TRAUMA E DISTURBI DI APPRENDIMENTO

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Elena Simonetta
TRAUMA E DISTURBI DI
APPRENDIMENTO
La disgnosia quale adattamento al trauma
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Capitolo primo: Disgnosia come adattamento al trauma
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
Dal disagio alla disgnosia
Il concetto di disgnosia
La disgnosia come adattamento agli esiti traumatici
Disturbi di apprendimento e inibizione psicomotoria
La disgrafia come disgnosia motoria
Capitolo secondo: Attaccamento insicuro e disgnosia
2.1. Correlazione tra aspetti psichici e aspetti psicomotori
nei disturbi di attaccamento
2.2. Modalità di attaccamento, tipologie psicomotorie e disturbi
di apprendimento
2.3. Disturbi psicomotori e disturbi di attaccamento
2.4. La disgnosia quale strategia controllante cognitiva
Capitolo terzo: I disturbi dell’attaccamento origine
dei disturbi dell’apprendimento
3.1. I disturbi di attaccamento e gli stati mentali
3.2. L’oscillazione tra posizione schizoparanoide e posizione
depressiva rappresenta la salute dell’apparato per pensare
3.3. La teoria dell’attaccamento
3.4. Il trauma cumulativo e lo sviluppo cognitivo
3.5. Vulnerabilità e resilienza e adattamento al trauma
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Capitolo quarto: Disgnosia e disturbi funzionali
di apprendimento
4.1. Gli automatismi: una potenzialità fondamentale
4.2. Il potenziale cognitivo: efficienza corporea e disponibilità
mentale
4.3. La zona dello sviluppo prossimale o potenziale
4.4. Dislessia come disprassia sequenziale
Capitolo quinto: Prerequisiti per apprendere e disgnosia
5.1. La strutturazione percettiva
5.2. Fattori psicomotori e sviluppo linguistico
5.3. Elementi fondamentali nell’apprendimento della matematica,
in relazione all’esperienza naturale e spontanea del bambino
5.4. Articolazione tra le funzioni cognitive linguistiche e
le funzioni psicomotorie
5.5. Sviluppo del linguaggio e delle funzioni cognitive simboliche
5.6. La disgnosia, vero disturbo di apprendimento
Capitolo sesto: La disgnosia e il gioco: la mancanza
di creatività
6.1. Evoluzione funzionale
6.2. Gli effetti del trauma sul gioco
6.3. Angoscia di castrazione e manifestazioni
nell’organizzazione psicomotoria
6.4. Il gioco disordinato
Capitolo settimo: Disgnosia e EMDR
7.1. Elaborazione adattiva dell’informazione e EMDR
7.2. La metodologia EMDR
7.3. Un effetto degli eventi traumatici: lo strutturarsi
delle convinzioni irrazionali
7.4. Schemi disfunzionali e disgnosia
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Capitolo ottavo: Dislessia o trauma dell’identità?
8.1. L’identità come fenomeno psicosomatico
8.2. La prevalenza tonico-motoria quale manifestazione
dell’identità
8.3. Il sistema vestibolare e l’origine della dislessia
8.4. La mancata individuazione-separazione e i disturbi
di apprendimento
8.5. Elementi traumatici della dislessia
8.6. Disgnosia e dislessia: modalità diverse del disturbo
di apprendimento
Capitolo nono: TEP-RED
9.1. I fattori psicomotori e gli aspetti multifattoriali
dell’apprendimento
9.2. La stimolazione vestibolare
9.3. La prevenzione dei disturbi di apprendimento attraverso
la somministrazione di prove psicomotorie funzionali
Bibliografia
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Capitolo primo
Disgnosia come adattamento al trauma
1.1. Dal disagio alla disgnosia
Il quotidiano rapporto con bambini che presentano un disturbo
specifico di apprendimento (DSA) e che sono in situazione di disagio
relazionale mi ha indotto a pensare che non tutte le difficoltà scolastiche giovanili siano imputabili alla sola dislessia, ma a ritenere che
vadano collegate anche e soprattutto alla disgnosia, quale manifestazione, in ambito cognitivo, di una sofferenza affettiva e di un disagio
che colpiscono nel profondo il soggetto e la sua organizzazione gnosica. La persona umana è un’unità: questa unità di comportamento e
di manifestazione è molto più evidente nel bambino che nell’adulto,
e per questo non è possibile affrontare il problema posto dal disagio
scolastico senza collocarlo all’interno di un disagio più generale di
tutta la persona.
A questo proposito vorrei citare le parole di Daniel J. Siegel (2001)
che scrive: «… le emozioni costituiscono i processi fondamentali attraverso i quali la mente conferisce valori e significati a eventi interni
e esterni, e indirizza i nostri meccanismi attenzionali nell’ulteriore
elaborazione di queste rappresentazioni. Le emozioni riflettono quindi le modalità con cui la mente dirige i suoi flussi di energia e informazioni, e la modulazione delle emozioni è il modo con cui regola
energia e processing delle informazioni. In base a questa prospettiva,
la regolazione delle emozioni diventa un processo centrale nell’autorganizzazione della mente». Più avanti Siegel aggiunge: «I processi
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d’integrazione [del sé] permettono lo stabilirsi di un senso di congruenza e stabilità all’interno di pattern flessibili nei flussi di energia
e informazioni: questa è coerenza della mente. In altri, conflitti fra
bisogni, modelli mentali e stati del sé differenti, possono portare a
difficoltà interne o esterne che generano quadri incoerenti o disfunzionali».
Anche da queste citazioni appare che il disfunzionamento apprenditivo, collegato alla disgnosia, si genera da un disfunzionamento più
ampio collegato alla non elaborazione di emozioni o alla abreazione
da eccessive emozioni negative. Emozioni e percezioni si strutturano
reciprocamente, e insieme organizzano lo stato d’integrazione del sé
nell’io e di coesione della mente. La non coesione del sé comporta una
specie di disassociazione della mente, collegata a un blocco delle capacità integrative cognitive, e ciò porta di conseguenza all’incapacità
di dirigere i processi gnosici generali. Lo stesso Siegel scrive a questo
proposito: «Mentre la mente emerge all’interno del flusso degli stati
del sé, crea coerenza fra questi diversi stati attraverso un processo
che abbiamo definito come integrazione. L’integrazione permette alla
mente di regolare i flussi di energia e i processi di elaborazione delle
informazioni, e di collegare e coordinare le sue attività in maniera
adattiva; flussi di energia e informazioni scarsamente flessibili e maladattive generano incoerenza». I processi di sintonizzazione affettiva
e l’organizzazione delle funzioni corporee hanno quindi una pesante
influenza sullo sviluppo della mente e delle sue funzioni integrative e
da questa influenza dipende l’organizzazione delle funzioni gnosiche
integrate e stabili: la mancanza di questa coerenza gnosica è appunto
ciò che si intende con disgnosia.
