzioni sociali e culturali, caratteristiche analoghe a quelle delle tammurriate campane, che vengono danzate nell’area vesuviana e che hanno anch’esse un corrispettivo urbano nella tarantella di Napoli. Sull’argomento si rimanda alle osservazioni di R. DE SIMONE, Canti e tradizioni popolari in Campania, Latoside, Roma, 1979, pp. 23-35. 114 Per un’analisi coreutica del saltarello alto-sabino, si veda D. M. CARBONE, Trascrizione del movimento e danze tradizionali. Analisi di un saltarello di Amatrice, in «Culture musicali», IV, 7-8, 1985, pp. 3-55. 115 Per un ampio studio intorno a questo fenomeno, con riferimento alla Calabria, si veda RICCI, Ascoltare il mondo, cit., pp. 120-132. Per il Lazio, si veda E. DI FAZIO, Gli strumenti musicali nei Monti Lepini, Ut Orpheus, Bologna, 1997, pp. 77n. 40 Naturalmente le rappresentazioni visive dello strumentario popolare appaiono condizionate dalla soggettività e dalla intenzionalità degli autori: ciò è constatabile nella selezione di immagini riprodotte in questo volume, dove si ritrovano diverse soluzioni e scelte. In particolare, nei dipinti e nelle incisioni la riproduzione degli strumenti è a volte particolarmente realistica, altre volte imprecisa o appena accennata. Spesso sono invece le posture esecutive a venire evidenziate con particolare attenzione. Nelle fotografie “di genere” gli strumenti musicali fungono da elementi emblematici nella ricostruzione di scene e di personaggi e tuttavia si offrono anche a un’osservazione oggettiva delle loro caratteristiche morfologiche. In ogni caso, le informazioni che queste immagini ci offrono per una conoscenza dell’organologia della Campagna romana sono di grande interesse e si integrano fra di loro in modo straordinario, restituendo, spesso con efficacia, aspetti cinesici e prossemici dei suonatori, oltre a particolari illuminanti sugli elementi morfologici e strutturali dei diversi strumenti. Com’è ovvio, tuttavia, soltanto le registrazioni sonore, effettuate coinvolgendo i suonatori rappresentativi delle comunità locali, sono in grado di restiturci la pienezza delle informazioni di carattere organologico, musicale ed espressivo intorno agli strumenti musicali dei contadini e dei pastori, per le quali si raccomanda, dunque, l’ascolto dei brani contenuti nel disco allegato. I. Nella Campagna romana la zampogna è presente nelle sue due tipologie, a chiave e zoppa, quest’ultima ulteriormente tipizzata nelle ciaramelle amatriciane. Aerofono ad ancia polifonico, a suono continuo, a riserva d’aria, la zampogna è costituita da un canneggio in legno raccordato entro un ceppo tronco-conico e da un otre di pelle di pecora o di capra (da tempo anche di gomma), a cui è applicato un cannello per l’insufflazione. Il canneggio comprende tre-quattro canne di diverse misure con terminazioni a campana; ciascuna canna è munita di un’ancia doppia o semplice, inserita nella sua estremità superiore. Due canne, provviste di fori digitali, sono azionate separatamente: la destra (ritta, cantarina), più piccola, in funzione di canto, la sinistra (manca, trombone), più grande, in funzione di accompagnamento. Le altre canne sono bordoni (a suono fisso), detti contro o basso il maggiore, moschetta o sopranello il minore: ciascuno è composto di due elementi innestati a mortasa, che consentono di regolare la lunghezza complessiva del tubo e quindi la sua intonazione nella fase dell’accordatura. L’accordatura delle due canne melodiche avviene, invece, intervenendo sui fori digitali, i cui contorni posssono venire ridefiniti: ristretti mediante cera d’api, oppure allargati togliendo la cera in eccesso grazie a piccoli punteruoli di vari materiali. I punteruoli e la cera costituiscono dunque i consueti accessori della zampogna: i primi vengono tenuti appesi a una canna, eventualmente moltiplicati e raccordati in un telaietto; la seconda viene applicata, in un voluminoso grumo, al ceppo116. Il tipo a chiave prende nome da una chiave metallica che chiude