Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della «prassi» 1. Il valore politico della filosofia. E’ ben noto il motivo per il quale Antonio Gramsci nel Quaderno 11 del 1932-33 afferma «la necessità», per dirla con le sue parole, «di rimettere in circolazione la posizione filosofica di Antonio Labriola che è pochissimo conosciuta all’infuori di una cerchia ristretta»i. Con l’opera di Labriola ne va del rapporto tra filosofia e marxismo, nel senso che egli, ben al di là degli scritti sparsi e poco sistematici a tal riguardo di Marx ed Engels, dedica l’attività essenziale del suo pensiero a identificare e definire il marxismo come filosofia, ossia come sistema di pensiero autonomo, che trova unicamente dentro di sé le ragioni della propria fondazione. Gramsci, che è ben consapevole di quanto affermare l’originalità teorica del marxismo significhi combattere sul piano delle idee da un lato contro la riduzione crociana del marxismo a canone storiografico e dall’altro contro la regressione del materialismo storico da concezione complessiva del mondo a materialismo naturalistico e volgare, è su questo assai chiaro: «In realtà il Labriola, affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi»ii. Sottolineatura de “il solo” da parte di Gramsci, che va esplicitata in riferimento a un contesto di teoria filosofica e di 1 filosofia politica non solo italiano e nazionale ma europeo e internazionale, almeno per chi tenga a mente la prospettiva, oltre che für ewig, strutturalmente weltgeschitlich del modo di pensare di Gramsci. Per dire cioè che, nell’ambito del marxismo internazionale, è per Gramsci essenzialmente all’opera di Antonio Labriola che va riconosciuto un carattere fondativo quanto a legittimità e autorevolezza del marxismo a parlare, non solo di modi di rapporti economico-sociali di produzione e di rivoluzioni storiche e di conflitti tra le classi, ma anche di filosofia, di verità, di oggettività. Del resto per Gramsci rimettere in circolazione, con Labriola, la filosofia è indispensabile perché la categoria forse più riassuntivamente originale del suo pensiero, quella di «egemonia», appare incardinarsi sull’identità proprio di politica e filosofia, quale capacità di una classe egemone di proporre una Weltanschauung, una prospettiva di universalizzazione, più universale delle classi antagoniste. E non a caso già nel Quaderno 3 del 1930 la domanda che si pone del «perché il Labriola non ha avuto fortuna nella pubblicistica socialdemocratica» è inserita in un contesto in cui la filosofia, l’«impostazione del problema filosofico» ha a che fare, guardando evidentemente all’Unione sovietica, con la creazione di un nuovo tipo di Stato e di una nuova civiltà, per la quale il marxismo deve passare dalla fase e dalla forma di mitologia e religione popolare a quella di una cultura più raffinata e superioreiii. Ed è il lemma, uno e bino, di «filosofia della prassi» a costituire, com’è noto, il trait d’union tra Labriola e Gramsci, il concetto che dal 2 primo passa nel secondo, per esprimere, con questo nuovo termine, rispetto a quello più diffuso in area tedesca e più in generale nel milieu della II Internazionale, di «concezione materialistica della storia», l’originalità filosofica di cui si diceva. La mia ipotesi di lettura che in questa sede vorrei proporre, è che, per cogliere la continuità e la discontinuità che lega i due autori nell’uso e nella trasmissione di questa endiadi, di questa coppia concettuale, sia necessario far intervenire la funzione di una terza categoria che è quella di “idea/ideologia”, la quale costituisce a mio avviso il terzo indispensabile nel costituire i legami di senso possibili tra prassi e filosofia. 2. Prassi e teoria: l’autoconfutazione del materialismo storico. Se il significato più ampio di «praxis» nei Saggi labrioliani sul materialismo storico è quello di attività umana in generale, concepita nel suo insieme di atti di azione e di atti di pensiero, il suo significato più specifico e fondante nelle medesime pagine è, com’è noto, quello di prassi lavorativa, quale attività precipua dell’essere umano nel suo emergere e distinguersi dal mondo naturale e quale forma sociale dell’agire che precede e subordina, nella legalità autonoma del suo farsi, il momento del pensieroiv. La «filosofia della praxis», definita nel Discorrendo di socialismo come «il midollo del materialismo storico»v, argomenta infatti, come vuole il materialismo storico-economico di Marx ed Engels contro il 3 materialismo solo naturalistico di Feuerbach, che la vita dei singoli e degli insiemi sociali è caratterizzata essenzialmente e in primo luogo da quell’agire collettivo che è il lavoro, quale opera dell’uomo che, costantemente in rapporti determinati