L’ipotesi che presento in queste pagine riguarda la possibilità
che i disturbi di apprendimento specifico non siano in realtà disturbi
dell’apprendere, bensì problematiche collegate alla incompleta o carente integrazione psiche-soma. Tra gli aspetti che concorrono a determinare questa integrazione difficoltosa desidero prendere in considerazione quelli collegati a esperienze traumatiche infantili, specie
nel periodo preverbale, quando il bambino non ha ancora la possibilità di esprimere con le parole le esperienze di particolare gravità che
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compromettono il suo senso di stabilità e continuità psichica. Ricky
Greenwald (2000) scrive: «Le intrusioni possono continuare a scatenare l’eccessiva reattività e a invadere il bambino, non solo con una
paura generica, ma anche con specifici pensieri e sentimenti che affiorano dal ricordo traumatico non elaborato. Per esempio il bambino
potrebbe giungere ad avvertire un più generale senso di vulnerabilità
e inefficacia e a diventare per questo apatico. In questo modo la risposta al trauma diventa un principio organizzativo primario, intorno al
quale si costituisce la personalità, l’umore e il comportamento».
L’aspetto che disturba significativamente le possibilità di apprendere, sia in un soggetto dislessico sia in un soggetto non dislessico, è
dunque la disgnosia (Simonetta 2004), cioè la difficoltà a conoscere
e a realizzare confronti e analogie operando con la mente, pur in presenza di un quoziente intellettivo nella norma. Questa difficoltà, che
si può presentare senza dislessia, condiziona spesso anche le capacità
di calcolo mentale, oltre che il ragionamento ipotetico-deduttivo. Si
tratta quindi di un vero disturbo di apprendimento, che quando si manifesta associato alla dislessia, alla disortografia o alla disgrafia, o alla
discalcolia, rallenta o impedisce le possibilità di apprendimento del
soggetto, in particolare quelle fondate sul codice simbolico grafico.
La memorizzazione viene impedita da un inadeguato processo
percettivo e la rappresentazione dei concetti è quindi a sua volta inadeguata. Ci sono difficoltà a comprendere e integrare le nuove conoscenze anche in presenza di un quoziente intellettivo nella norma,
molto basso ma nella norma. Spesso i soggetti “disgnosici” hanno un
quoziente intellettivo complessivo tra i 70 e gli 85 punti, oppure, considerati i due aspetti Verbale e Performance, possono presentare un
punteggio normale o alto in uno dei due e molto basso, ma pur sempre
nella norma nell’altro (per esempio Verbale 72, Performance 100). Si
tratta di un sistema di adattamento agli esiti dai cosiddetti traumi a t
piccolo e può essere correlato a un ritardo di linguaggio, un ritardo
senso-motorio o percettivo-motorio, a un ritardo nell’organizzazione
della rappresentazione mentale, a difficoltà attenzionali, a mancata
modalità di elaborazione adattiva dell’informazione a seguito di disfunzionamento emotivo.
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A tale proposito, Francine Shapiro (1998) sostiene che i traumi e
i loro esiti rendono disfunzionale il sistema adattivo dell’elaborazione dell’informazione. In effetti i traumi a t piccolo comportano nel
soggetto disgnosico un’elaborazione disadattiva delle informazioni.
L’informazione “disadattiva” è tale in quanto non diventa percezione,
o peggio rappresentazione. Sono carenti le funzioni cognitive psicomotorie e/o psicolinguistiche, gli schemi cognitivi e le modalità visuo-spaziali sono poveri, le rappresentazioni cognitive e le immagini
mentali dei concetti sono molto scarse. Inoltre nella disgnosia entrano pesantemente in gioco la incompleta evoluzione della funzione
energetico-affettiva (Le Boulch 1999), collegata all’emotività, per cui
risultano molto scarse la vigilanza, nella sua forma di attenzione, e
l’intenzionalità, mentre l’iniziativa è pressoché inesistente. Tutto ciò
determina scarsa o nulla autonomia.
I soggetti disgnosici sono carenti anche nella risposta motoria,
quale funzione di aggiustamento all’ambiente (Le Boulch 2000), in
quanto tendono a rispondere sempre con lo stesso schema d’azione e
hanno difficoltà nel realizzare risposte motorie più adattate. Dal punto
di vista psicolinguistico il lessico è molto povero, la grammatica e
la sintassi sono poco integrate nell’organizzazione del linguaggio. In
particolare i soggetti disgnosici non riconoscono il valore funzionale
di avverbi, preposizioni e congiunzioni; queste parti funzionali del
linguaggio non riescono a tradursi in rappresentazioni. L’organizzazione di una frase in base alle sue caratteristiche espressive ha una
modulazione ritmica diversa a seconda della sua tipologia: i soggetti
disgnosici faticano a cogliere questa organizzazione ritmica. La sintassi s’impara inizialmente da 0 a 3 anni, sentendo parlare i genitori,
successivamente, quando si comincia a utilizzare la consecutio temporum, si trasferisce nel linguaggio verbale l’esperienza vissuta e la
sequenza delle azioni. Il ritardo nell’utilizzazione del linguaggio è
quindi indicativo della mancata o incompleta organizzazione linguistica funzionale, dove l’aspetto cronologicamente primario è quello
fonetico/fonologico. L’ipotonia o l’ipertonicità motorie si ripercuotono anche sui muscoli della bocca e delle mascelle, responsabili dell’articolazione dei suoni. La difficoltà nel calcolo a mente e alcuni aspetti
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della difficoltà di apprendimento della matematica sono legati a una
carente capacità di rappresentazione mentale delle quantità e dei fatti
numerici. L’importanza di un’adeguata comprensione del linguaggio
è fondamentale anche per gli apprendimenti logico-matematici. Senza
adeguati prerequisiti psicolinguistici e psicomotori, l’apprendimento
degli aspetti noetici della matematica è molto difficoltoso. I tempi di
attenzione sono molto brevi, sia riguardo all’aspetto selettivo, sia alla
concentrazione globale sul compito. La disgnosia appare quindi come
la difficoltà nel realizzare la funzione gnosica a causa di prerequisiti
carenti in ambito psicomotorio e psicolinguistico e logico-linguistico.
