1 Dialogo tra fede e cultura nell`insegnamento Teorie metafisiche

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Dialogo tra fede e cultura nell’insegnamento
Teorie metafisiche «plausibili» e teorie metafisiche «indecidibili»
Introduco il discorso affrontando il problema del tempo e lo concludo domandandomi quale
razionalità sono in grado di possedere le decisioni umane.
Il problema del tempo
Ilya Prigogine ci ha messo di fronte la constatazione che i processi sono irreversibili, poiché non
possiamo trascurare la variabile tempo. Logicizzare la realtà è un rischio, come ho sottolineato, che
ci porta lontano dalla verità.
Per porre il problema propongo alcuni spunti di riflessione.
Incomincio da Kierkegaard: «Quando nel pensiero puro si parla di una unità immediata di
riflessione in sé e di riflessione in altro e si dice che questa unità immediata viene tolta [Hegel],
bisogna allora introdurre qualcosa fra i momenti dell’unità immediata. Cosa? Il tempo. Ma per il
tempo non c’è alcun posto dentro il pensiero puro. Che significano allora il "superamento" e il
"passaggio" e la nuova unità? E che significa in generale pensare in modo che si fa soltanto finta di
pensare, perché tutto quel che si dice è assolutamente sorpassato? E che cos’è questo se non
confessare che le cose vanno a questo modo, invece di continuare a strombazzare che questo è
verità positiva del pensiero puro?»1.
Proseguo con Prigogine. «Abbiamo visto che i processi irreversibili descrivono proprietà
fondamentali della natura. Essi ci permettono di capire la formazione di strutture dissipative di nonequilibrio. Tali processi non sarebbero possibili in un mondo governato da leggi reversibili della
meccanica classica o quantistica. Le strutture dissipative esigono l’introduzione di una freccia del
tempo: è impossibile comprenderne l’apparizione introducendo approssimazioni in leggi reversibili
rispetto al tempo». 2
Kierkegaard approfondisce il passaggio dal pensiero alla realtà: «Il passaggio dalla possibilità alla
realtà è, come Aristotele giustamente insegna, un movimento (κίνησις) 3. Questo non si può
esprimere né comprendere nel linguaggio dell’astrazione, poiché questa precisamente non può dare
al movimento né spazio né tempo, i quali presuppongono il movimento e ne sono insieme
presupposti. C’è qui un arresto, un salto. Se qualcuno vuol dire che ciò deriva dal fatto ch’io penso
a qualcosa di determinato e non astraggo, perché in questo caso vedrei che non c’è rottura alcuna, io
ritorno alla mia risposta: benissimo, dal punto di vista dell’astrazione non c’è alcuna rottura, ma
neppure nessun passaggio, perché nella considerazione astratta tutto è. Se invece l’esistenza dà al
movimento il tempo e se io l’imito in questo, allora si mostra il salto, proprio come un salto può
mostrarsi: qualcosa che deve venire o ch’è già stato»4.
La conclusione è semplice: il soffocamento del tempo è dovuto alla concettualizzazione della realtà
nelle leggi, senza accorgersi che la dimensione logica è fuori della realtà e il tempo logico (il
concetto di tempo) non è il tempo reale. Logicamente si arriva all’induzione, salvo poi accorgersi,
con Popper, che l’induzione non esiste!
Lo scambiare le proprie idee con la realtà porta all’utopia, al cosiddetto perfettismo. Dario Antiseri
riporta una famosa pagina della Filosofia della politica di Antonio Rosmini: «Il perfettismo, cioè
quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla
immaginata futura perfezione, è effetto dell’ignoranza. Egli consiste in un baldanzoso pregiudizio,
per [il] quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una pura
1
Sören Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole di filosofia", in Opere, a cura di Cornelio Fabro,
Casale Monferrato, Piemme, 1995, vol. II, p. 446.
2
Ilya Prigogine, La fine delle certezze. Il tempo, il caos e le leggi della natura, in collaborazione con Isabelle Stengers,
Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 71.
3
Cfr. Physic., III, 2, 201 a 11. Cornelio Fabro documenta: «E’ dottrina attinta da Trendelenburg e sta a fondamento
della critica di Kierkegaard al sistema hegeliano. Cfr. Briciole, c. IV: "Intermezzo", § 1; in questo volume, a p. 82».
4
Sören Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole di filosofia", in Opere, a cura di Cornelio Fabro,
Casale Monferrato, Piemme, 1995, vol. II, p. 478.
1
ipotesi, sopra un postulato che non si può concedere, e con mancanza assoluta di riflessione ai limiti
naturali delle cose»5.
Teorie metafisiche «plausibili» e teorie metafisiche «indecidibili»
Accettato il paradigma della razionalità delle teorie, scientifiche o filosofiche, ci possiamo trovare
di fronte a teorie non solamente non controllabili sperimentalmente, ma neppure criticabili
razionalmente. Approfondiamo con Dario Antiseri: «Una teoria filosofica, proposta quale soluzione
di un problema, è razionale se è criticabile. Tuttavia, occorre ribadire che se è dall'arsenale
dell'"ambiente" culturale dell'epoca che si traggono, di volta in volta, quando esistono, gli
argomenti critici da scegliere contro le teorie filosofiche, è sempre dall'"ambiente culturale"
dell'epoca che provengono, quando esistono, quei supporti che, presentandosi come "indizi più o
meno forti di verità", rendono accettabili e plausibili le teorie metafisiche. Così, per esempio,
benché il determinismo (sia scientifico che filosofico) sia oggi difficilmente difendibile, si è nel
giusto se si dice che "nei tempi antichi un serio supporto del determinismo non consisteva in molto
più che nel fatto che i Babilonesi avevano con successo predetto le eclissi della luna e Talete una
eclissi di sole; ma era seducente e naturale - ricorda J. Watkins - guardare a tali fatti come ad
eccezionali e penetranti lampi di un onnipresente sistema di necessitazione". E un più serio e forte
supporto il determinismo lo ha ricevuto con la teoria newtoniana: Kant fu un determinista e il suo
determinismo era supportato dall'immagine del mondo-orologio di Newton. Il meccanicismo di
Cartesio era supportato dai risultati della nascente scienza moderna. Il positivismo trovò i suoi
"indizi di verità" nelle conquiste scientifiche e nelle realizzazioni tecnologiche dell'epoca.
