Cahiers Marocains di meo 2011 QUESTO BEL QUADRO CHE CONTIENE TANT’AFFRICA E TANTA ITALIA “L’ambasciatore d’Italia ha fatto una buona azione: Allà benedica tutti i peli della sua barba!” Tangeri, primavera 1875. E’ una scena madre del diario di viaggio di Edmondo De Amicis in Marocco. L’Ambasciatore in questione è l’Incaricato di Affari italiano Stefano Scovasso, che aveva conosciuto a Suez, pochi anni prima, l’affermato artista fiorentino Stefano Ussi (1822 – 1901) e l’esordiente romano Cesare Biseo (1843 – 1909), e li aveva invitati con il De Amicis ad unirsi all’Ambascerìa in Marocco, da lui guidata. “Lo scopo principale del viaggio, per l’incaricato d’Affari, era di presentare le credenziali al giovine sultano Mulei el Hassen, salito al trono nel settembre 1873. Nessun’ambasciata italiana era mai stata a Fez. Era la prima volta che si portava nell’interno del Marocco la bandiera della nuova Italia. (..) Il pittore Ussi di Firenze, il pittore Biseo di Roma ed io eravamo invitati privatamente dal signor Scovasso.” (p.11) Era consuetudine europea, sin dall’epoca napoleonica, quella di accompagnare le spedizioni diplomatiche con la presenza di scrittori e disegnatori, a rappresentare le due anime del reportage di viaggio. Benché molti viaggiatori europei in Africa e Medio Oriente (primo tra tutti, Gustave Flaubert) si accompagnassero a fotografi sin dall’età del dagherrotipo, il primato del disegno restava indiscusso. Il taccuino e la matita consentivano innanzitutto agli artisti una ‘presa diretta’ leggerissima. Ma soprattutto, la vera ‘istantanea’ era ancora quella dello sguardo e del ‘taglio’ d’artista. I taccuini di Cesare Biseo, le efficaci macchiette di cui è cosparso ‘Marocco’, stanno a testimoniarlo. Nascono come illustrazioni al fianco di uno scrittore aneddotico e macchiettista per eccellenza, qual è De Amicis, ma sicuramente forniscono anche spunto di riflessione al narratore stesso, una volta tornato a casa, mentre mette a posto le sue carte. Bisogna ammettere che, a fronte dell’epopea romantica dell’orientalismo francese di Eugene Delacroix, la declinazione italiana è connotata da una particolare attenzione e sensibilità all’umanità mediterranea. Una certa base di partenza, però, è comune, e consiste nello stupore provato di fronte alla classicità di postura e compostezza di marocchini e algerini. Si ricorderà che Delacroix, nel Journal del viaggio in Algeria e Marocco (1832), aveva più volte sottolineato che alla sua porta c’erano figure classiche, intente ad intrecciarsi i calzari; De Amicis gli fa quasi eco, quando racconta che a Tangeri “Ognuno di costoro arieggia un senatore romano. Stamattina l’Ussi ha scoperto un meraviglioso Marco Bruto in mezzo a un gruppo di beduini. Ma se non ci è abituata la persona, non basta la cappa a nobilitar la figura.” (p.19) In questo senso, i vividissimi acquerelli realizzati da Ussi in Egitto, in preparazione del dipinto per ‘Il trasporto del tappeto alla Mecca’, continuano a costituire per lo storico dell’arte orientalista un’emozione e una sorpresa, giocati come sono su macchie assolute, con arditi controluce e tagli inusitati, certamente memori di esperienze fotografiche. Il successo internazionale del grande ‘Trasporto del tappeto sacro alla Mecca’, esposto a Vienna nel 1873 e acquisito dal sultano ottomano, comportò un eco riflessa su molti orientalisti italiani, e ne rese gradito l’intervento nelle grandi capitali d’Oriente, da Istanbul a Damasco, dal Cairo a Beirut a Tunisi e Algeri (vedi il film Un dipinto italiano sulle rive del Bosforo, a cura di Maria Antonella Fusco, regia di Stefano Scialotti, prodotto dal Ministero per gli Affari Esteri, 2010). Quando incontriamo di nuovo Ussi a Tangeri, in compagnia del più giovane Biseo, il tandem artistico è evidentemente formato: c’è una forma di singolare sussidiarietà tra il giovane artefice, prontissimo in ogni occasione con matita e taccuino, e il maturo pittore, che per questa inusitata avventura ha lasciato a Firenze, nello studio, uno dei suoi capolavori di pittura storica, per i quali ancora oggi è noto al grande pubblico. Ironicamente, durante una drammatica traversata del Sebù, De Amicis racconta che ‘scendemmo nella terribile pianura, confidando nella clemenza di Dio. A un certo punto si sentì la voce del Comandante il quale ci annunziava che era già morto un cavallo. (..) Si sa, i cavalli muoiono per primi. Anche queste parole furono seguite da un silenzio mortale. Dopo mezz’ora, si sentì la voce fioca d’un altro che domandava all’Ussi a chi avrebbe lasciato il suo quadro di Bianca Cappello. Per tutto il tragitto non si sentirono altre parole (p.374). Provai a metter mano fuori dalla tenda: la terra era rovente. Nessuno parlava più (..). S’affacciò un momento l’Ussi, cogli occhi fuor dalla testa, alla porta della tenda, mormorò con voce soffocata -Si muore- e disparì.” (p.379) Questo viaggio sembra compiuto in nome di una rappresentazione inedita della nuova Italia, da poco unita politicamente, e che stenta a proporsi come soggetto politico ed economico unitario. E’ una modernità di visione a tutto campo, anche visivo: le quattro tele di Ussi, corrispondenti alle quattro tavole fuori testo di Marocco, sono di un formato oblungo (50.5 x 118), una sorta di cinemascope rafforzato dalla circolarità dei grandi orizzonti. Campi lunghi, cieli aperti e profondi, giovano alla disposizione di molte figure e di diversi episodi in contemporanea. A fronte della frammentarietà delle piccole illustrazioni di Biseo, Ussi opera in sole quattro tavole una sintesi narrativa efficace e molto suggestiva. E’ anche una sintesi tra documentarismo e rinnovata concezione di pittoresco, quel pittoresco del mondo moderno di cui De Amicis si rende alfiere in più passi, innanzitutto rappresentando le modalità di raccolta di elementi per l’atelier, da parte del pittore orientalista. Così, al momento della partenza da Fez, gli artisti fanno incetta di oggetti di repertorio, il classico trovarobato venuto in voga con l’atelier di Mariano Fortuny y Marsal. “Essendo vicino il giorno della partenza, i negozianti accorrono in folla al palazzo e si compra a furia. (..) Fra tutte, è bella a vedersi la stanza dei pittori, convertita in una gran bottega di rigattiere, piena di selle, di staffe, di fucili, di caffettani, di ciarpe lacere, di terraglie, di orecchini barbareschi, di vecchie cinture da donna, venute Dio sa di dove, che hanno forse sentito molte volte la stretta amorosa delle braccia imperiali, e forse l’anno venturo luccicheranno in un quadro magistrale alla mostra di Napoli o di Filadelfia. “ (p.335) Fino all’esaltazione finale, della gita di De Amicis ad Arzilla (la Zilia dei cartaginesi): “Ci dirigemmo dunque tutti insieme, girando intorno alla città, verso la riva del mare. Ah! Se m’avessero visto, in quel breve tragitto, l’Ussi e il Biseo! Quanto dovevo esser pittoresco io, rappresentante d’Italia in groppa a una mula, con una ciarpa bianca attorcigliata intorno al capo, seguito dal mio stato maggiore composto d’un cuoco in maniche di camicia, di due marinai armati di bastone e d’un moro stracciato! O arte italiana, quanto hai perduto!”