con i suoi simili, agisce sul proprio ambiente naturale per modificarlo e renderlo adatto al soddisfacimento dei propri bisogni, trovandosi a sua volta costantemente modificato dalle modificazioni di tale «ambiente artificiale»vi. E qui si potrebbe a lungo analizzare la teoria dell’agire umano nella storia che è propria del Labriola premarxista. Come e quanto cioè già nel suo realismo herbartiano ci sia una compresenza di natura e storia, e quanto l’agire umano cada sempre in un circolo di condizionamento naturale, a partire da una condizione animale dell’essere umano. Esemplari in questo senso gli scritti degli anni 1873-1878, Della libertà morale, Morale e religione, Del concetto della libertàvii, dove c’è un profondo intreccio di determinismo biologicofisiologico da un lato e di lenta e complessa ma, alla fine affermantesi e autonoma, formulazione dell’idea e del valore. Ma non è su questo, sul nesso di natura e libertà che connota la teoria premarxista dell’agire in Labriola, che qui voglio fermarmi, quanto invece su l’aspetto più problematico che in generale una “filosofia” della praxis trascina, a mio avviso, inevitabilmente con sé. Se infatti la filosofia della praxis privilegia la praxis in quanto lavoro come fondamento della vita storica e sociale, affinché di tale praxis vi possa essere una filosofia – ossia una riflessione e una sistemazione teorica che non siano esse stesse immediatamente una 4 pratica, un lavoro - è necessario che il rifiuto della filosofia rivendicato da Engels e Marx nell’Ideologia tedesca e nella Sacra famiglia, da Marx nella Miseria della filosofia, e riaffermato da Engels nel Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca e nell’Antidühring, venga in qualche modo attenuato e ridimensionato. La rivendicazione di una «prassi totalmente pratica», quale viene sostenuta da Marx nella Sacra famigliaviii, e l’abbandono di ogni pratica politica che s’identifichi con la critica teorica, qual è stato il caso dei Giovani hegeliani, ha imposto infatti ai due eroi eponimi del comunismo di concepire l’attività di pensiero in generale e la filosofia in particolare come l’esito più astratto della divisione sociale del lavoro. Se il lavoro è il luogo più reale e più vero della realtà, in quanto radicato nella materialità della vita, tutto ciò che è distinto e si separa da quel luogo primario non può che essere secondario, sul piano ontologico, e fallace su quello gnoseologico, appunto perché astratto e lontano da quella dimensione primaria del senso e della vita. In particolare fallace e mistificante deve essere la filosofia, che di quell’ambito derivato e secondario di vita rappresenta l’estremo più astratto e speculativo. In questa definizione di ciò che sia la filosofia si esplicita, com’è evidente, quella funzione teorica per eccellenza che per Engels e Marx è costituita dall’«ideologia», quale falsa coscienza che deforma e capovolge il mondo, facendo apparire, come aveva teorizzato già Feuerbach, con l’Essenza del Cristianesimo, ciò che è secondario come primario, e dunque facendo apparire ingannevolmente per Engels e Marx la vita dello spirito 5 come precedente e determinante la vita del corpo e del lavoro: cioè la produzione dei sistemi d’idee, fondati sulla coerenza del principio di non contraddizione, come rimuoventi ed occultanti la dialettica della vita reale fondata sulla lotta e le opposizioni delle classi. La riduzione radicale di ciò che è prassi umana al lavoro, quale criterio fondante sia il materialismo storico che la lotta per il comunismo, non può che ridurre contemporaneamente ogni spazio distinto per la produzione teorico-culturale, relegandola allo spazio invece opposto della mistificazione e del capovolgimento. Non si badi nel senso dell’illusione, dell’apparenza soggettiva, bensì nel senso dell’apparenza oggettivamente dovuta alla separazione e alla lontananza del lavoro intellettuale dal lavoro manuale. Con la conseguenza, però, che questa diventa l’aporia, la contraddizione principale e autoconfutantesi dello stesso materialismo storico, giacché l’esclusione della filosofia dell’ambito della verità impedisce alla stessa filosofia del materialismo storico di costituirsi come pretesa di scienza e di verità. Accade cioè che nella filosofia della prassi la valorizzazione estrema della prassi, svalutando completamente la filosofia, rende impossibile la filosofia della prassi medesima. Vale a dire che il marxismo, nel momento stesso in cui pretende di affermare la legge del conoscere come un’astrazione dall’agire lavorativo, si costituisce contraddittoriamente come eccezione della legge stessa. 