Questi prerequisiti sono tali al momento dell’ingresso nella scuola
primaria.
Questo disturbo compare molto spesso in quei bambini che si
trovano in uno stato di disagio relazionale o ambientale e che sono
stati affettivamente privati o deprivati (Winnicott 1986), ovvero che
“stanno male dentro” (corsivo mio). Le gravi sofferenze affettive e
l’inadeguato sviluppo psichico rendono le capacità cognitive di questi
bambini molto compromesse: è a questa compromissione che attribuisco il nome di disgnosia. I disturbi di apprendimento possono quindi
essere collegati a un disagio infantile e a loro volta determinare il
disagio a livello scolastico (Simonetta 2004).
Di seguito cercherò di fare un collegamento tra la disgnosia e gli
esiti della traumatizzazione, col proposito di dimostrare come la disgnosia sia un reale disturbo di apprendimento, che origina da cause
diverse dai disturbi specifici funzionali di apprendimento quali dislessia, disortografia, discalcolia, disgrafia. Questi disturbi sono stati
anche definiti come disprassia sequenziale da Piero Crispiani e Maria
Letizia Capparucci dell’Università di Macerata.
Esiste un collegamento tra gli esiti sfavorevoli dei traumi infantili
(Felitti et al. 2001) e la disgnosia come disturbo di apprendimento.
I traumi possono essere diversi e dare esiti differenti: alcuni possono agire solo sul versante più funzionale come dislessia, disgrafia,
disortografia e discalcolia; altri sul versante cognitivo, dando origine alla disgnosia. La mia analisi è basata sull’esperienza clinica: nei
soggetti con disturbo specifico di apprendimento si sono potuti indi13
viduare anche aspetti dissociativi, che sono gli esiti più riconosciuti
dei traumi.
Bessel Van der Kolk (Van der Kolk et al. 2004) definisce gli stressors traumatici come «quegli eventi che eludono i meccanismi attraverso cui normalmente interpretiamo le nostre reazioni, ordiniamo
le nostre percezioni del comportamento altrui e ci creiamo schemi di
interazione con la realtà». Secondo lo stesso autore essi «si possono
distinguere in tre differenti categorie: la prima comprende eventi con
durata limitata nel tempo, come per esempio un incidente aereo o uno
stupro, caratterizzati dall’imprevisto e dall’intensità dell’evento; la
seconda si riferisce a stressors sequenziali con possibile effetto cumulativo; infine, vi sono gli eventi traumatici caratterizzati da un’esposizione prolungata, che possono provocare incertezza e sentimenti di
impotenza, pregiudicando i legami di attaccamento e un fondamentale senso di insicurezza».
La Shapiro (1998) distingue i traumi in due grandi categorie: quelli con la T maiuscola che includono eventi percepiti come una minaccia alla propria vita (tra cui guerre, aggressioni, ecc.), e traumi con la
t minuscola, che si associano, invece, a esperienze della vita di tutti i
giorni e innocue, se paragonate alle precedenti, ma comunque moleste per il modo in cui l’individuo le elabora e percepisce.
Anche McCullogh (2002), psicoterapeuta della Harvard University, parla di traumi con la t minuscola (small t), riprendendo in tal
modo il concetto precedentemente esposto dalla Shapiro. Egli considera questi ultimi un pattern di esperienze dolorose precoci che avvengono ripetutamente per molti anni, e li pone alla base delle patologie dell’asse II (disturbi di personalità).
Rifacendomi al pensiero di Donald W. Winnicott e di John Bowlby
in particolare, ho interpretato gli esiti di alcune esperienze infantili nei
loro aspetti traumatici, dissociativi, come origine di una carente integrazione psiche-soma. La psiche è infatti l’elaborazione immaginativa
delle parti somatiche, dei sentimenti, delle funzioni corporee. Winnicott parla di elaborazione immaginativa dell’individuo umano che non
nasce con un dentro e un fuori, e il sé, che rappresenta il dentro e il
fuori, si costituisce e si struttura con la psiche che s’insedia nel corpo.
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Sempre secondo Winnicott, sono solamente il sé e l’esistenza del sé
che possono dare il senso di vivere a ogni individuo in ogni stadio della sua esistenza e della sua crescita. Sono proprio i processi di crescita
che consentono la realizzazione di un’identità personale, dove la crescita, in quanto processo maturativo, è una forza motrice e motivante.
La psiche dunque si salda nel corpo attraverso tre processi: integrazione, personalizzazione e riconoscimento del tempo e dello spazio.
1.1.1. Aspetti dissociativi e disturbi di apprendimento
In presenza del trauma, per difendersi dall’angoscia o dalla sofferenza il soggetto può reagire dissociando alcuni ricordi, con la conseguente alterazione del senso di continuità del sé, che a sua volta
comporta confusione o alterazione d’identità. Gli effetti del trauma
sembrano proprio agire sulla modificazione dell’identità, o di alcuni
suoi aspetti, procurando al sé una mutilazione profonda. Scrive Frank
W. Putnam (2005): «Una possibile conseguenza della compartimentalizzazione dissociativa sembra essere la struttura relativamente “non
elaborata” del materiale traumatico. Le esperienze dolorose, allontanate dissociativamente dalla coscienza, sembrano, a differenza di
altri ricordi, non aver subito alcuna trasformazione psicologica nel
corso del tempo; esse presentano una qualità “grezza” emotivamente
attuale». Una modificazione di origine traumatica del sé può essere
in relazione con l’identificazione fusa e confusiva con il sé materno o
paterno, che si presenta come una modalità con cui il sé, per difendersi da una probabile frammentazione irreversibile, accetta di sacrificarsi alle proiezioni genitoriali che spingono perché ciò avvenga. Questo
comportamento ha degli effetti traumatici ai quali il soggetto reagisce
organizzando la propria identità sulla base di tanti piccoli traumi relazionali che interferiscono con lo sviluppo psichico. In effetti, proprio
a livello identificativo, l’effetto dei traumi interferisce con il processo
d’identificazione e con l’installarsi della psiche nel soma. Il dover accogliere parti di proiezioni scisse genitoriali (Ogden 1994) comporta
un danno identificativo che determina, o può determinare, una non
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adeguata, o non completa, o difettosa integrazione psicosomatica del
sé nell’io.
