EAN– European Astrosky Network n. 20/2014 Webzine gratuita www.eanweb.com [email protected] © EAN 2014 ASTRONOMIA & INFORMAZIONE SOMMARIO C. De Angelis, M. Romagnoli, La fotonica nell’anno della luce 2015, p. 04 C. Ruscica, Gli oggetti vaganti ‘identificati’, p. 09 M. Marelli, Blu Nobel, p. 14 S. Ossicini, L’aureola della gloria. Huygens, Newton e la natura della luce, p. 18 M.U. Lugli, La costellazione della Vergine e Spica, la stella dell’EXPO 2015 , p. 21 S. Covino, Comete, spese e PIL, p. 25 M. Cardaci, Le macchie solari le ha scoperte… Pincopallo, p. 31 M. Dho, Citizen Science: la protagonista di un prossimo libro, p. 37 M. Cardaci, Macchie, ombre e alieni, p. 45 P. Bacci, Il frammento B della cometa C/2011 J2 (LINEAR), R. Calanca, Cometografia italica, (seconda parte) p. 50 p. 57 F. Manzini,Una visione differente della cometa 67P: le polveri e i getti, p. 72 A. Villa, Transiti di pianeti extrasolari all’Osservatorio di Libbiano. Autunno 2014, p. 81 U. Quadri, et al., Cronistoria della scoperta di una nuova stella variabile, p. 85 Pagina 2 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 REDAZIONE Direttore editoriale: Rodolfo Calanca, [email protected] Co-direttore: Angelo Angeletti, [email protected] Redattore responsabile: Manlio Bellesi, [email protected] Redattore: Lorenzo Brandi, [email protected] Responsabile dei servizi web: Nicolò Conte [email protected] Luogo e data di pubblicazione: La webzine Astronomia Nova è pubblicata a Medolla (MO) in Via A. Gramsci 7, il 18 gennaio 2015 In copertina: Immagine di Cristian Fattinnanzi della cometa C/2011 W3 Lovejoy del 13 gennaio 2015, 3 pose da 2 minuti in sequenza, obiettivo da 400mm f2,8 e reflex Canon 5D Mark3 ad 800 ISO. SPONSOR PROGETTI EAN ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 3 EDITORIALE A CURA DELLA REDAZIONE EAN Ecco un altro numero molto ricco della nostra webzine! Ancora una volta, gli argomenti sui quali ci siamo soffermati sono, in primo luogo, l’Anno Internazionale della Luce ed argomenti affini, con gli articoli di De Angelis, Romagnoli, Marelli, Ossicini, senza dimenticare l’EXPO 2015, con l’articolo di Lugli che ci racconta la storia, il mito ed il catasterismo della Vergine e di Spica, che deve essere considerata, a pieno diritto la stella dell’EXPO. Naturalmente non potevano mancare contributi all’impresa di Rosetta sulla cometa 67P. Segnaliamo il bell’articolo, riccamente illustrato, di Manzini, che mette in evidenza le zone della superficie della cometa dalle quali fuoriescono polveri e gas: le immagini son davvero straordinarie ed appositamente elaborate dall’autore. Consigliamo inoltre la lettura del contributo di Covino, che, in modo brillante e preciso, risponde alle critiche mosse da più parti, sui costi, ritenuti eccessivi e non giustificati, della missione Rosetta. Un altro argomento, presentato da Ruscica, e che diventerà di drammatica attualità tra non molti anni, è la crescita, quasi esponenziale, del numero dei detriti spaziali artificiali che orbitano intorno al nostro pianeta, autentici proiettili con potenzialità devastanti per tutte le future imprese spaziali. Poi, in ordine sparso, i contributi di Cardaci sulle macchie solari e la loro storia osservativa; la descrizione del frammento B della cometa C/2011 J2 (LINEAR) osservato in numerosi Osservatori, soprattutto italiani, che Bacci ha studiato, valutandone la velocità di distacco dal nucleo. Proseguendo: la cronistoria della scoperta di una interessante variabile, avvenuta all’Osservatorio di Bassano Bresciano; l’osservazione di alcuni transiti extrasolari all’Osservatorio di Libbiano (i precedenti rapporti osservativi, sempre a cura di Villa, sono riportati nei precedenti nn. 18 e 19 di Astronomia Nova). Di particolare rilievo perché, almeno in Italia, si tratta di una novità assoluta, l’articolo di Dho sulla Citizen Science in rapporto all’astronomia. Questo contributo di Dho annuncia l’uscita, nel 2015, di un suo libro che farà il punto sulle più recenti ed evolute tecnologie e tecniche osservative in ambito astronomico. Il libro costituirà lo strumento più utile ed aggiornato, su questo argomento, in lingua italiana. Infine, ricordiamo la seconda parte dell’articolo sugli scopritori italiani di comete, scritto dal nostro direttore: un contributo storico che mancava e che arriverà, con la terza parte, fino ai giorni nostri. LA REDAZIONE DI ASTRONOMIA NOVA Da sinistra: Rodolfo Calanca, Angelo Angeletti, Manlio Bellesi, Lorenzo Brandi, Nicolò Conte Pagina 4 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica LA FOTONICA NELL'ANNO DELLA LUCE 2015 Costantino De Angelis1*, Marco Romagnoli2 1Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione, Università degli Studi di Brescia, Brescia 25123, Italy 2CNIT National Laboratory of Photonic Networks, 56124 Pisa, Italy *[email protected] Nell'Anno internazionale della Luce e delle tecnologie basate sulla Luce, vogliamo qui fornire una rapida panoramica sul settore della fotonica per ricordare le principali scoperte scientifiche e le rivoluzioni tecnologiche la cui reale portata innovativa, anche dal punto di vista sociale, ci è ancora in parte sconosciuta. Il 20 dicembre 2013, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2015 Anno internazionale della Luce e delle tecnologie basate sulla Luce (International Year of Light, IYL 2015, http://www.light2015.org). Dopo la pietra miliare della invenzione della sorgente laser [1, 2, 3], a partire dai primi anni sessanta e da allora in modo sempre più forte e condiviso nella comunità scientifica internazionale, il termine fotonica è stato introdotto per fare esplicito riferimento a tutte le applicazioni tecnologiche della luce nella regione spettrale che, a partire dall'ultravioletto, arriva fino al lontano infrarosso, includendo tutte le onde elettromagnetiche visibili all'occhio umano. Il termine fotonica deriva dalla parola fotone che a sua volta deriva dal greco φῶς che significa luce e che viene usata per indicare il quanto di energia della radiazione elettromagnetica. Nell'anno internazionale della luce, il sogno della comunità scientifica internazionale è di contribuire a fare sì che il 21-esimo secolo possa essere per il fotone quello che il 20-esimo secolo è stato per l'elettrone. Il mercato globale della fotonica oggi è stimato attorno ai 300 miliardi di euro, con un ruolo importante giocato dagli stati della Unione Europea che si conquistano mediamente il 20% del mercato complessivo, raggiungendo punte del 45% in alcune particolari tecnologie fotoniche abilitanti. Dal punto di vista tecnico si può dire che oggi si parla di fotonica ogni volta che si ha a che fare con la generazione, l'emissione, la trasmissione, la modulazione, la commutazione, l'amplificazione e la rivelazione della luce. Un ambito importantissimo nel quale la fotonica si impone oggi per le fondamentali ricadute tecnologiche è quello delle nanotecnologie e delle relative applicazioni. Gli importanti risultati ottenuti negli ultimi anni dalle nanotecnologie consentono infatti di avere a disposizione processi di fabbricazione in grado di controllare su scala nanometrica la produzione di strutture guidanti e la deposizione di film e particelle su substrati dielettrici. Ciò ha permesso di progettare dispositivi che non erano nemmeno lontanamente immaginabili fino a pochi anni fa. Si pensi alle moderne fibre ottiche microstrutturate (un esempio è riportato in figura 1) e alle loro vastissime applicazioni: grazie alla ingegnerizzazione di queste guide ottiche, la generazione di luce bianca coerente confinata in una fibra ottica singolo modo è divenuta una realtà realizzabile con un semplice apparato sperimentale e ciò ha permesso di ottenere risultati pionieristici nel campo della metrologia [4, 5]. FIG. 1: Immagine SEM di una fibra ottica microstrutturata a sette nuclei. C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica Fra le aree che stanno traendo maggior beneficio dalla sinergia fra fotonica e nanotecnologie va certamente citata la plasmonica[6], ambito in cui fotonica ed elettronica si incontrano per offrire un'incredibile varietà di dispositivi innovativi da utilizzare per diverse applicazioni. In questo contesto, negli ultimi anni, si è assistito ad un'enorme produzione scientifica di lavori, sia teorici sia sperimentali, rivolti alla realizzazione di dispositivi nanostrutturati che consentono l'accoppiamento efficiente e a larga banda di modi che si propagano nello spazio libero in eccitazioni localizzate di luce. L'ampia gamma di possibili applicazioni include, fra l'altro, realizzazione di celle solari a film sottile, spettroscopia e microscopia ottica in campo vicino, nanolitografia, sorgenti, memorie e comunicazioni ottiche su singolo chip. Un altro settore che, anche in ragione del rapido sviluppo dimostrato negli ultimi anni e in considerazione delle importantissime potenzialità, è doveroso menzionare è l'ottica del grafene e più in generale una nuova classe di materiali che promette di rivoluzionare la nostra concezione dei dispositivi, quella dei materiali bidimensionali. Dopo essere stato isolato nel 2004 [7, 8], il grafene viene oggi studiato