Recensione Massimo Donà, Teomorfica, Bompiani, Milano, 2015 Teomorfica di Massimo Donà è opera monumentale, si tratta di uno dei libri più singolari apparsi negli ultimi anni. Il primo dato che colpisce è la sua mole, 1200 pagine che anticipano un intento dichiarato nella premessa: quello di esporre un sistema di estetica. In questo senso la Teomorfica risponde ad un’ambizione anacronistica dato che la filosofia ha rinunciato a considerare il tutto in favore della parte e del frammento. Quest’ambizione inscrive il discorso di Donà all’interno della grande tradizione filosofica italiana che va da Gentile a Severino, nonostante una trattazione simile non abbia precedenti per dimensioni e intenti. Si apprende dall’avvertenza anteposta al primo movimento che il sistema non è stato composto tutta in una volta ma è maturato in quindici anni di lavoro tra lezioni universitarie, conferenze e convegni. Si tratta dunque di una summa composta per lo più da materiale inedito in cui confluiscono appunti, dispense universitarie e saggi, i quali definiscono il quadro teorico entro cui si è mossa la riflessione di Massimo Donà. L’origine della ricerca si rivela nella stile di scrittura, ricco di espressioni tratte dal linguaggio orale, di esempi empirici, di comparazioni, divagazioni e sospensioni. Una tale singolarità compositiva non interferisce con il rigore speculativo che ne riceve beneficio, laddove il ragionamento viene condotto senza quegli accorgimenti redazionali che spesso indeboliscono piuttosto che corroborare, il tenore argomentativo. Nelle pagine della Teomorfica si rivela non solo un contenuto di pensiero ma un’esperienza di trasmissione del sapere che prescinde dalle regole della comunicazione saggistica. E’ significativo il fatto che i riferimenti bibliografici risultino interni al testo di modo che le note a piè di pagina siano quasi assenti. Questo aspetto evidenzia l’estraneità assoluta del saggio nei confronti delle regole imposte dalla comunità scientifica. Siamo completamente fuori dalle convenzioni formali e dalle posture accademiche perché l’intento di questo libro non è soddisfare un criterio di valutazione condiviso dai professori delle Università, non è contribuire con un saggio informato e ben argomentato, al progresso della conoscenza di un aspetto determinato della storia della cultura, ma è quello di comunicare un’esperienza radicale di pensiero. Tale esperienza abbraccia l’intero ambito del sapere estetico da Platone a Man Ray. La Teormorfica è allo stesso tempo un trattato sistematico di metafisica e un guida all’esperienza estetica. Se è vero che la mancanza di riferimenti bibliografici lascia indovinare una decisa posizione teoretica è altresì vero che in nessun saggio di filosofia sono presenti tanti riferimenti alla storia dell’arte ma soprattutto agli scritti sistematici dei grandi artisti contemporanei. Donà, che non nasconde la sua prepotenza speculativa, rivela al contempo una profondissima conoscenza di questi scritti, muovendosi con disinvoltura nel panorama storico-artistico occidentale che va da Giotto a Duchamp. Ciò che colpisce è la felicità delle rispondenze che egli stabilisce tra momenti del pensiero occidentale e momenti della storia dell’arte. Questa spregiudicatezza è la forza e la debolezza del libro perché comporta la responsabilità di pensare da solo, di ripetere e approfondire lo stesso ragionamento fino ad inchiodare il lettore, al quale non si risponde con il rimando ma con l’unico supporto della logica. La rottura delle formule di richiamo ordinarie dà luogo ad uno stile privo di ammiccamenti e narcisismi (citazioni, etimologie, parole scomposte, germanismi, grecismi, incisi ecc.) che esalta la qualità principale dell’autore: la radicalità filosofica. La premessa che introduce alla trattazione muove da un’asserzione che lo studioso s’impegna a dimostrare: “parlare di ‘forma’, in relazione all’esperienza estetica, significa chiamare immediatamente in causa Dio”. Lo svolgimento del discorso nasce dunque dall’individuazione delle risposte che la storia della filosofia occidentale ha dato sopra il problema del rapporto tra “verità” e “immagine” e che Donà annoda alla storia dell’arte occidentale. L’analisi di queste risposte conduce all’individuazione di tre “luoghi” - “topoi” - entro cui l’autore ricostruisce le vicende dell’estetica e insieme dell’arte occidentale. In questo senso la Teomorfica è una topologia delle estetiche per richiamare un concetto caro a Vincenzo Vitiello, nei confronti del quale, Donà