unità 8 Politica e società tra Ottocento e Novecento Riferimenti storiografici 1 Nel riquadro una veduta di Berlino nel 1905. Il numero degli abitanti della capitale tedesca crebbe notevolmente tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Sommario 1 2 3 4 5 L’espansione dell’industria tedesca I ceti medi in Germania all’inizio del Novecento La nascita dei grandi magazzini Il pensiero di Michail Bakunin Le incoerenze della borghesia F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 6 7 8 9 Da Sedan alla Comune Destra e Sinistra nel sistema liberale italiano Stato e classi lavoratrici negli anni Sessanta La fuga dall’Italia meridionale 1 L’espansione dell’industria tedesca UNITÀ 8 Nei decenni immediatamente seguenti l’unificazione nazionale, l’impero tedesco divenne una potenza economica di eccezionale livello, capace di produrre più acciaio dell’Inghilterra e di esportare i propri manufatti in tutto il mondo. In alcuni settori, inoltre, si crearono dei complessi giganteschi, che non avevano rivali neppure negli Stati Uniti. POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO 2 Stimolata da una domanda crescente e accelerata da una ricerca di vaste proporzioni, cominciò una seconda rivoluzione industriale. Se la prima ondata dell’industrializzazione aveva fatto per un secolo dell’Inghilterra l’officina del mondo, dal periodo a cavallo dei due secoli furono la Germania e gli Stati Uniti ad assumere la guida in settori chiave dell’industria del futuro. Massima importanza assunsero l’acciaio, la chimica dei colori e delle materie sintetiche e l’industria elettrica. Quest’ultima, in rapido sviluppo, fu quella che, con l’illuminazione elettrica ed il telefono, il ferro da stiro e le ferrovie, trasformò nel modo più deciso la vita quotidiana degli uomini. Dal 1860 al 1913 il prezzo dell’acciaio calò dell’80-90%. Il ribasso fu accelerato soprattutto a partire dall’applicazione del procedimento Gilchrist-Thomas per la produzione di acciaio basico ad un procedimento Bessemer migliorato, applicazione introdotta su vasta scala a partire dal 1880. Dalle 125 000 tonnellate prodotte dagli europei continentali nel 1861, la produzione raggiunse le circa 32 milioni di tonnellate del 1913. L’acciaio, ancora nella prima metà del diciannovesimo secolo una materia prima scarsamente diffusa ed estremamente costosa, sostituì il ferro fucinato. Il vecchio vantaggio dei britannici, basato sul fatto di avere sotto i loro piedi dei buoni minerali ferrosi a basso contenuto fosforico, trattabili sulla base del procedimento Siemens-Martin, venne annullato. Il perfezionamento del procedimento Bessemer permise alle acciaierie tedesche di trattare i minerali ferrosi della Lorena, la cui produzione era stata fino a quel momento quasi non redditizia, e i pressoché inesauribili giacimenti della Svezia. I tedeschi sfruttarono così il vantaggio di chi arriva tardi: cominciarono in modo sistematicamente scientifico, evitarono di percorrere strade più lunghe, concentrarono i loro impianti e puntarono, per poter resistere all’iniziale posizione di superiorità dei britannici, sulla razionalizzazione e la concentrazione. Già negli anni a cavallo dei due secoli le acciaierie tedesche erano diventate decisamente più grandi e più moderne di quelle britanniche. […] Grazie ad un migliore impiego del capitale e alla razionalizzazione sistematica, alla vigilia della guerra mondiale la capacità di produzione annuale di un metalmeccanico [un impianto, n.d.r.] della Ruhr o della Slesia aveva raggiunto le 77 tonnellate, mentre in Inghilterra era rimasta al di sotto delle 50. I tedeschi ne ottennero crescenti vantaggi in termini di prezzi di mercato. Alla vigilia della guerra, i produttori di acciaio di Essen erano in grado di vendere a prezzi del 20-25% inferiori a quelli dei loro concorrenti di Clyde. Già nel 1893 i tedeschi producevano più acciaio degli inglesi. Nel 1903 i tedeschi si attestarono al primo posto anche nella produzione di ghisa. Per un lungo periodo la costruzione delle industrie metallurgiche aveva assorbito gran parte della produzione tedesca ed americana. Ma a partire dagli anni a cavallo dei due secoli entrambe le nazioni si spinsero sul mercato mondiale. Già nel 1910 i tedeschi esportavano più ferro ed acciaio degli inglesi. E i produttori d’acciaio dell’isola dovettero accorgersi a loro spese che ormai l’acciaio d’esportazione tedesco della migliore qualità era in grado di contrastarli con successo anche sul mercato di casa. L’industria chimica, facente parte di uno dei settori più vecchi dell’industrializzazione, negli anni a cavallo dei due secoli conobbe innovazioni in molti ambiti e fu convertita per la produzione in massa. Dal 1866 era possibile produrre a buon mercato e su vasta scala l’alluminio – per molto tempo un metallo scarseggiante – ricavandolo dalla bauxite. Gli acciai legati [tipi particolari di acciaio, in cui la lega ferro e carbonio è arricchita da una o più ulteriori sostanze, n.d.r.] si conquistarono dei mercati specifici. Il mercato si espandeva ovunque – nel campo della produzione di cemento, in quello delle vernici, in quello della gomma e nell’industria ceramica – anche se quelli che sarebbero stati i più notevoli settori di applicazione del cemento e della gomma erano ancora di là da venire. I risultati più importanti furono ottenuti dal procedimento Solvay per la produzione della soda ammoniacale e dai progressi della chimica organica nella produzione di nuovi materiali. […] Un esempio di come la produzione e la domanda potessero trasformarsi è offerto dall’acido solforico, che veniva utilizzato in molti processi. Ancora negli anni a cavallo dei due secoli gli inglesi erano alla guida di questo settore. Ma solo dieci anni più tardi la produzione tedesca era ormai circa due volte superiore a quella inglese. Nel campo dei colori all’anilina le aziende tedesche – soprattutto BASF, Hoechst e Agfa – avevano raggiunto una posizione di dominio sul mercato mondiale già intorno al 1870; intorno al 1900 circa il 90% di tutti i coloranti sintetici erano di produzione tedesca. L’industria chimica controllava anche la maggior parte delle ditte affiliate all’estero. In Francia, alla vigilia della guerra, solo una fabbrica di coloranti era in mano ai francesi, mentre sei erano in mano ai tedeschi e due agli svizzeri. […] L’Inghilterra aveva cominciato come l’officina del mondo; un secolo più tardi, i tedeschi erano in procinto di diventarne la fabbrica. Un puro raffronto numerico a livello di produzione ed esportazione fra Inghilterra e Germania non rispecchia la situazione reale: era infatti soprattutto nelle industrie più antiche che l’Inghilterra manteneva la sua forza. Nella grande chimica e nell’elettrotecnica, le industrie scientifico-tecniche del futuro, che avevano cominciato a caratterizzare il volto della civilizzazione industriale moderna, i britannici erano decisamente distaccati, e per un lungo periodo gli stessi americani furono soltanto il numero due o il numero tre. M. STÜRMER, L’impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, il Mulino, Bologna 1993, pp. 417-421, trad. it. A. ROVERI Individua i principali dati e indicatori che dimostrano la crescente supremazia tedesca sull’Inghilterra, nella produzione di acciaio. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Lo sviluppo dell’industria e dell’economia tedesche, verso la fine dell’Ottocento, provocò anche malcontento e preoccupazione. Mentre gli artigiani non reggevano la concorrenza della produzione in serie, i piccoli artigiani osteggiarono la nascita delle prime catene di grandi magazzini. Nel 1890 la Germania era ormai la massima potenza industriale d’Europa. Ma i successi dell’industrializzazione tendevano a occultare [nascondere, mascherare, n.d.r.] il fatto che esistevano in realtà due Germanie: a far da sfondo all’impetuoso fiorire delle fabbriche della Ruhr o della Sassonia c’era un mondo di piccoli agricoltori e di piccole città che ancora nel 1914 rappresentava il 40 per cento della popolazione tedesca (la corrispondente cifra inglese era l’8 per cento). Le grandi città tedesche presentavano uno schieramento politico abbastanza simile a quello delle altre città europee: liberali di destra, liberali di sinistra, cattolici, socialisti. Ma l’intero schema era complicato da una dimensione agraria, la quale aveva a sua volta una componente di artigiani indipendenti. Intorno al 1900 il dibattito politico tedesco era dominato dalla questione del Mittelstand [classe media, ceti medi, n.d.r.]. […] Mittelstand non significava «borghesia». Il termine designava piuttosto quel mondo di agricoltori e artigiani indipendenti che stava tra il vecchio proprietario terriero e i suoi contadini. Sotto più di un profilo, il Mittelstand era la gloria della Germania settentrionale, come lo era della maggioranza delle civiltà protestanti. […] Finché le cose andarono bene, il liberalismo tedesco ricevé i voti del Mittelstand protestante. Ma già negli anni Novanta questa fedeltà cominciò a incrinarsi. La Germania del Mittelstand aveva molto di cui dolersi, e nei primi anni Trenta del nostro secolo [il Novecento, n.d.r.] avrebbe fornito a Hitler quella ch’era di gran lunga la sua principale base d’appoggio. Gli inizi di questo processo, e la conseguente dissoluzione del liberalismo tedesco, possono esser fatti risalire al penultimo decennio dell’Ottocento. Gli aspetti agrari del fenomeno erano abbastanza chiari. Il declino dei prezzi alimentari raggiunse la Germania malgrado le tariffe [la legislazione protezionistica finalizzata a limitare l’importazione di prodotti agricoli stranieri, n.d.r.]. Ebbe luogo un’imponente fuga dalla terra, col risultato di far lievitare i salari. I primi anni Novanta videro il momento peggiore della «Grande Depressione», e gli agricoltori – protestanti e cattolici – gridarono con violenza le loro rimostranze. Ciascuno tentò di far fronte alla caduta dei prezzi accrescendo la produzione, col risultato che i prezzi scesero ulteriormente. Contemporaneamente, dal lavoro di chimici ingegnosi stavano uscendo surrogati [sostituti, di peggiore qualità, ma meno costosi, n.d.r.] di alcuni beni agricoli. Spuntarono la «saccarina» e la «margarina». Furono inventate macchine per «vendere» bottiglie di birra nelle stazioni ferroviarie, e i birrai e gli osti locali videro minacciati i loro affari. […] Spiega l’espressione secondo cui esistevano «due Germanie». F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Questi ceti denunciarono il «manchesterismo», ossia la dottrina liberale [liberista, n.d.r.] secondo la quale i prezzi sia delle merci che del lavoro dovevano scendere o salire sino a raggiungere i loro naturali livelli di mercato, senza riguardo per i danni che tale processo poteva provocare. Gli agricoltori volevano protezione, e moltissimi di loro si spingevano oltre: volevano che lo Stato garantisse credito a basso tasso d’interesse, e addirittura un mercato. C’era anche un vivace risentimento antiebraico. Si pensava che gli ebrei approfittassero dei mali dell’agricoltura. […] Agli occhi di molti era il liberalismo tedesco nella sua totalità ad apparire come «ebraico». Negli anni Ottanta parecchi dei suoi uomini più in vista – tra cui Lasker, Bamberger e Richter – erano ebrei o mezzi ebrei, o avevano mogli ebree. I radicali Freisinn [gruppo parlamentare di orientamento progressista, n.d.r.] di Berlino avevano la loro più forte base d’appoggio nella comunità ebraica. Più di ogni altro gruppo, gli ebrei sembravano trarre vantaggio dalle novità moderne che si affermavano in Germania. In Prussia, su 100 000 maschi protestanti 58 completavano un ciclo d’istruzione superiore. Per i cattolici la cifra scendeva a 33, ma per gli ebrei saliva a 519. Né erano soltanto gli agricoltori a protestare. Anche il vecchio mondo artigiano – carradori [riparatori di carri, n.d.r.], calzolai, sarti, piccoli fonditori, lavoranti tessili a domicilio e simili – si trovava a fare i conti con la concorrenza delle merci prodotte in fabbrica, sia estere che nazionali. La nascita nelle città dei grandi magazzini – per esempio la catena Tietz, che cominciò con un bottegaio ebreo di Rostock, e si allargò in una rete di empori che copriva l’intero paese – provocò la protesta dei piccoli esercenti: spiazzati sul lato dei prezzi, si trovavano costretti a giornate lavorative lunghissime. Anche qui faceva capolino l’antisemitismo, questo «socialismo degli imbecilli», secondo la definizione datane da un austriaco. […] Nel 1893 nacque una «lega degli agricoltori» (Bund der Landwirte), che si diede rapidamente un’organizzazione di massa, con una propria stampa. Essa chiese, per esempio, che si desse alla margarina un bruttissimo color genziana (il colore del battiscopa del Reichstag), allo scopo di respingere il consumatore. Non solo, ma alla margarina doveva anche esser imposto l’orribile nome di Oeltalg («olio di sego»). Fu proposta la messa al bando delle macchine per la vendita automatica nelle stazioni ferroviarie, e nel Wuertemberg fu attuata. Tutto ciò andava insieme con una seriosa solennità ch’era tipicamente tedesca. Il manifesto elettorale redatto dal Bund nel 1893 recitava: «Una lenta ma regolare ascesa del prezzo del grano è stata il contrassegno di tutte le grandi civiltà». I grandi magazzini venivano liquidati come un Unwesen (una «mostruosità»). L’attacco si appuntava poi sull’emancipazione femminile, sugli ebrei e su altri analoghi bersagli. N. STONE, La grande Europa 1878-1919, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 177-181, trad. it. G. FERRARA UNITÀ 8 I ceti medi in Germania all’inizio del