3. La storia tra scienza ed arte 6 Ora, è noto che Labriola nei suoi Saggi sul materialismo storico non ha mai riflettuto sul problema della filosofia nel suo rapporto con il marxismo in questa formulazione esplicita e consapevole. Ma è tutta la tessitura concettuale dei suoi Saggi, la sua riflessione articolata e sistematica sul materialismo storico, come l’intero ed ampio suo percorso di studioso prima dell’avvicinamento al marxismo, a porre la questione del rapporto tra le «opere degli uomini» e le «forme della coscienza» e a porlo in un modo tale da sottrarlo al nesso di estenuazione e di svuotamento reciproco, di opposizione dialettica tra valori contrari, di «dislivello ontologico»ix, come è stato ben detto, che connota prassi economico-materiale e forme ideologiche dall’altro nei classici del marxismo. Perché la peculiarità del marxismo di Labriola sta proprio, io credo, nella tensione e nello sforzo di concepire in modo diverso la questione delle idee, nel tentativo, assai inquieto e tormentato, di sottrarre tale questione al nesso oppositivo valore-disvalore o, se si vuole, di «struttura» e «sovrastruttura», per ricollocarla e ripensarla in un ambito di distinzione e compresenza, senza differenziazioni assiologiche, rispetto all’agire economico. Il fattore che Labriola mette in campo, per compiere questa operazione nel corpo teorico del marxismo, gli viene offerto da tutto il suo passato di studioso pre-marxista ed è la scienza, o meglio sono quelle scienze storiche, a muovere sopratutto dalla psicologia dei popoli e dalla psicologia individuale, ma anche dall’etnologia e dalla linguistica storica e comparata, dalla storia del diritto e delle istituzioni politiche, che Labriola ha coltivato in modo assai approfondito, nella 7 frequentazione costante della cultura tedesca a lui contemporanea, durante il trentennio che dagli anni ’60 va agli anni ’90x. Da quella assidua frequentazione, che lo ha fatto partecipare intensamente del grande dibattito tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, il Labriola degli anni ’70 e ’80 ha tratto il convincimento che la storiografia è studio di avvenimenti sempre determinati e specifici, è descrizione sempre idiografica mai riducibile a leggi generali schematiche e predeterminate; ma studio che si compie appunto attraverso le scienze, attraverso un regredire minuzioso dai condizionati alle condizioni, dagli effetti alle cause, che mette in campo un sapere fatto di ricorrenze e di analogie, di ripetizioni e legalità, un sapere cioè che usa causalità consolidate e non accidentali. «La storia è sempre determinata, configurata, infinitamente accidentata e variopinta. Essa ha combinatoria e prospettiva – scrive in Del materialismo storico – […] chi narra si trova di continuo a fronte di cose, che paiono disparate, indipendenti e per sé stanti. Cogliere l’insieme come insieme, e scorgervi i rapporti continuativi di serrati accadimenti, ecco la difficoltà»xi. La storia come arte e, insieme, come scienza, come narrazione di eventi particolari ma attraverso la luce di schemi generalizzanti, di causalità e di forme genetiche ripetute: ossia come messa in campo, proprio per l’esattezza e la concretezza del suo scopo individuante, delle scienze dello spirito, senza escludere le scienze della natura, quali la biologia e la fisiologia, visto che la natura, essendo per Labriola un fare e un prodursi, è essa stessa storia. Questo è il percorso che dallo 8 storicismo, profondamente fecondato di empirismo, di Bertrando Spaventa conduce Labriola, per dirla molto en gros, attraverso il realismo idealistico di Herbart e le scienze dello spirito che ne derivano, al marxismo come filosofia scientifica della storia. Un percorso che non passa attraverso Hegel, se non inizialmente, ma assai più attraverso gli studiosi herbartiani e neokantiani delle scienze della cultura e che perciò sfocia, coerentemente, nella messa da canto del metodo dialettico e nel privilegio del metodo genetico e nell’indagine morfologica. Appunto in una ricostruzione di genesi delle forme, la quale fosse capace di ritessere ogni volta la catena di mediazioni che dalla sfera materiale di vita degli esseri umani procede alle forme culturali in cui quelli se la raffigurano e l’esprimono, e che, in senso inverso, restituisca il modo in cui il diritto e le istituzioni politiche, le credenze religiose, la produzione letteraria, scientifica, filosofica reagiscono e condizionano sulla materialità della vita, perché le idee, le forme di coscienza «sono anch’esse la storia come scrive in Del materialismo storico -. Questa non è la sola anatomia economica, ma tutto quello insiememente che cotesta anatomia riveste e ricovre, fino ai riflessi multicolori della fantasia»xii. Perché è solo questa relativa autonomizzazione e liberazione delle forme di coscienza dal riduzionismo