Questi fenomeni determinano una difficoltà nell’organizzazione funzionale della mente, che Siegel (2001) chiama “gli stati della
mente”, in particolare nelle sue potenzialità cognitive, tali da indurre
nel soggetto una reale incapacità gnosica di confronto con l’ambiente
esterno. Scrive Siegel in La mente relazionale: «Gli stati della mente
permettono al cervello di raggiungere una coesione funzionale. Uno
stato della mente può essere definito come l’insieme di pattern di attivazione all’interno del cervello in un determinato momento». I disturbi specifici dell’apprendimento possono essere una buona rappresentazione di stati della mente alterati o inadeguati nello svolgere due
compiti fondamentali, ovvero, secondo lo stesso Siegel, «coordinare
le attività del momento, e creare pattern di attivazione cerebrale che
possono in seguito diventare più probabili». In questa definizione di
Siegel si riconosce la descrizione degli automatismi cognitivi o motòri che si devono strutturare nella mente per consentire al soggetto un
adeguato background emozionale e funzionale. Siegel continua: «In
altre parole uno stato della mente può diventare una configurazione,
un profilo di attività cerebrale che viene “ricordato”».
Dislessia e disortografia, come la disgnosia, possono essere esiti
di una forma di dissociazione che presenta un’amnesia fonografemica o grafofonemica, dove il segno e il suono non mantengono la loro
costanza fonetica o grafica. Scrive Putnam (2005): «Le fluttuazioni
nel livello delle capacità fondamentali, nelle abitudini e nel ricordo
di eventi noti sono forme classiche di disfunzione della memoria nei
pazienti con tendenze dissociative. Tali pazienti, quando sono invitati
a fare qualche cosa con cui hanno grande familiarità, descrivono tipicamente un senso improvviso di totale incapacità. Paradossalmente
è come se intermittenti amnesie colpissero in modo particolare informazioni e capacità più che consolidate».
La possibilità di formulare questa concezione del disturbo di apprendimento si fonda, oltre che sull’ipotesi di una dissociazione di
alcuni stati della mente, anche sull’analisi delle funzioni psicomotorie profonde (Simonetta 2004), considerate come uniche potenzialità
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neuropsicologiche che consentono e facilitano l’integrazione e il collocamento adeguato della psiche nel soma. Personalmente, ricollego
alcune forme di disagio infantile, sul piano dell’evoluzione relazionale e dello sviluppo del sé, con la mancata o carente strutturazione
delle funzioni psicomotorie: la funzione di veglia, di aggiustamento,
di percezione. Le medesime vengono anche individuate come importanti segnali di una corretta evoluzione affettivo-relazionale e, pertanto, un loro eventuale disturbo come manifestazione di un disagio di
tale origine. Infatti la corretta e completa evoluzione delle funzioni
psicomotorie favorisce la consapevolezza di sé che, grazie all’interazione delle funzioni energetiche con quelle operativo-cognitive, permette di associare le immagini del corpo operatorio a quella del corpo
libidico.
1.1.2. Prerequisiti all’apprendimento legati all’affermazione del sé
La funzione energetico-affettiva e la funzione operativo-cognitiva
esercitano una integrazione psicosomatica evolutiva. La prima manifestazione della funzione energetico-affettiva è l’emergere della veglia, che consente al soggetto gli scambi con l’ambiente circostante e
da qui comincia l’integrazione psiche-soma.
I disturbi specifici di apprendimento non sono quindi disturbi delle
capacità di apprendere, bensì disturbi dell’integrazione psiche-soma
che influisce sulla organizzazione dei prerequisiti all’apprendimento
e sull’affermazione del sé, a seguito degli esiti di traumi a T grande e a t piccolo. Nei primi sei anni di vita i prerequisiti psicomotori
all’apprendimento, quali le funzioni energetiche e di vigilanza, quelle
prassiche ed espressive e quelle senso-percettive, se non evolvono
nella cronologia e secondo la modalità corretta, non consentono di
accedere agli apprendimenti in modo adeguato.
Inoltre, c’è un secondo grande ambito di prerequisiti che evolve
parallelamente a determinate funzioni psicomotorie e che risente della incompleta integrazione psiche-soma, quello delle funzioni linguistiche e fonetico-linguistiche. Sia l’adeguata evoluzione psicomotoria
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che lo sviluppo linguistico-simbolico, insieme all’affermazione del
sé e alla positiva organizzazione dei prerequisiti, sono strettamente
dipendenti dalla tipologia dell’attaccamento relazionale che va ad
agire sull’integrazione psicosomatica. Nei bambini che presentano
un attaccamento insicuro e una carente o incompleta integrazione
psiche-soma, al momento dell’alfabetizzazione subentrano i disturbi specifici di apprendimento, quali manifestazioni di un inadeguato
funzionamento cognitivo. I disturbi specifici compaiono al momento
della scolarizzazione, ma prima di questa tappa vi sono altri segnali
che coinvolgono i prerequisiti psicomotori e psicolinguistici carenti,
individuabili sin dalla prima infanzia, che porteranno necessariamente al concretizzarsi di un disturbo specifico nella fase della scolarizzazione.
Il sé è l’io vissuto come oggetto dall’io soggetto. La nozione di
sé è sia un dato del nostro vissuto concreto, sia una delle funzioni
dell’io. Secondo Tommaso Senise (1981) costituiscono il sé: «lo stato e le caratteristiche, le potenzialità e le capacità, i pregi e i difetti
dell’io fisico e psichico; cioè, da un lato, del suo aspetto, della sua autonomia e fisiologia, della sua motricità; dall’altro, dei suoi sentimenti e pensieri, consci e preconsci, dei suoi desideri, impulsi e atteggiamenti, delle sue attività mentali». Il vissuto dell’immagine globale e
unitaria del sé costituisce l’identità personale. La incompleta o carente integrazione psiche-soma può comportare come adattamento una
“intellettualizzazione”, in cui la mente prende in carico tutto, dando
origine a gravi problemi perché il corpo viene negato (è ad esempio
ciò che spesso si osserva nei disturbi del comportamento alimentare).
D’altra parte, quando viene negata la mente, ci troviamo di fronte a
una patologia dove tutta la metafora passa dal corpo: i disturbi di apprendimento specifico.