Novecento 3 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 2 3 La nascita dei grandi magazzini UNITÀ 8 I conservatori di tutti i Paesi guardarono con orrore e disprezzo ai nuovi grandi magazzini che stavano nascendo nelle metropoli dell’Europa di fine dell’Ottocento e negli Stati Uniti. Di solito, l’accento cadeva sul fascino che avrebbero esercitato le merci esposte: come il frutto proibito dell’Eden, sarebbero state per le donne una tentazione irresistibile. Le famiglie sarebbero andate in rovina, e con esse la società intera. POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO 4 «Carrie passò attraverso i reparti affollati, impressionata dalle mostre di chincaglieria, abiti, cartolerie e gioielli. Ogni banco costituiva una prepotente attrazione di per sé. Non poteva fare a meno di sentire il richiamo d’ogni gingillo che le cadeva sotto gli occhi, eppure non rallentò, né si fermò. Non c’era nulla che non avrebbe potuto usare, nulla che non avrebbe desiderato da tempo di possedere. Eleganti pantofole, calze, gonne increspate e bluse e giacchette, merletti, nastri, pettini, borsette; ogni cosa le risvegliava dei desideri, anche se poi doveva riconoscere che nessuno avrebbe potuto essere compatibile con quello che aveva nella borsa». Quante volte abbiamo provato le stesse sensazioni dell’eroina del romanzo di Theodor Dreiser, Carrie Meeber, che arriva nella Chicago del 1890 dalla provincia e gira alla ricerca di un lavoro nella megalopoli percorsa da una frenetica attività. […] «Centinaia di negozi riuniti in uno solo»: è questo il pensiero che domina la mente di Carrie di fronte alla visione del grande magazzino. In effetti la caratteristica del grande magazzino consisteva e consiste nella sua organizzazione in reparti specializzati, nella varietà dell’offerta merceologica e nella possibilità di poter operare con margini di guadagno inferiori sfruttando invece le opportunità di utili offerte dalla maggior dimensione delle vendite. L’evoluzione verso il grande magazzino fu relativamente rapida. Pionieri in questo cammino furono la Francia e gli Stati Uniti, che ancor oggi si contendono il merito dell’invenzione. I francesi naturalmente sostengono che il trofeo spetta a Ristide Boucicaut che nel 1852 entrò in società con Jean Videau nella gestione del Bon Marché [il primo dei grandi magazzini francesi, sorto a Parigi nel 1838, n.d.r.] […]. Boucicaut modificò il sistema di vendita in maniera radicale. Applicò il principio del basso ricarico alle merci, rese visibili i prezzi delle merci, rese libero l’ingresso senza obbligo di acquisto e accettò la restituzione delle merci da parte dei clienti insoddisfatti. Non si può dire che fosse l’inventore di ciascuno di questi aspetti, ma seppe metterli in relazione trasformando l’impresa commerciale. La fama di Boucicaut era elevata anche presso i contemporanei. Lo dimostra il fatto che David Lewis in visita a Parigi rimase così impressionato dal magazzino e dalla reputazione del francese da chiamare con lo stesso nome un esercizio commerciale aperto a Liverpool. Non fu certo un caso se lo sviluppo del grande magazzino ebbe inizio nel campo dei tessuti e dell’abbigliamento. In questo settore la possibilità di aumentare l’offerta abbassando i prezzi erano maggiori. Solo in seguito altre branche industriali poterono raggiungere gli stessi standard produttivi. Di conseguenza mutò anche la natura del grande magazzino che si arricchì di nuovi F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 reparti moltiplicando e variando l’offerta di merci. Se nel 1852 i reparti in cui era diviso il Bon Marché erano quattro, nel 1882 erano diventati trentasei. Tra il 1870 e il 1880 la varietà merceologica degli oggetti esposti aumentò vertiginosamente, accanto ai reparti di tessuti e abbigliamento si aggiunsero sezioni per la vendita di mobili, profumi, argenteria, calzature e perfino oggetti da camping. Negli Stati Uniti nel 1877 Macy poteva offrire ai suoi clienti una vasta gamma di prodotti che andava dall’arredamento ai giocattoli, dai dolci alle scarpe. […] La diffusione della grande distribuzione restò per lungo tempo un fenomeno marginale nel panorama italiano in cui ancora nel 1938 il piccolo negozio occupava il 91% del mercato contro il 57% degli USA e il 66% della Gran Bretagna. In Germania la prima impresa che si avvicinava al grande magazzino fu fondata a Stralsund da Georg Wertheim nel 1876 e fu presto imitata da altri imprenditori come Leonhard Tietz nel 1879 e Karstadt a Wismer nel 1881. Inizialmente si trattò di imprese che, ad eccezione del magazzino Messow & Waldschmidt di Dresda, nascevano in centri medi o piccoli, solo in seguito questo genere di impresa si diffuse nelle grandi aree urbane. Wertheim aprì il suo famoso magazzino a Berlino nel 1885 e Tietz ne aprì uno a Monaco nel 1889. […] Non si pensi però che l’evoluzione verso il grande magazzino non incontrasse resistenze. Quando Abraham e Strauss aprirono un reparto di drogheria nel loro magazzino di Brooklyn i negozianti della zona inscenarono una manifestazione di protesta. I grandi magazzini, definiti come mostri onnivori, furono accusati di distruggere il piccolo commerciante e di produrre una dipendenza da centri di potere economico che nel tempo si sarebbe trasformata in una sorta di tirannia. Di fronte alla crisi economica degli anni Novanta vari stati introdussero tasse sulla «piovra che ha disteso i suoi tentacoli in ogni direzione». Tuttavia i tentativi dei piccoli commercianti di fissare limiti legislativi all’espansione della grande distribuzione, non raggiunsero l’obiettivo. Leggi restrittive furono bocciate da alcuni stati e la corte suprema del Missouri giudicò incostituzionale una legge a tutela del piccolo commercio che era stata approvata. Nel 1901 la Industrial Commission federale assolse infine i grandi magazzini dalle accuse di monopolio difendendo la loro presenza come un vantaggio per il consumo della gente. […] S. CAVAZZA, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, il Mulino, Bologna 2004, pp. 161-166, 174-179 Quali novità (assolute per l’epoca, ovvie e familiari ai nostri giorni) introdusse Ristide Boucicaut nella tecnica commerciale? Quale settore produttivo adottò per primo la tecnica di vendita che aprì la strada al grande magazzino? Per quali ragioni? Per quali ragioni i grandi magazzini furono chiamati «mostri onnivori»? Quale orientamento politico li odiò in modo speciale? Appassionato sostenitore della libertà umana, Bakunin si opponeva alla religione, allo stato e alla proprietà privata. Nello stesso tempo, accusava anche il marxismo di essere un pericolo per la libertà: ai suoi occhi, una dittatura del proletariato non era in fondo molto diversa dalla tirannia dei nobili e dei borghesi. Il cardine intorno al quale ruotano tutte le idee del