. Maria Antonella Fusco ccidente Li chiamavano, e li chiamano ancora, “orientalisti”, anche quando, come Stefano Ussi e Cesare Biseo, si trovano a illustrare le avventure diplomatiche di Edmondo De Amicis in Marocco, terra che, come é noto, si trova ad Occidente dell’Europa. In realtà, si tratta di un errore solo parziale. L’Oriente ottocentesco, evidentemente, è da ricercare nella storia e nella cultura, piuttosto che nella geografia. Fin dai tempi di Ingres e Delacroix, i primi a declinare in termini pittorici la fascinazione romantica per l’esotico che aveva già contraddistinto, in un’aura ancora neoclassica, lo Stile Impero, o, ancora prima, le chinoiseries del Rococò, l’Oriente corrisponde, principalmente, al mondo arabo-musulmano. Era stato proprio Delacroix, precursore di De Amicis e compagni nel giungere in Marocco per motivi diplomatici, a indicare secondo quale orizzonte, culturale, ma anche sentimentale, la terra africana poteva essere considerata Oriente, in modo altrettanto legittimo di quanto non si farebbe con le odalische, gli harem e i bains turcs del rivale Ingres. In Italia, l‘Orientalismo ha un promotore d’eccezione, Francesco Hayez, il principe dei nostri artisti romantici. Come Ingres, Hayez non aveva mai avuto esperienze dirette di Oriente, ma non era per forza uno svantaggio. Bastava immaginarselo, non c’era bisogno che fosse veritiero, visto che la sua vera funzione era quella di dare immagine alle fantasie e alle aspirazioni dell’Occidente; meglio, di un certo Occidente, quello culturalmente più illuminato, che sentiva imbarazzo per la motivazione - la superiorità civile - con cui si giustificava il colonialismo. Il Romanticismo è figlio critico del progresso occidentale, guarda con diffidenza alla modernità e con indulgenza al passato, perfino al Medioevo, come se l’evoluzione dei tempi stesse compromettendo il rapporto primordiale dell’uomo con la natura. L’Oriente è, in questa luce, il luogo mitico dove la gente veste ancora all’antica, fuori dalle convenzioni della borghesia occidentale, e i cui costumi assegnano ancora un ruolo primario all’istinto, il vigore, la passionalità, il piacere dei sensi. E’ quest’ultimo l’aspetto su cui più si concentra Hayez, pittore di grande carica erotica, non solo quando realizza disegni licenziosi da cassetto, esibendosi in pose da kamasutra con l’amata modella Carolina Zucchi, ma anche in dipinti ufficiali che suscitavano lo scandalo dei benpensanti, per l’inedita, morbida sensualità con la quale raffigurava la carne femminile. Le odalische di Hayez, formalmente compiute secondo la lezione di Ingres, sono promesse d’amore come non sarebbe più possibile fare in Occidente, o almeno così si immagina, intrise, allo stesso modo, di purezza e di mistero. Ci sono, però, anche altri modi di vedere l’Oriente nella pittura romantica italiana. Domenico Morelli eredita da Delacroix una concezione dell’Oriente non solo tematica, come soggetto, cioé, solamente esotico, ma come fattore in grado di modificare la percezione estetica del mondo, cosa che nel