oppositivo di struttura e sovrastruttura che consente per Labriola una storiografia, la quale, come diceva nella prelezione su I problemi della filosofia della storia, «sia atta a dare perfetto rilievo alle differenze» e non «si abbandoni perciò al gusto di caratterizzare per negazioni e antitesi»xiii. 9 Eppure a mio avviso tale operazione, d’innestare e di sovrapporre sulla teoria scientifica della storia di Engels e Marx con il suo altissimo tasso di determinismo ed economicismo le scienze storiche dello spirito, al fine di una valorizzazione più articolata e distinta dei vari ambiti, non economici, della prassi umana si risolve in un esito fortemente problematico, anzi aporetico. Giacchè, se è indubbiamente vero che tutto il percorso dei Saggi è connotato dallo sforzo di sottrarsi al riduzionismo economicistico, pure quello sforzo finisce col riaffermare costantemente il primato dell’economico e della prassi come agire lavorativo e materiale, secondo quanto scrive esplicitamente nel Discorrendo. «Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. […] In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per molti tempi un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla se movenza ritmica d’un pensiero per sé stante (- la generatio aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la se movenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto»xiv. Nel senso che per quanto Labriola versi tutte le sue strumentazioni concettuali acquisite precedentemente, tutte le sue metafore organico-biologiche, genetiche ed epigenetiche, nella cornice teorica del materialismo storico, sta il fatto che ricostruzione critica delle forme del vivente nella loro varietà biologica, sociale e culturale, da un lato, e assunzione del lavoro dall’altro, come tipologia fondamentale del creare e dare forma, rimangono termini 10 ed ambiti non omogenei e riducibili: l’uno nella molteplicità delle sue formazioni, l’altro nella sostanziale univocità della sua configurazione. Per dire cioè che nel Labriola premarxista la filosofia della storia significa l’esigenza di trovare delle sistematicità, delle invarianti, che valgano come criteri – si potrebbe dire anche canoni - di ordinamento del corso, sempre vario, della storia in una connessione, essa stessa variabile e molteplice, di tali invarianti. Laddove nel Labriola marxista la filosofia della storia è obbligata, malgré sois, a precipitare e costringere la molteplicità di quelle forme in una gerarchia ordinata secondo un senso fisso ed univoco. E che proprio nell’impossibilità di rendersi padrone di tale costrizione consista tutta la passione ma anche la sostanziale inquietudine e il peregrinare discorsivo, talvolta eccessivo e ripetuto, di Antonio Labriola; che proprio nell’assai aporetica intenzione di voler tenere insieme il suo passato di studioso idealistico di filosofia morale e di storia delle idee e delle mentalità con il suo presente di teorico del marxismo e di militante del socialismo stia cioè una delle ragioni dell’intensificarsi progressivo del tratto intrinsecamente polemico della sua personalità. Insomma l’«epigenesi» delle forme rimane ed appartiene a un ambito ontologicoconcettuale eterogeneo ed irriducibilmente altro da quella della relazione di opposti proprio dell’ontologia dialettica. Per cui l’endiadi, una e bina, di filosofia della prassi si rivela, a ben vedere, come una bipolarità invece repulsiva e contraddittoria. Né potrebbe essere diversamente, visto che il concetto marxengelsiano di praxis, nel suo radicarsi e concludersi nell’agire economico 11 materiale, nasce, secondo quanto si diceva, come antagonistico e non mediabile con quello di idea, coniugabile propriamente solo come ideologia e falsa coscienza e visto che proprio la rivendicazione che Labriola fa nei suoi Saggi della filosofia della prassi come una filosofia della storia poggia sulla rivendicazione costante che l’agire economico, marxianamente inteso, costituisce il principio unificatore di ogni variare storico, e valga in tal senso, appunto, come principio propriamente filosofico. Così se nei Saggi è costantemente affermata la necessità di una ricostruzione genetica e circostanziata del divenire storico, volgendo gli strumenti delle scienze specialistiche della cultura e della natura a comprendere di volta in volta l’emersione, la variazione, la rottura che una nuova forma nei più diversi campi del vivere sociale introduce, pure la caratterizzazione determinante della «tendenza al monismo»xv che Labriola attribuisce alla filosofia della prassi gli impone una visione di fondo organicistica della realtà storica come complesso di fenomeni che si costruiscono unitariamente attorno alla centralità di un modo economico di