l’ultimo foro della canna melodica sinistra, molto distanziato dagli altri; il suo meccanismo è protetto all’interno di un barilotto bucherellato scorrevole. Le canne melodiche, spesso in due pezzi, si differenziano notevolmente per dimensioni e non presentano alcuna corrispondenza tra i fori digitali. Sono intonate all’ottava, mentre i bordoni sono intonati sul quinto grado della scala. A volte il bordone minore viene disattivato e il canneggio funzionale risulta composto di tre canne117. Lo strumento, che monta ance doppie di canna, è diffuso, nel Lazio, in un territorio in gran parte già appartenuto alla Campania: Monti Ausoni e Aurunci e val di Comino dove – come si è detto – è anche attivo il centro di costruzione di Villa Latina118. La zampogna a chiave viene generalmente suonata in coppia con la ciaramella, un oboe popolare detto piffero bifero, bifera, fornito di otto-nove fori digitali, a cui sono affidate le parti “cantabili”. Zampogne a chiave e pifferi vengono costruiti in diverse taglie, le cui dimensioni e tonalità sono convenzionalmente indicate da misure numeriche, fra cui le più comuni sono la 25 (in Lab) e la 28 (in Fa#), eventualmente anche basse119. La combinazione fra i due strumenti dà luogo al classico duo dei pifferari. Spesso ritratti davani alla immagini sacre in atteggiamenti stereotipati, a volte questi insiemi si ampliano fino a trequattro elementi, con uno o due raddoppi del piffero, che generalmente è sempre affidato a giovani esecutori, in ragione del notevole sforzo di fiato necessario per l’esecuzione. 116 Sull’impianto generale delle zampogne calabresi, si vedano: F. GUIZZI, R. LEYDI, Le zampogne in Italia, vol. 1, Ricordi, Milano, 1985; R. LEYDI, Typological Outlines of the Italian Bagpipes, in «Studia Instrumentorum Musicae Popularis», IX, 1989, pp. 108-120. 117 Di recente, su imitazione di alcuni tipi di zampogne della Calabria, è entrato in uso un bordone di lunghezza doppia, intonato all’ottava inferiore. Si veda A. RICCI, Musicisti e zampogne del Lazio meridionale, in M. Gioielli (a cura di), La zampogna: gli aerofoni a sacco in Italia, Iannne, Isernia, in corso di stampa. 118 Sulle zampogne a chiave laziali, si vedano: RICCI, Musicisti e zampogne del Lazio meridionale, cit.; R. TUCCI, Val di Comino, in A. Sparagna, R. Tucci, La musica popolare nel Lazio, Regione Lazio - Master Print, Roma, 1990, pp. 88-99; DI FAZIO, Gli strumenti musicali nei Monti Lepini, cit., pp. 71-78. 119 Presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari sono esposte due zampogne costruite a Villa Latina, di misure 25 e 30 (o 28) bassa: si veda TUCCI, Catalogo, cit., pp. 279-292. 41 La zampogna di tipo zoppo è un modello melodicamente autonomo; viene accompagnata dal tamburello nei repertori di danza. Presenta una minore differenza fra le misure delle due canne melodiche, che sono intonate per quarte mentre i bordoni restano intonati sul quinto grado. Lo strumento è sicuramente più antico del tipo a chiave ed è dotato di un impianto musicale maggiormente arcaico. La sua diffusione comprende diverse aree del Lazio. Particolare rilievo ha assunto, fino a un recente passato, nell’alta valle dell’Aniene, dove si caratterizza per l’uso delle ance semplici, per alcuni dettagli morfologici e per un repertorio musicale composto di balli e di lunghe suonate dalla struttura non strofica, basate sulla ripetrizione e sulla micro-variazione, impermeabili ai mutamenti e alle influenze esterne120. Questo tipo di zampogna è senza dubbio prevalente nell’iconografia della Campagna romana: segno che lo strumento vi ha circolato, portato dagli anticolani, stagionali frequentatori del territorio. Nella val di Comino e nell’area dei monti Ausoni-Aurunci, la zampogna zoppa viene anche utilizzata in abbinamento con la ciaramella e viene pertanto costruita con le medesime modalità di misure applicate alla zampogna a chiave121. Un particolare modello di zampogna zoppa, anch’esso largamente presente nell’iconografia