Bakunin è il concetto di libertà; basta seguirne, nei suoi scritti, lo svolgimento, per portare alla luce il nucleo sostanziale del suo pensiero. La libertà deve regolare i rapporti tra le nazioni, come i rapporti tra la nazione e le sue singole parti; dev’essere base di esistenza per ogni individuo; egli [= Bakunin – n.d.r.] è «un amante fanatico della libertà» perché la considera «come l’unico ambiente in cui possono svilupparsi e progredire l’intelligenza, la dignità e la felicità degli uomini». [...] Scopo fondamentale di ogni uomo ha da essere [= deve essere – n.d.r.] dunque la conquista della propria libertà, di tutta la propria libertà. Alla quale meta non si giunge se non si abbia realizzata dapprima una completa autonomia spirituale attraverso la rivolta contro la società e contro Dio. Per rivolta contro la società Bakunin intende lo sforzo di liberazione da quei germi di abitudini mentali che la società stessa o meglio l’ambiente depongono in ogni individuo, incatenandolo fin dalla nascita in un complesso d’idee tradizionali sui problemi fondamentali della vita. Queste idee innate (sulla giustizia, sull’anima, sulla divinità, sulla materia, ecc.) impregnano di sé, per sempre, lo spirito dell’individuo, il quale, se pure evolverà spiritualmente, assai di rado oserà varcare i confini di questo ambiente tradizionale e porre in discussione le basi stesse del suo pensiero. È necessario uno sforzo immenso per procedere a una coraggiosa e obiettiva valutazione dei valori imposti come indiscutibili dalla suggestione sociale [= dall’influenza della società – n.d.r.]; ma è, per l’uomo pensante, tappa indispensabile nel cammino per la conquista della vera libertà. Fra queste idee innate o tradizionali, la più funesta è quella di Dio; poiché la nostra libertà cessa di esistere se ci sottoponiamo a un’autorità superiore, invisibile, insindacabile, irresistibile. Ammettere Dio significa abdicare alla ragione e alla giustizia umane; se Dio esiste, l’uomo è schiavo; se l’uomo è libero, intelligente, giusto, Dio non esiste. Dio rende schiavo l’uomo non solo nel pensiero, ma anche nella attività pratica: perché adorare Dio nei cieli significa obbedire ai suoi rappresentanti in terra; e tutti i despoti, tutti i peggiori nemici della libertà hanno sempre legittimato la loro autorità col suggello del consenso divino [= affermando di essere stati istituiti da Dio – n.d.r.]. [...] Condizione prima ed essenziale di libertà e nello stesso tempo libertà prima ed essenziale è che ogni uomo sia messo in grado di raggiungere il pieno svi- luppo di tutte le sue facoltà, ricevendo un’adeguata istruzione ed educazione. Ma può l’uomo, nell’attuale organizzazione sociale, istruirsi ed educarsi se non possiede congrui mezzi di fortuna? Evidentemente no; non v’è che una piccola minoranza che abbia tale possibilità, ossia l’incommensurabile privilegio di essere e di sentirsi libera in una massa di schiavi. Ecco dunque la necessità di rivoltarsi contro lo Stato, che garantisce il mantenimento dell’odierno assetto sociale. Bisogna abolire il diritto di proprietà, che crea una così profonda disuguaglianza tra gli uomini e il diritto di eredità, che concede di trasmettere il privilegio; bisogna assicurare a tutti gli uomini uguali condizioni di partenza. Vana fatica è quella di spingere le classi privilegiate a mitigare le sofferenze dei nullatenenti; esse non risolveranno mai il problema perché non potranno mai rinunciare al loro privilegio. Necessità fondamentale [...] è invece quella di abolire tali classi, non sopprimendo gli individui, ma sopprimendo il privilegio. Molti pensano che ciò significhi uccidere nell’uomo il più forte stimolo al lavoro; ma questo è vero solo nell’attuale società che considera sommo bene la possibilità di vivere senza bisogno di lavorare e una dannazione il lavoro: nella società futura il lavoro sarà considerato un bene necessario, un bisogno naturale, irresistibile nell’uomo, legge suprema della vita, poiché sarà un lavoro misurato, giustamente retribuito, conforme alle attitudini individuali. [...] La libertà sarà il principio informatore della nuova società, che si ordinerà dal basso in alto: nuclei di individui spontaneamente riunitisi concorreranno a formare delle associazioni di produzione; queste a formare i comuni, i comuni a formare le province, le province a formare la nazione. Le nazioni si uniranno fra loro in una lega dapprima limitata all’Europa, che più tardi si estenderà a tutto il mondo. [...] Per preparare l’umanità a questa grande trasformazione, in attesa dell’ora in cui si renda possibile la rivoluzione, bisogna predicare contro la società borghese, contro Dio, contro l’organizzazione statale, dimostrare il vuoto e la menzogna che si celano nei vecchi valori tradizionali, coltivare lo spirito di rivolta in seno al popolo. Bisogna poi chiarire e diffondere alcune idee-basi, quali federalismo, ateismo, collettivismo, pacifismo; bisogna promuovere e favorire l’organizzazione dei lavoratori, cercando di creare un grande, unico nucleo operaio che sia un modello, in piccolo, di quel che dovrebbe essere la futura società. Soprattutto [bisogna – n.d.r.] risvegliare l’istinto rivoluzionario, innato nelle grandi masse incolte. N. ROSSELLI, Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Einaudi, Torino 1967, pp. 143-147 Quale tipo di libertà proponeva Bakunin per l’uomo? Perché la libertà da lui concepita è conseguibile attraverso una rivolta contro Dio, contro lo stato, contro la società? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 8 Il pensiero di Michail Bakunin 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 4 5 Le incoerenze della borghesia UNITÀ 8 Uscita vincitrice dalla Rivoluzione francese, la borghesia si segnalò ben presto per le proprie incoerenze; dopo aver lanciato, contro i privilegi nobiliari, la parola d’ordine dell’eguaglianza di tutti gli uomini, i borghesi si posero subito a difesa delle proprie ricchezze, negando ogni legittimità a qualsiasi tentativo di estendere l’eguaglianza stessa alla sfera dell’economia. POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO 6 La borghesia è l’altro nome della società moderna. Indica una classe di persone che attraverso la libera attività hanno progressivamente distrutto l’antica società aristocratica, fondata sulle gerarchie di nascita. [...] È una classe senza statuto, senza tradizioni, senza contorni definiti e non dispone che d’un fragile titolo al dominio, la ricchezza. Fragile, perché può appartenere a chiunque: chi è ricco avrebbe potuto non esserlo, chi non lo è, avrebbe potuto esserlo. Pur essendo una categoria sociale definita dall’economico, la borghesia sbandiera valori universali. Il lavoro definisce non più gli schiavi, come nell’antichità, o i non nobili, come nelle aristocrazie, ma l’intera