Sapelli: «Spending review senza tagliare la spesa pubblica. Tra le più basse d’Europa» - Fabio Veronica Forcella, 18.08.2015 Intervista. L'economista, professore alla Statale, spiega perché non siamo sulla strada giusta «Non siamo sulla strada giusta», dichiara al manifesto leconomista Giulio Sapelli, professore ordinario di economia politica alla Statale di Milano, commentando i dati pubblicati dallIstat sulla crescita dello 0,2% del Pil nel secondo trimestre. «Bisogna detassare il lavoro e le imprese per creare più occupazione e avere più coraggio nel tagliare le rendite di posizione», sostiene Sapelli, ricordando, allo stesso tempo, che la spesa pubblica italiana é inferiore a quella di Francia e Germania. Professore, siamo sulla strada giusta, come dice il governo o anche lei vede il bicchiere quasi vuoto? Non siamo sulla strada giusta. Peraltro, l’andamento dell’economia mondiale va verso una colossale frenata. L’unico dato in controtendenza, grazie a una politica monetaria e – di fatto – ad una politica di ritorno dell’intervento dello stato in economia, sono gli Stati uniti. E soprattutto è clamorosamente fallito in tutto il mondo il modello di sviluppo fondato sulla prevalenza delle esportazioni. Non è un caso che gli Stati uniti crescano, perché è un paese che esporta solo il 10% del suo Pil e punta tutto sulla domanda interna. È realistico lobiettivo di uno 0,7% di Pil per il 2015, come fissato prudenzialmente dal governo Renzi? Mi auguro di sì. Ma un capo di governo dovrebbe presentare ai cittadini un programma per crescere almeno di 2-3 punti nei prossimi anni. Forse si arriverà anche allo 0,7% grazie ad alcune misure che cercano di ridare fiducia alla gente e che sostengono un leggero aumento della domanda interna. Ma ci vuole più coraggio. Bisogna cambiare rotta. Verso quale direzione? Bisogna detassare. Siamo, dopo i paesi scandinavi, il paese con la più alta tassazione sul lavoro e sui redditi d’impresa. Se non si fa profitto non si fa produzione e non si crea occupazione. E, se non si crea occupazione non riparte la domanda interna. Una cosa è certa, con gli zero virgola non si crea lavoro. Assolutamente no. Non si crea nulla in termini di occupazione. Ricordiamoci sempre che in 15 anni abbiamo perso 20 punti di Pil. Abbiamo distrutto domanda effettiva che significa fabbriche chiuse e disoccupazione. Di quali misure ci sarebbe bisogno? Sarebbe importante agire sui costi standard di cui si parla da anni. Ma c’è una resistenza fortissima da tutta quella parte di imprenditorialità assistita ancora molto forte soprattutto nel Mezzogiorno, ma non solo. Vendere tutto quel patrimonio dello stato che non genera profitto, ma che garantisce solo rendite burocratiche. Non si è mai riusciti a farlo veramente a causa delle fortissime resistenze dell’alta burocrazia dello stato. Il governo dovrebbe fare con più coraggio la Spending review senza però tagliare la spesa pubblica. Noi abbiamo la spesa pubblica tra le più basse d’Europa, visto che sia Francia che Germania hanno più dipendenti pubblici di noi. Infine, perché mantenere l’autonomia delle regioni a statuto speciale? È vero che il Trentino Alto-Adige non è la Sicilia, ma in entrambe ci sono troppe spese inutili. Quanto della debole ripresa può essere addebitato alla miope politica euro-tedesca? La politica deflattiva e fondata sul surplus del commercio estero e sull’annichilimento della domanda interna dei paesi del Sud e il loro indebitamento è la causa prima della crisi, non solo dell’Italia, ma dell’Europa. È ormai chiaro il dominio che la Germania esercita senza ritegno sull’Europa, con dichiarazioni arroganti, con l’occupazione di tutti i posti tecnocratici di livello – salvo la Bce – perché gli americani l’hanno affidata a un loro importante rappresentante Mario Draghi. Gli indicatori segnalano problemi in Francia e in Finlandia. Anche la locomotiva tedesca comincia a rallentare, segno inequivocabile del fallimento dell’austerity? Eravamo in molti a dire, in tempi non sospetti, che la crisi avrebbe colpito anche la Germania. Le famose riforme Schröder, tanto magnificate, sono state riforme suicide perché hanno sollevato l’economia tedesca nel breve periodo, ma adesso si ritorcono contro il paese. Un terzo del lavoratori della Germania guadagna 800 euro,mentre prima una forza dei tedeschi era proprio il loro mercato interno. Oggi, al contrario, scommettono tutto sulle esportazioni che valgono il 39% del Pil. Eppure anche loro vedono la crescita che si sta fermando, il calo della domanda interna, mentre il debito pubblico aumenta. Le riforme Schröder con la flessibilizzazione del mercato del lavoro non consentono più di creare capitale umano e non è un caso che la produttività del lavoro stia calando in tutto il mondo. Sono anni che economisti e sociologi di tutto il mondo si interrogano sul Pil e sulla sua reale capacità di misurare la ricchezza e il benessere di un paese. Crede anche lei sia ormai un indicatore obsoleto? È ancora valido, ma non è più sufficiente. Vorrei tanto, però, che prima di pensare a un nuovo indicatore, si tornasse ad un idea di economia giusta: non è quella che fa solo profitti per gli azionisti, ma quella che fa piena occupazione. © 2017 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE