Delirious New York: la città a teatro con Filippo Andreatta e OHT

27 gennaio 2014
http://franzmagazine.com/2014/01/27/delirious-new-york/
Intervista di Anna Quinz
Delirious New York:
la città a teatro con Filippo Andreatta e OHT
Se non conoscete Filippo Andreatta e OHT, peggio per voi. Filippo Andreatta sta per
Filippo Andreatta, OHT sta per Office for a Human Theatre, di cui abbiamo già parlato qui.
Se non conoscete Filippo Andreatta e OHT, peggio per voi, ma siete fortunati, perché
mercoledì 29 gennaio potrete conoscerli. Il nuovo spettacolo di Andreatta e OHT infatti va
in scena a Rovereto – all’interno della rassegna di teatro contemporaneo Altro Palco. Lo
spettacolo è “Delirious New York” e – cosa strana per il teatro – è tratto da un testo di
architettura, l’omonimo delirio newyorkese scritto dall’architetto Rem Koolhas. Cosa,
venendo da un testo teorico e architettonico, ci sia sul palco, sarà tutto da scoprire, perché
questo è il bello di Filippo Andreatta e OHT: le sorprese sono dietro l’angolo sempre, le
aspettative disattese perché generatrici di nuove aspettative che non sapevamo di
aspettare, i linguaggi rimessi in gioco come un mazzo di carte mosso abilmente da un
baro di prim’ordine. Con la differenza che Andreatta non bara, semplicemente cerca in
quel mazzo sempre nuove combinazioni, nuove forme, nuovi modi per fare e guardare il
teatro. Che tra le sue mani non è più semplicemente teatro, ma una materia tutta nuova.
Provare per credere, e che non vi succeda più di non conoscere Filippo Andreatta e OHT.
Filippo, perché – ma soprattutto come – si fa a trasporre in linguaggio teatrale un
testo di architettura?
So che Wittgenstein diceva che le domande, le questioni o gli argomenti più seri e
profondi si possono affrontare solo attraverso battute e senso dell’umorismo… insomma
giocando. Certo bisogna farlo in maniera sardonica, ma in questo sono molto a mio agio e
anche Koolhaas ha una scrittura decisamente ironica. Poi in inglese, tedesco e francese la
parola gioco è la base del verbo del recitare (to play, spielen, jouer) si può dire che uno
più uno fa un uno più grande.
E perché proprio questo testo, piuttosto che un altro? Che significato ha per te?
Quando studiavo architettura, nessuno mi aveva parlato di un testo così bello. Quando poi
mi sono dedicato al teatro e arti visive leggevo questi testi teatrali pieni di personaggi,
entrate e uscite, in cui, dopo alcune pagine, facevo confusione; non ricordavo più chi era
chi e cosa aveva fatto alcune pagine prima. Insomma, c’era dello sconforto, mi sentivo
circondato da intellettuali anziché da intelligenti. Poi ho trovato questo libro su consiglio di
un amico architetto e ho scoperto che era un testo importantissimo, scritto come uno script
cinematografico perché Koolhaas era giornalista e sceneggiatore prima di diventare
architetto e Immaginarlo in scena è stata la naturale conseguenza.
Cosa si intende esattamente per “manhattanismo”, termine di cui si parla nel libro
(e nella presentazione dello spettacolo)?
È una teoria inespressa. Qualcosa che nasce nella testa di una persona e che viene
applicata alla realtà. È qualcosa d’induttivo anziché deduttivo. È molto difficile distinguere
l’induzione dall’allucinazione o dalla paranoia, credo ci sia una differenza di grado ma non
di sostanza. Soprattutto se non sei disposto ad accettare il fallimento come un tuo risultato
plausibile. Il primo nome che Koolhaas voleva per il suo ufficio era “Gabinetto di
Architettura Metropolitana”, una citazione del film di Robert Wiene dove il dottor Caligari
vive fra la realtà e l’allucinazione. Un po’ come i costruttori americani di cui parla nel libro,
pionieri del manhattanismo, e che vennero definiti da Ingeborg Bachmann “i materialisti
dell’astratto”. Ingeborg Bachmann era una donna stupenda.
Che relazione hai con New York (tutti hanno un qualche tipo di relazione con questa
città, forse caso unico al mondo)? E più in generale, cosa significa città per te?
Sono cresciuto guardando film che avevano NYC come sfondo quindi è nel mio
immaginario, come in quello di tutti, ma non ho una relazione diretta e reale con questa
città. Di sicuro preferisco il paesaggio urbano al paesaggio naturale e all’inizio ho
affrontato spesso, nel mio lavoro, la solitudine urbana e la condizione delle persone nelle
città. La città m’interessa molto come soggetto perché è simile alla musica: ha a che fare
con la composizione del significato che si sviluppa nel tempo. Stare in città è come essere
intrappolato nel tempo, in un luogo, ma hai libertà di movimento al suo interno. Decidi tu
cosa guardare e per quanto tempo e in questo è diversa dalla musica, più simile a
un’opera d’arte, a un’installazione.
In questo testo New York è “nel delirio”. Spiega un po’…
Credo che il delirio sia collegato all’incapacità di distinguere fra realtà e allucinazione,
quantomeno nel testo dove la griglia ortogonale di NYC diventa un viatico per la massima
libertà verticale. Un caos rigorosissimo. Nel nostro lavoro è un po’ lo stesso e si traduce in
uno spettacolo che è un casino, sbagliato in tutto, confusione pura ma allo stesso tempo
strutturato, ripetitivo e rigido con quattro persone che si chiamano per nome, i loro nomi
veri, ma che stanno facendo uno spettacolo, qualcosa di finto.
A che punto della ricerca di OHT sui linguaggi e sulle forme si posiziona questo
spettacolo?
Delirious NY è il primo spettacolo che ho immaginato e realizzato, un sacco di anni fa. Ora
il lavoro che faccio è diverso e cambia sempre. Non c’è una ricerca che m’interessa a
priori, preferisco dedurre i progetti dalla realtà che mi circonda. Alcuni mesi fa abbiamo
finito uno spettacolo sul tabù contemporaneo per eccellenza: il fallimento. Mentre adesso
sto lavorando a un progetto sull’idea di astratto in arte e in matematica dove la chiave del
lavoro sarà capire se gli unicorni esistono solo nella nostra testa (una forma di
allucinazione?) o se, più realisticamente, sono invisibili. In fondo se tu ora ti metti a
contare 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7… e via discorrendo non arriverai mai all’∞ ma siamo tutti
consapevoli che l’infinito esiste, da qualche parte. Quindi dev’essere invisibile, mitologico,
immaginifico. Una sorta di simbolo, su cui molti studiosi e teorici hanno centrato la loro
riflessione, come gli unicorni.