Parimenti, nei "fatti" psicologici, sociali e politici trovavano il loro supporto le varie teorie sullo
stato di natura. Su "fatti" clinici, di antropologia, ecc., dicono di fondarsi quelle immagini
dell'uomo che sono la teoria freudiana, quella adleriana e quella junghiana. Insomma, come ha
scritto Ch. S. Peirce, "la metafisica, e persino la cattiva metafisica, si basa in effetti su osservazioni,
si sia di ciò consapevoli o meno". Su "fatti", su teorie scientifiche, su acquisizioni matematiche, su
conquiste logiche all'epoca consolidate e accettate per valide. Basti qui pensare soltanto a come e in
quale grande misura la geometria euclidea e la meccanica di Newton abbiano influito su tutto un
insieme di teorie filosofiche (metafisiche, gnoseologiche, etiche, teologiche, politiche): la geometria
euclidea è stata per secoli modello di sapere, più tardi lo fu anche la meccanica di Newton.
Insomma: le teorie scientifiche sono razionali perché confutabili, e sono accettate perché
confermate, perché cioè potrebbero essere vere per quanto all'epoca ne sappiamo. Le teorie
filosofiche sono razionali perché criticabili, e sono di volta in volta accettate in base a quegli "indizi
di verità" (più o meno forti a seconda dei casi) estraibili dalla cultura dell'epoca. In questo modo la
vita delle teorie filosofiche è una continua lotta: lotta con altre teorie filosofiche in competizione in
un "ambiente" dal quale emergono argomenti che possono favorire per un certo tempo una teoria, e
scalzarne un'altra, ovvero eliminarne più d'una. Ci possono essere teorie che risolvono un problema,
trovano alcuni supporti nell'"ambiente culturale" e si scontrano con altri pezzi di ambiente (E'
questo, mi pare, il caso in cui si trova oggi il tomismo). E può anche darsi che teorie di grande forza
pragmatica, teorie, per esempio, che risolvono pressanti problemi pratici (etico-politici), avanzino
solo apparenti indizi di verità, ma che tuttavia persistono per la loro utilità o funzione politica».
Ecco ora il problema che dobbiamo affrontare: «E può anche accadere che, se si accettano
determinati presupposti, allora alcune teorie metafisiche diventano indecidibili. Siamo qui dinanzi
ad uno dei problemi classici della storia delle teorie filosofiche: si può o no provare l'esistenza di
Dio? Ebbene è più che evidente che se si accetta l'idea kantiana per la quale, per esempio, la
categoria di causalità non può avere un uso trascendente, allora il problema dell'esistenza di Dio
diventa un problema razionalmente indecidibile. Il problema può essere deciso solo se si riesce a
5
Antonio Rosmini, Filosofia della politica, 1858, IV, p. 104.
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distruggere il presupposto kantiano riguardante l'impossibilità dell'uso trascendente della categoria
di causa»6.
Dal punto di vista del controllo sperimentale esistono teorie che restano a livello criticabile
razionalmente fino a che non trovano un contesto scientifico che permette di falsificarle
sperimentalmente. Ricordo il caso, per esempio, dell’esistenza dell’atomo, inizialmente proposto
come una teoria filosofica e successivamente pervenuta alla possibilità di un controllo sperimentale.
Tuttavia, con riferimento alle teorie non controllabili sperimentalmente, ne esistono di criticabili
razionalmente, come abbiamo visto, ma anche di indicibili con argomentazioni razionali, sia
temporaneamente sia per definizione. Forse tra le prime possiamo collocare il problema
dell’esistenza di Dio, come è stato proposto da Dario Antiseri: « Il problema può essere deciso solo
se si riesce a distruggere il presupposto kantiano riguardante l'impossibilità dell'uso trascendente
della categoria di causa».
Tra le teorie indecidibili, per definizione, con argomentazioni razionali troviamo le risposte alle
grandi domande.
Teorie razionalmente indecidibili
La problematica relativa all’indecidibilità della risposta a problemi che la nostra ragione si pone è
una conseguenza logica dei limiti della ragione umana, che finora ho cercato di mettere in evidenza.
Dario Antiseri riassume: «il linguaggio della scienza è un linguaggio fatto di concetti, teorie,
applicazioni rivolte al mondo dei fenomeni, al mondo dei fatti empiricamente controllabili, a quella
che si chiama realtà empirica. Ma se la realtà empirica – ciò di cui parla o può parlare la scienza –
sia o no il tutto della realtà non è una domanda cui la scienza possa rispondere. E’ una domanda
certamente legittima, ma: legittima fuori dalla scienza».
Ecco allora la domanda: «Perché l’essere e non piuttosto il nulla? Perché c’è qualcosa invece che
niente? Come il mondo è fatto ce lo dice, in uno sforzo senza sosta e senza termine, la scienza. Ma:
perché il mondo esista, se esso sia o non sia il tutto-della-realtà, quale sia il suo senso – ebbene, a
questi interrogativi la scienza non risponde e non può rispondere».