produzione. Non che l’equazione tra materialismo storico e centralità della prassi-lavoro, organizzata in uno specifico modo di produzione, non abbia positive e significative ricadute nell’opera di Labriola. Sopratutto nell’interpretazione del presente e nell’accorta e penetrante consapevolezza che Labriola mostra di aver conseguito della natura, della funzione e dell’articolazione del Capitale: attraverso pagine, in cui il pensatore cassinate testimonia, con un’ampiezza di sguardo e con una lucidità che ben pochi hanno poi avuto, la dialettica che stringe i diversi 12 piani, tra sfruttamento e occultamento, tra produzione, circolazione e distribuzione, del modo di produzione moderno fondato sul plusvalore e sulla sua appropriazionexvi. Dato che la contraddizione tra capitale e lavoro è per lui organica, non accidentale, e dunque non risolvibile attraverso pretese giustizie redistributive e che l’antagonismo, la lotta l’opposizione tra capitalisti e venditori di forza-lavoro rimane la chiave di volta per intendere la società modernaxvii. Ma è appunto un lato, a mio avviso positivo, della valorizzazione che Labriola ha fatto del monismo del materialismo storico che va limitato al solo giudizio sulla società borghese moderna e contestualizzato nella lotta politica che Labriola ha condotto nell’ambito del nascente movimento operaio italiano, cercando di volgere in chiave, diciamo per semplificare, “rivoluzionaria” la cultura e la politica irriducibilmente evoluzionistica e positivistico-riformistica della dirigenza del Partito Socialista. Giacché fuori della società moderna, e del suo farsi in essa struttura onnivora e dominante la produzione di Capitale, la dottrina del materialismo storico ricade in quella sua contraddizione fondativa e intrinseca, di cui s’è detto più avanti, che la rende incapace di pensare se stessa e che per tale sua aporeticità finirà di consegnare la riflessione di Labriola sul marxismo come filosofia della storia in generale alle insidiose, se non insuperabili, obiezioni e difficoltà, opposte al materialismo storico da Benedetto Croce. Volendo dire, anche qui assai schematicamente, che nel confronto prima assai ravvicinato e poi nell’idealità dei pensieri che s’è consumato tra Labriola e Crocexviii, di così grande rilievo per la storia della cultura e della politica in Italia, come 13 Labriola ha ben potuto imputare all’edonismo e all’individualismo marginalistico di Croce, nell’ambito della scienza economica, la sostanziale impossibilità di comprendere il Capitale di Marx, così il secondo ha legittimamente colpito al cuore, a mio avviso, la concezione materialistica della storia nella sua impossibilità di elevarsi coerentemente a teoria. 4. La prassi in Gramsci come produzione autoriflessa di soggettività Nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci l’espressione «filosofia della praxis» compare dal 1932 per indicare, com’è noto, il materialismo storico o la filosofia del marxismo, non solo per evidenti motivi di aggiramento della censura carceraria, ma alla scopo, ben più intrinseco, di sottolineare e rivendicare, in continuità con l’opera di Labriola, lo spessore e l’autosufficienza filosofica del marxismo, evidenziandone, anzitutto, la non riducibilità alla tradizione classica del materialismo filosofico. Ma questa riproposizione dell’espressione labrioliana cade nel Gramsci carcerario nel quadro di una estremizzazione di senso, che conduce a una originale innovazione rispetto alla semantica originaria del lemma in questione. Non perché manchino nei Quaderni definizioni dell’attività pratica, della praxis, riconducibili immediatamente all’atto della produzione, del lavoro, quale intervento e azione dell’uomo sulla materia e sulla natura, quale cioè «forma d’unione attiva tra l’uomo e la natura»xix. Come quando, rifiutando sia l’estremo di una visione idealistica della storia che quello di 14 un economicismo riduzionista, Gramsci scrive: «né il monismo materialista né quello idealista, né ‘Materia’ né ‘Spirito’ evidentemente, ma ‘materialismo storico’, cioè attività dell’uomo (storia) [spirito]xx in concreto, cioè applicata a una certa ‘materia’ organizzata (forze materiali di produzione), alla ‘natura’ trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’’atto puro’, ma proprio dell’atto ‘impuro’, cioè reale nel senso profano della parola”xxi. Ma perché, a ben vedere, la praxis storica che fondamentalmente interessa la riflessione di Gramsci nei Quaderni è quella che concerne, non tanto la produzione materiale di oggetti o beni economici, quanto la produzione di soggetti, quali soggettività storiche collettive, capaci di inaugurare, con una trasformazione rivoluzionaria, un nuovo modo di vita e di civiltà. Sottolineando