Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della

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Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della «prassi»
1. Il valore politico della filosofia.
E’ ben noto il motivo per il quale Antonio Gramsci nel Quaderno 11
del 1932-33 afferma «la necessità», per dirla con le sue parole, «di
rimettere in circolazione la posizione filosofica di Antonio Labriola che è
pochissimo conosciuta all’infuori di una cerchia ristretta»i. Con l’opera di
Labriola ne va del rapporto tra filosofia e marxismo, nel senso che egli,
ben al di là degli scritti sparsi e poco sistematici a tal riguardo di Marx
ed Engels, dedica l’attività essenziale del suo pensiero a identificare e
definire il marxismo come filosofia, ossia come sistema di pensiero
autonomo, che trova unicamente dentro di sé le ragioni della propria
fondazione. Gramsci, che è ben consapevole di quanto affermare
l’originalità teorica del marxismo significhi combattere sul piano delle
idee da un lato contro la riduzione crociana del marxismo a canone
storiografico e dall’altro contro la regressione del materialismo storico
da concezione complessiva del mondo a materialismo naturalistico e
volgare, è su questo assai chiaro: «In realtà il Labriola, affermando che la
filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è
autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente
la filosofia della prassi»ii. Sottolineatura de “il solo” da parte di Gramsci,
che va esplicitata in riferimento a un contesto di teoria filosofica e di
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filosofia politica non solo italiano e nazionale ma europeo e internazionale,
almeno per chi tenga a mente la prospettiva, oltre che für ewig,
strutturalmente weltgeschitlich del modo di pensare di Gramsci. Per dire
cioè che, nell’ambito del marxismo internazionale, è per Gramsci
essenzialmente all’opera di Antonio Labriola che va riconosciuto un
carattere fondativo quanto a legittimità e autorevolezza del marxismo a
parlare, non solo di modi di rapporti economico-sociali di produzione e di
rivoluzioni storiche e di conflitti tra le classi, ma anche di filosofia, di
verità, di oggettività.
Del resto per Gramsci rimettere in circolazione, con Labriola, la
filosofia è indispensabile perché la categoria forse più riassuntivamente
originale del suo pensiero, quella di «egemonia», appare incardinarsi
sull’identità proprio di politica e filosofia, quale capacità di una classe
egemone
di
proporre
una
Weltanschauung,
una
prospettiva
di
universalizzazione, più universale delle classi antagoniste. E non a caso già
nel Quaderno 3 del 1930 la domanda che si pone del «perché il Labriola
non ha avuto fortuna nella pubblicistica socialdemocratica» è inserita in
un contesto in cui la filosofia, l’«impostazione del problema filosofico» ha
a che fare, guardando evidentemente all’Unione sovietica, con la creazione
di un nuovo tipo di Stato e di una nuova civiltà, per la quale il marxismo
deve passare dalla fase e dalla forma di mitologia e religione popolare a
quella di una cultura più raffinata e superioreiii.
Ed è il lemma, uno e bino, di «filosofia della prassi» a costituire,
com’è noto, il trait d’union tra Labriola e Gramsci, il concetto che dal
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primo passa nel secondo, per esprimere, con questo nuovo termine,
rispetto a quello più diffuso in area tedesca e più in generale nel milieu
della II Internazionale, di «concezione materialistica della storia»,
l’originalità filosofica di cui si diceva. La mia ipotesi di lettura che in
questa sede vorrei proporre, è che, per cogliere la continuità e la
discontinuità che lega i due autori nell’uso e nella trasmissione di questa
endiadi, di questa coppia concettuale, sia necessario far intervenire la
funzione di una terza categoria che è quella di “idea/ideologia”, la quale
costituisce a mio avviso il terzo indispensabile nel costituire i legami di
senso possibili tra prassi e filosofia.
2. Prassi e teoria: l’autoconfutazione del materialismo storico.
Se il significato più ampio di «praxis» nei Saggi labrioliani sul
materialismo storico è quello di attività umana in generale, concepita nel
suo insieme di atti di azione e di atti di pensiero, il suo significato più
specifico e fondante nelle medesime pagine è, com’è noto, quello di prassi
lavorativa, quale attività precipua dell’essere umano nel suo emergere e
distinguersi dal mondo naturale e quale forma sociale dell’agire che
precede e subordina, nella legalità autonoma del suo farsi, il momento del
pensieroiv.