della Campagna romana, è dato dalle ciaramelle amatriciane: uno strumento dotato di proprie specifiche caratteristiche organologico-musicali. Diffuso nell’alta Sabina laziale e nei confinanti territori abruzzesi, si distingue soprattutto per il canneggio funzionale, che si limita alle due canne melodiche, dette femmina la destra e maschio la sinistra, mentre l’unico bordone presente è disattivato e mantenuto per motivi estetici. Le ciaramelle122, che montano ance doppie di canna, hanno un repertorio legato al ballo (saltarello) e alla ritualità tradizionale del matrimonio (sonata per la sposa), ma, come si è detto, vengono anche usate per accompagnare il canto a poeta123. Fra i repertori delle zampogne, sia a chiave sia zoppe, vi è l’accompagnamento al canto, secondo una modalità esecutiva detta “alla zampogna”, che si realizza in stili locali caratterizzati dalla voce a distesa (alla stesa), intrecciata e fusa con quella dello strumento124. II. La zampogna è uno strumento legato all’ambiente dei pastori. È tuttavia anche uno strumento altamente specializzato, la cui prassi musicale e la cui manutenzione richiedono notevoli doti ed esperienza. Nelle dinamiche dei cambiamenti e delle sostituzioni lineari125, l’organetto, strumento meccanico azionato da un mantice, si colloca come “moderno” sostituto della zampogna126, con la quale mantiene strette analogie, condividendone l’impianto polivocale, il suono continuo e il dispositivo ad ancia (che qui però è libera, di metallo). A differenza della fisarmonica, di cui è parente stretto, l’organetto è uno strumento diatonico a doppia intonazione (a ogni tasto corrispondono due diverse note, in base all’apertura o alla chiusura del mantice), dotato di una tastiera melodica, con almeno dodici tasti, e una tastiera dei bassi, con almeno due bassi, collocate nelle rispettive casse. Vi sono vari modelli: i principali sono a due, a quattro e a otto bassi. Viene costruito industrialmente o semi-artigianalmente nelle Marche e in Abruzzo e ha nel Lazio un’ampia diffusione e un uso legato a feste religiose, sagre, periodiche gare fra suonatori, oppure alla cerimonialità e convivialità quotidiana. Il suo repertorio è costituito essenzialmente da brani per danza e dall’accompagnamento al canto. 120 Si vedano i dischi con i rispettivi opuscoli: E. DE CAROLIS, Il Lazio: i canti e le zampogne, voll. 1-3, LP Albatros VPA 8314, 8348, 8384, 1976-78. Inoltre: M. CIGNITTI, La zampogna zoppa nella comunità agropastorale sublacense, in «Aequa. Indagini storico culturali sul territorio degli Equi», III, 6, 2001, pp. 23-26; E. DI FAZIO, La pastorella di Riofreddo, in «Aequa. Indagini storico culturali sul territorio degli Equi», IV, 8, 2002, pp. 5-10; R. TUCCI, Valle dell’Aniene, in A. Sparagna, R. Tucci, La musica popolare nel Lazio, cit., pp. 59-71; R. TUCCI, La zampogna “zoppa” dell’alta valle dell’Aniene, in M. Gioielli (a cura di), La zampogna: gli aerofoni a sacco in Italia, Iannone, Isernia, in corso di stampa. 121 RICCI, Musicisti e zampogne del Lazio meridionale, cit. 122 La particolare terminologia di questo tipo di zampogna (corrispondente peraltro ad altre nomeclature in uso nell’Italia meridionale) ha spesso creato confusioni fra lo strumento e l’oboe popolare. Quest’ultimo viene convenzionalmente denominato con il termine campano di ciaramella, ma nelle varie regioni assume diversi nomi locali. 123 Sulle ciaramelle alto-sabine si vedano: P. G. ARCANGELI, G. PALOMBINI, Sulle ciaramelle dell’alta Sabina, in «Culture musicali», III, n. 56, 1984, pp. 169-198; PALOMBINI, Le ciaramelle di Amatrice. La tradizione della zampogna in Alta Sabina, LP cit.; ARCANGELI, PALOMBINI, PIANESI, La Sposa lamentava e l’Amatrice..., cit., pp. 67-76, 124-138. 