E’ una domanda che coinvolge tutta la nostra persona ed è inestirpabile. Forse «potrà sembrare ai
più una questione estranea all’esperienza concreta, vissuta, di ogni uomo e di ogni donna. Ma
appena la traduciamo nell’ineludibile interrogativo sul senso della vita, ci accorgiamo che così non
è. Quale il senso ultimo della vita di ogni uomo e di ogni donna? Forse che tutto è destinato a finire
in questo nostro mondo? L’umanità – la sterminata schiera di uomini e donne che, con la loro
genialità, bontà e generosità, o con la loro stupidità, cattiveria e malvagità, sono passati, passano o
passeranno sulla faccia della terra – si riduce davvero, per dirla con Dostojevsky, ad una storia
raccontata da un idiota, ovvero ci è possibile sperare ancora in una "patria altra", in "cieli altri" e
"terre altre"? […] La sofferenza innocente ci porta al bivio dove dobbiamo scegliere tra l’assurdo e
la speranza. Diversamente da chi si lascia travolgere nei gorghi dell’"assurdismo", colui che
abbraccia la fede in Dio spera che il carnefice non abbia l’ultima parola sulla sua vittima innocente.
Siamo obbligati a scegliere tra la disperazione e la speranza»7.
I tentativi della ragione umana di costruirsi degli «assoluti terrestri» sotto qualunque forma, mentre
sono logicamente insostenibili, come abbiamo visto, poiché non possiamo fondare nulla; negano la
possibilità medesima della trascendenza.
Ecco come li presenta Dario Antiseri: «Così le svariate forme di materialismo dove il tutto-dellarealtà viene ridotto, per dirla con Ludwig Büchner, alla "materia eterna e indistruttibile". Ipotesi
inutile è l’idea di Dio per i positivisti: "La scienza e la scienza sola, dirà Ernest Renan, può rendere
all’umanità ciò senza di cui essa non può vivere, un simbolo e una legge". In gran parte
dell’idealismo, a cominciare da Hegel, la religione è in funzione della ragione, in quanto
6
Dario Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, con
una replica di mons. Rino Fisichella e una lettera di Sergio Galvan, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 57-58.
7
Dario Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, con
una replica di mons. Rino Fisichella e una lettera di Sergio Galvan, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 101-103.
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avvistamento della verità che unicamente la filosofia porterà a maturazione razionale. Bruno Bauer
era ben consapevole di ciò, quando ne La tromba del giudizio universale (1841) scriverà che "con
Hegel l’Anticristo è venuto e si è rivelato". E, dopo Bauer, sarà Ludwig Feuerbach a formulare ne
L’essenza del Cristianesimo la sua nota tesi secondo cui "il nucleo segreto della teologia è
l’antropologia", dato che "tutte le qualificazioni dell’essere divino […] sono qualificazioni
dell’essere umano". Illusione per i materialisti, ipotesi inutile per i positivisti, la fede in Dio per
Karl Marx è una credenza dannosa per l’uomo, una credenza che va combattuta ed estirpata: "La
religione, egli afferma in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, è il sospiro della creatura
oppressa, il cuore di un mondo spietato, come è lo spirito di una condizione priva di spirito. Essa è
l’oppio del popolo". E non soltanto, secondo Marx, ma anche per l’ateismo psicoanalitico Dio è
diventato importuno; Freud, infatti, vede nella religione "una nevrosi ossessiva universale". La
trascendenza è negata dall’ateismo esistenzialista di M. Merleau-Ponty e di A. Camus e di J.P.
Sartre, per il quale l’uomo è una passione: "una passione inutile". Avversari degli esistenzialisti e
insieme negatori dello spazio della fede sono stati gli strutturalisti. Claude Lévi-Strauss: "All’inizio
del mondo l’uomo non c’era; non ci sarà neanche alla fine". E alla domanda "che cosa si può
sperare?", Jacques Lacan ha risposto: "Non si può sperare assolutamente niente. Non vi è alcuna
specie di speranza". L’agnostico sostiene di non avere ragioni né per affermare né per negare
l’esistenza di Dio – e tuttavia è chiaro che per lui il problema ha senso. Puri non-sensi sono invece
per i neopositivisti sia termini come "Dio" o "immortalità" e proposizioni come "Dio esiste" o "Dio
creò il mondo" – termini e proposizioni "unsinning" perché empiricamente inverificabili. Il
neopositivismo dissolve il problema di Dio ancor prima che questo possa venir posto»8.
Il problema di fondo è che se fossero vere queste concezioni immanentistiche – metafisiche, perché
risposte al problema del tutto (Antiseri) – non sarebbe possibile il trascendente, poiché esse si
presentano come alternative all’Assoluto trascendente: «Assoluti terrestri proposti – e spesso
accettati e difesi – come verità indiscutibili da un uomo assoluto che si è creduto in possesso di un
sapere assoluto. E un uomo assoluto non ha bisogno di Dio, perché gli basta il suo sapere assoluto
sull’essenza dell’uomo, sull’ineluttabile senso della storia, sul destino dell’intera umanità, sulla
società perfetta» 9.
Ma, come abbiamo visto, «l’uomo non è capace di costruire sensi assoluti del cammino della storia
umana; […] non è in grado di proporre valori assoluti razionalmente dimostrabili; […] l’umana
conoscenza è sempre parziale, fallibile e incompleta. E tale rimarrà. Questo pensiero debole non
canta "la vittoria del nulla": esso è un pensiero che scruta sino in fondo, senza illusioni e senza
rimpianti, l’impotenza dell’uomo a trasformarsi in Dio, l’umana incapacità di indicare una via tutta
umana di salvezza, l’impossibilità di proporre valori e ordinamenti sociali presunti razionalmente
assoluti. Il pensiero che qui viene proposto e difeso non è un pensiero che abdica all’uso della
ragione. Esso intende piuttosto colpire l’abuso della ragione, di una ragione che si erge a dearagione negando lo spazio della trascendenza; e che si atteggia a dea-ragione quando, per esempio,
afferma che senza i suoi costrutti metafisici la Rivelazione cristiana o sarebbe impossibile o una
favola. In quest’ultimo caso, la ragione filosofica non è affatto ancilla, è domina, di nuovo dea. E’
essa che concederebbe a Dio il permesso di rivelarsi. E’ stato di recente scritto che, priva dei
risultati della metafisica trascendentista cognitiva, la fede cristiana "si presenterebbe come una
specie di puro impegno emotivo o come una tabulazione più o meno vaga e mitica" 10. E qualcun
altro ha affermato che senza una certa metafisica "la parola della rivelazione e della promessa resta
in sospeso" 11». 12
8
Dario Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, con
una replica di mons. Rino Fisichella e una lettera di Sergio Galvan, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 103-104.