La «filosofia della praxis», definita nel Discorrendo di socialismo
come «il midollo del materialismo storico»v, argomenta infatti, come vuole
il
materialismo
storico-economico
di
Marx
ed
Engels
contro
il
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materialismo solo naturalistico di Feuerbach, che la vita dei singoli e degli
insiemi sociali è caratterizzata essenzialmente e in primo luogo da
quell’agire collettivo che è il lavoro, quale opera dell’uomo che,
costantemente in rapporti determinati con i suoi simili, agisce sul proprio
ambiente naturale per modificarlo e renderlo adatto al soddisfacimento
dei propri bisogni, trovandosi a sua volta costantemente modificato dalle
modificazioni di tale «ambiente artificiale»vi. E qui si potrebbe a lungo
analizzare la teoria dell’agire umano nella storia che è propria del Labriola
premarxista. Come e quanto cioè già nel suo realismo herbartiano ci sia
una compresenza di natura e storia, e quanto l’agire umano cada sempre in
un circolo di condizionamento naturale, a partire da una condizione
animale dell’essere umano. Esemplari in questo senso gli scritti degli anni
1873-1878, Della libertà morale, Morale e religione, Del concetto della
libertàvii, dove c’è un profondo intreccio di determinismo biologicofisiologico da un lato e di lenta e complessa ma, alla fine affermantesi e
autonoma, formulazione dell’idea e del valore. Ma non è su questo, sul
nesso di natura e libertà che connota la teoria premarxista dell’agire in
Labriola, che qui voglio fermarmi, quanto invece su l’aspetto più
problematico che in generale una “filosofia” della praxis trascina, a mio
avviso, inevitabilmente con sé.
Se infatti la filosofia della praxis privilegia la praxis in quanto
lavoro come fondamento della vita storica e sociale, affinché di tale
praxis vi possa essere una filosofia – ossia una riflessione e una
sistemazione teorica che non siano esse stesse immediatamente una
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pratica, un lavoro - è necessario che il rifiuto della filosofia rivendicato
da Engels e Marx nell’Ideologia tedesca e nella Sacra famiglia, da Marx
nella Miseria della filosofia, e riaffermato da Engels nel Ludovico
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca e
nell’Antidühring, venga in qualche modo attenuato e ridimensionato. La
rivendicazione di una «prassi totalmente pratica», quale viene sostenuta
da Marx nella Sacra famigliaviii, e l’abbandono di ogni pratica politica che
s’identifichi con la critica teorica, qual è stato il caso dei Giovani
hegeliani, ha imposto infatti ai due eroi eponimi del comunismo di
concepire l’attività di pensiero in generale e la filosofia in particolare
come l’esito più astratto della divisione sociale del lavoro. Se il lavoro è il
luogo più reale e più vero della realtà, in quanto radicato nella materialità
della vita, tutto ciò che è distinto e si separa da quel luogo primario non
può che essere secondario, sul piano ontologico, e fallace su quello
gnoseologico, appunto perché astratto e lontano da quella dimensione
primaria del senso e della vita. In particolare fallace e mistificante deve
essere la filosofia, che di quell’ambito derivato e secondario di vita
rappresenta l’estremo più astratto e speculativo.
In questa definizione di ciò che sia la filosofia si esplicita, com’è
evidente, quella funzione teorica per eccellenza che per Engels e Marx è
costituita dall’«ideologia», quale falsa coscienza che deforma e capovolge
il mondo, facendo apparire, come aveva teorizzato già Feuerbach, con
l’Essenza del Cristianesimo, ciò che è secondario come primario, e dunque
facendo apparire ingannevolmente per Engels e Marx la vita dello spirito
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come precedente e determinante la vita del corpo e del lavoro: cioè la
produzione dei sistemi d’idee, fondati sulla coerenza del principio di non
contraddizione, come rimuoventi ed occultanti la dialettica della vita reale
fondata sulla lotta e le opposizioni delle classi.
La riduzione radicale di ciò che è prassi umana al lavoro, quale
criterio fondante sia il materialismo storico che la lotta per il comunismo,
non può che ridurre
contemporaneamente ogni spazio distinto per la
produzione teorico-culturale, relegandola allo spazio invece opposto della
mistificazione e del capovolgimento. Non si badi nel senso dell’illusione,
dell’apparenza soggettiva, bensì nel senso dell’apparenza oggettivamente
dovuta alla separazione e alla lontananza del lavoro intellettuale dal lavoro
manuale. Con la conseguenza, però, che questa diventa l’aporia, la
contraddizione principale e autoconfutantesi dello stesso materialismo
storico, giacché l’esclusione della filosofia dell’ambito della verità
impedisce alla stessa filosofia del materialismo storico di costituirsi come
pretesa di scienza e di verità. Accade cioè che nella filosofia della prassi
la valorizzazione estrema della prassi, svalutando completamente la
filosofia, rende impossibile la filosofia della prassi medesima. Vale a dire
che il marxismo, nel momento stesso in cui pretende di affermare la legge
del conoscere come un’astrazione dall’agire lavorativo, si costituisce
contraddittoriamente come eccezione della legge stessa.