sia per meglio comprenderne le proprietà fondamentali sia per esplorare le sue grandissime potenzialità applicative. Gli investimenti in ricerca di base e applicata su questo materiale sono oggi ingenti a livello internazionale e l'Unione Europea ha un ruolo di primo piano anche grazie al programma di ricerca “Graphene Flagship” [9]. All'interno di questo programma di ricerca decennale la fotonica ha già dato prova di potenziali rivoluzioni tecnologiche e molte altre sono ancora attese [10]. Dal punto di vista applicativo, infine, la fotonica riveste un ruolo chiave nella società moderna, rivelandosi fondamentale e insostituibile in svariati ambiti. Si pensi ad esempio alle applicazioni delle tecnologie basate sulla luce in ambito biomedicale che già oggi rivestono e che sempre più rivestiranno un ruolo insostituibile nella indagine e nella diagnosi. Si tratta ovviamente di un solo particolare esempio, ma vale la pena ricordare quanto l'affermarsi della tecnica OCT (Optical Coherence Tomography) abbia rivoluzionato in poco più di 20 anni le indagini oculistiche [11]. E’ doveroso anche citare il settore dell'energia: senza dubbio le celle solari di nuova generazione troveranno ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 5 FIG. 2: Rappresentazione schematica del principio di funzionamento di una cella solare nanostrutturata. enorme beneficio dalla capacità di ingegnerizzazione su scala nanometrica delle superfici per permettere un sempre più efficiente utilizzo dei materiali, in particolare per l'intrappolamento della luce e la gestione dei fotoni, come schematicamente descritto in figura 2. Senza dubbio, tuttavia, il primo ambito applicativo in cui la fotonica ha avuto modo di cambiare l'evoluzione di una tecnologia fondamentale per la società moderna è il settore delle telecomunicazioni. Fino ad oggi, il paradigma che ha fatto compagnia ai progressi della fotonica in tutti i diversi ambiti applicativi sopra menzionati è sempre stato legato al fatto che lo sviluppo di sorgenti, mezzi trasmissivi e rivelatori per le telecomunicazioni portava come ricaduta dispositivi e tecnologie a basso costo disponibili anche in altri settori e fra questi in prima fila quelli legati al biomedicale e all'energia. E’ anche per questo motivo che nel nostro breve excursus abbiamo deciso di dedicare una maggiore attenzione alla fotonica nelle telecomunicazioni. Come già ricordato, il laser ha rappresentato la dea Aurora della fotonica e, fin dai suoi primi giorni di vita, ha suscitato vivissimo interesse nel mondo delle telecomunicazioni. I primi tentativi di utilizzarlo si indirizzarono verso la trasmissione libera in atmosfera. Non mancarono successi a livello dimostrativo, ma le inevitabili difficoltà in condizioni meteo avverse, impedirono di poter giungere a un servizio affidabile. Si puntò allora sulla propagazione guidata, ideando e sperimentando strutture costituite da sequenze periodiche di lenti, posizionate in tubi al cui interno l'atmosfera veniva mantenuta sotto controllo. Pagina 6 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica Si ebbe così modo di ottenere risultati molto brillanti ma allo stesso tempo ci si rese presto conto che i costi legati all'installazione delle guide sarebbero stati proibitivi. In questo scenario irruppe a sorpresa la fibra ottica: nel 1966 Charles K. Kao and George Hockham, degli ``Standard Telecommunication Laboratories'' ad Harlow, Inghilterra, presentarono per la prima volta una descrizione dettagliata del mezzo trasmissivo fibra ottica dimostrando che le perdite di un tale mezzo trasmissivo (stimabili nell'ordine di circa 1000 dB/km utilizzando il vetro in quel momento disponibile in commercio) erano in realtà principalmente dovute a impurezze residue nel processo produttivo e che quindi si poteva immaginare di poter sviluppare una tecnologia produttiva in grado di eliminarle per ottenere un mezzo trasmissivo quasi perfetto [12]. Charles K. Kao, figura 3, fu insignito del premio Nobel per la Fisica 2009 per le enormi ricadute applicative che la sua proposta ha ricevuto nei decenni seguenti [13]. Nel 1970, infatti, Corning Glass Works, fino a quel momento totalmente estranea al mondo delle telecomunicazioni, realizzò il primo vetro con attenuazione sufficientemente bassa (circa 20 dB/km) per realizzare fibre ottiche competitive con i mezzi trasmissivi alternativi a quel tempo utilizzati; tale valore di attenuazione ha luogo proprio alle stesse lunghezze d'onda a cui in quegli anni venivano sviluppati i primi laser a semiconduttore in arseniuro di gallio: la trasmissione della luce su lunghe distanze all'interno di cavi a fibra ottica diveniva per la prima volta una realtà. Già nel 1975 il primo sistema di comunicazione su fibra ottica veniva commercializzato e rapidamente andavano diffondendosi quelli che oggi consideriamo i sistemi su fibra ottica di prima generazione. Tali sistemi lavoravano a una lunghezza d'onda di 0.8 μm in fibre ottiche multimodo con un bit rate di B=45 Mbit/s e con una distanza tipica di D=10 km fra due ripetitori di segnale (BD=450 Mbit km/s). La seconda generazione di sistemi di comunicazione su fibra ottica fu pensata per sfruttare la finestra del mezzo trasmissivo fibra ottica, in prossimità di una lunghezza di lavoro di 1.3 μm, dove l'attenuazione del vetro raggiunge un minimo locale di 0.3 dB/km e dove la dispersione è nulla. Si trattava a tutti gli effetti di una rivoluzione sia dal punto di vista delle sorgenti (nuovi laser a semiconduttore), sia dal punto di vista del mezzo trasmissivo: risultava chiaro in quegli anni che nonostante alcune difficoltà pratiche che dovevano ancora FIG. 3: Charles Kuen Kao (Shanghai, 4 novembre 1933) è un ingegnere e fisico cinese, insignito del premio Nobel per la Fisica nel 2009 per i suoi studi sulle fibre ottiche. essere superate, la fibra ottica monomodale (figura 4) era destinata a prendere ovunque il posto della fibra multimodale per ottenere sistemi molto più performanti: le prime fibre ottiche monomodali introdotte nel mercato (nel 1983) sono conosciute come fibre a dispersione non spostata (UnShiftedFiber, USF) o fibre convenzionali. Utilizzando queste fibre, i sistemi a fibra ottica disponibili a metà degli anni 80 raggiunsero capacità trasmissive di 2 Git/s con una distanza fra i ripetitori che arrivò fino a 50 km (BD=100 Gbit km/s). La terza generazione di sistemi di trasmissione a fibra ottica nacque per permettere di utilizzare la terza finestra del mezzo trasmissivo fibra ottica, dove l'attenuazione del vetro raggiunge il suo valore minimo (0.2 dB/ km). Le difficoltà tecnologiche affrontate per permettere la nascita di questi sistemi non sono state banali da risolvere: da un lato fu necessario sviluppare nuovi laser a semiconduttore operanti alla lunghezza d'onda di 1.55 μm, dall'altro fu necessario modificare la geometria della guida d'onda per produrre le cosiddette fibre a dispersione spostata che consentono di avere la dispersione minima a 1.55 μm, nonostante la dispersione minima della silice vetrosa sia a 1.27 μm. Alla fine degli anni ottanta erano disponibili sistemi con capacità trasmissive di 2.5 Gbit/s con distanze fra i ripetitori anche oltre i 100 km. C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica FIG. 4: Struttura tipica della fibra ottica monomodale: 1. Nucleo (core) di 8 µm di diametro 2. Cladding di 125 µm di diametro 3. Buffer di 250 µm di diametro 4. Jacket di 400 µm di diametro Ma la grande innovazione dei sistemi della terza generazione è che essi lavorano in una regione spettrale dove, anche grazie al fondamentale contributo di Pirelli[14], è stato possibile realizzare una vera e propria rivoluzione: l'amplificazione ottica. La quarta generazione di sistemi di comunicazione su fibra ottica, grazie all'uso degli amplificatori ottici, ha aperto anche la strada alla multiplazione in divisione di lunghezza d'onda (Wavelength Division Multiplexing, WDM). Grazie a questa vera e propria rivoluzione nei primi anni del secolo sono stati realizzati sistemi con bit rate di decine di Tbit/s su distanze di centinaia di chilometri (BD=1000 Tbit km/s). La quinta generazione di sistemi di comunicazione su fibra ha per obiettivo un sempre più massiccio uso del WDM: a partire dalla banda convenzionale (nell'intervallo di lunghezze d'onda compreso fra 1.53 e 1.57 μm, si intende sfruttare l'intera finestra dove le perdite sono basse (da 1.30 a 1.65 μm). La crescita di internet e quindi del datacom ha portato ad uno sviluppo delle comunicazioni tra server in e tra data center. Il contemporaneo affermarsi dell'integrazione delle comunicazioni dati e telecom su IP ha portato alla trasformazione delle tradizionali reti di trasporto, metro ed accesso in comunicazioni intra e tra cloud. Il ruolo principale degli operatori dati sta rapidamente sostituendo il ruolo tradizionale degli operatori telecom. Questo cambio sta ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 7 portando a nuove richieste di densità di banda, basso consumo e costo all'interno dei data center con un conseguente cambio radicale delle tecnologie per le comunicazioni. Il parametro di riferimento per