riconosce il proprio debito con la bella dedica che apre il libro. Ciò significa che non si tratta di un sistema chiuso ma aperto, che non delinea uno sviluppo progressivo della verità nell’arte ma descrive orizzonti di significato che si richiamano, che emergono secondo coordinate temporali non contigue. Le tracce seguite da Donà non offrono una ricostruzione storica quanto piuttosto un atlante. Il vantaggio del metodo della topologia è quello di mettere in luce le relazioni invisibili che legano filosofia e arte. Queste mappe trovano composizione entro l’affresco generale in cui Donà intende ricomporle: il cosiddetto terzo “topos”. Ciò che il discorso perde in termini di profondità viene guadagnato in termini di ampiezza prospettica. L’ermeneutica radicale di Donà non resta per ciò isolata dentro i testi ma rinvia ai cataloghi e soprattutto alle riflessioni degli artisti. Queste corrispondenze non stabiliscono rapporti di causa, non illustrano contesti, così come le rotture non conducono agli encomi del genio. L’operazione di Donà è piuttosto quella di verificare la persistenza all’interno di determinate pratiche discorsive e artistiche, di alcuni presupposti teorici, la cui logica egli intende indagare. Soltanto l’ultimo capitolo tenterà di fornire una lettura generale che ricomprenda i “topoi”. Si tratta di spingere alle estreme conseguenze le premesse implicite nelle tre correnti fondamentali individuate dall’autore: quella platonico-aristotelica, quella neoplatonica e quella tomisticocristiana. L’efficacia di questo schema si manifesta pienamente nel quinto capitolo, dove l’arte contemporanea appare in quanto esito necessario di un processo logico-teoretico incominciato con la nascita stessa della filosofia. La forme della Teomorfica non vanno soltanto comprese ma innanzitutto osservate. Esse appaiono, secondo rapporti intellegibili la cui necessità dipende dal principio che le presiede. Dal principio dipende dunque il ritmo delle forme che variano secondo le tre variazioni presentate. Difatti ad ogni capitolo corrisponde un movimento di modo che il volume sia concepito come una sinfonia. Eppure i capitoli non sono costruiti secondo proporzioni prestabilite, non c’è simmetria tra i paragrafi. Sembra anzi che la dissonanza agisca da regola al sistema. I tre capitoli che occupano la parte centrale del testo dedicati ai tre “topoi” presentano proporzioni molto diverse, perché lo spazio dei luoghi non è il medesimo, così come ogni estetica ha effetti diversi, che pesano diversamente. Al primo luogo sembra essere dedicata un’attenzione minore, a ben vedere però, tracce del primo topos riemergono tanto nel secondo quanto nel terzo luogo come si constata dai paragrafi conclusivi del lavoro in esame. L’architettura dell’opera presenta un edificio che poggia su tre pilastri, i tre movimenti la cui articolazione si tratta ora di esaminare. L’estensione del primo luogo è tale da comprendere Platone e Aristotele, definendo allo stesso tempo un filone per sé stante e la grammatica delle successive linee di sviluppo. Il secondo capitolo della Teomorfica, dedicato al primo movimento, costituisce non soltanto l’analisi di una traccia ma anche l’alfabeto di tutto intero la dottrina che si andrà formando sulla base dei presupposti platonico-aristotelici. L’originalità dell’impostazione del discorso presentato da Donà consiste nell’individuazione di un orizzonte platonico-aristotelico unico, la cui articolazione sarà approfondita dall’autore allo scopo di verificarne la portata nel novecento. L’afferenza di testi come la Repubblica e la Poetica al medesimo luogo concettuale non indica identità e neppure analogia quanto piuttosto la presenza in essi, di un medesimo presupposto teoretico. Secondo Donà, la critica dell’arte tragica tanto in Platone quanto in Aristotele, nonostante la differenza di segno, proverrebbe da un medesimo concetto di arte intesa come “piacere”. Le stesse ragioni che inducono Platone a separare due forme del fare mimetico, di cui solo una autentica, inducono Aristotele a definire il concetto di catarsi. Per entrambi cioè, pur essendo opposta la considerazione dell’elemento irascibile, l’arte agisce sull’elemento passionale dell’anima, distogliendo dall’esercizio della ragione. Insomma Platone e Aristotele tengono ferma la relazione tra passività-piacere e poesia. Se per lo stagirita lo spettacolo tragico libera dalle passioni mettendo in scena l’azione, per Platone tale rappresentazione agisce portando all’oblio, in quanto provoca un piacere