3. La storia tra scienza ed arte
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Ora, è noto che Labriola nei suoi Saggi sul materialismo storico
non ha mai riflettuto sul problema della filosofia nel suo rapporto con il
marxismo in questa formulazione esplicita e consapevole. Ma è tutta la
tessitura concettuale dei suoi Saggi, la sua riflessione articolata e
sistematica sul materialismo storico, come l’intero ed ampio suo percorso
di studioso prima dell’avvicinamento al marxismo, a porre la questione del
rapporto tra le «opere degli uomini» e le «forme della coscienza» e a
porlo in un modo tale da sottrarlo al nesso di estenuazione e di
svuotamento reciproco, di opposizione dialettica tra valori contrari, di
«dislivello ontologico»ix, come è stato ben detto, che connota prassi
economico-materiale e forme ideologiche dall’altro nei classici del
marxismo. Perché la peculiarità del marxismo di Labriola sta proprio, io
credo, nella tensione e nello sforzo di concepire in modo diverso la
questione delle idee, nel tentativo, assai inquieto e tormentato, di
sottrarre tale questione al nesso oppositivo valore-disvalore o, se si vuole,
di «struttura» e «sovrastruttura», per ricollocarla e ripensarla in un
ambito di distinzione e compresenza, senza differenziazioni assiologiche,
rispetto all’agire economico. Il fattore che Labriola mette in campo, per
compiere questa operazione nel corpo teorico del marxismo, gli viene
offerto da tutto il suo passato di studioso pre-marxista ed è la scienza, o
meglio sono quelle scienze storiche, a muovere sopratutto dalla psicologia
dei popoli e dalla psicologia individuale, ma anche dall’etnologia e dalla
linguistica storica e comparata, dalla storia del diritto e delle istituzioni
politiche, che Labriola ha coltivato in modo assai approfondito, nella
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frequentazione costante della cultura tedesca a lui contemporanea,
durante il trentennio che dagli anni ’60 va agli anni ’90x. Da quella assidua
frequentazione, che lo ha fatto partecipare intensamente del grande
dibattito tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, il Labriola
degli anni ’70 e ’80 ha tratto il convincimento che la storiografia è studio
di avvenimenti sempre determinati e specifici, è descrizione sempre
idiografica mai riducibile a leggi generali schematiche e predeterminate;
ma studio che si compie appunto attraverso le scienze, attraverso un
regredire minuzioso dai condizionati alle condizioni, dagli effetti alle
cause, che mette in campo un sapere fatto di ricorrenze e di analogie, di
ripetizioni e legalità, un sapere cioè che usa causalità consolidate e non
accidentali. «La storia è sempre determinata, configurata, infinitamente
accidentata e variopinta. Essa ha combinatoria e prospettiva – scrive in
Del materialismo storico – […] chi narra si trova di continuo a fronte di
cose, che paiono disparate, indipendenti e per sé stanti. Cogliere l’insieme
come insieme, e scorgervi i rapporti continuativi di serrati accadimenti,
ecco la difficoltà»xi.
La storia come arte e, insieme, come scienza, come narrazione di
eventi particolari ma attraverso la luce di schemi generalizzanti, di
causalità e di forme genetiche ripetute: ossia come messa in campo,
proprio per l’esattezza e la concretezza del suo scopo individuante, delle
scienze dello spirito, senza escludere le scienze della natura, quali la
biologia e la fisiologia, visto che la natura, essendo per Labriola un fare e
un prodursi, è essa stessa storia. Questo è il percorso che dallo
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storicismo, profondamente fecondato di empirismo,
di Bertrando
Spaventa conduce Labriola, per dirla molto en gros, attraverso il realismo
idealistico di Herbart e le scienze dello spirito che ne derivano, al
marxismo come filosofia scientifica della storia. Un percorso che non
passa attraverso Hegel, se non inizialmente, ma assai più attraverso gli
studiosi herbartiani e neokantiani delle scienze della cultura e che perciò
sfocia, coerentemente, nella messa da canto del metodo dialettico e nel
privilegio del metodo genetico e nell’indagine morfologica. Appunto in una
ricostruzione di genesi delle forme, la quale fosse capace di ritessere
ogni volta la catena di mediazioni che dalla sfera materiale di vita degli
esseri umani procede alle forme culturali in cui quelli se la raffigurano e
l’esprimono, e che, in senso inverso, restituisca il modo in cui il diritto e
le istituzioni politiche, le credenze religiose, la produzione letteraria,
scientifica, filosofica reagiscono e condizionano sulla materialità della
vita, perché le idee, le forme di coscienza «sono anch’esse la storia come scrive in Del materialismo storico -. Questa non è la sola anatomia
economica, ma tutto quello insiememente che cotesta anatomia riveste e
ricovre, fino ai riflessi multicolori della fantasia»xii. Perché è solo questa
relativa autonomizzazione e liberazione delle forme di coscienza dal
riduzionismo oppositivo di struttura e sovrastruttura che consente per
Labriola una storiografia, la quale, come diceva nella prelezione su I
problemi della filosofia della storia, «sia atta a dare perfetto rilievo alle
differenze» e non «si abbandoni perciò al gusto di caratterizzare per
negazioni e antitesi»xiii.