le prestazioni nel telecom è la banda per unità di distanza (bit/s/m), mentre nell'evoluzione verso il processing nei data center i parametri di riferimento chiave diventano due: la densità di banda per unità di superficie (bit/s/m 2) ed il costo energetico espresso in J/bit (o potenza per unità di banda, W/Hz) In questo contesto stanno prendendo rapidamente piede le tecnologie ottiche in silicio che andranno ad affiancare la microelettronica con lo scopo di aumentare la densità di banda. Si prevede che nella prossima decade grandi processamenti di dati avverranno direttamente su e tra board di servers nei data center con obiettivo di densità di banda di 10Tb/s/cm 2. In questo contesto, a partire dal 2015, la fotonica in silicio giocherà il ruolo che ha avuto l'elettronica con la legge di Moore. Molti dei dispositivi elettronici per processing e storage conterranno porte I/O ottiche basate anch'esse su silicio e finalmente si assisterà alla produzione di massa di dispositivi fotonici integrati che era stata auspicata sin dagli anni 80 con i primi esempi di dispositivi in ottica integrata. Concludendo la nostra rapida panoramica dedicata alle tecnologie basate sulla luce, si può senza dubbio dire che negli ultimi cinquanta anni la fotonica ha vissuto uno splendore di tipo rinascimentale; epocali scoperte scientifiche, spesso addirittura insignite del premio Nobel, si sono rapidamente concretizzate in rivoluzioni tecnologiche la cui reale portata innovativa, anche dal punto di vista sociale, ci è ancora in parte sconosciuta. Gli autori desiderano sentitamente ringraziare il Professor Carlo Giacomo Someda per il prezioso contributo fornito nella stesura di questo articolo. Bibliografia [1] T. H. Maiman, “Stimulated Optical Radiation in Ruby,” Nature, vol. 187, No. 4736, pp. 493-494, 1960. [2] www.nobelprize.org/physics/laureates/1964/towneslecture.pdf [3] C. H. Townes, “Production of coherent radiation by atoms and molecules,” Science, vol. 149, no. 3686, pp. 831-841, 1965. [4] J. L. Hall, “Nobel Lecture: Defining and measuring optical frequencies,” Reviews of Modern Physics, vol. 78, no. 4, p. 1279-1295, 2006. Pagina 8 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica [5] T. Hänsch, “Nobel Lecture: Passion for precision,” Reviews of Modern Physics, vol. 78, no. 4, pp. 1297-1309, 2006. [6] N. Savage, “Photonics: Trick of the light,” Nature, vol. 495, no. 7440, pp. S8-S9, 2013. [7] A. K. Geim, “Random walk to graphene,” International Journal of Modern Physics B, vol. 25, no. 30, pp. 40554080, 2011. [8] www.nobelprize.org/physics/laureates/2010/ novoselov_lecture.pdf [9] http://graphene-flagship.eu [10] K. S. Novoselov, V. I. Falko, L. Colombo, P. R. Gellert, M. G. Schwab, and K. Kim, “A roadmap for graphene,” Nature, vol. 490, no. 7419, pp. 192-200, 2012. [11] D. Huang, E. A. Swanson, C. P. Lin, J. S. Schuman, W. G. Stinson, W. Chang, M. R. Hee, T. Flotte, K. Gregory, C. A. Puliafito, and others, “Optical coherence tomography,” Science, vol. 254, no. 5035, pp. 1178-1181, 1991. [12] K. C. Kao and G. A. Hockham, “Dielectric-fibre surface waveguides for optical frequencies,” in Proceedings of the Institution of Electrical Engineers, 1966, vol. 113, pp. 11511158. [13] C. K. Kao and others, “Sand from centuries past: Send future voices fast,” Uspekhi Fizicheskikh Nauk, vol. 180, no. 12, pp. 1350-1356, 2010. [14] W. L. Barnes, R. I. Laming, E. J. Tarbox, and P. R. Morkel, “Absorption and emission cross-section of Erbium doped silica fibers,” IEEE Journal of Quantum Electronics, vol. 27, no. 4, pp. 1004-1010, 1991. Costantino De Angelis. E’ professore ordinario di Campi Elettromagnetici presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di Brescia. L’attività di ricerca di Costantino De Angelis riguarda le tecnologie fotoniche e in particolare le loro applicazioni in ambito sensoristico e nel settore delle telecomunicazioni. Dopo essersi laureato con lode in Ingegneria Elettronica nel 1989 presso l’Università degli Studi di Padova, Costantino De Angelis ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Ingegneria delle Telecomunicazioni presso l’Università degli Studi di Padova. Dal 1994 al 1998 è stato ricercatore universitario presso l’Università degli Studi di Padova e dal 1998 professore di Campi Elettromagnetici presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di Brescia. Nel corso della sua attività di ricerca ha prestato servizio come professore invitato presso l’Università di Limoges (1996), presso il MIT, Massachusetts Institute of Technology, (2010 e 2011) e l’Università di Jena (2012). Costantino De Angelis è autore di più di 300 articoli su riviste e convegni, ha avuto la responsabilità scientifica di svariati progetti nazionali e internazionali sulla fotonica e attualmente coordina un progetto Erasmus Mundus dedicato alle applicazioni delle nanotecnologie in ambito fotonico (http://nanophi.unibs.it). Marco Romagnoli, Area leader di Tecnologie Avanzate per l’Integrazione Fotonica del Laboratorio nazionale di Reti Fotoniche del CNIT a Pisa, professore a contratto della Scuola Superiore Sant’Anna a Pisa e precedente direttore in R&D. Marco Romagnoli ha 30 anni di esperienza nel settore della ricerca ed in particolare nell’area delle tecnologie fotoniche per TLC. Dopo la laurea in Fisica conseguita presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’, nel 1983 ha iniziato la sua attività presso i laboratori di ricerca dell’IBM a San Jose (California). Nel 1984 è entrato in servizio presso la Fondazione Bordoni nel Dipartimento Comunicazioni Ottiche contribuendo su componenti ottici per sistemi di trasmissione. Nel 1998 si è trasferito al centro R&D Pirelli a Milano dove nel 2000 ha assunto l’incarico di direttore del Design e Caratterizzazione e successivamente di Chief Scientist. Nell’ottobre 2010 si è trasferito in PhotoIC Corp, un’azienda di Si Photonics, in qualità di direttore delle operazioni a Boston e con incarico di program manager al MIT (Massachusetts Institute of Technology) per lo sviluppo di un processore multicore otticamente interconnesso. In questo periodo ha dimostrato emissione laser da Ge iniettato elettricamente. Marco Romagnoli è autore di 170 articoli su riviste e convegni, è inventore in più di 40 brevetti, è membro delle commissioni tecniche delle principali conferenze in fotonica (CLEO/QELS, CLEO Europe, ECOC, MNE, Group IV Photonics), ha servito come Expert Evaluator per la Comunità Europea nel VI programma quadro e dal 2001 al 2006 ha coordinato un accordo di ricerca tra MIT e Pirelli in cui è stato sviluppata per la prima volta la piattaforma della Silicon Photonics. Nel 1994 Marco Romagnoli ha vinto il premio Philip Morris per l’innovazione ottica e nel 2004 gli è stato riconosciuto il titolo di Chief Scientist Pirelli. C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’ ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 9 GLI OGGETTI VAGANTI "IDENTIFICATI' Corrado Ruscica [email protected] L’immagine illustra una simulazione della variazione di densità dei detriti spaziali che circondano la Terra, fino al 2209. Credit: ESA Abstract I satelliti in orbita attorno alla Terra sono utilizzati in molti settori e discipline, tra cui le scienze spaziali e per lo studio della Terra, la meteorologia, le telecomunicazioni, la navigazione, l'esplorazione umana dello spazio e offrono una risorsa unica e strategica per la raccolta di dati scientifici che sono destinati non solo alla ricerca ma anche nell’ambito commerciale. Tuttavia, negli ultimi decenni, con l'incremento delle attività spaziali è emerso un nuovo ed inatteso pericolo per la nostra civiltà: stiamo parlando degli oggetti volanti ‘identificati’, meglio noti come detriti spaziali. Tutti su in orbita Dopo quasi 50 anni di attività spaziali, oltre 4.900 lanci hanno messo in orbita più di 6.000 satelliti di cui circa 3.600 rimangono nello spazio e solo una piccola frazione, circa un migliaio, sono ancora in funzione. Se li pesassimo idealmente tutti quanti, troveremmo che la massa totale di tutti questi oggetti supera 6.000 tonnellate. Naturalmente, non tutti i satelliti sono rimasti intatti. Si è calcolato che più di 23.000 oggetti orbi- tano attorno al nostro pianeta e sono regolarmente monitorati dal consorzio americano Space Surveillance Network, il cui catalogo comprende oggetti più grandi di circa 5-10 cm distribuiti nell’orbita terrestre bassa e oggetti che hanno dimensioni superiori, cioè da 30 cm a 1 m, che si trovano invece ad altitudini geostazionarie. I veicoli spaziali operativi rappresentano solo il 6% della popolazione di tutti gli oggetti orbitanti catalogati, mentre circa il 30% consiste di satelliti dismessi, stadi superiori spenti e accessori vari come, ad esempio, adattatori di lancio, custodie per lenti e così via. Le principali cause dei frammenti orbitanti Dal 1961, sono stati registrati più di 250 eventi di frammentazione di oggetti orbitanti e solo pochissimi, meno di 10, si possono attribuire a collisioni accidentali o intenzionali. La maggior parte degli eventi distruttivi sono riconducibili a esplosioni di veicoli spaziali e stadi superiori. Si presume che questi eventi abbiano generato una popolazione di oggetti più grandi di 1 cm e si calcola che sono dell'ordine di 600.000. Pagina 10 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’ Il flusso sporadico dovuto a meteoroidi può prevalere sui detriti spaziali solo per dimensioni dell’ordine di 0,11 mm. In generale, per velocità superiori a 4 Km/sec un impatto con un proiettile può generare una rottura completa che dipende dal tipo di materiale e la sua eventuale fusione con il bersaglio. Le velocità di impatto dei detriti spaziali sono tipicamente dell’ordine di 14 Km/sec e diventano significativamente più elevate nel caso dei meteoroidi. La principale causa di esplosioni in orbita è legata sostanzialmente al combustibile residuo che rimane nei serbatoi o nei condotti del carburante, una volta che il razzo vettore o il satellite viene abbandonato nell’orbita terrestre. Nel corso del tempo, il difficile ambiente spaziale può deteriorare l'integrità meccanica di parti esterne e interne, determinando perdite o miscelazioni di componenti di carburanti che potrebbero innescare una serie di autocombustioni. Per questo motivo, l'esplosione risultante può distruggere l'oggetto e disperdere la sua massa sotto forma di numerosi frammenti, creando una varietà di oggetti che hanno masse e velocità diverse. Oltre alle rotture accidentali, un importante contributo alla formazione di detriti spaziali è stato determinato, nel recente passato, dalle intercettazioni dei veicoli spaziali da parte di missili di superficie. La fonte più importante di detriti non causati da frammentazione si riferisce a più di un migliaio di incendi provocati dai motori a razzo che hanno rilasciato ossido di alluminio in forma di polvere delle dimensioni del micrometro e da altre particelle di scorie delle dimensioni di qualche centimetro. Durante gli anni ’60, un'altra fonte storica di detriti spaziali è stata causata dal rilascio di fili di rame sottili, parte di un esperimento di comunicazioni radio, durante le missioni MIDAS. Più tardi, nel 1980, si è registrato l’episodio relativo all’espulsione dei nuclei del reattore di Buk dopo la fine delle operazioni dei satelliti russi RORSATs (Radar Ocean Reconnaissance Satellites). In 16 eventi di espulsione, sono stati rilasciati nello spazio numerose gocce di liquido di raffreddamento del reattore, una lega di sodio e potassio a basso punto di fusione. Infine, a causa della radiazione ultravioletta estrema, che interagisce con l’ossigeno atomico, e dell’impatto dovuto alle micro particelle, le superfici degli oggetti spaziali sono soggette ad una costante erosione. Questo porta alla perdita di massa dei rivestimenti superficiali e al distacco delle scaglie di vernice che hanno dimensioni che vanno da qualche micrometro a qualche millimetro. Le osservazioni realizzate con il telescopio di 1 m dell'ESA a Tenerife hanno permesso di identificare una popolazione di oggetti che hanno un rapporto area/massa estremamente elevato. L'origine e la natura di questi oggetti non sono pienamente comprese; si ritiene che questi oggetti abbiano origine nella regione geostazionaria, forse prodotti da materiale del rivestimento termico rilasciato da alcuni satelliti. L’evoluzione della popolazione di detriti spaziali monitorati. Credit: ESA C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’ ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 11 Lo strumento software più importante dell’ESA per la valutazione del rischio dovuto principalmente ai detriti spaziali e ai meteoroidi si chiama MASTER, che sta per Meteoroid and Space Debris Terrestrial Environment Reference. Si tratta di un programma che ha lo scopo di monitorare fino al 2050 quegli oggetti che hanno dimensioni più grandi di 1 micrometro (sopra, il logo creato da ESA per MASTER). Collisioni spaziali Il primo incidente in assoluto, avvenuto nello spazio, riguarda la collisione tra due satelliti: lo scontro si è verificato alle 16:56 UTC del 10 febbraio 2009, ad una altitudine di 776 km sopra la Siberia. Un satellite americano di una società privata di comunicazioni, Iridium 33, e un satellite militare russo, Kosmos-2251, entrarono in collisione ad una velocità relativa di 11,7 km/sec. Entrambi furono distrutti generando più di 2.000 frammenti. I satelliti in orbita bassa sono continuamente esposti alle forze aerodinamiche degli strati superiori dell'atmosfera terrestre. Ora, a seconda dell'altitudine, dopo un paio di settimane, mesi, anni o addirittura secoli, la resistenza dell’aria rallenterà il satellite al punto da farlo rientrare nell'atmosfera. Invece a quote più elevate, superiori cioè a 800 km, l'attrito dell'aria diventa meno efficace perciò gli oggetti rimarranno in orbita anche per molti decenni. Ad ogni modo, la produzione di detriti causata dalle normali operazioni di lancio, da frammentazioni varie o da altri eventi è controbilanciata da processi di pulizia naturali, come ad esempio l’attrito dell'aria e gli effetti dovuti all'attrazione gravitazionale Sole-Luna. Il risultato di questi effetti combinati determina una concentrazione di detriti spaziali in funzione dell’altitudine e della latitudine. La densità maggiore di detriti si estende ad altitudini di 800-1.000 km ma può arrivare fino a circa 1.400 km. La densità spaziale dei detriti nelle orbite geostazionarie e in prossimità delle orbite percorse dai L’ESA ha un ruolo fondamentale per quanto riguarda le misure di controllo e di monitoraggio dei detriti spaziali. Dopo il 1997 non si sono più verificati eventi esplosivi relativi agli stadi dei vettori Ariane. Inoltre, l’agenzia spaziale europea ha riposizionato tutti i satelliti geostazionari che sono sotto il suo controllo, evitando così eventuali collisioni per quei satelliti su orbite più basse. Le misure di prevenzione forniscono un quadro di “ciò che deve essere fatto”. Il modo con cui bisogna procedere è specificato in maniera formale mediante delle regole internazionali che sono meglio specificate nell’European Cooperation on Space Standardization (ECSS). Nella foto, il drammatico momento dell’esplosione del vettore Ariane, designato con la sigla V88 Ariane 501, accaduta il 4 giugno 1996. satelliti di navigazione è più bassa di almeno due o tre ordini di grandezza. La sindrome di Kessler Al ritmo con cui vengono lanciati ogni anno i nuovi satelliti, circa 60-70, e con le frammentazioni che continuano a verificarsi con un tasso medio di 4-5 all’anno, il numero di detriti spaziali aumenterà costantemente nel tempo. Ciò porterà ad un incremento progressivo della probabilità con la quale potranno verificarsi delle collisioni catastrofiche (se raddoppia il numero di oggetti, il rischio di collisione aumenta di circa quattro volte). Pagina 12 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’ Andando di questo passo, nel giro di qualche decennio le collisioni cominceranno a prevalere sulle frammentazioni, che sono attualmente la causa principale della produzione di detriti spaziali. Alla fine, i frammenti prodotti dalle collisioni si scontreranno con altri frammenti, fino a quando l'intera popolazione di detriti si sarà ridotta a dimensioni critiche. Questo processo che si auto mantiene risulta particolarmente significativo nella zona delle orbite più basse ed è noto come la “sindrome di Kessler”. Si tratta di uno scenario proposto nel 1991 dal consulente della NASA Donald J. Kessler, il quale aveva ipotizzato che la densità dei detriti spaziali che si trovano in orbita bassa diventerà così elevata che gli oggetti in orbita entreranno spesso in collisione, creando di conseguenza una reazione a catena con un incremento esponenziale della densità dei frammenti stessi e quindi del rischio di ulteriori impatti. Insomma, si tratta di un problema che dovrà essere evitato a livello internazionale mediante una applicazione tempestiva di misure di riduzione e di bonifica degli oggetti vaganti ‘identificati’. A partire dagli anni ’60, lo studio dei detriti spaziali e le misure da prendere contro i relativi rischi sono decisamente migliorati. I risultati delle ricerche vengono presentati ogni quattro anni ad una serie di conferenze Donald J. Kessler, il consulente della NASA che nel 1991 ha formulato lo scenario al quale è stato dato il nome di “sindrome di Kessler”. organizzate dall’ESA sui detriti spaziali ma anche durante le sessioni dedicate a questo problema dell’International Astronautical Congress (IAC) e durante i congressi del Committee on Space Research L’immagine illustra una simulazione di quella che potrebbe essere la nuova distribuzione dei detriti spaziali se si interverrà sulla riduzione e la bonifica del fenomeno fino al 2209. Credit: ESA C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’ ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 13 Il grafico sopra è ripreso da uno studio condotto dalla Inter-Agency Space Debris Coordination Committee (IADC) , da quale si evince che le collisioni in orbita, definite catastrofiche, nei prossimi 200 anni, avverranno ad una quota compresa tra gli 800 e i 1000 Km. Le curve a colori si riferiscono ai detriti prodotti dalle diverse agenzie spaziali. A quanto pare, l’Agenzia che avrà il più alto numero di collisioni (probabili) è la giapponese JAXA (curva in blu). Fonte: www.iadc-online.org/index.cgi?item=docs_pub (COSPAR). Dal 1993, la Inter-Agency Space Debris Coordination Committee (IADC) organizza dei convegni annuali per discutere il fenomeno dei detriti spaziali, i relativi rischi e le misure di monitoraggio e controllo. La IADC è riconosciuta a livello internazionale dal Comitato delle Nazioni Unite per l’Uso Pacifico dello Spazio Esterno e dall’International Standardisation Organisation come un centro di ricerca specifico dedicato allo studio dei detriti spaziali. Corrado Ruscica, astronomo e scrittore, conduce atti- vità di divulgazione scientifica attraverso articoli e conferenze pubbliche e cura il blog AstronomicaMens dedicato ad argomenti che spaziano dalla cosmologia alla fisica delle particelle. E' autore di "Idee sull'Universo", "Enigmi Astrofisici" e "L'Universo Infante", editi da Macro Edizioni, www.gruppomacro.com/editori/macro -edizioni . Pagina 14 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M. Marelli, Blu Nobel Blu Nobel Monica Marelli http://www.monicamarelli.com/ Oltre al documentatissimo articolo sulla Fotonica dei professori De Angelis e Romagnoli (pp. 4-8), ospitiamo anche questo brillante ed “illuminante” contributo di Monica Marelli, laureata in fisica e blogger eclettica, allo scopo di introdurre uno dei temi tecnologici più significativi dell’Anno Internazionale della Luce 2015. Premio Nobel per la Fisica agli studiosi Nakamura, Akasaki, Amano che hanno messo a punto il led a luce blu. A parte i buffi titoli dei giornali italiani dedicati a una fantomatica “luce ecologica”, avete notato che gli espositori al supermercato tolgono spazio alle lampade fluorescenti (che non mi sono MAI piaciute, la loro luce è troppo fredda, obitorio-style) per darne sempre di più a quelle a led? Costano un po’ di più ma i vantaggi non mancano. Per esempio le lampadine led non hanno bisogno dei vapori di mercurio per fare luce come invece accade nelle lampade a fluorescenza. La luce, infatti, sgorga grazie a piccoli ma preziosi incidenti di percorso. LED: è l’acronimo di light emetting diode cioè diodo a emissione di luce. E allora che cos’è un diodo? E’ un piccolo pezzetto di metallo che ha le caratteristiche del semiconduttore. Il semiconduttore è un materiale in cui se la corrente fluisce in un senso, si comporta come un conduttore (l’elettricità scorre come un fiume al suo interno) se invece scorre nella direzione inversa, diventa un isolante (l’elettricità non riesce a muoversi, un po’ come un insetto intrappolato nella resina). Il semiconduttore si comporta così perché contiene delle impurità, cioè atomi che non fanno parte della sua struttura cristallina naturale. In termini tecnici si dice che il semiconduttore è stato drogato. Doping cristallino : la “droga” è costituita da cariche negative (portate da atomi che hanno un eccesso di elettroni) e cariche positive (atomi a cui mancano elettroni, che invece di essere chiamati ioni positivi sono chiamati “buche”). M. Marelli, Blu Nobel Il doping avviene durante la “coltivazione” del cristallo in laboratorio, strato atomico dopo strato atomico. Le cariche elettriche positive si incastonano da una parte del cristallo, le negative dall’altra in modo da ottener due zone distinte. La parte ricca di elettroni è la zona n, quella positiva ricca di buche è la zona p. Per esempio, il silicio è il materiale semiconduttore per eccellenza: per drogarlo di elettroni si aggiunge un pizzico di fosforo o di arsenico mentre per aggiungergli le buche, lo si droga con atomi di boro. Al confine: immaginate una torta in cui nella metà alta c’è la granella di nocciola e nella metà inferiore le scaglie di cioccolato. Nello strato centrale, scaglie e granella si incontrano e il cioccolato grazie al calore si fonde con i frammenti di noccioline. Ecco, nel diodo avviene una cosa simile: il led ha due zone, di tipo p e di tipo n e nella zona centrale, quando non passa corrente, si forma la zona di svuotamento o giunzione pn . E’ una specie di barriera che si forma perché le cariche positive e negative risentono dell’attrazione reciproca là dove sono a contatto e così si combinano (o gli elettroni “riempiono” le buche). La barriera dunque è fatta di atomi elettricamente neutri che impedisce altre ricombinazioni, come se fosse il famigerato muro di Berlino: frontiere chiuse, niente scambi! ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 15 Alla carica! Ma cosa succede se si applica una differenza di potenziale (voltaggio), cioè una forza elettromotrice capace di mettere in moto le cariche rimaste confinate nei territori p ed n? Accade che le cariche hanno la forza per attraversare il muro. Se colleghiamo una pila alle due estremità del diodo in modo da avere un passaggio di corrente, gli elettroni sentono l’attrazione del polo positivo e inizieranno a muoversi verso di esso, viceversa le buche si muoveranno verso il polo negativo. Durante questa migrazione di massa in direzioni opposte, è inevitabile che avvengano degli scontri: alcuni elettroni si legheranno agli atomi carichi “+”. Quando questo avviene, si liberano i fotoni. Scegliendo il materiale idoneo, si hanno fotoni con l’energia giusta per essere visibili ai nostri occhi, cioè si ha la luce (l’energia rilasciata dagli elettroni dopo essere “caduti nella buca” infatti può non essere visibile. Per esempio quando si tratta di silicio, i fotoni emessi sono ultravioletti, quindi invisibili ai nostri occhi). Prima era il rosso: il led rosso è stato il primo a essere creato e commercializzato: era il 1962, fu sviluppato dall’americano Nick Holonyak ed era un diodo semiconduttore fatto da gallio-arsenico-fosforo. L’immagine è tratta da sito: http://www.radio.walkingitaly.com/radio/radiosito/tutorial/diodi/d_led/d_led.htm Pagina 16 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M. Marelli, Blu Nobel Il più sfuggevole è stato il blu, arrivato trent’anni dopo quello rosso, grazie agli studi dei futuri premi Nobel. E’ una rivoluzione: con il blu disponibile, finalmente si può ottenere una bella, piacevole luce bianca. Però... come mai il blu è arrivato così tardi? Sua maestà il blu: ottenere un diodo semiconduttore che emettesse luce blu era difficilissimo perché il semiconduttore necessario è il cristallo di nitruro di gallio ed è molto delicato: durante il drogaggio (aggiunta di atomi di silicio per aggiungere elettroni e di magnesio per le buche), il cristallo si rovinava e perdeva le sue proprietà ottiche. Allora quei geniacci da Nobel di Nakamura-AkasakiAmano dopo anni di studi hanno trovato il modo per drogare il cristallo senza rovinarlo. In parole povere: hanno combinato diversi strati nitruro di gallio insieme all’alluminio e all’indio, drogandolo con zinco, “cucinando” il tutto su uno strato di supporto fatto di zaffiro. Et voilà, signore e signori, la luce blu è servita! In pratica: bene, ma torniamo alla luce bianca. Si potrebbe ottenere mescolando i tre led rosso+blu+verde ma questo metodo è poco efficiente ed è riservato alle lampade che creano giochi di luce colorata. La luce bianca infatti si può fare anche in un altro modo, più economico ed efficiente. Si prende il led a luce blu e lo si fa collaborare con i fosfori. Il led emette luce blu, quindi i fotoni “piovono” su uno strato di fosfori stesi sul semiconduttore oppure sul rivestimento interno della lampada. Così i fosfori assorbono la luce blu e riemettono una luce di energia inferiore che al nostro occhio appare gialla. Dato che non tutti i fotoni blu sono intercettati dai fosfori, al nostro occhio arriva un fascio di luce blu mescolata a luce gialla, che il nostro occhio percepisce come bianca. Bianca??? Questo fenomeno si chiama metamerismo ed è un fenomeno che si crea a causa della struttura dei nostri recettori, i coni, che sono sensibili solo a tre colori (blu/verde/rosso) ma nel cervello “ricostruiamo” tutti gli altri. Un esempio di metamerismo può essere il colore di un tappeto, magari di un tenue azzurro-polvere, che cambia a seconda che sia sotto le luci al neon di un negozio o quella del sole che lo lambisce quando è steso nel salotto di casa: qual è la vera tinta del tappeto? Alcuni colori sono più metamerici di altri, fra cui il grigio-blu, il lilla, il grigio-talpa, il cenere, il verde pallido. Il metamerismo è veramente fastidioso non solo nel campo della grafica editoriale ma anche nel make up: un rossetto può apparire très-chic in negozio ma diventare un omaggio a Dracula se indossato alla luce del Sole. il metamerismo è lo stesso fenomeno per cui il colore degli occhi cambia a seconda che sia bel tempo o nuvoloso (mi dispiace, non è magia dell'anima ma meraviglia della fisica!). M. Marelli, Blu Nobel Parliamo di soldi: conviene abbandonare le fluorescenti per passare ai led? I led sono ancora un po’ cari: una lampada in media al supermercato l’ho vista a 10 euro. Però: La vita media di una lampadina a led è di 30.000 ore contro le 10.000 delle fluorescenti. Le lampade led non contengono mercurio, al contrario delle fluorescenti. Emettono una luce più simile a quella della vecchia lampadina a incandescenza, quindi meno fredda e più piacevole. Le lampade a fluorescenza convertono in luce il 20% dell’energia elettrica necessaria al loro funzionamento, il resto è sprecato in calore. I led per ora si attestano intorno al 25% (alcuni produttori “sparano” anche il 30%). La vecchia lampadina con il filamento in tungsteno trasformava solo il 5% di energia elettrica in luce. Il Dipartimento dell’energia americano ha calcolato che in 20 anni di uso di led, si potrebbero risparmiare 120 miliardi di dollari e ridurre l’emissione di gas serra di una quantità pari a 246 milioni di tonnellate cubiche. FONTI http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/physics/ laureates/2014/advanced-p... http://www.photonstartechnology.com/learn/ how_leds_produce_white_light http://www.hadco.com/Hadco/Upload/Content/ downloads/techPapers/Philips_H... http://www.uwsp.edu/pointeronline/Pages/articles/ Lighting-the-Way-to-Ene... http://physicscentral.com/explore/action/led.cfm h t t p : / / w w w . l i gh t so n . c a / c o m p a r i n g - l i g h t - b ul b efficiencies-or-the-money-yo... http://www.globalgraphics.com/technology/color management/metamerism/ ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 17 Monica Marelli è nata a Milano nel 1968. Il suo grande amore è l’astronomia. Da piccola amava passare notti intere sul balcone di casa con un piccolo telescopio: riconoscere la costellazione di Orione o il Cigno era un’emozione bellissima. Certo, il cielo di Milano è un po’ avaro di stelle ma nelle sere particolarmente terse, lo spettacolo non è poi così male. Crescendo ha scelto la strada della fisica: prima a Milano, poi a Pavia, dove si laurea. È proprio durante la stesura della tesi che si accorge quanto sia bello scrivere di scienza: perché non farne una professione? Comincia con le riviste di divulgazione e prosegue con quelle femminili, dove descrive i prodotti di bellezza sotto una luce nuova: i mascara con i loro polimeri incurvanti, i nuovi rossetti lucidissimi grazie ai cristalli. Qui troverete l’elenco dei libri pubblicati da Monica: http://www.monicamarelli.com/taxonomy/term/3 Pagina 18 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 S. Ossicini, Aureola della Gloria L’AUREOLA DELLA GLORIA HUYGENS, NEWTON E LA NATURA DELLA LUCE Stefano Ossicini [email protected] Un uomo può ben immaginare cose false, ma può comprendere solo cose vere. Perché se le cose sono false, il loro apprendimento non è vera comprensione. Il dubbio inquieta la mente, dato che tutto il mondo si adegua volentieri all’opinione di quelli che pretendono di aver trovato la certezza. Isaac Newton (1642-1727) Christiaan Huygens (1629-1695) Questo bell’articolo, che parla della natura della luce com’era vista, ed interpretata, da due dei maggiori scienziati di ogni tempo, Newton e Huygens, è la Prefazione ad uno spettacolo teatrale, di notevole interesse culturale, storico e scientifico, che ha lo scopo di “far capire qualcosa in più su ciò che tutti crediamo di conoscere”. Lo spettacolo teatrale ha avuto il supporto, per la drammaturgia e la regia, dell’Associazione Teatro dell’Otium di Modena, http://otiumteatro.blogspot.it/, mentre gli interpreti sono Matteo Bertocchi, Franca Manghi e lo stesso prof. Ossicini. Il 12 giugno 1689 l’olandese Christiaan Huygens, il più grande scienziato del continente, e Isaac Newton, il campione inglese, da poco divenuto immensamente celebre per la pubblicazione dei suoi “Principia” sulla teoria della gravitazione universale, si incontrano per la prima volta presso la Royal Society di Londra. Un incontro divenuto leggendario. Solo l’anno prima la “Gloriosa Rivoluzione” inglese aveva trovato il suo esito finale con lo sbarco in Inghilterra e la salita al trono di Guglielmo III, Guglielmo d’Orange, Statolder d’Olanda, il cui principale consigliere diplomatico era Constantijn Huygens, fratello di Christiaan. E proprio questo fatto aveva finito per facilitare quella speciale sessione della Royal Society. Speciale anche perché per lungo tempo Newton aveva accuratamente evitato di partecipare a quelle sedute. La ragione stava nel suo mai sopito contrasto con il rivale Robert Hooke, curatore degli esperimenti della Società, su diverse tematiche, dalle ricerche sulla luce a quelle sulla gravità. La presenza di Newton era così da intendersi come un particolare omaggio a Huygens, uno dei pochi “filosofi naturali” dell’epoca, di cui Isaac, per carattere estremamente orgoglioso e diffidente, aveva stima. E in quella occasione i due scienziati mostrarono appieno la stoffa di cui erano fatti. Huygens riferì delle sue idee sulla gravitazione, mentre Newton decise di concentrarsi sui suoi esperimenti sulla doppia rifrazione del cristallo di Islanda. S. Ossicini, Aureola della Gloria ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 19 Le grandi scoperte ed invenzioni di Isaac Newton sono sintetizzate in questo bel quadro, nel quale è raffigurata la gravitazione universale (attraverso il moto dei pianeti intorno al Sole, in alto a sinistra e, alle sue spalle, il famoso melo... ); in primo piano il suo telescopio riflettore mentre, in mano, Newton regge un prisma con il quale scompone un raggio di luce bianca. Molti hanno sottolineato la particolarità di questo incontro, da una parte Huygens, l’incomparabile olandese, così lo chiamava Gottfried Leibniz, che discute e si concentra sul tema principe delle ricerche di successo di Newton, la gravità; dall’altra Newton, il leone britannico, così definito da Johann Bernouilli, che, specularmente, affronta invece il tema considerato da Huygens il suo capolavoro, la spiegazione delle particolari proprietà ottiche della calcite islandese. Le note ufficiali della Royal Society poco ci dicono dell’esito di quest’incontro/scontro; d’altronde era costume dell’epoca, per precisa scelta dei membri della Società, mantenere il tono delle discussioni scientifiche all’interno di parametri estremamente “soft”, la ricerca scientifica doveva essere un lavoro da “gentleman”. Gli scontri, spesso invero molto feroci, erano lasciati alle corrispondenze epistolari e alle “voci di corridoio”. Ma ancora più interessante per la nostra storia è il successivo incontro, sempre avvenuto durante quell’estate londinese, fra i due ricercatori, un incontro organizzato proprio da Newton, incontro del quale, malgrado le ampie raccolte dedicate alle opere e alle corrispondenze dei due [1],[2], non abbiamo però alcun resoconto. Così è proprio una ricostruzione immaginaria di questa riunione che è al centro della storia che raccontiamo in questa commedia: “L’Aureola della Gloria”. Non tutti sanno che il termine Gloria non solo indica fama ed onore universalmente riconosciuti, ma che è anche il nome dato ad un particolare fenomeno luminoso [3], per cui, in determinate condizioni, si forma attorno all’ombra proiettata della testa di un osservatore una sorta di aureola, simile a quella che circonda il capo dei santi nei dipinti medioevali. Così il tema della gloria viene qui affrontato in relazione alla soluzione dell’aspro dibattito che coinvolse Huygens e Newton riguardo la natura della luce: essa è un’onda o è composta da particelle? In scena i due scienziati, alle prese con uno scontro a due, una partita, un esplicito riferimento all’esempio usato da Newton nel suo primo lavoro sulla teoria dei colori e sulla natura corpuscolare della luce, esempio relativo al moto di un pallina da tennis colpita obliquamente da una racchetta. Una partita senza esclusione di colpi dove i due scienziati fanno sfoggio di tutte le loro conoscenze scientifiche e delle loro particolari abilità manuali, utilizzando appositi strumenti e modelli, e dialettiche per uscire vittoriosi, convincere l’avversario e il pubblico e così coprirsi di gloria eterna quali scopritori dell’essenza dei fenomeni luminosi. Accanto a loro, come terzo e ultimo personaggio, la dea Fama, allo stesso tempo dea degli onori e delle dicerie, che qui gioca il ruolo del coro, come nell’antico teatro greco e nel moderno “Chortheater” tedesco [4]. Un coro pronto a dialogare con gli attori, a riassumere e commentare le loro storie, a rappresentare un punto di vista esterno. Christiaan Huygens era ritratto in questa bella banconota celebrativa da 25 gulden, emessa dalla Banca Centrale olandese, che lo raffigurava insieme ad alcune delle sue scoperte: l’anello di Saturno e il satellite Titano. Pagina 20 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 S. Ossicini, Aureola della Gloria La birifrangenza osservata nello spato d'Islanda è una proprietà di certi cristalli anisotropi che dà luogo al fenomeno della doppia rifrazione, consistente nello sdoppiamento di un raggio incidente in due raggi rifratti, che hanno diverse velocità di propagazione. Il fenomeno, particolarmente evidente nei cristalli limpidi di spato d’Islanda, fu scoperto nel 1669 da Erasmus Bartholinus e studiato successivamente da Huygens. E questo punto di vista altro, accanto alla possibilità della Dea Fama di viaggiare nel tempo e nello spazio, permette non solo di mettere in evidenza aspetti nascosti e personali della vita di un ricercatore, ma anche di seguire