pittore deve comportare, necessariamente, uno specifico adeguamento espressivo. Non è possibile, per Morelli, dipingere un bagno turco rifacendosi a Raffaello, ovvero a un modello occidentale per antonomasia, come faceva Ingres; bisogna assecondare la diversità dell’Oriente, sforzandosi di renderla artisticamente in modo nuovo, liberando l’energia emotiva del colore, capace, per esempio, di rendere perfettamente le atmosfere sensuali e sfarzose dell’hamman, sature di vapori che offuscano la vista. E’ la ripresa del pittoresco, in una chiave non più di resa moderna del sentimento di natura, come ancora avvertiamo nelle vedute di Ippolito Caffi, Alberto Pasini, Carlo Bossoli, in concorrenza con la rigidità metafisica della fotografia nell’esaltare la vivacità di spirito del colore locale, ma di metodo della verità sensoriale, consolidatosi, ai tempi di Mosé Bianchi, anch’egli orientalista con spiccata vocazione per il letterario e il teatrale, fino al punto di sfiorare gli esiti impressionisti. Col fiorentino Stefano Ussi, pittore e patriota risorgimentale, viaggiatore nell’Egitto del nuovo Canale di Suez prima di giungere in Marocco, l’Orientalismo italiano dell’Ottocento conosce il suo canto del cigno. Le istanze di Hayez, Morelli, del vedutismo esotico, sembrano trovare, in Ussi, un coerente punto d’incontro, malgrado la molteplicità delle visioni a cui sottopone il suo Oriente, ora spregiudicate nel fare del colore l’elemento portante di composizioni corali assai animate, ora inclini a recuperare, nei corpi torniti ed eleganti delle odalische, perfino l’ideale classico. Comune, in queste visioni, é un senso ingenuo, ma fresco e vitale, dell’avventura intelllettuale, della scoperta del diverso come nuova frontiera di conoscenza dell’uomo progredito; la stessa che assaporiamo nelle illustrazioni di Marocco, fatte a quattro mani con un altro eccellente orientalista di quei tempi, il romano Biseo. Vittorio Sgarbi dimeo.it gennaio 2011 1 sa 2 do 3 lu 4 ma 5 me 6 gi 7 ve 8 sa 9 do 10 lu 11 ma 12 me 13 gi 14 ve 15 sa 16 do 17 lu 18 ma 19 me 20 gi 21 ve 22 sa 23 do 24 lu 25 ma 26 me 27 gi 28 ve 29 sa 30 do 31 lu dimeo.it febbraio 2011 dimeo.it marzo 2011 dimeo.it aprile 2011 dimeo.it maggio 2011 1 do 2 lu 3 ma 4 me 5 gi 6 ve 7 sa 8 do 9 lu 10 ma 11 me 12 gi 13 ve 14 sa 15 do 16 lu 17 ma 18 me 19 gi 20 ve 21 sa 22 do 23 lu 24 ma 25 me 26 gi 27 ve 28 sa 29 do 30 lu 31 ma dimeo.it giugno 2011 dimeo.it luglio 2011 dimeo.it agosto 2011 1 lu 2 ma 3 me 4 gi 5 ve 6 sa 7 do 8 lu 9 ma 10 me 11 gi 12 ve 13 sa 14 do 15 lu 16 ma 17 me 18 gi 19 ve 20 sa 21 do 22 lu 23 ma 24 me 25 gi 26 ve 27 sa 28 do 29 lu 30 ma 31 me dimeo.it settembre 2011 dimeo.it ottobre 2011 dimeo.it novembre 2011 1 ma 2 me 3 gi 4 ve 5 sa 6 do 7 lu 8 ma 9 me 10 gi 11 ve 12 sa 13 do 14 lu 15 ma 16 me 17 gi 18 ve 19 sa 20 do 21 lu 22 ma 23 me 24 gi 25 ve 26 sa 27 do 28 lu 29 ma 30 me dimeo.it dicembre 2011 Per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Dipinti su tela, Acquarelli e Xilografie di Stefano Ussi e Cesare Biseo Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Roma, Galleria Nazionale d’ Arte Moderna progetto grafico cristina thompson - [email protected] impianti fotolito - www.jotype.com carta Insize Modigliani - Gruppo Cordenons Spa www.gruppocordenons.com stampa www.rotolitolombarda.it azienda agricola di meo 83050 salza irpina, avellino, I [email protected] www.dimeo.it