umanità: costituisce ciò che di più elementare possiede l’uomo come individuo nella sua primitiva nudità di fronte alla natura. Presuppone la libertà fondamentale del singolo, libertà eguale per tutti di darsi un’esistenza migliore aumentando i propri beni e le ricchezze. Il borghese dunque si pensa libero dalla tradizione politica o religiosa e indeterminato, come può esserlo un uomo libero e eguale in diritto a tutti gli altri. Regola la propria condotta rispetto al futuro, poiché deve inventarsi da sé, assieme alla comunità alla quale appartiene. Ma l’esistenza sociale di questo personaggio nuovo nella storia è alquanto problematica. Egli porta alla ribalta del mondo la libertà, l’uguaglianza, i diritti dell’uomo, insomma l’autonomia dell’individuo contro le società fondate sulla dipendenza, che erano apparse prima di lui. Ma quale nuova associazione propone? Una società che metta in comune solo poche cose della sua vita, visto che ha come dovere principale di garantire ai propri membri il libero esercizio delle loro attività private e il godimento assicurato di ciò che hanno acquisito. Quanto al resto, è affar loro: i membri della società borghese possono scegliersi una religione, l’idea del bene e del male, sono liberi di perseguire i propri gusti e i fini particolari che assegnano all’esistenza, purché rispettino i termini del contratto minimo che li lega agli altri concittadini. La società borghese dunque s’allontana per definizione dall’idea di bene comune. Il borghese è un individuo separato dai suoi simili, chiuso nei propri interessi e nei propri beni. [...] La società moderna è percorsa da un’agitazione corpuscolare che spinge gli individui a superarsi continuamente e in questo modo approfondisce le contraddizioni insite nell’esistenza stessa della società. Non basta che sia formata da membri poco inclini a prendersi cura dell’interesse pubblico. È necessario pure che l’idea dell’eguaglianza e dell’universalità degli uomini, sbandierata come suo fondamento e novità, venga costantemente negata dall’ineguaglianza delle proprietà e delle ricchezze, prodotta dalla competizione tra gli individui. Il movimento, il dinamismo della società ne contraddicono il principio, la legittimità. Mentre proclama l’eguaglianza come diritto imprescrittibile dell’uomo, la società moderna produce di continuo ineguaglianza, soprattutto materiale, più di qualsiasi altra società conosciuta. Nelle società del passato, l’ineguaglianza aveva uno statuto legittimo, dettato dalla natura, dalla tradizione e dalla provvidenza. Nella società borghese, l’ineguaglianza è un’idea che circola di contrabbando, un’idea contraddittoria rispetto al modo in cui gli individui immaginano se stessi. Eppure la si trova dovunque, nelle situazioni che essi vivono e nelle passioni che nutrono. La borghesia non inventa la divisione della società in classi, ma ne fa un dramma ammantandola di un’ideologia che la rende illegittima. F. FURET, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, trad. M. VALENSISE, Mondadori, Milano 1997, pp. 12-14 Per quale motivo i contorni della borghesia non sono precisi e ben definiti? Quali sono le incoerenze esistenti tra i valori universali che la borghesia professava in teoria, e il modello di società che attuò in pratica nei principali paesi europei? Per quale motivo la divisione della società in classi e l’ingiustizia sociale diventano un dramma, nel contesto di una società borghese? In che senso l’ideologia tipica della borghesia rende illegittima la divisione in classi della società? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 In genere, l’esperienza della Comune di Parigi viene presentata come il primo tentativo di rivoluzione proletaria. Anche se fu percepita come tale da molti contemporanei (sia borghesi che proletari), in realtà si trattò prima di tutto di un disperato tentativo di proseguire una guerra palesemente perduta. Parigi si trovò del tutto sola, poiché non più in sintonia con le province, disposte ad accettare la fine delle ostilità. Nel 1870 Sedan liquida il bonapartismo, ma il colpo più grosso lo riceve l’orgoglio nazionale: da Valmy fino alla guerra con la Prussia, l’esercito francese si era ritenuto invincibile. L’ubriacatura napoleonica era durata ben oltre Waterloo, ma la débacle [disfatta, n.d.r.] di Sedan sembra togliere ai francesi qualsiasi illusione, e la catastrofe militare porta di nuovo alla ribalta la Repubblica. Ma che tipo di repubblica può nascere da una tale sconfitta? La rovinosa caduta di Napoléon le petit [Napoleone il piccolo, espressione denigratoria usata per designare Napoleone III, n.d.r.] mette pesantemente sotto accusa anche la classe dirigente formata dalla ricca borghesia clericale, che, avendo condiviso il potere, è altrettanto responsabile della guerra perduta. Così, ancora una volta è lo spettro di un nuovo ’48 che induce Adolphe Thiers a dichiarare che la Terza Repubblica dovrà fornire le più complete garanzie contro lo sconvolgimento dei «principi di proprietà» e che pertanto potrà sopravvivere «soltanto se conservatrice». In realtà la Repubblica si troverà a dover fronteggiare la destra reazionaria, che anela a una restaurazione della monarchia. Nell’assemblea nazionale di Bordeaux i monarchici delle varie tendenze ottengono quattrocento voti, contro i trecentocinquanta dei repubblicani, rifiutando in linea di principio l’ordonnance répubblicain [l’atto di proclamazione della Repubblica, n.d.r.]. Questo fatto, unito all’esasperante lunghezza dell’assedio di Parigi, che fiacca gli animi e impone sacrifici gravissimi, fa sì che la popolazione si schieri contro il governo, fomentata da agitatori rivoluzionari che non mancano di infiammare gli animi ricordando con fervore la Grand Révolution e le gloriose giornate del settembre 1792, quando il popolo era corso in massa alle armi per difendere le frontiere della patria contro quegli stessi prussiani che ora stanno assediando la capitale. Se a tutto questo si aggiunge il contegno reazionario dell’assemblea nazionale, trasferitasi il 21 marzo a Versailles, non c’è da stupirsi che a Parigi la restaurazione monarchica venga a un certo momento ritenuta nella logica degli eventi. Al momento dell’entrata delle truppe nemiche, il parco di artiglieria della capitale era stato dislocato nel quartiere operaio di Montmartre. Il comitato centrale rivoluzionario decide di impadronirsene e fa fucilare i due generali inviati dal governo. È la scintilla, e la Comune tenta l’assalto al cielo dell’universo borghese, innalzando la bandiera rossa, simbolo delle sue aspirazioni socialiste, disposta all’eroismo: «Era necessario il bagno di sangue, e di sangue francese, l’olocausto orrendo, il sacrificio delle vite in mezzo al fuoco purificatore… Che Parigi sprofondasse, che bruciasse come un immenso braciere