124 Tra i vari repertori regionali e locali legati alla zampogna dell’Italia centro-meridionale, il canto “alla zampogna” si distingue per una sua uniformità stilistica che lo rende, nel complesso, il meno differenziato di tutti. Sulle caratteristiche delle modalità esecutive del canto “alla zampogna”, si veda, con riferimento alla Basilicata, G. ADAMO, Musica come evento sonoro: analisi acustica di canti a zampogna della Basilicata, in R. Dalmonte, M. Baroni (a cura di), L’analisi musicale, Unicopli, Milano, 1991, pp. 221-240. 125 Per le questioni inerenti le sostituzioni lineari fra strumenti più arcaici e strumenti più moderni, appartenenti alla medesima classe organologica (in questo caso quella degli aerofoni) e dotati di caratteristiche in parte analoghe, si veda R. TUCCI, Gli strumenti musicali popolari italiani: questioni e problemi, in Simeoni, Tucci, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. La collezione degli strumenti musicali, cit., pp. 39-47. 126 La costruzione dell’organetto prende avvio, in Italia, nella seconda metà dell’Ottocento. Sullo strumento si veda F. GIANNATTASIO, L’organetto. Uno strumento musicale contadino dell’era industriale, Bulzoni, Roma 1979. 42 Nell’iconografia della Campagna romana lo strumento è presente in misura subordinata alla zampogna, senza quella preponderanza che altrove ha assunto nel tempo. III. Tipico degli ambienti pastorali, il flauto è spesso collocato a rappresentare il pastore, come uno dei suoi oggetti maggiormente individuanti accanto a un certo tipo di abbigliamento. Nell’iconografia lo strumento non sempre appare raffigurato in tipologie riconoscibili; tuttavia sicuramente quella a fessura interna, con o senza becco, appare la più comune. Lo strumento, spesso di canna, autocostruito, viene generalmente realizzato in due versioni: un modello di piccole dimensioni, con tre-quattro fori digitali, e un modello più grande, con sette-otto fori digitali. Il primo è il preferito dai pastori per la sua maneggevolezza e portatilità e per l’utilizzo della scala armonica che si ottiene forzando l’emissione dell’aria (iperinsufflazione). Il flauto a fessura si ricava anche da altri materiali naturali, fra cui il corno e l’osso animali. Nei motivi narrativi popolari del Lazio, come di altre regioni italiane, il flauto di osso si lega a un’uccisione ingiusta. Nei racconti legati a questo tema la trama fa riferimento a un flauto ricavato dall’osso di una persona uccisa a tradimento, nel quale la vittima si reincarna; al culmine della vicenda, il flauto comincia a cantare da solo, rivelando l’omicidio e il suo carnefice127. Altri tipi di flauti, come quello pluricalamo (di Pan) o traverso, sono di più raro uso. Durante la primavera i pastori suonano e costruiscono flauti effimeri di corteccia, ricavandoli da giovani rami di varie essenze locali128. IV. Fra gli strumenti a percussione, il tamburello, detto anche tamburella, è diffusamente presente nell’iconografia della Campagna romana, così come in quella riguardante Roma. Compare sempre in mani femminili ed è infatti lo strumento musicale popolare proprio delle donne: un ruolo ricoperto fin dall’antichità pre-cristiana che trova riscontro nella letteratura demologica italiana relativa alle regioni centro-meridinali e che è ancora oggi attuale129. Lo strumento, un tamburo a cornice monopelle, si compone di una membrana di pelle animale tesa su un telaio circolare ricavato da una striscia di legno, lungo il quale sono di solito alloggiate coppie di cimbali metallici. Spesso, per rafforzarne la sonorità “metallica”, vi si aggiungono bubboli e campanelli, appendondoli all’interno della cornice oppure a un filo di ferro fissato diametralmente da banda opposta lungo la cornice stessa. Le dimensioni dello strumento variano in base alle diverse tradizioni locali e all’età della persona a cui lo stesso è destinato, che può essere anche una bambina. In generale, tuttavia, gli strumenti di grandi dimensioni sono preferiti all’aperto, soprattutto se devono sostenere volumi di suono di una certa entità, come quelli della zampogna o dell’organetto130. Il tamburello viene spesso autocostruito dai suonatori, che ricavano la cornice da vagli o setacci sfondati. In