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Eppure a mio avviso tale operazione, d’innestare e di sovrapporre
sulla teoria scientifica della storia di Engels e Marx con il suo altissimo
tasso di determinismo ed economicismo le scienze storiche dello spirito,
al fine di una valorizzazione più articolata e distinta dei vari ambiti, non
economici, della prassi umana si risolve in un
esito fortemente
problematico, anzi aporetico. Giacchè, se è indubbiamente vero che tutto
il percorso dei Saggi è connotato dallo sforzo di sottrarsi al riduzionismo
economicistico, pure quello sforzo finisce col riaffermare costantemente
il primato dell’economico e della prassi come agire lavorativo e materiale,
secondo quanto scrive esplicitamente nel Discorrendo. «Dalla vita al
pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal
lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e
non da questo a quello. […] In questi pensieri è il segreto di una asserzione
di Marx, che è stata per molti tempi un rompicapo, che egli avesse, cioè,
arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che
alla se movenza ritmica d’un pensiero per sé stante (- la generatio
aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la se movenza delle cose, delle
quali il pensiero è da ultimo un prodotto»xiv. Nel senso che per quanto
Labriola
versi
tutte
le
sue
strumentazioni
concettuali
acquisite
precedentemente, tutte le sue metafore organico-biologiche, genetiche
ed epigenetiche, nella cornice teorica del materialismo storico, sta il
fatto che ricostruzione critica delle forme del vivente nella loro varietà
biologica, sociale e culturale, da un lato, e assunzione del lavoro dall’altro,
come tipologia fondamentale del creare e dare forma, rimangono termini
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ed ambiti non omogenei e riducibili: l’uno nella molteplicità delle sue
formazioni, l’altro nella sostanziale univocità della sua configurazione. Per
dire cioè che nel Labriola premarxista la filosofia della storia significa
l’esigenza di trovare delle sistematicità, delle invarianti, che valgano come
criteri – si potrebbe dire anche canoni - di ordinamento del corso, sempre
vario, della storia in una connessione, essa stessa variabile e molteplice, di
tali invarianti. Laddove nel Labriola marxista la filosofia della storia è
obbligata, malgré sois, a precipitare e costringere la molteplicità di quelle
forme in una gerarchia ordinata secondo un senso fisso ed univoco. E che
proprio nell’impossibilità di rendersi padrone di tale costrizione consista
tutta la passione ma anche la sostanziale inquietudine e il peregrinare
discorsivo, talvolta eccessivo e ripetuto, di Antonio Labriola; che proprio
nell’assai aporetica intenzione di voler tenere insieme il suo passato di
studioso idealistico di filosofia morale e di storia delle idee e delle
mentalità con il suo presente di teorico del marxismo e di militante del
socialismo stia cioè una delle ragioni dell’intensificarsi progressivo del
tratto
intrinsecamente
polemico
della
sua
personalità.
Insomma
l’«epigenesi» delle forme rimane ed appartiene a un ambito ontologicoconcettuale eterogeneo ed irriducibilmente altro da quella della relazione
di opposti proprio dell’ontologia dialettica. Per cui l’endiadi, una e bina, di
filosofia della prassi si rivela, a ben vedere, come una bipolarità invece
repulsiva e contraddittoria.
Né potrebbe essere diversamente, visto che il concetto marxengelsiano di praxis, nel suo radicarsi e concludersi nell’agire economico
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materiale, nasce, secondo quanto si diceva, come antagonistico e non
mediabile con quello di idea, coniugabile propriamente solo come ideologia
e falsa coscienza e visto che proprio la rivendicazione che Labriola fa nei
suoi Saggi della filosofia
della
prassi come una filosofia della storia
poggia sulla rivendicazione costante che l’agire economico, marxianamente
inteso, costituisce il principio unificatore di ogni variare storico, e valga in
tal senso, appunto, come principio propriamente filosofico. Così se nei
Saggi è costantemente affermata la necessità di una ricostruzione
genetica e circostanziata del divenire storico, volgendo gli strumenti delle
scienze specialistiche della cultura e della natura a comprendere di volta
in volta l’emersione, la variazione, la rottura che una nuova forma nei più
diversi campi del vivere sociale introduce, pure la caratterizzazione
determinante della «tendenza al monismo»xv che Labriola attribuisce alla
filosofia della prassi gli impone una visione di fondo organicistica della
realtà storica come complesso di fenomeni che si costruiscono
unitariamente attorno alla centralità di un modo economico di produzione.