9
Dario Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, con
una replica di mons. Rino Fisichella e una lettera di Sergio Galvan, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 104.
10
Evandro Agazzi, Scienza e fede, Milano, Editrice massimo, 1983, p. 157.
11
Giovanni Santinello, Immagini e idee dell’uomo, Rimini, Maggioli Editore, 1984, p. 279.
12
Dario Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, con
una replica di mons. Rino Fisichella e una lettera di Sergio Galvan, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 114-115.
4
In conclusione, siamo di fronte a risposte razionalmente indecidibili per le quali, però, ne va della
nostra vita; sono domande, poste dalla ragione umana, alle quali essa non può rispondere perché
superano le sue capacità: come la ragione umana non può raggiungere la verità definitiva su di un
solo grammo di realtà, comprendendolo pienamente, analogamente essa non è in grado di
rispondere definitivamente a domande che implicano sensi assoluti!
Approdiamo al risultato che la nostra ragione non solamente non è superiore alla nostra persona, ma
è uno strumento della nostra persona per progredire sempre verso la verità, che rimane un traguardo
razionalmente mai definitivo: la verità è da cercare sempre con un’attenzione vigile della nostra
coscienza. In conclusione arriviamo a ciò che formalmente ci costituisce come persona: l’apertura
alla relazione con il Trascendente, che è relazioni personali sussistenti. La relazione con la verità
non ha termine e permette alle persone umane di crescere senza fine nella verità. La scoperta della
persona, attraverso la riflessione sull’esperienza di Gesù Cristo e sulla documentazione che di essa
ce ne hanno fornito gli scritti del Nuovo Testamento, come ho indicato, ci fa cogliere dentro di noi
la coscienza di essere un «io» di fronte ad un «Tu», che è origine dei valori, della dimensione etica,
della responsabilità, dell’apertura continua e costante alla verità, della nostra libertà; ci fa
comprendere la portata limitata – senza volerne sminuire il valore - delle conoscenze scientifiche sia
controllabili sperimentalmente che criticabili razionalmente: risultano una parte e la meno decisiva
per il significato della nostra vita.
«E dunque do per scontato che la coscienza occupa un posto legittimo fra gli altri della nostra
mente; e anche che sia reale, esattamente come l’azione della memoria, del ragionamento,
dell’immaginazione, oppure del senso del bello. Come vi sono oggetti che, quando si presentano
alla mente, fanno sì che essa provi un senso di dolore, di dispiacere, di gioia oppure di desiderio,
così vi sono cose che provocano in noi un moto di approvazione oppure di disapprovazione e che ci
spingono a dire, di conseguenza, che sono giuste oppure sbagliate. Quando a farne l’esperienza
siamo noi stessi in prima persona, ecco che esse accendono in noi quel senso specifico di piacere o
di dolore che passa sotto il nome di buona oppure di cattiva coscienza. […] Il sentire della
coscienza (che è, lo ripeto, una sensibilità acuta, piacevole oppure dolorosa – di auto-approvazione
e speranza, oppure di compunzione e timore – che accompagna certe nostre azioni, che di
conseguenza chiamiamo giuste o sbagliate) è duplice: è insieme un senso morale e un senso del
dovere, un giudizio espresso dalla ragione e un dettame autorevole. Naturalmente l’atto che essa
compie è indivisibile; presenta comunque questi due aspetti, che sono distinti l’uno dall’altro e che
è possibile considerare separatamente»13.
Il sentire della coscienza coinvolge, dunque, tutta la persona, che è la morale sussistente. Per
esprimermi in forma analitica: sensibilità, memoria, intelligenza e volontà. E aggiungo: la coscienza
mi permette di percepire la mia responsabilità, fino a divenire guida delle mie azioni: «La coscienza
è una guida personale. Ed io la uso perché devo usare me stesso; non sono in grado di pensare con
una mente che non sia la mia, esattamente come non sono in grado di respirare con i polmoni di un
altro. La coscienza mi è vicina più di qualsiasi altro mezzo di conoscenza. E come la coscienza io ce
l’ho perché mi è stata data, ce l’hanno anche gli altri, è stata data anche a loro; e siccome ciascun
individuo se la porta con sé nel petto e la coscienza non ha bisogno di niente che non sia se stessa, è
quanto mai adatta a comunicare a ciascun individuo separatamente la conoscenza che per lui conta
di più, adattissima ad essere usata dagli uomini di ogni categoria e condizione sociale, alta e bassa,
giovani e vecchi, uomini e donne, indipendentemente dai libri, dal ragionamento colto e raffinato,
dalla conoscenza della fisica o della filosofia. La coscienza poi, ci insegna non solo che Dio c’è, ma
anche ciò che Egli è; ne dà alla mente un’immagine reale, ed è quindi funzionale all’adorazione; ci
fornisce un codice dei doveri morali. Inoltre è fatta in modo tale che, se l’ascoltiamo, diventa
sempre più chiara nelle sue ingiunzioni, e più ampia nel suo raggio di azione, correggendo e
completando gli eventuali punti deboli dei primi insegnamenti. E dunque la coscienza, intesa come
guida, ha tutto ciò che le occorre per svolgere il proprio compito. Questo lo dico senza entrare nel
13
John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, a cura di Bruno Gallo, introduzione di Luca Obertello, Milano, Jaka
Book, 2005, p. 84.