che tale nuova concezione del contenuto e della funzione di ciò che sia la prassi storica si attua in Gramsci a mezzo di un peculiare e determinante mutamento di paradigma che egli impone alla nozione marx-engelsiana dell’«ideologia», la quale nei Quaderni passa da una definizione di senso negativa ad una positivaxxii. Appunto perché in Gramsci «ideologia» non è più sinonimo di falsa coscienza, bensì di funzione strutturalmente costitutiva, in senso positivo, conoscitivo, «gnoseologico» come egli scrive, della coscienza individuale e collettiva. Nell’ambito di questa profonda rielaborazione del marxismo sono le Tesi su Feuerbach di Marx che acquistano agli occhi di Gramsci un grande rilievo, tanto da tradurle egli stesso in italiano e da poter affermare già alle prime battute della sua riflessione sistematica su 15 marxismo e filosofia iniziata nel Quaderno 4 nel 1930 (Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie) a proposito della «nuova costruzione filosofica» di Marx che «già nelle tesi su Feuerbach appare nettamente questa sua nuova costruzione, questa sua nuova filosofia»xxiii. Nel breve scritto marxiano del 1845 ciò di cui si tratta è, com’è noto, la delineazione di una filosofia che risolva l’Ente nell’Agito, l’Essere nell’Attività umana: che faccia cioè principio costruttore e mediatore di senso per l’intera realtà l’attività pratica degli esseri umani. Tale filosofia sottrae ogni autonomia e consistenza d’essere alla natura, o agli oggetti quali enti esistenti indipendentemente dall’essere umano (come teorizza per Marx invece il vecchio materialismo, compreso quello di Feuerbach), per trovare in ogni realtà la tessitura e l’intervento dell’uomo, quale attore pratico e fabbrile. Ed è proprio l’affermazione, così assoluta e perentoria, di tale tessitura umana della realtà (anche di quella apparentemente extraumana), è proprio tale risolversi dell’ontologia in un’antropocentrismo pratico e fabbrile, a consentire a quel Marx di fare i conti con il suo passato di giovane hegeliano, illuminato e radicale, che aveva precedentemente confidato nella critica delle idee e nell’efficacia della lotta ideologica. Giacché, se l’Ente è l’Agito, anziché l’Essente per sé o l’Intuìto e il Conosciuto, ciò che vale, per cambiare il mondo, è la prassi e non la teoria: appunto una prassi rivoluzionante o rovesciante (umwälzende Praxis), com’è definita da Marx, che intervenga primariamente, anziché sulle idee e le forme della coscienza, sulle forme invece dell’agire e del 16 produrre pratico degli esseri umani, rimettendo sui piedi ciò che, in quel mondo fabbrile, è rovesciato e invertito. Gramsci, militante e teorico del comunismo, accoglie, ovviamente, delle Tesi marxiane tale definizione di rivoluzione come prassi, ma tornandovi a far giocare alla filosofia e alla lotta delle idee un ruolo singolarmente centrale e irriducibile. Di fronte all’interpretazione data da Benedetto Croce delle Tesi su Feuerbach nelle Conversazioni critiche, secondo cui Marx «non tanto capovolgeva la filosofia hegeliana, quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia; e il filosofare soppiantava con l’attività pratica»xxiv, egli , come scriverà nel 1932 nel Quaderno 10, vi trova invece una «rivendicazione di unità tra teoria e pratica»xxv. La loro questione centrale è infatti a suo avviso quella di una filosofia che si faccia completamente pratica, ossia che si traduca in una volontà e in una morale di massa: «il carattere della filosofia della praxis è [….] quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma ‘generalizzate’ nella realtà sociale».xxvi Vale a dire che se la filosofia ha nella sua tradizione storico-disciplinare il compito, per definizione, di dare sistemacità e unità alla complessità del reale, la filosofia della praxis ha come compito quello di unificare un ceto subalterno, traducendolo da un insieme atomistico e corporativo, in un soggetto collettivo, capace di unificare ed egemonizzare, a partire dalla propria unità, un’intera società. La filosofia della praxis è pratica perché genera e porta sul piano 17 dell’iniziativa storica una soggettività collettiva unificata che fa della sua unità l’orizzonte d’universalizzazione di un intera composizione sociale. Questo processo di produzione di una soggettività collettiva, in cui Gramsci vede il significato più proprio della praxis, come agire che attua per un gruppo sociale il passaggio dalla non-storia alla storia, dall’essere oggetto passivo d’egemonia altrui all’essere soggetto attivo d’egemonia, trova il suo fulcro nell’ideologia, nel confronto e nella lotta delle ideologie. Per Gramsci gli uomini non possono non avere ideologie, in quanto è solo attraverso il loro tramite che hanno esperienza e