Il disturbo di apprendimento specifico nasce proprio come manifestazione di un disagio della creatività a seguito di una incompleta
o inadeguata integrazione degli aspetti psicosomatici, e in particolare di una difficoltosa evoluzione del sé corporeo rappresentato dalle
funzioni psicomotorie individuali. Scrive Winnicott (1983): «È nel
giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è
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in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è
solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé». In questa evoluzione dissociata tra il sé corporeo e la propria psiche, si determina
una non-attivazione della mente individuale di un soggetto, il cui intelletto è sostituito da quello di un’altra persona, che si fa carico di
gestire il suo pensiero e di organizzarne gli aspetti relativi alla totale
autonomia personale. Quindi, quando la metafora passa dal solo corpo, significa che le funzioni cognitive non si sviluppano, perché è
presente una evoluzione corporea fondata sulla incorporazione e la
depersonalizzazione, che non consentono agli altri aspetti evolutivi di
comparire. Scrive Putnam (2005): “La depersonalizzazione è il senso
di irrealtà del sé o di parti del sé”, e si accompagna frequentemente alla derealizzazione che, sempre secondo Putnam, “è il senso di
una perdita di realtà dell’ambiente immediato”. Il fenomeno dell’incorporazione, caratteristico della fase orale, è la traduzione corporea
del processo d’introiezione che costituisce l’opposto del processo di
proiezione. Tramite l’introiezione il soggetto fa passare, in modo fantasmatico, dal “di fuori” al “di dentro” di sé oggetti e loro qualità; in
questo modo l’introiezione appare proprio come sinonimo d’identificazione e in particolare con le figure parentali. In realtà questa forma
d’introiezione non corrisponde alla possibilità d’identificarsi, proprio
a causa dell’azione traumatica delle proiezioni genitoriali. Il soggetto
non evolve dalla semplice incorporazione alla identificazione, ma resta come riempito di tanti aspetti genitoriali scissi, da lui introiettati.
Winnicott in Esplorazioni psicoanalitiche (1995) definisce la depersonalizzazione come «la perdita di contatto del bambino o del paziente
con il proprio corpo e il funzionamento corporeo, il che implica l’esistenza di qualche altro aspetto della personalità». Inoltre, l’integrità
corporea e la funzionalità somatica del soggetto, in base alla introiezione delle qualità parentali, sostengono la rappresentazione del figlio
idealizzato nella mente dei genitori. Viene a mancare il collocamento
psicosomatico della mente, e per questo fatto il corpo resta solo e
quindi necessita della guida di una mente esterna. Nello stesso testo,
Winnicott usa il termine di personalizzazione per attirare l’attenzione
sul fatto che «l’inserirsi di quest’altra parte della personalità nel corpo
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e lo stabile legame con qualunque cosa si possa chiamare “psiche”
rappresenta, in termini di sviluppo, una conquista sana»; e più avanti
aggiunge: «Le due cose quindi vanno insieme nello sviluppo sano:
il senso di fiducia in una relazione offre l’opportunità di una serena
inversione dei processi integrativi, mentre nello stesso tempo facilita
la tendenza generale innata che il bambino ha verso l’integrazione e,
come non mi stanco di sottolineare in questo scritto, verso l’insediamento della psiche nel corpo e nel funzionamento corporeo».
1.2. Il concetto di disgnosia
La disgnosia è il vero esito di un trauma a t piccolo. I traumi come
la mancata affermazione della prevalenza naturale portano verso disturbi più funzionali come la dislessia; invece traumi più profondi
riguardanti l’identità, ma soprattutto l’attaccamento, portano verso la
disgnosia. La disgnosia è sempre esito di un trauma o di tanti traumi
a t piccolo.
La disgnosia è il disturbo delle capacità di conoscere o di apprendere per incompleta integrazione psiche-soma collegata a ritardo psicomotorio, ritardo nelle funzioni psicolinguistiche e nella evoluzione
della rappresentazione mentale, elemento che collega il linguaggio
allo sviluppo psicomotorio.
1.2.1. Gli aspetti energetici della disgnosia
Gli aspetti energetici della disgnosia sono collegabili agli elementi
dell’attaccamento, quali la perdita e la simbiosi. Tali elementi sono
quelli che determinano gli aspetti traumatici della disgnosia.
Il primo aspetto fondamentale collegato alla disgnosia è il concetto di perdita d’identità che troviamo nell’attaccamento insicuro,
in relazione a sua volta con perdita di sicurezza e fiducia negli altri e
in se stessi. Questa perdita crea una mancanza che è collegata a una
frustrazione: la frustrazione primaria. La mancanza di questa esperienza di frustrazione primaria, collegata al processo di separazione20
individuazione, non consente al soggetto di affrontare con adeguata
tolleranza le future esperienze ambientali frustranti, che vengono invece vissute come eccessivamente frustranti e quindi intollerabili per
un io non separato.
Winnicott (1983) definisce la frustrazione primaria come la capacità di sentirsi soli in presenza di un altro, e la descrive come una
tappa evolutiva relazionale di significativa importanza. Senza l’esperienza di questa frustrazione primaria il soggetto non può restare solo,
in quanto avverte questa solitudine come “la mancanza”. Questo tipo
di mancanza è intollerabile e, se non si è vissuta l’esperienza di separazione dalla madre che si trova alla base di questa frustrazione, da
quel momento in avanti tutte le altre frustrazioni non saranno tollerabili o lo saranno relativamente poco. E quando arrivano le frustrazioni
scolastiche, ecco che si scatena il finimondo!
Questa mancanza è relativa alla non utilizzazione della propria
mente a seguito dell’esperienza che viene chiamata simbiosi focale,
dove due sono le persone ma una sola è la mente che funziona: quella
materna. In conseguenza di questo, il soggetto non individuato e non
separato non raggiunge un’autonomia mentale. Ciò, a seguito della
perdita, crea una forte rabbia ogniqualvolta la madre allontana il soggetto, o ogniqualvolta il soggetto deve affrontare una frustrazione. Gli
aspetti che vengono meno sono quindi l’identificazione e l’individuazione del sé.
Questo tipo di rabbia così totale induce demotivazione perché nel
confronto con la realtà, man mano che il soggetto cresce, le frustrazioni diventano sempre maggiori e quindi più intollerabili. A livello
relazionale, tuttavia, il soggetto si trova ancora nella situazione di chi
non ha sperimentato la frustrazione primaria e quindi la sua rabbia
induce pigrizia. Questa pigrizia non è primaria, né caratteriale, ma è
incapacità di fare fatica, con prevalenza di apatia e conseguente dipendenza dalla procrastinazione. L’effetto più significativo di questa
apatia mentale si gioca a livello cognitivo, dove si originano lacune e
disfunzioni cognitive e attenzionali.