5
merito di quanto siano necessari all’azione della mente gli aiuti provenienti dall’esterno, perché
nella realtà dei fatti l’uomo non vive isolato e solo, ma fa sempre e dovunque parte della società» 14.
In conclusione, con il pensiero di Newman confermo che ogni nostra azione, compresa la
dimensione intellettiva delle nostre azioni, in quanto è attività umana, coinvolge tutta la persona e
trova la guida propria nella coscienza della persona. Isolare la dimensione logica dell’attività
conoscitiva umana, che è attività di tutta la persona, rischia di assolutizzare le nostre costruzioni
logiche, scambiandole con la realtà e, persino, di ritenerle in grado di esserne all’origine, con il
possesso dei fondamenti. Dobbiamo compiere una rivoluzione e poggiare la nostra conoscenza sulla
realtà, dalla quale unicamente può trarre alimento, anche per lo sviluppo delle possibilità, come
sostiene Kierkegaard, collocandoci non dal punto di vista essenzialista, della natura o della
sostanza, ma esistenzialista, cioè della persona, con la presa di coscienza che ogni grammo di
esistenza è creato da Dio: l’esistenza non ci è disponibile e non abbiamo esperienza del nulla! La
persona come relazione e l’azione di creazione sono due approfondimenti dell’esperienza rivelata e
cristiana, che superano il paradigma di ogni visione essenzialista. Il raggio di azione della persona
umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio, perviene a modificare la realtà, ma non a costituirla
nell’esistenza, cioè crearla. Il trascurare la dimensione dell’esistenza per rifugiarsi nell’essenza
(natura, sostanza e accidenti) rappresenta l’assolutizzazione della dimensione logica ed il tentativo
dell’uomo di sostituirsi a Dio, proprio per mezzo dell’intelligenza e della libertà 15.
Razionalità delle decisioni umane
Un problema, che emerge con forza a questo punto, è il seguente: come prendere delle decisioni, se
non possediamo nulla di definitivamente certo? Che significato possiamo dare alla nostra vita se le
conoscenze scientifiche non portano a nessuna certezza definitiva e le conoscenze, che sono per noi
decisive, sono indecidibili da parte della nostra ragione? 16
Prima di rispondere è opportuno allargare la documentazione sulla nostra esperienza, sia
affrontando il discorso sulla libertà che approfondendo l’atto conoscitivo all’interno della relazione,
che costituisce la persona umana.
Anzitutto la libertà: «L’Io si costituisce, si attua e si rivela come soggetto mediante la libertà: la
libertà è pertanto il fondamento della soggettività ed insieme il suo compito e τέλος. Non si tratta
qui soltanto di quella ch’è una delle leggi fondamentali di ogni attività vitale e sensoriale ossia il
suo esercizio non va soltanto a vantaggio dell’organismo intero, ma dello stesso organo operante, p.
es. la digestione, la respirazione … tengono in vita e sviluppano lo stesso apparato digerente e
respiratorio. Nella sfera esistenziale l’Io si attua come libertà e la libertà a sua volta decide della
sorte e qualità ovvero della "esistenza" dell’Io stesso: esso infatti non può procedere che per
un’autogenenesi»17.
14
John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, a cura di Bruno Gallo, introduzione di Luca Obertello, Milano, Jaka
Book, 2005, pp. 307-308.
15
«"Non è vero che morirete", disse il serpente, "anzi, Dio sa bene che se ne mangerete i vostri occhi si apriranno,
diventerete come lui: avrete conoscenza di tutto"» (Gen. 3, 4-5).
16
«Nel Discorso sul metodo, anche Cartesio si domanda in che misura applicare la scienza, o la ragione, alle faccende
della vita. In filosofia, e per dare fondamento alle scienze, bisogna ammettere solo proposizioni assolutamente certe e
che, in ultima istanza, poggino su una certezza esente da dubbi. Ma nel quotidiano, in attesa di aver elaborato una
filosofia certa e completa che permetta di risolvere le faccende della vita, che cosa fare? Cartesio – è la prima massima
della sua morale provvisoria – si propone "di obbedire alle leggi e alle usanze del mio paese […] e governandomi nel
resto secondo le opinioni più moderne e più lontane dagli eccessi, praticate comunemente dagli uomini […]". Gödel
invece esita. In una nota dei quaderni filosofici prende in considerazione la massima cartesiana accompagnandola con
un "forse". Il fatto è che egli intravede un rischio: la logica, applicata alla vita o, per parafrasare Wang, l’iperrazionalità,
rischia di rendere "folli" e forse – ossia, se Cartesio ha ragione – è una vera e propria follia (che va scritta allora senza
virgolette» (Pierre Cassou-Noguès, I demoni di Gödel. Logica e follia, Milano, Bruno Mondatori, 2008, pp. 22-23). La
citazione di Cartesio è dal Discorso sul metodo, a cura di G. De Ruggero, Milano, Mursia, 1972, p. 57; quella di Gödel
dalle Carte Gödel, "Quaderni filosofici", trascrizione di C. Dawson, V, p. 334.
17
Carnelio Fabro, L’Io e l’esistenza e altri brevi scritti, a cura di A. Acerbi, Roma, Edizioni Università della Santa
Croce, 2006, p. 79.
6
Ariberto Acerbi commenta: «E’ qui formulata la sintesi di soggettività e libertà […]. Il soggetto si
coglie all’origine dell’agire per il quale entra in rapporto col mondo e decide del proprio destino. La
limitazione introdotta, nella sfera esistenziale, avverte che l’autonomia dell’io sarà riguardata dal
punto di vista operativo. L’autogenesi in senso metafisico sarebbe in contrasto con la natura finita
del soggetto umano» 18.