danno senso al mondo. Solo attraverso le «forme ideologiche», anche qui rovesciando il senso della Prefazione marxiana alla Critica dell’economia politica del 1859, gli uomini possono infatti diventare, per Gramsci, consapevoli del loro conflitto sociale e risolverlo. Ed è dunque fondamentalmente nella capacità di produrre da parte di un gruppo sociale un principio di universalizzazione più ampio e coerente di quello del gruppo sociale antagonista che si gioca, di fondo, la questione dell’egemonia. Fuoriesce dai limiti di questo mio intervento approfondire come per Gramsci si costruisca un’ideologia egemonica e come questa possa produrre una nuova soggettività storica, come per Gramsci cioè si dia un inconscio ideologico, legato alla passività economicistica delle classi subalterne, che deve essere necessariamente elaborato, come questo implichi il rapporto tra intellettuali organici e gruppo sociale e come soprattutto un’ideologia egemonica implichi in Gramsci un piano tendenzialmente organico e totalitario, l’«elaborazione di una coscienza 18 collettiva omogenea» che esclude ogni interpretazione che pure forzatamente si è voluta dare, negli ultimi anni, di Gramsci come teorico della democrazia e del relativismo dei valori. Qui mi preme solo ricordare la vera e propria dislocazione ontologica che sul piano della struttura dell’essere sociale originariamente concepita da Marx ed Engels questa diversa teorizzazione dell’ideologia comporta nell’articolazione del sistema gramsciano: la società civile diventa l’ambito della produzione del consenso e della lotta per le ideologie, ed è il luogo per eccellenza dell’iniziativa storica e politica, mentre l’ambito economico propriamente detto viene abbassato a una sfera dell’agire pressocché naturalistica, caratterizzata, non dalla dimensione qualitativa della volontà eticopolitica, ma da una dimensione quantitativa, misurabile con una esattezza propria delle scienze naturali. E’ una rivalutazione fondamentale del piano sovrastrutturale che Gramsci esprime, com’è noto, nella definizione di «blocco storico». Ed è appunto da qui, da questa diversa teoria della prassi e della sovrastruttura ideologica rispetto ai classici del marxismo, che io credo vada riaffrontata la questione del rapporto Gramsci-Croce e dell’anti-Croce di Gramsci. Perché ciò che, in conclusione, voglio dire è che quanto transita da Antonio Labriola ad Antonio Gramsci è, a mio avviso, il passaggio dalla filosofia della prassi alla filosofia come prassi e che in questa modificazione del nesso filosofia-prassi assume rilievo più preciso l’«Anti-Croce di Gramsci», dove ciò che è di fondo in questione è il confronto tra due diverse teorie della soggettività e della libertà. Da un 19 lato la concezione crociana della soggettività come individuale e presupposta libera alla storia attraverso il circolo delle quattro forme apriori dello spirito, e dall’altro la concezione gramsciana di una soggettività storica che è collettiva e totalitaria rispetto a se stessa, o non è, e che non è mai presupposta, ma sempre posta, posta in essere da un processo di liberazione intellettuale e morale. Così se nel confronto sul materialismo storico tra Labriola e Croce l’elaborazione critica del secondo primo, vista l’impossibilità strutturale, io credo, di concepire una filosofia della prassi, si mostra superiore all’argomentare del Gramsci fuoriesce da questa aporia spiazzando l’avversario e assegnando al materialismo storico un campo di gioco completamente nuovo, concependolo non più come teoria della causazione economica nella storia ma come teoria dello svolgimento storico in quanto alternarsi di soggettività collettive egemoniche, indagate nel loro trapassare dal nonessere della subalternità all’essere dell’iniziativa e dell’azione storica. Quanto per altro questa traduzione del marxismo dall’oggettivismo al soggettivismo storico, nel confronto serrato con le teorie del soggetto del neoidealismo italiano di Croce e di Gentile, corra, poi, il rischio di estremizzarsi, a sua volta, in una teoria della causazione idealistica della storia, consegnando improvvidamente l’intera storia del marxismo politico e filosofico italiano del ‘900 a un marxismo senza Capitale, - quanto cioè l’antropologia antinaturalistica di Gramsci lo abbia reso profondamente inabile a vedere e a mettere a tema la trama del capitalismo come quella «seconda natura» di cui tanto ci parla la pagina di Marx - è qualcosa che 20 ho argomentato altrove ed è questione che in questa sede non può essere ovviamente affrontataxxvii. Qui posso solo concludere, affermando che il pensiero di Gramsci non sarebbe potuto mai giungere alla sua originalissima concezione autoriflessiva e terapeutica della prassi, quale produzione di una soggettività attraverso la messa in campo di un’egemonia ideologica e filosofica, - non sarebbe mai potuto giungere alla sua teoria dell’ideologia -, senza il lavoro assai travagliato di Antonio Labriola sullo statuto delle idee nella teoria del materialismo storico e sulla dignità del marxismo come filosofia. 