Queste lacune e questo disfunzionamento cognitivo corrispondono al concetto stesso della disgnosia. Il soggetto usa la pigrizia come
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dipendenza dalla procrastinazione (Knipe 2006). Lo studio degli
effetti traumatici dei traumi complessi ci spiega come il rimandare
continuo e compulsivo è tipico del soggetto che ha organizzato una
dipendenza da procrastinazione. La pigrizia è dunque l’esito di un
trauma complesso o di un disturbo postraumatico da trauma complesso quale quello della mancata separazione. La disgnosia si origina nel confronto tra il soggetto e gli apprendimenti reali, per effetto
della mancata elaborazione della rabbia che si manifesta ogni volta
che si vivono frustrazioni ritenute intollerabili. La quasi totalità dei
soggetti disgnosici presenta una forte rabbia latente, e non riesce ad
apprendere fino a quando non sblocca queste modalità psichiche più
comunemente chiamate “blocchi”. I disgnosici non hanno mai potuto
conoscere la realtà in modo autonomo, e solo intervenendo su ciò
che impedisce l’utilizzo della loro autonomia sarà possibile aiutarli
a conoscere e quindi apprendere. Mancanza e perdita si presentano
anche nelle situazioni di abbandono, in cui non è stato possibile elaborare la “separazione-individuazione”. In questi casi la disgnosia si
manifesta come effetto della disconferma, esito e adattamento all’ambivalenza genitoriale, a volte ancor peggio dell’ambiguità materna,
in particolare nei primi anni di vita. L’ambivalenza genitoriale nasce
quale esito di processi dissociativi pregressi di origine traumatica e
s’insinua nella relazione tra genitore e figlio e opera impedendo al
figlio di selezionare l’informazione corretta da trattenere e quella da
scartare. Lo sblocco emotivo-affettivo, relativo ai traumi che hanno
costituito la base del disfunzionamento cognitivo, consente al sistema
nervoso di percepire le informazioni sensoriali che non avevano potuto oltrepassare la soglia della consapevolezza, rendendo possibile la
memorizzazione adeguata dei concetti elaborati.
1.3. La disgnosia come adattamento agli esiti traumatici
La disgnosia si evidenzia in quelle situazioni in cui il soggetto
dice di annoiarsi di fronte all’apprendimento. Ogniqualvolta al soggetto che non ha superato la frustrazione primaria della separazione22
individuazione si richiede l’utilizzo della propria mente e del proprio
io, questi va incontro a prestazioni inadeguate o a insuccessi, per cui
emerge una forte rabbia reattiva, che resta latente e che agisce come
catalizzatore del disturbo specifico di apprendimento. Frustrazione,
rabbia, noia, pigrizia sono sempre presenti nella disgnosia. Quando
il processo di separazione-individuazione non evolve in modo adeguato, per un legame di tipo simbiotico o in presenza di un vuoto
relazionale per un attaccamento insicuro, evitante o disorganizzato,
non si sperimenta la frustrazione primaria e quindi ogni altra frustrazione viene vissuta come paralizzante e insopportabile. Lo psicoanalista Ferruccio Marcoli (1997) scrive a questo proposito: “Il pensiero
nasce dall’oscillazione tra vuoto e pieno e si sviluppa in oscillazioni
sempre più ampie”. Alla base della sua teoria sulla nascita del pensiero, Marcoli pone l’alternanza dialettica di stati di frustrazione e di
appagamento che modulano l’esperienza umana: la genesi del pensare può avvenire solo quando è sollecitata da situazioni di bisogno che
provocano il dinamismo di tutto l’organismo verso l’appagamento.
Questa esperienza di attivazione psichica che segna l’origine del pensare è caratterizzata dall’oscillazione tra uno stato di bisogno e uno
di benessere, secondo la disposizione psichica a cercare piacere e a
fuggire il dolore. Come Jean Piaget e Wilfred Bion, anche Marcoli
vede nell’oscillazione il dinamismo necessario alla nascita della vita
psichica. Secondo la teoria di Marcoli, che riprende e rielabora un
concetto di Bion, dalla capacità di tollerare la frustrazione, cioè la situazione di vuoto, dipende l’ampiezza dell’oscillazione che può compiere il cursore del pensare: se la tolleranza alla frustrazione maturata
è bassa, il cursore oscillerà su contenuti primitivi; man mano che cresce la tolleranza, anche l’oscillazione si farà più ampia, arrivando a
toccare contenuti più evoluti. Quindi il livello di sviluppo del pensiero
dipende dalla tolleranza alla frustrazione maturata. È a questo livello
che si pone il concetto di holding proposto da Winnicott o quello di
rêverie di Bion: la qualità delle cure materne, cioè le esperienze di un
“seno sufficientemente buono”, consentono al bambino di sviluppare
una fiducia di base tale da poter poi tollerare meglio e più a lungo la
frustrazione, ponendo le basi per una capacità di pensare, o gnosica,
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evoluta. Inoltre la capacità materna di assumere le proiezioni-bisogni
del neonato, elaborandole e attribuendo loro un significato, renderà
il bambino capace di elaborare a sua volta il vuoto, senza isolarsi
autisticamente dalla realtà, consentendogli di sviluppare una solida
capacità di rappresentazione e pensiero.
Proprio facendo riferimento a questi concetti espressi da Marcoli
ho sviluppato la mia teoria sulla disgnosia, collegandola alla mancata
elaborazione della frustrazione da parte del bambino, che gli procura
un senso di vuoto e quindi di noia, collegata a una grande rabbia latente. Il bambino disgnosico non può accedere a un pensiero evoluto
in termini cognitivi. Il pensiero, infatti, si realizza solo dove si rende
necessaria la “trasformazione” del bisogno inappagato in desiderio
rispetto alla realizzazione ricercata e attualmente indisponibile. Il generatore di pensieri è il fattore che rende possibile il passaggio da
pensiero vuoto a pensiero saturo e che si fonda sulla capacità simbolica interiorizzata, che consente al pensiero di non vagare nel vuoto
di un “terrore senza nome”, ma di oscillare su elementi di rappresentazione adeguati al bisogno e al desiderio corrispondente. La salute
mentale dipende quindi da una condizione fondamentale: la fissità è
patologica e l’oscillazione è sana.
1.3.1. Disgnosia come difesa dall’ambivalenza
Ogni tentativo di separazione mal superato, tale quindi da causare
una eccessiva frustrazione e conseguentemente la rabbia, che resta
latente, individua la possibilità, di fronte alla richiesta di sviluppare
il proprio pensiero autonomo, di difendersi attraverso una esplosione
emotiva o una implosione. La rabbia è la grande emozione collegata
alla mancata separazione e quindi al reiterarsi della frustrazione primaria. Quando il soggetto vive questa esperienza, le difese trasformano
la rabbia latente in noia. Ogni attività che richiede un coinvolgimento
personale viene definita noiosa. La noia è l’elemento caratterizzante
del pensiero del disgnosico. Essa subentra quale difesa di fronte a una
fatica che il soggetto avverte come non realizzabile.
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La disgnosia si manifesta quindi come un meccanismo di adattamento agli esiti traumatici della mancata individualizzazione e a
una fatica irrealizzabile a seguito della mancanza di autonomia. La
difesa dalla rabbia tramite la noia comporta una non attivazione del
sé, che si esprime come un sé apatico, emotivamente povero: questo
elemento può apparire come pigrizia temperamentale. In realtà ciò
che appare come pigrizia è la mancata attivazione individuale delle
funzioni cognitive, è l’esito di una incompleta o mancata integrazione psiche-soma, accompagnata dalla incapacità di fare fatica. Infatti
nessuno, nemmeno la madre, chiede mai a questi soggetti di fare una
minima fatica, e ciò è gravido di effetti negativi sull’apprendimento.
Quei genitori che iperproteggono il bambino da ogni fatica ottengono
come conseguenza di renderlo sempre più pigro, anche se in realtà
questa pigrizia è sintomo di una mancata attivazione del processo di
separazione-individuazione. In particolare ciò è tanto più vero quanto
più la separazione dalla madre viene vissuta con una forte angoscia,
come quella che Freud ha chiamato angoscia di castrazione, che è
un’angoscia di separazione.
A volte le difficoltà emotivo-relazionali risiedono nell’ambivalenza tra le richieste scolastiche, di autonomia, competenza, prestazione,
e le attese genitoriali, che, a causa della paura del distacco e della
separazione, esasperano il mantenimento di atteggiamenti infantili
e tendono a non far mai affrontare i problemi ai figli, temendo che
essi si sentano feriti e si facciano male. Andreas Giannakoulas (1990)
scrive: «In questo senso la reciprocità implica separatezza, che, a mio
avviso, significa non solo mantenere la minima distanza necessaria
dall’altro, ma anche poter gestire da solo il proprio tempo e sperimentare una certa autonomia che permette di stare con l’altro e essere se
stessi».
L’ambivalenza nella relazione genitoriale diventa generatrice, nel
figlio, della difficoltà a selezionare l’informazione corretta tra le due
che gli vengono contemporaneamente presentate, e ciò comporta che
il figlio non riesca a comprendere quale tenere e quale no: la disgnosia nasce proprio dalla impossibilità di selezionare le informazioni.
Queste situazioni sono spesso presenti nei casi di “madri vulnerabi25
li”, dove la rimozione dell’aggressività porta il figlio a non potersi
separare dalla madre e a non riconoscere la propria identità (Marcone
2009).
L’angoscia di castrazione che emerge in queste situazioni relazionali è un punto di condensazione di angosce precedenti, un elemento
strutturale di angosce future e condizione determinante l’uso autonomo del pensiero. Nel rapporto tra l’angoscia di castrazione e il complesso di castrazione con i suoi precursori si evidenzia una doppia
genealogia: da una parte quella di una rappresentazione e dall’altra
quella di un affetto. L’affetto si chiama ansia o angoscia impensabile.
L’affetto della rappresentazione è un’angoscia impensabile, che è così
grande che è impossibile rappresentarla e quindi viene agita nel corpo
con una motricità afinalistica e disorganizzata. La genealogia della
rappresentazione nell’ansia di castrazione è costituita dalla vicissitudine di un fantasma teorizzante: il fantasma della separazione. Le ansie di separazione possono essere anali, orali, falliche. La castrazione
non riguarda solo il pene, ma ci sono angosce più profonde: perdere
il capezzolo, staccarsi dalle feci, ecc. L’angoscia di castrazione, nella
significatività qui presentata, riguarda anche la realtà femminile.
Sulla base della teoria di Melanie Klein relativa alle posizioni “schizoparanoide” e “depressiva” nello sviluppo psicologico del
bambino, Bion e Marcoli fanno dell’oscillazione tra queste due posizioni il movimento costante che genera pensieri, passando da stati di
confusione e di scomposizione a ritorni di ordine e di organizzazione
mentale.
1.4. Disturbi di apprendimento e inibizione psicomotoria
Nel mio libro Dislessia (2004) sostengo che l’affermazione
dell’identità individuale è un processo psichico e biologico collegato con quello di separazione-individuazione dal corpo materno e con
l’acquisizione sul piano psichico e corporeo del proprio sé. Anche le
manifestazioni più corporee della persona appartengono al concetto di
psiche-soma come manifestazione dell’umanizzazione del soggetto.
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Quando questo processo è danneggiato, a causa dell’accudimento da
parte di un ambiente non sufficientemente buono (Winnicott 1991), si
possono presentare dei disturbi nell’individuazione dell’identità che
assumono una particolare visibilità sul piano degli aspetti corporei
e di conseguenza psicomotori funzionali. Si può operare un collegamento in termini di manifestazioni psichico-corporee dei principali disturbi infantili riguardanti la non affermazione, la perdita, o
la modificazione dell’identità individuale. L’elemento che accomuna
questa descrizione è la concezione di un’identità quale fenomeno prima di tutto corporeo, appartenente allo psiche-soma individuale, al
quale concorrono l’affermazione del sé e a cui si collega quella di un
io corporeo che consente l’organizzazione della sua rappresentazione
in quanto schema corporeo. I disturbi che possono essere collegati al problema dell’identità sono: le psicosi simbiotiche, il disturbo
confusivo, il disturbo da falso sé, il disturbo d’ansia di separazione,
i disturbi di attaccamento e, tra i disturbi psicomotori, in particolare
quello di non affermazione della prevalenza tonico-motoria naturale,
quello di dislateralità e l’inibizione psicomotoria. Quest’ultima può
manifestarsi in tre modi diversi: con rigidità e ipercontrollo, con passività e apatia, con ipotonia e difetto di coordinazione. Il soggetto dimostra una generalizzata mancanza di iniziativa rispetto all’ambiente,
realizzando un processo di aggiustamento carente. L’area più colpita
dall’inibizione è quella cognitiva sia a livello mentale che motorio.