Non che l’equazione tra materialismo storico e centralità della
prassi-lavoro, organizzata in uno specifico modo di produzione, non abbia
positive e significative ricadute nell’opera di Labriola. Sopratutto
nell’interpretazione
del
presente
e
nell’accorta
e
penetrante
consapevolezza che Labriola mostra di aver conseguito della natura, della
funzione e dell’articolazione del Capitale: attraverso pagine, in cui il
pensatore cassinate testimonia, con un’ampiezza di sguardo e con una
lucidità che ben pochi hanno poi avuto, la dialettica che stringe i diversi
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piani, tra sfruttamento e occultamento, tra produzione, circolazione e
distribuzione, del modo di produzione moderno fondato sul plusvalore e
sulla sua appropriazionexvi. Dato che la contraddizione tra capitale e
lavoro è per lui organica, non accidentale, e dunque non risolvibile
attraverso pretese giustizie redistributive e che l’antagonismo, la lotta
l’opposizione tra capitalisti e venditori di forza-lavoro rimane la chiave di
volta per intendere la società modernaxvii. Ma è appunto un lato, a mio
avviso positivo, della valorizzazione che Labriola ha fatto del monismo del
materialismo storico che va limitato al solo giudizio sulla società borghese
moderna e contestualizzato nella lotta politica che Labriola ha condotto
nell’ambito del nascente movimento operaio italiano, cercando di volgere
in chiave, diciamo per semplificare, “rivoluzionaria” la cultura e la politica
irriducibilmente evoluzionistica e positivistico-riformistica della dirigenza
del Partito Socialista. Giacché fuori della società moderna, e del suo farsi
in essa struttura onnivora e dominante la produzione di Capitale, la
dottrina del materialismo storico ricade in quella sua contraddizione
fondativa e intrinseca, di cui s’è detto più avanti, che la rende incapace di
pensare se stessa e che per tale sua aporeticità finirà di consegnare la
riflessione di Labriola sul marxismo come filosofia della storia in generale
alle insidiose, se non insuperabili, obiezioni e difficoltà, opposte al
materialismo storico da Benedetto Croce. Volendo dire, anche qui assai
schematicamente, che nel confronto prima assai ravvicinato e poi
nell’idealità dei pensieri che s’è consumato tra Labriola e Crocexviii, di così
grande rilievo per la storia della cultura e della politica in Italia, come
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Labriola
ha
ben
potuto
imputare
all’edonismo
e all’individualismo
marginalistico di Croce, nell’ambito della scienza economica, la sostanziale
impossibilità di comprendere il Capitale di Marx, così il secondo ha
legittimamente colpito al cuore, a mio avviso, la concezione materialistica
della storia nella sua impossibilità di elevarsi coerentemente a teoria.
4. La prassi in Gramsci come produzione autoriflessa di soggettività
Nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci l’espressione
«filosofia della praxis» compare dal 1932 per indicare, com’è noto, il
materialismo storico o la filosofia del marxismo, non solo per evidenti
motivi di aggiramento della censura carceraria, ma alla scopo, ben più
intrinseco, di sottolineare e rivendicare, in continuità con l’opera di
Labriola, lo spessore e l’autosufficienza filosofica del marxismo,
evidenziandone, anzitutto, la non riducibilità alla tradizione classica del
materialismo
filosofico.
Ma
questa
riproposizione
dell’espressione
labrioliana cade nel Gramsci carcerario nel quadro di una estremizzazione
di senso, che conduce a una originale innovazione rispetto alla semantica
originaria del lemma in questione.
Non perché manchino nei Quaderni definizioni dell’attività pratica,
della praxis, riconducibili immediatamente all’atto della produzione, del
lavoro, quale intervento e azione dell’uomo sulla materia e sulla natura,
quale cioè «forma d’unione attiva tra l’uomo e la natura»xix. Come quando,
rifiutando sia l’estremo di una visione idealistica della storia che quello di
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un economicismo riduzionista, Gramsci scrive: «né il monismo materialista
né
quello
idealista,
né
‘Materia’
né
‘Spirito’
evidentemente,
ma
‘materialismo storico’, cioè attività dell’uomo (storia) [spirito]xx in
concreto, cioè applicata a una certa ‘materia’ organizzata (forze materiali
di produzione), alla ‘natura’ trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto
(praxis), ma non dell’’atto puro’, ma proprio dell’atto ‘impuro’, cioè reale nel
senso profano della parola”xxi. Ma perché, a ben vedere, la praxis storica
che fondamentalmente interessa la riflessione di Gramsci nei Quaderni è
quella che concerne, non tanto la produzione materiale di oggetti o beni
economici, quanto la produzione di soggetti, quali soggettività storiche
collettive, capaci di inaugurare, con una trasformazione rivoluzionaria, un
nuovo modo di vita e di civiltà. Sottolineando che tale nuova concezione
del contenuto e della funzione di ciò che sia la prassi storica si attua in
Gramsci a mezzo di un peculiare e determinante mutamento di paradigma
che egli impone alla nozione marx-engelsiana dell’«ideologia», la quale nei
Quaderni passa da una definizione di senso negativa ad una positivaxxii.
Appunto perché in Gramsci «ideologia» non è più sinonimo di falsa
coscienza, bensì di funzione strutturalmente costitutiva, in senso
positivo, conoscitivo, «gnoseologico» come egli scrive, della coscienza
individuale e collettiva.
Nell’ambito di questa profonda rielaborazione del marxismo sono
le Tesi su Feuerbach di Marx che acquistano agli occhi di Gramsci un
grande rilievo, tanto da tradurle egli stesso in italiano e da poter
affermare già alle prime battute della sua riflessione sistematica su
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marxismo e filosofia iniziata nel Quaderno 4 nel 1930 (Appunti di
filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie) a proposito della «nuova
costruzione filosofica» di Marx che «già nelle tesi su Feuerbach appare
nettamente questa sua nuova costruzione, questa sua nuova filosofia»xxiii.
Nel breve scritto marxiano del 1845 ciò di cui si tratta è, com’è noto, la
delineazione di una filosofia che risolva l’Ente nell’Agito, l’Essere
nell’Attività umana: che faccia cioè principio costruttore e mediatore di
senso per l’intera realtà l’attività pratica degli esseri umani. Tale filosofia
sottrae ogni autonomia e consistenza d’essere alla natura, o agli oggetti
quali enti esistenti indipendentemente dall’essere umano (come teorizza
per Marx invece il vecchio materialismo, compreso quello di Feuerbach),
per trovare in ogni realtà la tessitura e l’intervento dell’uomo, quale
attore pratico e fabbrile. Ed è proprio l’affermazione, così assoluta e
perentoria, di tale tessitura umana della realtà (anche di quella
apparentemente extraumana), è proprio tale risolversi dell’ontologia in
un’antropocentrismo pratico e fabbrile, a consentire a quel Marx di fare i
conti con il suo passato di giovane hegeliano, illuminato e radicale, che
aveva precedentemente confidato nella critica delle idee e nell’efficacia
della lotta ideologica. Giacché, se l’Ente è l’Agito, anziché l’Essente per sé
o l’Intuìto e il Conosciuto, ciò che vale, per cambiare il mondo, è la prassi e
non la teoria: appunto una prassi rivoluzionante o rovesciante (umwälzende
Praxis), com’è definita da Marx, che intervenga primariamente, anziché
sulle idee e le forme della coscienza, sulle forme invece dell’agire e del
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produrre pratico degli esseri umani, rimettendo sui piedi ciò che, in quel
mondo fabbrile, è rovesciato e invertito.
Gramsci, militante e teorico del comunismo, accoglie, ovviamente,
delle Tesi marxiane tale definizione di rivoluzione come prassi, ma
tornandovi a far giocare alla filosofia e alla lotta delle idee un ruolo
singolarmente centrale e irriducibile. Di fronte all’interpretazione data da
Benedetto Croce delle Tesi su Feuerbach nelle Conversazioni critiche,
secondo cui Marx «non tanto capovolgeva la filosofia hegeliana, quanto la
filosofia in genere, ogni sorta di filosofia; e il filosofare soppiantava con
l’attività pratica»xxiv, egli , come scriverà nel 1932 nel Quaderno 10, vi
trova invece una «rivendicazione di unità tra teoria e pratica»xxv. La loro
questione centrale è infatti a suo avviso quella di una filosofia che si
faccia completamente pratica, ossia che si traduca in una volontà e in una
morale di massa: «il carattere della filosofia della praxis è [….] quello di
essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera
unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea,
ma ‘generalizzate’ nella realtà sociale».xxvi Vale a dire che se la filosofia
ha nella sua tradizione storico-disciplinare il compito, per definizione, di
dare sistemacità e unità alla complessità del reale, la filosofia della praxis
ha come compito quello di unificare un ceto subalterno, traducendolo da
un insieme atomistico e corporativo, in un soggetto collettivo, capace di
unificare ed egemonizzare, a partire dalla propria unità, un’intera società.
La filosofia della praxis è pratica perché genera e porta sul piano
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dell’iniziativa storica una soggettività collettiva unificata che fa della sua
unità l’orizzonte d’universalizzazione di un intera composizione sociale.
Questo processo di produzione di una soggettività collettiva, in cui
Gramsci vede il significato più proprio della praxis, come agire che attua
per un gruppo sociale il passaggio dalla non-storia alla storia, dall’essere
oggetto passivo d’egemonia altrui all’essere soggetto attivo d’egemonia,
trova il suo fulcro nell’ideologia, nel confronto e nella lotta delle ideologie.
Per Gramsci gli uomini non possono non avere ideologie, in quanto è solo
attraverso il loro tramite che hanno esperienza e danno senso al mondo.
Solo attraverso le «forme ideologiche», anche qui rovesciando il senso
della Prefazione marxiana alla Critica dell’economia politica del 1859, gli
uomini possono infatti diventare, per Gramsci, consapevoli del loro
conflitto sociale e risolverlo. Ed è dunque fondamentalmente nella
capacità di produrre da parte di un gruppo sociale un principio di
universalizzazione più ampio e coerente di quello del gruppo sociale
antagonista che si gioca, di fondo, la questione dell’egemonia.
Fuoriesce dai limiti di questo mio intervento approfondire come
per Gramsci si costruisca un’ideologia egemonica e come questa possa
produrre una nuova soggettività storica, come per Gramsci cioè si dia un
inconscio ideologico, legato alla passività economicistica delle classi
subalterne, che deve essere necessariamente elaborato, come questo
implichi il rapporto tra intellettuali organici e gruppo sociale e come
soprattutto
un’ideologia
egemonica
implichi
in
Gramsci
un
piano
tendenzialmente organico e totalitario, l’«elaborazione di una coscienza
18
collettiva
omogenea»
che esclude ogni
interpretazione che pure
forzatamente si è voluta dare, negli ultimi anni, di Gramsci come teorico
della democrazia e del relativismo dei valori. Qui mi preme solo ricordare
la vera e propria dislocazione ontologica che sul piano della struttura
dell’essere sociale originariamente concepita da Marx ed Engels questa
diversa
teorizzazione
dell’ideologia
comporta
nell’articolazione
del
sistema gramsciano: la società civile diventa l’ambito della produzione del
consenso e della lotta per le ideologie, ed è il luogo per eccellenza
dell’iniziativa storica e politica, mentre l’ambito economico propriamente
detto viene abbassato a una sfera dell’agire pressocché naturalistica,
caratterizzata, non dalla dimensione qualitativa della volontà eticopolitica, ma da una dimensione quantitativa, misurabile con una esattezza
propria delle scienze naturali. E’ una rivalutazione fondamentale del piano
sovrastrutturale che Gramsci esprime, com’è noto, nella definizione di
«blocco storico».
Ed è appunto da qui, da questa diversa teoria della
prassi e della sovrastruttura ideologica rispetto ai classici del marxismo,
che io credo vada riaffrontata la questione del rapporto Gramsci-Croce e
dell’anti-Croce di Gramsci.
Perché ciò che, in conclusione, voglio dire è che quanto transita da
Antonio Labriola ad Antonio Gramsci è, a mio avviso, il passaggio dalla
filosofia della prassi alla filosofia come prassi
e che in questa
modificazione del nesso filosofia-prassi assume rilievo più
preciso
l’«Anti-Croce di Gramsci», dove ciò che è di fondo in questione è il
confronto tra due diverse teorie della soggettività e della libertà. Da un
19
lato la concezione crociana della soggettività come individuale e
presupposta libera alla storia attraverso il circolo delle quattro forme
apriori dello spirito, e dall’altro la concezione gramsciana di una
soggettività storica che è collettiva e totalitaria rispetto a se stessa, o
non è, e che non è mai presupposta, ma sempre posta, posta in essere da
un processo di liberazione intellettuale e morale. Così se nel confronto sul
materialismo storico tra Labriola e Croce l’elaborazione critica del
secondo
primo,
vista
l’impossibilità strutturale, io credo, di concepire una filosofia
della
prassi,
si
mostra
superiore
all’argomentare
del
Gramsci fuoriesce da questa aporia spiazzando l’avversario e
assegnando al materialismo storico un campo di gioco completamente
nuovo, concependolo non più come teoria della causazione economica nella
storia ma come teoria dello svolgimento storico in quanto alternarsi di
soggettività collettive egemoniche, indagate nel loro trapassare dal nonessere della subalternità all’essere dell’iniziativa e dell’azione storica.
Quanto per altro questa traduzione del marxismo dall’oggettivismo al
soggettivismo storico, nel confronto serrato con le teorie del soggetto
del neoidealismo italiano di Croce e di Gentile, corra, poi, il rischio di
estremizzarsi, a sua volta, in una teoria della causazione idealistica della
storia, consegnando improvvidamente l’intera storia del marxismo politico
e filosofico italiano del ‘900 a un marxismo senza Capitale, - quanto cioè
l’antropologia antinaturalistica di Gramsci lo abbia reso profondamente
inabile a vedere e a mettere a tema la trama del capitalismo come quella
«seconda natura» di cui tanto ci parla la pagina di Marx - è qualcosa che
20
ho argomentato altrove ed è questione che in questa sede non può essere
ovviamente affrontataxxvii. Qui posso solo concludere, affermando che il
pensiero di Gramsci non sarebbe potuto mai giungere alla sua
originalissima concezione autoriflessiva e terapeutica della prassi, quale
produzione di una soggettività attraverso la messa in campo di
un’egemonia ideologica e filosofica, - non sarebbe mai potuto giungere
alla sua teoria dell’ideologia -, senza il lavoro assai travagliato di Antonio
Labriola sullo statuto delle idee nella teoria del materialismo storico e
sulla dignità del marxismo come filosofia.
21
i
A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino 1975,
p.1507.
ii
Ibidem,
iii
“Si può dire della filosofia del marxismo ciò che la Luxemburg dice a proposito
dell’economia: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si
appunta tutto l’interesse sulle armi più immediate, sui problemi di tattica politica. Ma
dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di
una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi
più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua
impostazione del problema deve essere fatta predominante. Questa è una lotta per la
cultura superiore, la parte positiva della lotta per la cultura” (A.Gramsci, Quaderni del
carcere, op. cit., p. 309).
iv
Cfr. l’Introduzione (Il marxismo di Antonio Labriola) di F.Sbarberi ad A.Labriola,
Scritti filosofici e politici, Einaudi, Torino, 1973, p.LXXVI.
v
A.Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, a cura di R.Finelli, Ediesse, Roma,
1997, p.86.
vi
«La storia è il fatto dell’uomo, in quanto che l’uomo può creare e perfezionare i suoi
istrumenti di lavoro, e con tali istrumenti può creare un ambiente artificiale, il quale
poi reagisce nei suoi complicati effetti sopra di lui, e così com’è, e come via via si
modifica, è l’occasione e la condizione del suo sviluppo» (A.Labriola, Del materialismo
storico. Dilucidazione preliminare, in Id., Saggi sul materialismo storico, a cura di
V.Gerratana e A.Guerra, Editori Riuniti, Roma, 1964, p.89.
vii
In A.Labriola, Opere, III, a cura di L. Dal Pane, Feltrinelli, Milano, 1962.
viii
«Il vero movimento però non va a finire nella teoria pura, cioè astratta, come
vorrebbe la critica critica, ma in una prassi totalmente pratica, la quale non si curerà
in alcun modo delle categorie categoriche della critica» (K.Marx-F.Engels, La sacra
famiglia, tr. it. di A.Zanardo, Editori Riuniti, Roma, 1967, p.201.
ix
G.Sasso, Gramsci e l’idealismo (Appunti e considerazioni) , in «La cultura», 3, 2003,
p.363.
x
Cfr. su ciò S.Poggi, Introduzione a Labriola, Laterza, Bari, 1981; B. Centi, Dalla
filosofia di Herbart al materialismo storico, Dedalo, Bari, 1982; Id., Metodo genetico
22
e strutture morfologiche nei Saggi di Antonio Labriola, in Antonio Labriola filosofo e
politico, a cura di L.Punzo, Guerini e Associati, Milano, 1996, pp.269-305.
xi
A.Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, op. cit., p.155.
xii
Ivi, p.85.
A.Labriola, I problemi della filosofia della storia, in Scritti filosofici e politici, op.
cit., p.19.
xiv
A.Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p.86.
xv
Ivi, p.100.
xvi
Cfr. ivi, pp.62-64. A tal riguardo rinvio alla mia introduzione, Autonomia e
legittimità del socialismo, ivi, pp.9-43.
xvii
Cfr. l’Introduzione di F.Sbarberi ad A.Labriola, Scritti filosofici e politici, op. cit.,
p. LXIX-LXXI.
xviii
Cfr. A.Labriola, Postscriptum all’edizione francese di «Discorrendo di socialismo e
filosofia» , in Id., Saggi sul materialismo storico, op. cit., pp.283-292; B.Croce, Come
nacque e come morí il marxismo teorico in Italia (1895-1900) (1938) , in Materialismo
storico ed economia marxistica, Bibliopolis, Napoli, 2001, pp.265-305.
xix
A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p.473. Sul lemma “filosofia della prassi”
nel Gramsci dei Quaderni cfr. F.Frosini, Filosofia della praxis, in Le parole di Gramsci,
a cura di F.Frosini e G.Liguori, Carocci, Roma, 2004, pp.93-111.
xx
Variante interlineare nel manoscritto gramsciano.
xxi
Ivi, p.455.
xxii
Su questo “rovesciamento” che Gramsci compie della tradizione teorica dei classi
del marxismo rimando alla mia introduzione, Una soggettività immaginaria, all’edizione
da me curata di L.Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma, 1997,
pp.IX-XXXII; e al testo di D.Ferreri, Inattualità di Gramsci , in Aa. Vv., Percorsi della
ricerca filosofica, Gangemi, Roma-Reggio C., 1990, pp.197-213.
xxiii
Ivi, p.424.
xxiv
B.Croce, Conversazioni critiche. Serie prima, Laterza, Bari, 1924², pp.299..
xxv
A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p.1270.
xxvi
Ivi, p.1271.
xxvii
Mi permetto di rinviare ai miei saggi, «Universale concreto e universale astratto
nel pensiero gramsciano», in Critica marxista, 1988, 5, pp.75-86; «Gramsci tra Croce e
Gentile», in Critica marxista, 1989, 5, pp.77-92; «Sull’identità di storia, politica e
filosofia», in Rivista di studi italiani, 1998, 1, pp.9-21; « Marx e Gramsci. Due
antropologie a confronto», in Marx e Gramsci. Memoria e attualità, a cura di
G.Petronio e M.Paladini Musitelli, manifestolibri, Roma, 2001, pp.99-121.
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