21 i A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p.1507. ii Ibidem, iii “Si può dire della filosofia del marxismo ciò che la Luxemburg dice a proposito dell’economia: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si appunta tutto l’interesse sulle armi più immediate, sui problemi di tattica politica. Ma dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema deve essere fatta predominante. Questa è una lotta per la cultura superiore, la parte positiva della lotta per la cultura” (A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 309). iv Cfr. l’Introduzione (Il marxismo di Antonio Labriola) di F.Sbarberi ad A.Labriola, Scritti filosofici e politici, Einaudi, Torino, 1973, p.LXXVI. v A.Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, a cura di R.Finelli, Ediesse, Roma, 1997, p.86. vi «La storia è il fatto dell’uomo, in quanto che l’uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di lavoro, e con tali istrumenti può creare un ambiente artificiale, il quale poi reagisce nei suoi complicati effetti sopra di lui, e così com’è, e come via via si modifica, è l’occasione e la condizione del suo sviluppo» (A.Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in Id., Saggi sul materialismo storico, a cura di V.Gerratana e A.Guerra, Editori Riuniti, Roma, 1964, p.89. vii In A.Labriola, Opere, III, a cura di L. Dal Pane, Feltrinelli, Milano, 1962. viii «Il vero movimento però non va a finire nella teoria pura, cioè astratta, come vorrebbe la critica critica, ma in una prassi totalmente pratica, la quale non si curerà in alcun modo delle categorie categoriche della critica» (K.Marx-F.Engels, La sacra famiglia, tr. it. di A.Zanardo, Editori Riuniti, Roma, 1967, p.201. ix G.Sasso, Gramsci e l’idealismo (Appunti e considerazioni) , in «La cultura», 3, 2003, p.363. x Cfr. su ciò S.Poggi, Introduzione a Labriola, Laterza, Bari, 1981; B. Centi, Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Dedalo, Bari, 1982; Id., Metodo genetico 22 e strutture morfologiche nei Saggi di Antonio Labriola, in Antonio Labriola filosofo e politico, a cura di L.Punzo, Guerini e Associati, Milano, 1996, pp.269-305. xi A.Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, op. cit., p.155. xii Ivi, p.85. A.Labriola, I problemi della filosofia della storia, in Scritti filosofici e politici, op. cit., p.19. xiv A.Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p.86. xv Ivi, p.100. xvi Cfr. ivi, pp.62-64. A tal riguardo rinvio alla mia introduzione, Autonomia e legittimità del socialismo, ivi, pp.9-43. xvii Cfr. l’Introduzione di F.Sbarberi ad A.Labriola, Scritti filosofici e politici, op. cit., p. LXIX-LXXI. xviii Cfr. A.Labriola, Postscriptum all’edizione francese di «Discorrendo di socialismo e filosofia» , in Id., Saggi sul materialismo storico, op. cit., pp.283-292; B.Croce, Come nacque e come morí il marxismo teorico in Italia (1895-1900) (1938) , in Materialismo storico ed economia marxistica, Bibliopolis, Napoli, 2001, pp.265-305. xix A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p.473. Sul lemma “filosofia della prassi” nel Gramsci dei Quaderni cfr. F.Frosini, Filosofia della praxis, in Le parole di Gramsci, a cura di F.Frosini e G.Liguori, Carocci, Roma, 2004, pp.93-111. xx Variante interlineare nel manoscritto gramsciano. xxi Ivi, p.455. xxii Su questo “rovesciamento” che Gramsci compie della tradizione teorica dei classi del marxismo rimando alla mia introduzione, Una soggettività immaginaria, all’edizione da me curata di L.Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma, 1997, pp.IX-XXXII; e al testo di D.Ferreri, Inattualità di Gramsci , in Aa. Vv., Percorsi della ricerca filosofica, Gangemi, Roma-Reggio C., 1990, pp.197-213. xxiii Ivi, p.424. xxiv B.Croce, Conversazioni critiche. Serie prima, Laterza, Bari, 1924², pp.299.. xxv A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p.1270. xxvi Ivi, p.1271. xxvii Mi permetto di rinviare ai miei saggi, «Universale concreto e universale astratto nel pensiero gramsciano», in Critica marxista, 1988, 5, pp.75-86; «Gramsci tra Croce e Gentile», in Critica marxista, 1989, 5, pp.77-92; «Sull’identità di storia, politica e filosofia», in Rivista di studi italiani, 1998, 1, pp.9-21; « Marx e Gramsci. Due antropologie a confronto», in Marx e Gramsci. Memoria e attualità, a cura di G.Petronio e M.Paladini Musitelli, manifestolibri, Roma, 2001, pp.99-121. xiii 23