Spesso questi bambini arrivano alla consultazione con lo psicologo
per problemi di apprendimento scolastico, che preoccupano molto la
famiglia. Le funzioni psicomotorie più disturbate sono quella di aggiustamento e quella di percezione.
Nel DSM-IV l’inibizione viene presentata come difficoltà di evitamento nel disturbo di attaccamento deficitario ed è suddivisa in due
sottotipi: inibito e disinibito. Sovente l’inibizione non interessa solamente il versante comportamentale motorio, ma coinvolge anche
il funzionamento intellettivo oltre che l’organizzazione dello schema
corporeo. Freud (2002) sostiene che «l’inibizione sia una limitazione
delle funzioni dell’io, che avvengono o per motivi prudenziali o in
seguito a impoverimenti di energia […] l’inibizione non è un sintomo
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[…] perché il sintomo non può essere descritto come un processo che
si compie nell’io o che agisce sull’io».
L’inibizione è intimamente legata alle funzioni sia a livello globale dell’io sia a livello psicomotorio e può riguardare una modalità
difensiva collegata proprio alla riduzione delle funzioni psicomotorie.
Possiamo immaginarla come un abbassamento di livello energetico
che agisce sulla manifestazione funzionale collegata a una riduzione
globale del senso di sé, come se il bambino non si sentisse ancora
pienamente se stesso. Gli indici psicomotori più significativi sono le
alterazioni della regolazione tonica, del controllo tonico ed emotivo,
dell’aggiustamento spontaneo e della coordinazione dinamica generale. Il bambino inibito appare, inoltre, come senza corpo, e quando il
corpo si manifesta è in realtà una caricatura o assume comportamenti stereotipati e ripetitivi. Nell’aggiustamento spontaneo, il bambino
inibito non prende iniziative, o se le prende svolge un’attività ripetitiva. Nell’aggiustamento indotto, cioè richiesto in modo manifesto
dal terapeuta, il bambino inibito ha bisogno di essere invitato con
insistenza a utilizzare gli oggetti.
Il bambino inibito esita o aspetta a iniziare la realizzazione di una
consegna che solleciti l’uso degli oggetti in funzione dello scopo desiderato, senza definirne le modalità esecutive; quando agisce presenta
ipotonicità o ipertonicità, non riesce a raggiungere lo scopo desiderato e spesso non insiste nei tentativi. Il bambino con disturbo di separazione-individuazione, in genere inibito, che non trova interessante
nessun oggetto reale adatto alla sua età, ha assimilato il mondo oggettuale dell’adulto dal quale non è separato e questo fatto gli impedisce la sua reale affermazione. Non riesce a elaborare oggetti interni e
quindi in genere non riesce a disegnare se stesso e, a volte, nemmeno
i suoi genitori. La mancanza di oggetti interni provoca una sensazione
di vuoto abbandonico che può depersonalizzare o frammentare l’io.
Quando la mente del figlio è totalmente fusa con quella della madre, a
causa di modalità d’identificazione proiettiva, egli non riesce ad avere
uno sviluppo cognitivo adeguato sul piano delle capacità logico-linguistiche. Scrivono Giannakoulas e Fizzarotti Selvaggi in Il counselling psicodinamico (2003), a proposito dell’identificazione proiettiva
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e dei suoi effetti sul bambino: «Un motivo primario se non cruciale
dell’investigazione intorno all’identificazione proiettiva è il bisogno
di liberarsi di aspetti intollerabili del sé». E più avanti continuano:
«In particolare [Bion] pensava che la proiezione e la frammentazione
dell’apparato proiettivo di qualcuno portassero non solo alla percezione distorta dell’oggetto, ma anche alla mutilazione dell’apparato
percettivo del soggetto. H. Segal sostiene che in tali situazioni ciò che
viene proiettato è la capacità cognitiva stessa e la capacità di giudizio,
così che gli oggetti vengono sperimentati come onniscienti e giudicanti, gli oggetti cattivi creati hanno spesso la qualità di un potente
superego». L’inibizione intellettiva e quella della condotta rappresentano le psicopatologie più frequentemente riscontrate in riferimento
alle difficoltà di apprendimento o all’insuccesso scolastico. Si tratta
il più delle volte di bambini apatici ma compiacenti, che non hanno
reazioni apparenti alla separazione, non hanno opposizioni manifeste, ma utilizzano comportamenti di inibizione psicomotoria. L’inibizione può essere anche il sintomo di una nevrosi monosintomatica
o di una depressione, in cui il disinvestimento della libido colpisce
selettivamente le competenze cognitive. Altri comportamenti, che si
evidenziano a livello di manifestazioni funzionali alterate implicano
necessariamente tutta una serie di adeguamenti neurologici “inconsapevoli” alla persona, così complessi e sofisticati da rendere il soggetto
incapace di sviluppare attitudini corrette a livello nervoso per realizzare le attività quotidiane.
1.5. La disgrafia come disgnosia motoria
Il ruolo dell’attività motoria nella costruzione della mente e quello
delle modalità d’apprendimento nella costruzione dell’attività motoria sono mattoni costitutivi del comportamento umano, anche per
quanto riguarda il linguaggio. Inoltre il linguaggio cinestesico, che
è l’elemento costitutivo della motricità grafica, collegato al linguaggio sonoro, rappresenta l’elemento fondamentale per la realizzazione
della grafia. La sensazione precede sempre l’azione e per questo è la
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sensazione che consente di correggere l’azione quando questa non
è adattata allo scopo. Centri nervosi quali cervelletto e gangli della
base intervengono nella regolazione sia della motricità sia del linguaggio, e quindi l’aspetto motorio della scrittura interviene nell’apprendimento del grafismo, non solo per la componente grafica stessa,
ma anche per quella gnosica relativa al riconoscimento delle singole
lettere e alla loro memorizzazione consequenziale. Spesso il soggetto
che presenta una dislessia manifesta anche una certa disgrafia, anche
senza disortografia: sono proprio le carenze sul piano delle informazioni cinestesiche dell’esecuzione motoria delle lettere e delle parole che non gli consentono di attivare il riconoscimento grafico degli
aspetti allografi nei suoni omofoni. Risulta quindi evidente che solo
la realizzazione di apprendimenti motori, secondo una metodologia
che consenta l’acquisizione di automatismi plastici e fondati sulla disponibilità corporea, può consentire di ridurre i problemi posti dalla
disgrafia e dalla disprassia in generale.
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