di olocausto, piuttosto che tornare ai suoi vizi e alle sue sofferenze, a quella vecchia società corrosa da un’abominevole ingiustizia» (É. Zola, La disfatta). Militarmente i ribelli non hanno alcuna possibilità di successo: è una rivolta utopistica e disperata, e sarà l’ultima del secolo: «Nella Comune mancava la solida organizzazione del proletariato come classe e la chiarezza di principio sulla sua funzione storica… Con la caduta della Comune sono cadute per sempre anche le ultime tradizioni della vecchia leggenda rivoluzionaria: nessun favore delle circostanze, nessun eroismo nessuna vocazione al martirio può sostituire la chiara visione del proletariato… delle imprescindibili condizioni della sua emancipazione» (F. Mehring). Il resto della Francia rimase assente all’estrema ventata rivoluzionaria, eccetto pochissime città industriali, come Marsiglia, Saint-Ètienne, Limoges. Nel momento in cui [il generale] Mac Mahon riesce a costituire un esercito con i prigionieri liberati dalla Germania, il destino della Comune è segnato, e dopo poco più di due mesi la città è nelle mani del governo legittimo. […] La caduta della Comune ha un peso che va assai più in là del suo reale significato politico, non tanto per gli eccessi, le devastazioni e gli incendi, le fucilazioni degli ostaggi e dei prigionieri (che certamente non mancarono di incidere sull’opinione pubblica), quanto «per quello che aveva voluto essere come attentato alle strutture dello Stato borghese e per lo sviluppo che dalla Comune avrebbe potuto propagarsi in altre nazioni europee» (F. Sanpoli); infine, nei movimenti operai rivela in modo netto la scissione fra la sinistra moderata e l’estrema sinistra nonché un’accentuata tendenza al frazionamento sul piano teorico. […] La sua sconfitta in una prova di forza fu un colpo che scosse la coesione internazionale, già tanto precaria, dell’estrema sinistra, la quale doveva rimanere depauperata nei suoi componenti nazionali fino alla fondazione della Seconda Internazionale nel 1899 a Parigi. R. REIM, La Parigi di Zola, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 98-103 Che cosa significa l’affermazione secondo cui la Comune tenta l’assalto al cielo? La rivolta della Comune aveva qualche possibilità di successo? Il moto parigino ottenne sostegno dalle altre regioni della Francia? Che cosa comportò per il movimento operaio degli anni seguenti la disfatta della Comune? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 8 Da Sedan alla Comune 7 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 6 7 Destra e Sinistra nel sistema liberale italiano UNITÀ 8 Il liberalismo italiano presentò a lungo due schieramenti, chiamati Destra e Sinistra. Ma, al di là delle differenze, tra i due gruppi spesso fu possibile trovare accordi di maggioranza, che rendevano molto sfumate le denominazioni e le posizioni ufficialmente dichiarate. POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO 8 Quando si parla di Destra e Sinistra non bisogna pensare a due partiti ben distinti e contrapposti. In realtà le maggioranze su cui si appoggiarono i governi, soprattutto dal 1882, furono composte da elementi eterogenei provenienti sia da destra che da sinistra. I governi si qualificavano di destra o di sinistra secondo che vi fossero più numerosi e importanti i ministri provenienti da destra o quelli provenienti da sinistra. Sia la Destra che la Sinistra erano espressione di un corpo elettorale ristretto. Tuttavia mentre la Destra tendeva a mantenere immutato il corpo elettorale ed anzi a renderlo nella pratica ancor più ristretto di quanto non fosse per legge, la Sinistra tendeva ad allargarlo, come dimostra soprattutto la riforma elettorale fatta nel 1882 che aumentò gli elettori da circa 600 000 a oltre due milioni. Da un punto di vista sociale i deputati di Destra appartenevano prevalentemente alle regioni del Settentrione e del Centro ed erano quei membri della aristocrazia, dell’alta borghesia, del ceto colto che avevano abbracciato la causa del Piemonte ed il liberalismo durante il Risorgimento. Invece molti deputati di sinistra erano stati legati al garibaldinismo e al Partito d’azione mazziniano, e avevano tutti un carattere non aristocratico e più marcatamente borghese. Scarsamente legati ad una tradizione di cultura e di elevato senso dello Stato, erano in genere sensibili alle richieste, limitate più che altrove ai piccoli interessi locali, degli elettori meridionali. Mentre la Destra aveva i caratteri di una élite ristretta e qualificata, la base sociale della Sinistra, anche prima della riforma elettorale del 1882, era più ampia. I deputati di Destra erano in prevalenza cattolici (ma non clericali), quelli di Sinistra erano massoni e anticlericali. Da un punto di vista economico sia la Destra che la Sinistra erano legate soprattutto ai settori ed agli interessi più importanti o più forti: che erano, in un paese non ancora industriale come l’Italia di allora, soprattutto terrieri e bancari. Ma mentre nella Destra prevalevano i legami con la grande proprietà, la Sinistra raccoglieva anche le simpatie della piccola borghesia urbana e della nascente industria. Per concludere, la Sinistra rappresentava, con i suoi pregi e difetti, la tendenza verso una più diffusa democrazia immanente al sistema liberale. […] Nel 1861-76 la Destra al governo aveva affrontato e in parte brillantemente risolto quattro grandi problemi: il compimento dell’unità nazionale, con l’annessione di Venezia nel 1866 e di Roma nel 1870; la sistemazione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica sulla base – liberale e cavouriana – della reciproca separazione; il rafforzamento delle finanze dello Stato; la formazione delle cosiddette infrastrutture economiche (ferrovie e altre opere pubbliche). Per ottenere questi ultimi scopi la Destra aveva sottoposto i contribuenti ad una dura pressione tributaria. L’andata al potere della Sinistra nel 1876 era maturata nel corso dei sei anni precedenti, soprattutto in relazione a due fatti: il compimento dell’unità nazionale e un iniziale periodo di prosperità economica che, intorno al 1869-1870, successe ad alcuni anni di crisi gravissima. […] La migliorata situazione delle finanze dello Stato e quella economica generale aumentarono il malcontento per la politica tributaria e finanziaria della Destra e fecero desiderare un’azione di governo meno intransigente nella tutela degli interessi dello Stato e più sollecita di quelli privati. La Sinistra andò al potere col programma di promuovere una maggior libertà e una maggior ricchezza privata. G. CAROCCI, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi, Torino 1971, pp. 8-10 Costruisci una tabella, mettendo in evidenza le principali differenze esistenti tra gli uomini della Destra e quelli della Sinistra. Come criteri di lavoro, puoi assumere i seguenti indicatori: a) prevalente provenienza geografica (Nord/Sud); b) rapporto con il passato risorgimentale (moderati/garibaldini); c) estrazione sociale (aristocrazia fondiaria/ceto borghese); d) disponibilità ad allargare il corpo elettorale. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il nuovo Stato unitario italiano sostenne senza esitazione gli interessi dei ceti più abbienti, primi fra tutti i grandi proprietari terrieri. Le principali scelte politiche adottate, inoltre, danneggiarono in modo pesante il Sud, a cominciare dal libero scambio, che portò vantaggi all’agricoltura capace di produrre per l’esportazione, ma rovinò gli artigiani e le industrie del Sud, nella misura in cui lasciava entrare sul mercato italiano le merci inglesi. Un effetto abbastanza paradossale dell’introduzione del liberalismo nel 1860 era stato di rendere la grande maggioranza della popolazione economicamente più vulnerabile di quanto fosse stata sotto l’assolutismo. I governanti di ancien régime s’erano sforzati di difendere i poveri contro le incertezze del mercato e la rapacità dei proprietari terrieri locali mediante il controllo dei prezzi, il protezionismo, un basso livello delle imposte, leggi miranti a promuovere la distribuzione della terra e le attività benefiche della Chiesa, la cui gigantesca rete di conventi, ospedali, scuole, orfanotrofi ed enti e donazioni caritativi costituiva una fonte di assistenza (per tacere dei posti di lavoro) di cruciale importanza. L’Italia unita aveva portato con sé il vento freddo del libero scambio, con effetti particolarmente devastanti sul fragile settore manifatturiero meridionale. Aveva inoltre attribuito alle classi possidenti un potere la cui portata era senza precedenti, perché i consiglieri municipali e i deputati erano eletti dai gruppi sociali più ricchi, e a questi rendevano conto e non più, come in passato, a un monarca paternalista. In assenza di un forte ethos nazionale a contrastare gli imperativi morali del tornaconto personale, le élites dominanti erano in grado di utilizzare la loro posizione privilegiata per riempire le proprie tasche, spesso con impudente sfacciataggine. Che il tentativo del governo di legiferare in favore delle classi lavoratrici urtasse contro grosse difficoltà emerse con chiarezza nei primi decenni postunitari. Malgrado numerose e importanti inchieste portassero alla luce – negli anni Sessanta, e ancor più nei Settanta e negli Ottanta – le dimensioni spaventose della povertà urbana e rurale in Italia, i tentativi d’introdurre un sistema fiscale più equo, o di accrescere il numero dei poderi contadini, o di costringere i datori di lavoro a comportarsi in maniera responsabile verso i loro fittavoli e operai, venivano bloccati in parlamento da coalizioni ad hoc [nate proprio a quello scopo, n.d.r.] di deputati attivamente impegnati a difendere i propri interessi. Se un provvedimento teoricamente suscettibile di aiutare i poveri riusciva a diventare legge dello Stato, spesso le realtà della vita locale ne impedivano l’applicazione. Un esempio fu l’imponente vendita da parte dello Stato di terre ecclesiastiche ed ex feudali (più di due milioni di ettari) a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta. Malgrado una clausola prevedesse il loro spezzettamento in piccoli fondi, in modo da permettere ai contadini di comF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 prare, l’assenza di strutture creditizie, specialmente nel Mezzogiorno, e il disperato bisogno del governo di far denaro in fretta, significarono che, tirate le somme, soltanto chi era già benestante fu in grado di approfittare dell’occasione. Non solo, ma le aste venivano spesso truccate dai galantuomini, i quali impiegavano l’arma dell’intimidazione per assicurarsi che nessuno osasse competere con loro. Se dopo il 1860 l’onere della tassazione gravò in misura sproporzionata sulle spalle dei poveri, una ragione fu la necessità in cui lo Stato si trovava di far affluire fondi nelle sue casse per far fronte all’enorme debito pubblico. Alla fine degli anni Quaranta e nel corso del decennio successivo il Piemonte aveva accumulato un debito gigantesco (molto superiore al miliardo di lire) per combattere gli austriaci e costruire ferrovie; e quando si aggiunsero i debiti che il nuovo regno ereditò dagli Stati italiani al momento dell’unificazione, i costi della lotta al brigantaggio nel Mezzogiorno e della guerra del 1866, nonché le spese rese necessarie dall’equipaggiamento di tre diverse capitali nel giro di un decennio, non può sorprendere che l’Italia unita imponesse ai suoi nuovi sudditi livelli di tassazione anormalmente elevati. Nel 1870 il debito nazionale aveva ormai raggiunto la sbalorditiva cifra di oltre otto miliardi di lire. I proventi delle imposte dirette crebbero del 63 per cento tra il 1865 e il 1871, ma le difficoltà in cui s’imbatteva l’accertamento dei redditi personali costrinsero il governo a ripiegare in misura sempre maggiore sulle tasse sui consumi, di facile riscossione, ossia le tasse sul sale, sui tabacchi e – il caso tra tutti più tristemente famoso – sulla macinazione del frumento e degli altri cereali, che colpivano con particolare durezza le classi lavoratrici. Tra il 1865 e il 1871 i proventi dell’imposizione indiretta crebbero del 107 per cento. Anche le amministrazioni comunali furono autorizzate a imporre tasse, per esempio sui generi alimentari e sul bestiame; e furono, di nuovo, soprattutto i poveri a subirne gli effetti. Quando nel 1876 il giovane liberale toscano Sidney Sonnino visitò la Sicilia, trovò che i muli e gli asini, tipici beni contadini, erano tassati più pesantemente dei bovini, che appartenevano ai grandi proprietari terrieri. Comprensibilmente, questi enormi oneri fiscali generavano un diffuso risentimento popolare verso lo Stato; e cresceva il timore che la distanza tra governanti e governati – o, come si diceva comunemente – tra l’Italia legale e quella reale – potesse dimostrarsi fatale per il nuovo regno. […] Francesco Crispi, che nell’ottobre 1873 si recò a Tricarico, il collegio nell’entroterra montagnoso della Basilicata che rappresentava alla Camera fin dal 1870, ma non aveva ancora mai visitato […] fu profondamente scosso da ciò che vide. Per arrivare a Tricarico bisognò raggiungere Eboli, la stazione ferroviaria più vicina, e da qui ci vollero due giorni di viaggio UNITÀ 8 Stato e classi lavoratrici negli anni Sessanta 9 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 8 in un carretto su strade ripide e malconce. Dei tredici centri (tra cittadine e paesi) che costituivano il suo collegio elettorale, soltanto due avevano una strada che li collegasse al mondo esterno; a tutti gli altri si accedeva mediante viottoli sassosi che le piogge invernali trasformavano in pantani. La povertà era spaventosa, quasi indescrivibile. I contadini vivevano di fagioli od orzo macinato fino a diventare una farina di grana grossa. Ma venivano dissanguati dalla tassa sul macinato, riscossa con spietata durezza dagli esattori governativi; ed in molti luoghi Crispi fu assalito da folle di donne furibonde che gridavano la loro protesta. C. DUGGAN, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 298-301, trad. it. G. FERRARA DEGLI UBERTI UNITÀ 8 Spiega l’espressione «il vento freddo del libero scambio». Quale gruppo sociale trasse vantaggi dalle vendite delle terre ecclesiastiche? Per quale motivo si preferì la strada delle imposte indirette, rispetto a quelle dirette? Per quali gruppi sociali esse erano particolarmente gravose? POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO 10 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 All’inizio del Novecento, il Sud Italia versava in condizioni drammatiche. Dopo che il protezionismo aveva rovinato l’agricoltura, l’emigrazione verso l’America fu, per milioni di poveri contadini, l’unica alternativa alla miseria e alla fame. La relativa [confrontata con la situazione del Nord, n.d.r.] povertà del Mezzogiorno era facilmente dimostrabile: il reddito pro capite era, nel 1900, meno della metà di quello dell’Italia settentrionale; nel Mezzogiorno viveva il 40 per cento della popolazione totale, ma nel 1911 il consumo di energia elettrica per usi industriali nel Sud raggiungeva appena quello del solo Piemonte. Il Mezzogiorno era arretrato anche in molti settori dell’agricoltura: la resa di 3-5 quintali di grano per ettaro costituiva la norma, e anche negli anni più favorevoli la resa media nazionale di 10,5 quintali venne raramente raggiunta. Un quadro analogo offrono i dati sul tasso di mortalità e sulle condizioni di abitazione: nel 1910-14 il tasso nazionale di mortalità era del 19,2 per mille abitanti, ma nel Mezzogiorno il tasso più basso era del 19,7 per mille in Calabria, e quello più elevato del 22,6 in Basilicata. Mentre nel 1911 meno dell’un per cento della popolazione di Genova, Firenze e Livorno viveva in una sola stanza, a Bari la percentuale era del 42 per cento (con una media di 4,7 persone per stanza) e a Foggia del 70,5 (6 persone per stanza). Il tasso di analfabetismo aumentava costantemente a mano a mano che si scendeva verso sud: nel 1911 era dell’11 per cento nel Piemonte, del 37 in Toscana, del 54 in Campania, del 65 in Basilicata e del 70 in Calabria; in Sicilia la situazione era leggermente migliore con il 58. (La media nazionale era del 37,6 per cento). I comuni più isolati del Sud potevano toccare punte di analfabetismo che arrivavano fino al 90 per cento. La deficienza di scuole era scandalosa: nel 1907-1908 il Piemonte, con 3,4 milioni di abitanti, aveva 9000 scuole, mentre la Sicilia, con 3,6 milioni, ne aveva 5000. […] I meridionalisti sostenevano che la politica seguita dallo stato dopo l’unità aveva contribuito ad approfondire il divario. Dopo il 1887 il sistema tariffario [il protezionismo sui manufatti industriali, n.d.r.] aveva costretto il Sud a comprare a prezzi elevati i prodotti industriali e a vendere a basso prezzo i suoi prodotti agricoli. […] Se, nonostante tutto, tra il 1900 e il 1914 le condizioni del Mezzogiorno rurale migliorarono, ciò fu dovuto non tanto all’azione governativa, quanto all’emigrazione, un fenomeno di cui il governo non poteva certo menar vanto. Il numero degli emigranti crebbe ogni anno (se si eccettuano i periodi di stasi temporanea della crisi economica del 1907-1908 e della guerra libica del 1911), e raggiunse nel 1913 la punta massima di 873 000 unità: nessun altro paese, tranne l’Irlanda, poteva vantare un esodo così imponente. Il contributo del Mezzogiorno alla corrente migratoria andò sempre aumentando e passò da un quarto del totale negli anni ’80 fino a quasi la metà tra il 1905 e il 1913. Questo spostamento dell’equilibrio mutò anche la natura del fenomeno: l’emigrazione dall’Italia settentrionale e centrale era generalmente di carattere temporaneo, spesso solo stagionale, ed era orientata soprattutto verso i paesi dell’Europa settentrionale, mentre l’emigrazione dal Mezzogiorno aveva un carattere più duraturo, spesso permanente, ed era orientata verso le due Americhe. Dopo il 1898 gli Stati Uniti presero il posto del Brasile e dell’Argentina come destinazione preferita degli emigranti, e più di tre degli otto milioni di italiani che lasciarono il paese tra il 1901 e il 1913 si recarono negli Stati Uniti. Anche nel caso degli emigranti oltreoceano, tuttavia, la percentuale di quelli che non tornavano più andò diminuendo: su ogni 100 emigranti, ne tornarono 40 nel periodo 1897-1901 e 68 nel periodo 1911-1913. È stato calcolato che tra il 1862 e il 1913 abbandonarono definitivamente l’Italia quattro milioni e mezzo di persone. L’esodo dal Sud era cominciato in Basilicata, Calabria e Campania negli anni ’80, e il movimento si era esteso subito dopo all’Abruzzo: alla svolta del secolo, il ruscello divenne una fiumana. La Sicilia contribuì al movimento migratorio solo in un secondo tempo, ma dopo il 1904 diede ad esso il maggiore contributo. La Puglia fu la sola regione del Sud in cui il tasso di emigrazione fosse inferiore a quello medio nazionale. L’emigrazione meridionale fu un fenomeno esclusivamente proletario, uno spontaneo gesto di protesta contro condizioni di vita insopportabili: cominciò nelle pianure e nelle zone costiere, dove i contatti con il mondo esterno erano più facili, e quindi si diffuse all’interno, raggiungendo le punte più alte nelle zone montane più isolate, dove la povertà era maggiore. Le città più grandi non diedero un grande contributo all’emigrazione: alcuni emigranti erano artigiani, ma la stragrande maggioranza erano contadini e braccianti. Coloro che possedevano terra, o godevano di condizioni di maggiore stabilità sul fondo [sul podere che coltivavano, n.d.r.], erano i più riluttanti a partire. Quattro quinti degli emigranti erano maschi, soprattutto tra i 20 e i 50 anni, sicché nelle zone più isolate era possibile trovare villaggi abitati quasi esclusivamente da vecchi e da bambini: fu proprio questo drenaggio di giovani energie verso terre straniere che colmò di indignazione i nazionalisti ed ispirò loro l’immagine di un’Italia proletaria. C. SETON-WATSON, L’Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 357-358, 365-366, trad. it. L. TREVISANI Individua nel testo i principali indicatori relativi al sottosviluppo delle regioni meridionali, verso la fine dell’Ottocento. Individua i caratteri fondamentali del fenomeno migratorio negli anni compresi tra il 1890 e il 1914. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 8 La fuga dall’Italia meridionale 11 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 9