nel tempo l’evolversi delle convinzioni scientifiche, il loro tortuoso percorso, molte volte simile ad una spirale. Vedremo così come la scienza sia un fenomeno collettivo, dove accanto all’impegno dei grandi personaggi risulta importante il lavoro dei molti dimenticati. Vedremo scontrarsi diverse concezioni filosofiche, anche queste carsicamente pronte a scomparire e a riemergere nel tempo. Troppo spesso lo sviluppo scientifico è stato presentato come un processo lineare, una sequenza inesauribile di successi dimenticando circostanze casuali, errori, abbagli, motivazioni personali e sociali, la stessa umanità, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, degli scienziati. NOTE [1] Christiaan Huygens, Oeuvres complete, 22 volumi (The Hague, 1888-1950) [2] Isaac Newton, Correspondence, 7 volumi (Cambridge, Cambridge University Press, 1959-1977) [3] Olmes Bisi, Visibile e Invisibile. Le meraviglie dei fenomeni luminosi, (Sironi Editore 2011) [4] Charlotte Ossicini, Chortheater. Genesi di un modello Tipologie corali nel Novecento, [Dissertation thesis], Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Dottorato di ricerca in Studi teatrali e cinematografici, Bologna 2010 Stefano Ossicini è ordinario di Fisica Sperimentale presso il Dipartimento di Scienze e Metodi dell'Ingegneria all'Università di Modena e Reggio Emilia, ricercatore all'Istituto Nanoscienze del Cnr di Modena e presso il Centro«EN&TECH» di Reggio Emilia su risparmio energetico e energie rinnovabili. In ambito divulgativo è autore della commedia Non ho nulla da rimproverarmi: 1911 Stoccolma e dintorni, sulla figura di Marie Curie (Scienza Express 2013) e del libro L'universo è fatto di storie, non solo di atomi (Neri Pozza 2012). M.U. Lugli, Costellazione Vergine ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 21 LA COSTELLAZIONE DELLA VERGINE E SPICA, LA “STELLA DELL’EXPO 2015” Mario Umberto Lugli [email protected] Bellissima immagine della costellazione della Vergine tratta da: A Celestial Atlas comprising a sistematic display of the Heaven, London 1822, di Alexander Jamieson. Nella mano destra regge un ramo di palma, nella sinistra una spiga di grano, con al centro la stella più luminosa della costellazione, Spica (dal sito: http://www.atlascoelestis.com/ja%2018.htm) Quando il Sole, nel suo moto apparente annuo, “raggiunge” la testa della Vergine [1] taglia l’equatore nel nodo discendente, segnando il momento dell’equinozio d’autunno. Poiché questa stagione raccoglie gli ultimi frutti dei lavori nei campi ed i granai sono pieni di cereali, già negli antichi tempi la Vergine era stata presa a simbolo delle messi e dell’alimentazione in genere. Non a caso è rappresentata come una fanciulla che stringe in una mano un grappolo d’uva e nell’altra un mazzo di spighe di grano. Ecco perché volendo dare un riferimento classico alla imminente Esposizione Universale di Milano, dedicata appunto alla nutrizione, abbiamo pensato a questa costellazione ed alla sua stella più luminosa, Spica, la spiga di grano che è anche il simbolo dell’alimentazione umana. Pagina 22 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M.U. Lugli, Costellazione Vergine L'inno omerico a Demetra (per i latini Cerere, da cui “cereali”) racconta infatti di Persefone o Kore, (Proserpina, per i latini) che, mentre a Enna raccoglieva narcisi, fu rapita da Ade (Plutone), dio dei morti, e condotta come sposa nel suo tenebroso mondo sotterraneo. Demetra, la madre, dopo averla cercata invano su tutta la terra mentre la ninfa Eco la confondeva, apprese la sorte della figlia da Elios, il Sole, che dall'alto vede ogni cosa. Inorridita, si vendicò crudelmente proibendo alle piante di crescere, scatenando così una terribile carestia. Invano gli uomini gettavano sementi, nessun germoglio nasceva dai bruni solchi e la fame discese rapida sulla terra. I mortali, in preda alla disperazione, invocarono aiuto al padre Zeus che, allarmato, ordinò ad Ermes di scendere agli inferi e riportare Kore alla madre. Approfittando dell’ingenuità della fanciulla, il sinistro dio ipogeo le diede da assaggiare un chicco di melagrana così da assicurarsene il ritorno [2]. Il melograno, come l'anemone rosso, infatti, si diceva nato dal sangue di Adone quando fu sbranato da un cinghiale, e il suo frutto era simbolo di fertilità (al suo interno custodisce molti chicchi) e vincolo amoroso. All'apparire di Kore la vegetazione rifiorì lussureggiante, l'erba ritornò a verdeggiare, i frutti maturarono rigogliosi, ma la fanciulla, avendo ormai gustato quel frutto fatale, si era indissolubilmente legata agli inferi ed al suo tiranno. Sorpreso dallo straordinario risveglio della natura, e temendo il ripetersi della calamità, Zeus stabilì che Persefone rimanesse per i due terzi di ciascun anno sulla terra con la madre Demetra, ed un terzo agli inferi col marito Ade. Il mito è trasparente e simboleggia il grano che rimane sepolto sotto terra nell'inverno, riappare a primavera e matura all'inizio dell'estate. E’ per questo motivo che la Vergine appare sempre rappresentata con alcune spighe di grano in mano. La costellazione della Vergine, raffigurata da Zacharias Bornmann in ASTRA. Alle Bilder des Himmels, Breslavia, 1596. (immagine tratta da: www.atlascoelestis.com/ bornmann%2015.htm) Un’interessante versione Ittita del mito di Persefone narra del dio della fertilità Telipinu che, irato per la malvagità degli uomini, si nascose provocando una gravissima carestia [3]. I Semiti dedicarono la costellazione alla loro dea Istar, la Regina delle Stelle, citata dalla Bibbia come Astarte [4], da cui alcuni [5] fanno derivare i nomi di "Est" e "stella", nonché Eostre, dea Sassone della primavera, probabile origine del termine inglese Easter, Pasqua. Secondo Arato la costellazione rappresenta Astrea, figlia del Titano Astreo, l'antico Una rara moneta d'argento coniata a Metaponto, risalente a circa il 340-330 a.C., con testa di Demetra che indossa una corona di grano ed orecchini; sull'altro lato, la scritta META e una spiga di grano. M.U. Lugli, Costellazione Vergine padre delle stelle che combatté a fianco dei Giganti; avendo difeso gli dei contro lo stesso suo padre, Astrea fu considerata dea della giustizia e raffigurata in cielo come una bellissima giovane recante in mano le coppe della bilancia o qualche fulgente spiga di grano. Fu l'ultima dei celesti ad abbandonare gli uomini: essa infatti viveva fra i mortali nell'Età dell'Oro, quando non vi erano guerre e gli uomini, che non conoscevano liti né contese, ricevevano sostentamento dai frutti della terra e dai campi arati coi buoi. Quando negli uomini si insinuò l'avidità e l'inganno, quella casta fanciulla si rifugiò in cielo, e da quei tempi remoti sulla terra non vi fu più né giustizia, né lealtà. Nel Medio Evo l'asterismo fu dedicato alla Vergine Maria ed alle iniziali del suo nome (MV) si vuol far risalire il simbolo della costellazione . Nell'atlante di Schiller la Vergine è sostituita da San Giacomo il Minore, cugino di Gesù da parte materna, primo vescovo di Gerusalemme, martirizzato nel 62, al tempo di Nerone. Per la Scuola Biblica, la costellazione ricorda Ruth, la moabita, che lasciò la patria per accompagnare a Betlemme la vecchia suocera israelita Noemi. La sua pietà fu premiata non solo col matrimonio di un ricco proprietario di campi di grano, ma specialmente con la nascita del figlio Obed, uno degli antenati di re Davide. Se aggiungiamo che in un globo arabico del Secolo Decimoprimo, la costellazione è rappre- ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 23 La costellazione della Vergine, dal meraviglioso Firmamentum Sobiescianum sive Uranographia di Johannes Hevelius (Danzica 1687). Le incisioni dell’atlante furono eseguite su disegni dell’artista polacco Andreas Stech. L’immagine è colorata a mano e le stelle sono dipinte in oro. sentata da un essere alato, qualcuno potrebbe pensare che dei tanti personaggi evocati non ce ne è uno che vada bene. Infatti è così: non dobbiamo mai dimenticare che le costellazioni esistono solo nella fantasia di chi guarda le stelle, ma non hanno alcun significato fisico o astronomico. Rappresentano solo l’alfabeto con cui gli antichi hanno raccontato e descritto la volta celeste, che per loro, come per noi, fungeva da orologio, calendario ed atlante. Altri significati attribuiti a queste figure di pura fantasia, sono solo impostura. Antoine Watteau, “Cerere, il trionfo dell’estate” , 1715. National Gallery, Washington. Le stelle della Vergine αVirginis o Spica, così detta perché segna la posizione delle “spighe di grano” in mano alla vergine, riveste una notevole importanza nella storia dell'astronomia perché assieme a Regolo fornì ad Ipparco le misure di riferimento per la determinazione del moto di precessione degli equinozi. Pagina 24 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M.U. Lugli, Costellazione Vergine Variabile ad eclisse, azzurra, dista 250 anni luce dalla Terra. Nel Planisfero Geuranico di Quirico Filopanti la troviamo col nome "topico" di Adbe e dedicata a Galileo Galilei. γ Virginis è Arich, Porrima o Antevorta. Porrima e Postvorta erano due sibille romane: la prima cantava