non sottoposto all’attività dell’intelletto. Nel “piacere” entrambi riconoscono l’effetto sotteso alla mimesi artistica ma mentre per Platone esso neutralizza le passioni, per Aristotele le purifica. Le ragioni di questa differenza costituiscono l’oggetto del secondo capitolo, nel quale pure viene anticipata la questione del bello contenuta nel Timeo, secondo cui “la cosa più bella è quella che fa delle cose legate e del legame un cosa sola”. L’indagine sulle conseguenze della cosmologia del Timeo e dell’ontologia del Parmenide proseguirà nel terzo capitolo e nel quarto. Prima però, Donà analizza il concetto di unità definito dalle estetiche dell’armonia che vanno da Plotino a Malevic. Lo sforzo compiuto dall’autore mira ad una ricognizione storico-teoretica dei contributi offerti dalla riflessione estetica dei neoplatonici e non solo. A questo proposito è bene tenere presente che l’ermeneutica di Donà prescinde dalle intenzioni o dalla consapevolezza degli autori analizzati. Appartenere ad una corrente non significa necessariamente esserne consapevoli, ecco perché Donà parlerà di neoplatonismo a proposito di artisti che non hanno conosciuto Plotino. L’efficacia della Teomorfica si rivela qui dal confronto tra ontologia e arte contemporanea. Dopo aver richiamato il nucleo speculativo della tesi plotiniana sul bello, Donà mette alla prova la sua interpretazione dell’estetica dell’armonia con alcune espressioni figurative del novecento, mettendo a fuoco l’aporia causata dalla contraddizione tra la necessità di mettere in forma l’Uno e la posizione della sua indeterminatezza formale. Ogni estetica dell’armonia implicherebbe due presupposti: l’unità come orizzonte del significare e l’indeterminatezza del suo contenuto, ciò in quanto l’Uno è sempre al di là dell’essere di cui è la negazione. In ragione di tale origine l’ente soffre la separazione cui l’intelletto oppone la necessità di passare nel proprio altro. La volontà di dire l’Uno corrisponde dunque ad una esigenza costitutiva dell’ente finito. Memoria della sua infinita provenienza è il desiderio di estinguersi nell’indeterminato che l’unità del tutto riflette invano. Oggetto delle estetiche che Donà ripercorre, da Florensky a Klee, da Dionigi Areopagita a Mondrian fino a Malevic, è l’aporia che in quella vanità si manifesta, aporia che a sua volta fa segno di ciò che solo disdicendosi, appare. L’autore ha il merito, nelle pagine di questo terzo capitolo, di mostrare la complessità dei temi metafisici sottesi dalla nozione di armonia, attraverso specifici momenti del contemporaneo. La teomorfica qui diventa disciplina di conversione perché il principio spiega le forme e le forme esprimono il principio. Da questo punto di vista colpiscono le analogie invisibili scoperte dall’autore. Sebbene siano forse quelle dedicate a Mondrian le pagine più dense e sorprendenti. L’analisi del rapporto puro e della riduzione al colore primario operata da Mondrian mette la speculazione in immagine, mostrando l’aporetica della relazione tra principio e forma. Ultimo paragrafo di questo complesso capitolo ed ultimo passaggio del secondo movimento è quello dedicato al tema del “movimento puro”, qui Fichte dialoga con Boccioni. L’attenzione si sposta, dall’oggeto al soggetto, dalla tela allo spettatore, si comincia a ragionare in termini non più di rappresentazione ed è forse per questo che la trattazione si interrompe. Il secondo movimento si arresta là dove sembra indicare ciò che lo trascende, il riferimento a Beuys segnala uno sconfinamento oltre le estetiche classiche, verso un’alternativa alle dottrine del “piacere” e dell’ “armonia”. Siamo nel terzo topos, che costituisce l’oggetto che impegna Donà per la parte più consistente del suo lavoro. L’autore dichiara, all’inizio del quarto capitolo, che la prospettiva dell’estetica tomistica, è l’unica ancora aperta, l’unica in grado di produrre forme nuove. Si tratterà di verificare questa asserzione, senza dubbio però, il filone che va da Tommaso a Duchamp, delinea una prospettiva veramente inaudita nella storia dell’estetica occidentale. Se fino a questo punto sono stati collegati momenti classici nella tradizione degli studi, tracciando percorsi storicamente dati nell’arte contemporanea, da qui in poi le cose cambiano. La prospettiva dischiusa dal terzo “topos” apre uno scenario radicalmente inedito di corrispondenze tra principi filosofici e arti visive. L’orizzonte descritto da Donà coincide con lo spazio speculativo dischiuso dalla dottrina trinitaria dei padri