passato il legno, e talvolta anche la pelle, venivano decorati con pitture colorate applicate all’interno o all’esterno: un modo di appropriazione e di personalizzazione di uno strumento la cui estetica è altrimenti molto seriale. Oggi la prassi di decorare i tamburelli, non è più praticata: tanto più preziose appaiono le testimonianze iconografiche della Campagna romana, che invece, abbondano di tamburelli dipinti131. Lo strumento viene suonato tenendo la cornice dal basso con la mano sinistra e percuotendo la pelle con la mano destra, secondo varie tecniche. La sinistra contribuisce all’esecuzione imprimendo allo strumento, con 127 Il tema è classificato come AT 780 (Reincarnazione da uno strumento musicale), si veda S. THOMPSON, La fiaba nella tradizione popolare, traduzione di Q. Maffi, Il Saggiatore, Milano, 1967 (ed. orig. 1955-58), pp. 197-98, 359, 599. Si veda anche F. CARUSO, Il cantato nella fiaba di tradizione orale: uno studio preliminare, in «Lares», LXII, 3, 1996, pp. 421-440. 128 Sul flauto di corteccia si vedano: DI FAZIO, Gli strumenti musicali nei Monti Lepini, cit., pp. 15 sgg.; A. RICCI, R. TUCCI, Su uno strumento musicale effimero: il flauto di corteccia, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», XXIII, 4, 1989, pp. 563-577; TUCCI, Catalogo, cit., pp. 223-232. I pastori utilizzano vegetali freschi (foglie, steli di graminacee, le stesse cortecce, ecc.) per ricavare anche altri strumenti effimeri, quali ance semplici e doppie, ance a nastro, fischietti di vario tipo, mirliton, ecc. 129 Si veda C. SACHS, Storia degli strumenti musicali, cit. Nel Lazio il tamburello è tuttora praticato dalle donne nelle aree dell’alta Sabina e della valle dell’Aniene; in quest’ultimo territorio, in particolare, ha anche mantenuto repertori propriamente femminili: ne è un esempio, il brano 4 del disco allegato. Anche a Roma lo strumento ha avuto un’analoga prassi esecutiva: lo testimonia, ad esempio, l’ampia iconografia pinelliana, dove il tamburello è raffigurato nelle mani di donne, ragazze e bambine, a volte associato a contesti prettamente femminili, come ad esempio, il gioco dell’altalena (canofiena). Si veda, per tutti, B. PINELLI, Raccolta di cinquanta costumi pittoreschi incisi all’acqua forte da Bartolomeo Pinelli romano in Roma, Roma, 1809, Tav. 11, mentre, fra le tante immagini di popolane romane con tamburello, si vedano i due bei ritratti di Joseph Stallaert, in M. FAGIOLO, M. MARINI (a cura di), Costume di Roma 800, De Luca, Roma, 1978, pp. 34-35. 130 Sul tamburello in Italia si veda F. GUIZZI, N. STAITI, Le forme dei suoni: l’iconografia del tamburello in Italia, a cura di N. Staiti, Giorgi&Gambi, Firenze, 1989. 131 Per una collezione di tamburelli dipinti provenienti da diverse regioni centro-meridionali italiane e conservati presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, si veda TUCCI, Catalogo, cit., pp. 162-184. 43 il polso, un leggero movimento rotatorio intorno al proprio asse, che provoca anche la vibrazione dei cimbali metallici. Spesso si nota un’inversione delle due mani, non sempre dovuta a una preferenza biologica, ma a fattori di scelte locali, personali o rituali. Lo strumento viene usato per accompagnare il canto e la danza, in unione con zampogna, organetto e altri strumenti a fiato o a corda. V. Corrispettivo maschile del tamburello è il tamburo militare (tammuru): un tamburo cilindrico a bacchette, bipelle, con cordiera132, suonato esclusivamente da uomini e oggetto di specifiche dinamiche di apprendimento e di specializzazione. Il tammuraro viene ingaggiato dalle comunità paesane per accompagnare i diversi momenti delle occasioni festive e rituali, per ciascuna delle quale egli dispone di una specifica suonata. Nella valle dell’Aniene è documentata la centralità di questa figura per lo svolgimento del ciclo festivo annuale e anche della cerimonialità legata ai lavori agricoli nella Campagna romana133. A Roviano, durante il carnevale, il tammuraro partecipava