Forse è meglio ricordare che, per esprimerci, dobbiamo servirci di un linguaggio, che non può non
servirsi di idee, di formulazioni discorsive generali, poiché non riusciamo ad esprimere un
particolare in se medesimo. Nell’affermazione di Cornelio Fabro: «Nella sfera esistenziale l’Io si
attua come libertà e la libertà a sua volta decide della sorte e qualità ovvero della "esistenza" dell’Io
stesso» si discorre di «Io», di «libertà»; nell’esistente mi percepisco esistenzialmente libero; non si
tratta di qualità astratte, distinte; la distinzione è necessaria per poter discorrere e comprendere
razionalmente; l’intuizione esistenziale comprende tutto questo e percepisco che sono io stesso che
sono libero, decido. Tuttavia esistenzialmente sento che sono limitato, finito, non sono in grado di
costruirmi un grammo di esistenza; non ho esperienza del nulla; percepisco interiormente di essere
responsabile, sempre moralmente coinvolto. La percezione esistenziale della mia limitatezza e
finitezza – poiché tale mi sento – coinvolge tutto me stesso sia come esistente che come
responsabile e sempre moralmente impegnato e fa emergere, sempre esistenzialmente, le domande
indecidibili da parte della mia ragione, per rivolgermi, sempre esistenzialmente, nella relazione che
mi costituisce persona di fronte a Lui, a Colui che mi ha fatto. Mentre non ho il ricordo di essere
stato nel seno di mia madre, e di essere stato da lei generato, dentro di me sento questo rapporto con
Lui.
Allora sembra chiaro che «l’autogenesi in senso metafisico sarebbe in contrasto con la natura finita
del soggetto umano». Ma questa espressione è frutto di una riflessione ed elaborazione della mia
esperienza esistenziale. Correttamente Acerbi prosegue: «Tale limitazione non deve, d’altra parte,
deprimere la reale capacità causale che la mia libertà comporta: la sua eminente spontaneità ed
immanenza e la relativa "disponibilità dell’essere". A tale riguardo, altrove Fabro parla della libertà
umana come di una "creatività partecipata"»19.
«Questa autogenesi afferma senz’altro l’autonomia dell’Io come principio esistenziale, ossia
soggetto di libertà: come ente esistente ognuno si trova "gettato" nel mondo e nella società
familiare, politica, religiosa … ch’egli non ha scelto, ma nella quale è stato scelto o più chiaramente
qualcuno l’ha scelto con una scelta che è stata sua e non di chi è stato scelto. […] Sia detto subito
che nella sfera esistenziale i termini o semantemi di soggettività e libertà si equivalgono: si vuol
dire che, qualunque possa essere la condizione ontologica e metafisica dell’Io, cioè di trovarsi nel
mondo e nella società ed (eventualmente) essere di "fronte a Dio", l’Io è libero sia di fronte al
mondo ed alla società come di fronte a Dio: libero di scegliere il suo tipo di esistenza e pertanto
libero di esistere secondo appunto quel tipo di esistenza»20.
Con la precisazione contenuta nella registrazione delle lezioni di Fabro: «la ricerca dell’io deve
procedere oltre le sue determinazioni empiriche (psicologiche, sociali, etc.) per arrivare ad un io che
è prima delle determinazioni perché è principio delle determinazioni. E quindi "la ricerca del
fondamento senza qualità, qualificante, l’incomunicabile comunicante, perché, se avesse una
qualità, essa gl’impedirebbe di autoqualificarsi, e sarebbe il determinismo. L’io in quanto io, non
dipende da nulla, come autoporsi in un progetto. Dipende per camminare. Dipende metafisicamente,
ma non come io"» 21.
18
Carnelio Fabro, L’Io e l’esistenza
Croce, 2006, p. 79, nota 67.
19
Carnelio Fabro, L’Io e l’esistenza
Croce, 2006, p. 79, nota 67.
20
Carnelio Fabro, L’Io e l’esistenza
Croce, 2006, pp. 79-81.
21
Carnelio Fabro, L’Io e l’esistenza
Croce, 2006, p. 80, nota 67.
e altri brevi scritti, a cura di A. Acerbi, Roma, Edizioni Università della Santa
e altri brevi scritti, a cura di A. Acerbi, Roma, Edizioni Università della Santa
e altri brevi scritti, a cura di A. Acerbi, Roma, Edizioni Università della Santa
e altri brevi scritti, a cura di A. Acerbi, Roma, Edizioni Università della Santa
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Siamo ai limiti del linguaggio. Infatti questo «Io» non è formalmente né natura, né sostanza, ma
persona, cioè relazione ipostatica; ed è creato da Dio come relazione a immagine e somiglianza di
Dio stesso.
La relazione, nella quale consiste ogni persona umana, porta ad una comunicazione senza fine nel
clima di valori che riscalda ogni rapporto vissuto a livello umano: nell’atmosfera dell’amore, del
dono, della fedeltà, della fiducia, della sincerità, che impregna ogni relazione umana autentica, noi
viviamo, scambiandoci continuamente conoscenze, e sono le più importanti, benché non siamo
sempre valide: non hanno senso l’amore, il dono, la fiducia, la sincerità senza conoscenza
esistenziale. Infatti la realtà di maggior rilievo, che viviamo, è il contatto, la percezione, la presenza
vissuta dell’altra persona intuita, accolta in uno scambio senza fine. E’ nella relazione di amore,
nell’amicizia, nell’amore autentico del prossimo che avvengono gli scambi, che decidono della
nostra vita, e le conoscenze, che ci fanno effettivamente crescere. Se questo clima di amore è
realizzato dallo stesso Amore divino, presente nei nostri cuori, allora ci troviamo nella relazione
educativa come voleva don Bosco, nella quale ognuno cerca la realizzazione dell’altro, la
conoscenza e la realizzazione della volontà di Dio. Quando in una simile relazione mi accorgo che
la persona, con la quale sono in contatto, cerca il mio bene, la mia realizzazione, nasce l’amicizia
educativa e la relazione diviene effettivamente educativa. Il che dovrebbe essere scontato nelle
relazioni con i propri genitori. E’ nel contesto della relazioni umane autentiche che vengono prese le
decisioni più importanti della nostra vita, evidentemente nella comunicazione indiretta, che
favorisce l’interiorità, come vuole Kierkegaard.