della Chiesa e più propriamente dalla riflessione di Tommaso d’Acquino. Donà segue una intuizione formidabile e cioè che la relazione tra arte figurativa e cristianesimo penetri ben oltre il livello della causalità materiale della committenza o dei contenuti. Essa riguarda la nozione stessa di essente. Insomma, secondo Donà, senza il concetto di analogia elaborato da Tommaso e adottato dalla dottrina della Chiesa, non sarebbe possibile comprendere lo sviluppo del filone più fecondo dell’estetica occidentale: quello connesso con la riflessione trinitaria. Paradossalmente però, l’esito di questa presenza si rivelerebbe a pieno soltanto col venir meno del rapporto diretto tra opere e dottrina ossia nel novecento. La Teomorfica dovrebbe essere in grado di dimostrare che il cristianesimo filosofico di Tommaso costituisce il terreno di sviluppo teorico di una concezione estetica irriducibile tanto ad Aristotele quanto a Platone e al Neoplatonismo. La portata del discorso è tale da coinvolgere un costante confronto con i primi due topoi dato che un aspetto peculiare del terzo movimento consiste nel fatto per cui esso è ad un tempo radicalmente alternativo ai primi due, ed è capace di “inverarli” ovvero di costituire un orizzonte di comprensione che assegni un significato positivo alle loro aporie. Il nucleo teoretico al cuore della speculazione tomistica sul “bello” deriva dalla necessità di tenere insieme l’assoluta semplicità e triunità del principio, oppure l’identità di essenza ed esistenza con la creazione del mondo. Secondo Donà la logica che sovrintende l’accordo di questi due momenti consente di pensare l’esistenza di un qualunque oggetto nella sua ir-relatività assoluta ovvero nella sua pura apparenza, libera dal rapporto di negazione col proprio altro che la determina, quindi “bella”. Il dispositivo congegnato da Tommaso, ricade immediatamente sul piano dell’estetica e della teoria dell’arte, attingendo quest’ultima, inavvertitamente o meno, al concetto che chiarisce le istanze di metodo di artisti come Kandisky, Tzara o Pollock (pur con tutte le distinzioni del caso): quello di singolarità analogica del principio. La singolarità è l’oggetto, la cosa nella sua pura parvenza artistica, data eppure indifferente al proprio altro. Il rapporto tra Dio e la forme si presenta qui come necessità dell’essere eterno, di fare liberamente, distinguendosi negli oggetti che creando, rende simili a sé. Perfettamente simili. Dentro questo quadro teorico, Donà inscrive l’ontologia trinitaria di Agostino ed Hegel, articolando in tutta la sua complessità l’economia delle persone su un piano estetico. Il piano del terzo luogo, che è il piano dell’in-dividuale, il quale coincide con l’oggetto stesso dell’esperienza artistica. La ricerca delle avanguardie coincide con il tentativo di pervenire a ciò che, oltrepassando il concetto armonico ed edonistico del bello, è il bello in sé, isolato dalle nozioni sensibili che lo mettono in un sistema di riferimenti o di rimandi semantici. Donà insiste molto su questo punto: non si tratta di riconoscere un qualche debito delle avanguardie artistiche nei confronti della filosofia ma di considerare il significato di quel fare alla luce di un quadro teorico che lo rende comprensibile su un piano che non è quello dell’arte bensì dell’estetica ovvero della filosofia. Alcune domande però si impongono: l’arte esige o no la posizione di questo piano concettuale? Quanto incide sul fare artistico o sulla sua fruizione la consapevolezza di questo discorso? Se esso conta qualcosa in che senso l’esperienza artistica può risolversi nella comprensione del significato universale rispetto all’oggettività data? Cosa resta insomma dell’arte dopo la Teomorfica oppure, provando a rovesciare la domanda: a cosa serve la Teomorfica se è imperfetta qualsivoglia predicazione che interessi l’oggetto? Non è forse il linguaggio tutto inscritto nella relazionalità dei significati che fanno cadere il singolare? Eppure il terzo topos sembrerebbe alludere ad una forma del fare capace di indicare concretamente la singolarità dell’essente, di farlo percepire nella sua paradossale irrelatività-semplicità. Che dire allora della poesia? E della filosofia? Non possiamo che lasciare queste domande all’indulgenza del lettore e dell’autore, consapevoli che abbiamo sin qui potuto soltanto fornire l’indice niente affatto esaustivo di una vera e propria summa di estetica con la quale chi abbia a cuore la questione non solo dell’arte ma della filosofia, dovrà confrontarsi.