al corteo dei braccianti, nel quale ricopriva un’indispensabile funzione regolatrice all’interno di un rituale denso di latente conflittualità sociale: I braccianti lo attendevano in un punto prestabilito della campagna e di lì davano avvio al corteo, portandosi appresso il padrone legato con funi. Il suonatore li accompagnava lungo tutto il tragitto, fino in paese, dove nel frattempo la padrona aveva approntato un rinfresco con dolci e vino in abbondanza. La giornata terminava con il ballo, il saltarello (sardareju), accompagnato dal tammuru in alternanza alla zampogna134. Ancora oggi, in quell’area, non è difficile imbattersi nel tammuraro che accompagna le processioni religiose in occasione di qualche evento festivo come ad esempio la festa di Sant’Anatolia a Gerano (Rm)135. L’appartenenza del tamburo militare alla sfera maschile trova riscontro nella versione giocattolo dello strumento, che veniva appositamente acquistato per i maschietti, i quali vi si “esercitavano” osservando e imitando i suonatori adulti, e avviando un percorso che in alcuni casi li avrebbe portati all’esercizio di un vero e proprio mestiere. VI. Gli strumenti a corde hanno una presenza trascurabile negli ambienti agro-pastorali; compaiono invece spesso nei contesti artigiano-paesani e urbani, nelle mani di suonatori che esprimono una cultura musicale più permeabile agli incontri e ai sincretismi. Cordofoni a pizzico, come e soprattutto chitarra, mandolino, mandola136, violino, sono ampiamente rappresenti nelle scene di vita romana riproposte da Bartolomeo Pinelli e degli altri artisti del suo tempo137, in accompagnamento al saltarello e alle serenate, nelle feste e nella vita quotidiana. In città, sono anche gli strumenti dei suonatori ambulanti, mentre nei paesi sono praticati da barbieri, sarti e altri artigiani138. Tuttavia l’idea di musica che con essi viene espressa, sia pure nell’ambito di ceti popolari e popolani, resta distante dall’espressività etnico-musicale dei contadini e degli allevatori della Campagna, che nonostante abbiano sempre intrattenuto un rapporto con Roma, hanno vissuto separatamente nei loro ambienti, trovando in essi i propri punti di riferimento, i propri linguaggi, la propria musicalità. 132 Sul tamburo militare si veda J. BLADES, Gli strumenti a percussione dell’orchestra, in A. Baines (a cura di), Storia degli strumenti mu- sicali, Rizzoli, Milano, 1983, pp. 363-366. 133 A. RICCI, R. TUCCI, Il tamburo di Roviano, in Fedeli Bernardini, Simeoni, Ricerca e territorio, cit., pp. 217-220. 134 Idem, p. 217. Rituali di mietitura accompagnati dalla zampogna, caratterizzati dalla vessazione rituale del padrone, sono documentati per la Basilicata da E. DE MARTINO, La messe del dolore, in Id., Furore, simbolo, valore, Il Saggiatore, Milano, 1962; riediz. Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 213-223. Per Roviano si può ipotizzare che lo spostamento del rito al carnevale – fattore di cristallizzazione rituale – fosse dovuto proprio al fatto che nel periodo della mietitura i braccianti erano assenti dal paese, impegnati nei lavori agricoli in Campagna romana. 135 L’uso cerimoniale del tamburo militare è anche documentato nel vicino Abruzzo, si vedano: A. DE NINO, Tradizioni popolari abruzzesi (scritti inediti e rari), vol. I, a cura di B. Mosca, Japadre, L’Aquila, 1970, p. 141; G. GIOVANNELLI, Li tamurre in area abruzzese, Editrice Italica, Pescara, 1982. 136 Per mandola è da intendersi tanto il colascione di cui si è già detto alla nota 108, quanto il più moderno mandolino tenore, tagliato un’ottava sotto al mandolino. Nell’iconografia si distinguono anche spesso mondoloncelli a cinque corde. 137 M. FAGIOLO, M. MARINI, Bartolomeo Pinelli (1781-1835) e il suo tempo, Centro Iniziative Culturali Pantheon, Roma, 1983. 138 Per un esempio di repertori artigiani eseguiti con strumenti a corda, relativi all’area dei monti Lepini, si veda E. DI FAZIO, Lazio: Monti Lepini. Vecchi balli, CD Nota 3.08, 2000. 44