«La concezione realistica dell’educazione è basata sulla seguente osservazione fondamentale:
nell’educazione, la mente umana dipende molto di più dalla "testimonianza" – cioè dallo
sperimentare (sentire, toccare, vedere) la realtà – che viene dai sensi (vedere delle pratiche in atto,
vivere una certa relazione con un’altra persona, un amico o insegnante) che dalla definizione
concettuale che viene formulata nel discorso e pensata nell’Io. L’Io del bambino si forma nella
pratica, prima naturale e poi sociale, prima che nell’uso di una lingua e di una cultura (cioè precede
la conoscenza, basata sul Mondo 3 di Karl Popper)»22.
Noi siamo abituati a distinguere tra conoscenza sensibile (attraverso i sensi) e conoscenza
intellettiva e razionale (per mezzo dell’intelletto e della ragione). Tuttavia dobbiamo prima prender
atto del fatto che ogni atto di conoscenza è di tutta la persona e la coinvolge integralmente! Infatti,
sia di fronte alla percezione del calore di un termosifone, che tocco con le mie mani, sia di fronte ad
un ragionamento, percepisco sempre esistenzialmente, esplicitamente o implicitamente, che si tratta
di atti miei, del mio io, di me come soggetto, che agisco e sono responsabile. Ed, infatti, ne
percepisco anche il valore per la mia vita, la dimensione etica ed alcune possibili conseguenze. Si
tratta del coinvolgimento della persona umana, del «singolo» esistente, come afferma Kierkegaard
in opposizione ad ogni forma di astrattismo e di collettivismo.
E’ in questa percezione, conoscenza, coscienza profonda, anche se spesso non esplicitata, che si
manifesta, si realizza la mia vita e la nostra vita. «Proprio perché l’esperienza pratica (inclusa la
testimonianza ricevuta) precede una riflessione cognitiva, l’Io è costituito dalla relazione sociale. La
ragione apprende dall’esperienza in modo relazionale rispetto al suo ambiente»23. Con due
sottolineature, però:
 che si tratta di un’esperienza pratica, nel significato che ne viene coinvolta tutta la persona, e, di
conseguenza, siamo di fronte ad un atto conoscitivo esistenziale, che comprende forme di
intuizione e precede ogni forma di astrazione;
 che la relazione con l’ambiente proviene dalla realtà della persona, che è costitutivamente
relazione.
22
Pierpaolo Donati, La sfida educativa: analisi e proposte, in "Orientamenti Pedagogici" vol. 57, n. 4, luglio-agosto
2010, p. 591.
23
Pierpaolo Donati, La sfida educativa: analisi e proposte, in "Orientamenti Pedagogici" vol. 57, n. 4, luglio-agosto
2010, p. 591.
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Ed è da sottolineare che «l’educazione di cui i bambini, i ragazzi e i giovani hanno bisogno è quella
che vede il costituirsi dell’Io (identità personale e sociale) nelle relazioni, con le relazioni,
attraverso le relazioni, perché l’esperienza relazionale (l’esperire vivente, il mettersi in relazione a
una testimonianza pratica) precede la definizione cognitiva e la rielaborazione concettuale
dell’identità umana con i suoi interessi, premure e progetti»24.
Il discorso va approfondito, perché non si tratta unicamente di precedenza della relazione personale
sulla definizione cognitiva e sulla rielaborazione concettuale dell’identità umana, ma della
costituzione esistenziale della persona umana, quale relazione, dalla quale proviene ogni azione
umana; e dell’importanza, per la realizzazione della persona, delle relazioni, nelle quali si formano
e si sviluppano gli approcci conoscitivi decisivi per la nostra vita, indecidibili dal punto di vista
appunto della definizione cognitiva e della rielaborazione concettuale.
La conoscenza umana è fondamentalmente relazione, la quale è atto costitutivo esistenziale della
mia persona; mi percepisco sempre in essa sia sensitivamente che intellettivamente; in essa è
presente la presa d’atto esistenziale che esisto (non del concetto di essere), percezione esistenziale
del mio atto di libertà e della mia coscienza, che è umana, prima che sensibile e intellettuale, teorica
e pratica, le quali ne rappresentano una distinzione frutto di una riflessione successiva 25.
L’assolutizzazione della conoscenza scientifica porta, oltre alla separazione dall’etica, ad una «vita»
umana senza amore, in provetta; a vendere il proprio seme; a cercare, attraverso il DNA, i propri
fratelli o le proprie sorelle; a mettere al mondo senza la gestazione nel seno di una donna. Si tratta
di un danno incalcolabile alla vita umana, a tutte le persone, di un depauperamento senza fine,
poiché la scienza non potrà mai sostituire la relazione umana e realizzare una persona umana.
E’ da ribaltare la mentalità scientifica (sia sperimentale che razionalistica) per dare importanza alle
relazioni, se si vuole far vivere le persone e vivere da persone. I valori non sono creati e non
provengono dalla scienza, ma vivono nelle relazioni ed originano dalla persona umana, che è la
morale sussistente. La scienza è un’attività umana, non un’entità logica astratta.
«La considerazione esistenziale è diversa pertanto sia dall’indagine puramente psicologica, anche di
quella che oggi si chiama psicologia dell’età evolutiva, sia strettamente filosofica sia essa
ontologica o metafisica propriamente detta. La psicologia "descrive" impressioni, esperienze,
soprattutto comportamenti … ai livelli della vita vissuta per individuarne leggi, moduli, connessioni
e interferenze secondo le esigenze della ricerca scientifica. In quanto e nella misura in cui la
psicologia tende a diventare scienza, essa si stacca dall’esistenza e abbandona il campo proprio
della coscienza. L’ontologia ricerca la struttura del reale come ente, come ciò che è ossia che ha
l’essenza, l’essere e l’esistenza …: essa presuppone in atto la coscienza, il reale ed il fatto perciò
dell’esistenza tanto per l’Io come per il mondo. La metafisica, in quanto la si vuol distinguere
dall’ontologia, cerca di riportare sia la coscienza come il reale ai principi ossia ai fondamenti: se
l’ontologia può dirsi riflessione radicale di primo grado, la metafisica è riflessione radicale di
secondo grado. Essa però non è l’ultima per l’uomo, come ha pensato quasi tutto il pensiero
occidentale, il pensiero filosofico certamente che ha concepito come compito decisivo per l’uomo il
θεωρείν: il conoscere come conquista dell’oggetto e immergersi in esso, come la fine della carestia
e della povertà ed il conseguimento della sufficienza e della ricchezza. E’ ciò che si può dire un
24
Pierpaolo Donati, La sfida educativa: analisi e proposte, in "Orientamenti Pedagogici" vol. 57, n. 4, luglio-agosto
2010, p. 591.
25
«Ci sono atteggiamenti in cui è presente una modalità di conoscenza diversa dal sapere oggettivo, in cui il soggetto
attinge l’oggetto tramite la sua rappresentazione, e prossima, invece, alla "conoscenza" soggettiva, in cui il soggetto
attinge direttamente il proprio essere nella coscienza. Ad esempio, la "conoscenza" realizzata nei rapporti quotidiani e
nel rapporto di amicizia non è identificabile ad una rappresentazione, né ad un sapere meramente presuntivo. In tal caso
la conoscenza è immanente ad un contatto esistenziale reciproco, ad un legame reale, intimo o comunque non
estrinseco. Il riconoscimento, nella sua dimensione noetica, sembra così caricarsi di tutte le connotazioni pratiche,
affettive ed anche etiche di questo termine. E’ proprio infatti, dell’atteggiamento "pratico" di rivolgersi all’oggetto nel
suo stesso essere. Si ha così non una "conquista dell’oggetto" ma un’"unione" come comunione» (Ariberto Acerbi,
Introduzione a Carnelio Fabro, L’Io e l’esistenza e altri brevi scritti, a cura di A. Acerbi, prefazione di J.J. Sanguineti,
postfazione di F. Keller, Roma, Edizioni Università della Santa Croce, 2006, pp. 45-46).
9
processo di conquista e di riempimento, invece di unione come comunione e di compimento di
un’amicizia che salva e salva l’Io come persona nella sua avventura terrena» 26.
Il prendere una decisione motivata comporta una coscienza informata; ma le conoscenze umane non
sono mai definitive e le conoscenze, che più contano, sono indecidibili per mezzo della nostra
ragione. La verità non è un concetto teorico; è la mia relazione esistenziale con la realtà,
esistenzialmente appresa attraverso il mio rapporto con essa nel processo conoscitivo per mezzo,
pure, dell’apporto della scienza, la quale non è in grado, però, di raggiungere ciò che più conta per
la mia vita.
La verità è un rapporto esistenziale, percezione, visione, estasi filosofica o trascendentale, mai
chiusi o definitivi 27.
L’adesione di fede, di fiducia in una persona è ciò che supera ogni dimensione e forma di
conoscenza oggettiva, e si sviluppa all’interno della relazione umana: qui sperimento che è vero ciò
che ho raggiunto sia esistenzialmente sia, pure, con una lunga riflessione teorica a riguardo dei
valori e di quanto, in generale, conta di più nella vita.
26
Carnelio Fabro, L’Io e l’esistenza e altri brevi scritti, a cura di A. Acerbi, Roma, Edizioni Università della Santa
Croce, 2006, pp. 74-75. Ariberto Acerbi (nota 61, p.p. 75-76) precisa: «Commentando questo punto a lezione, alle
parole essa [la riflessione metafisica] non è l’ultima, Fabro dichiarò di aver compiuto un progresso al riguardo, rispetto
al suo precedente punto di vista che concedeva alla conoscenza e alla stessa riflessione metafisica un primato, s’intende
sul piano antropologico (per l’uomo). Tal punto di vista egli lo ritiene ora superato poiché legato ai limiti di una
formazione "intellettualistica" […]. L’orientamento oggettivo dell’intelletto si oppone all’immediato riferimento della
coscienza e della volontà al soggetto. Tuttavia, né qui né mai altrove Fabro rifiuta o deprime la funzione fondamentale
dell’intelletto per la conoscenza dell’essere soggettivo, per la conduzione della prassi e per la costituzione
trascendentale dell’essere umano. L’opposizione qui considerata non ha come termini la conoscenza e la volontà, come
tali, ma la conoscenza oggettiva (universale, mediata ed in tal senso riflessiva) e una forma di riflessione
immediatamente aderente al dinamismo della vita: la riflessione esistenziale, appunto. Tale opposizione non è esclusiva,
ma evidenzia le peculiarità della considerazione esistenziale». A me sembra che «l’immediato riferimento della
coscienza e della volontà al soggetto» porti ad uscire dall’orientamento oggettivo per intuire interiormente ed
esistenzialmente se stessi, come esistenti e viventi, responsabili, relazione e persona, che supera la natura e la sostanza.
27
S. Agostino: «Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem
inveneris, trascende et teipsum. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur. Non uscire fuori, rientra in te
stesso: nell'uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove
si accende la stessa luce della ragione» (De vera religione, 39, 72). Dio è più intimo a me di me stesso!
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