gli avvenimenti passati, la seconda quelli futuri. Postvorta presiedeva anche i parti difficili, specialmente quelli podalici. Entrambe erano compagne di Carmenta, madre di Evandro, sibilla che si esprimeva sempre e soltanto in versi, cosí celebre nel mondo antico che da essa la tradizione fa derivare la parola carmen, cioé “verso”. La stella è una doppia fisica (Bradley, 1718) gialla, distante 35 anni luce; δ Virginis, Minelauva, dista 180 anni luce ed appare di color rosso. Padre Secchi osservandone lo spettro, particolarmente ricco di righe e bande, la definì "Bellissima"; εVirginis, gialla distante 95 anni luce, è detta Vindemiatrix, “Vendemmiatrice”, perché anticamente il suo sorgere eliaco annunziava l'epoca del raccolto dell'uva. Vuole anche ricordare Ampelos [6] , figlio di un satiro ed una ninfa, che ebbe da Dioniso in regalo una pianta di vite; questa crebbe alta e rigogliosa e mentre Ampelos raccoglieva i grappoli d'uva cadde malamente uccidendosi. Dioniso, dispiaciuto di essere stato involontario strumento della rovina del suo favorito, lo volle in cielo trasformato in una splendida stella. Al pane e al vino, dunque, allude la costellazione che si manifesta così adeguata a rappresentare il simbolo naturale dell’esposizione dedicata ai temi dell’alimentazione. Ad essa ci si potrebbe in qualche modo riferire nel momento dell’inaugurazione, come del resto è già avvenuto per altre importanti Expo in-ternazionali, come quella di Chicago del 1933, dedicata al progresso tecnologico, che fu inaugurata dalla luce della stella Arturo collimata su di una cellula fotoelettrica [7]. Gli antichi la collegavano anche alla Fortuna, poiché le stelle che ne formano il capo sono poco luminose, quasi fosse cieca o bendata, ed è proprio con l’immagine della Fortuna che chiudiamo queste brevi note. Un emblema che vuol essere anche un augurio per il felice esito dell’Esposizione, ma ancor di più perché la “buona stella” eviti il flagello della fame e la Terra possa produrre cereali ed alimenti in quantità adeguata a sostentare l’intera umanità. (Adattato da “Argo Siderea”, Modena, 2014) NOTE [1] e in particolare quando il centro del disco solare si viene a trovare nelle vicinanze (prospettiche!) di β (Vir). [2] Era antica credenza che se un vivente, penetrato nel mondo dei morti, fosse stato indotto ad assaggiare un qualsiasi frutto non avrebbe mai più potuto uscirne (cfr. Apollodoro, Biblioteca). [3] Gaster, ”Il Dio che scomparve”, in Le più antiche storie del mondo. [4] I Re, XI, 5 e 33 [5] tra cui Allen, Star names, p. 463. [6] ampelos, in greco significa "vite", da cui ampelografia, ampelologia, ampeloterapia col significato, rispettivamente, di descrizione, trattato sulla coltivazione della vite e cura dell’uva. [7] All’epoca si riteneva che la stella distasse 40 anni luce e che quel raggio che accese le lampadine di tutti i padiglioni fosse perciò partito nel 1893, quando, quarant’anni prima, sempre a Chicago, era stata inaugurata l’Esposizione Universale. Mario Umberto Lugli, laureato in Fisica, è stato docente di Fisica Applicata e Laboratorio all’Istituto Tecnico “F. Corni” di Modena. Ha promosso ed è stato primo direttore, fino al 1998, del Planetario di Modena. Membro dell’Accademia Nazionale di Scienze di Modena, della Società Astronomica Italiana, della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena e conferenziere al Civico Planetario, di cui ora è Presidente onorario. Tra l'altro, ha pubblicato le biografie di numerosi astronomi modenesi: Geminiano Montanari, Giuseppe Bianchi, Annibale Riccò, Pietro Tacchini, Carlo Bonacini e, recentemente Argo Siderea, mitologia e folclore nelle costellazioni. S. Covino, Comete, spese, PIL ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 25 COMETE, SPESE E PIL Stefano Covino [email protected] http://mitescienza.blogspot.it/ Il 12 novembre abbiamo seguito con trepidazione l'"accometaggio", concediamoci un simpatico neologismo, della sonda Philae sulla cometa 67P/ChuryumovGerasimenko. L'interesse, quasi si potrebbe dire l'entusiasmo, del grande pubblico per l'evento è stato palpabile. In Italia come nel resto del mondo. E certamente si è trattato di un'impresa dal punto di vista ingegneristico oggettivamente eccezionale. Oggi stiamo ricevendo informazioni un po' più dettagliate ed elaborate. Sappiamo che l'atterraggio non è stato per nulla semplice, e che la sonda ha probabilmente rimbalzato in qualche occasione, ma che appare essere in buone condizioni. Una delle prime immagini inviate a Terra dalla sonda, in cui si vede una delle gambe della stessa con in primissimo piano il terreno cometario, ha degli aspetti persino commoventi. Commoventi, dico, sia per la suggestione del pensiero di questo oggettino costruito dall'uomo, a mezz'ora luce da Terra, che lavora su un corpo celeste rimasto indisturbato dai tempi della formazione del sistema solare. Ma anche per il pensiero del lavoro di tante persone che per lungo tempo ha accompagnato questa missione. Pensata verso la fine degli anni '80, sviluppata nella seconda metà del decennio successivo e lanciata nel 2004. E quindi in volo nello spazio da un decennio e, tramite orbite accuratamente calcolate, arrivata all'appuntamento con la cometa. Ingegneri, tecnici, scienziati di varie estrazioni, al lavoro in un contesto soprannazionale frutto della cooperazione europea. Philip Dick componeva, qualche anno fa, il famosissimo romanzo "do androids dream of electric sheep?" (in italiano, "il cacciatore di androidi"). Viene da pensare, giochiamo senza inibizioni per un po', se il robottino sulla 67P aveva pensieri suoi quando, atterrando, si è trovato a rimbalzare e rotolare sulla superficie della cometa! Una delle prime immagini dal "suolo" cometario inviate da Philae Pagina 26 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 S. Covino, Comete, spese, PIL Tornando seri, oggi, nel pieno sviluppo di una crisi economica che si è trasformata, o è sempre stata, in una crisi sociale, culturale, di principi e valori, e che inevitabilmente dovrebbe portarci a porci delle domande importanti sul nostro stile di vita e modello di sviluppo, appare quasi retorico ricordare cosa non molti decenni fa l'Europa è stata. Nell’immagine sotto, possiamo vedere una composizione fotografica, certamente retorica, ma non priva di significato, che mostra un terreno sfregiato da buche di artiglieria o bombardamento. L'Euro- pa della Grande Guerra, 100 anni fa. E il rendering pittorico di Philae sulla cometa, esempio indiscutibile di dove la cooperazione internazionale può portare. La cooperazione di noi tutti. Ma, esattamente, fuor di retorica, dove è che siamo arrivati? Senza dubbio tutto questo è scenografico ed anche affascinante, ma ne vale la pena, in un continente flagellato da disoccupazione, debiti incombenti, movimenti xenofobi, ed in generale da una diffusa e percepibile sensazione di sfiducia e di disastro imminente? Ha senso spendere una marea di soldi quando si tagliano le spese dei servizi in ogni settore? Domande non solo non-retoriche, ma direi persino doverose. Al riguardo, mi è stato segnalato questo servizio giornalistico: www.dailymotion.com/video/x29zzbh_scienzaquesta-sconosciuta-il-tg4-e-rosetta_fun . Guardatelo, è fortemente sintomatico. Ora, vorrei evitare di cadere nella sterile polemica politica interna, non è rilevante in se. Dalla stessa testata sono arrivati servizi molto migliori su questa impresa. Ma questo servizio specifico, che nelle intenzioni voleva probabilmente essere "leggero", di "costume", con un occhio strizzato all'uomo della strada che ha ben altri problemi a cui pensare, è riuscito ad inserire in pochi minuti una vera "summa" di dove la pochezza di pensiero, la superficialità, e presunzione stanno rischiando di portarci. Un esempio di anti-giornalismo, i cui danni nei riguardi della pubblica opinione, che ha ben diritto di chiedersi come vengono spesi i soldi delle proprie tasse, sono potenzialmente enormi. Tuttavia, come si diceva, magari in maniera goffa e dozzinale, il servizio in questione ha portato alla luce domande che senza dubbio una parte almeno dell'opinione pubblica si pone. Discutiamone quindi con calma. Innanzitutto il costo della missione è stato (è...) ovviamente rilevante. Si tratta, cifra tonda, di qualcosa vicino a 1,4 miliardi di Euro. Per avere un'idea si tratta di una cifra comparabile allo 0,1% del prodotto interno lordo (PIL) del nostro Paese in un anno. La cifra però ovviamente va distribuita per tutta la durata, inclusa la fase di sviluppo della missione, e divisa per i contribuenti europei. Non è difficile calcolare che, quindi, per ogni cittadino europeo la missione Rosetta sia costata qualcosa tipo 3-4€. Meno, molto meno, di un cinema in L’Europa ieri e oggi: in alto, immagine desolante di una guerra fratricida; sotto, uno dei grandi risultati della collaborazione tra i popoli europei: lo sbarco di una sonda su di un corpo cometario. S. Covino, Comete, spese, PIL ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 27 Quanto ci costa Rosetta? Lo schema a fianco, riassume i costi: sono equivalenti all’acquisto di 4,2 Airbus A380. In altre parole, Rosetta, tra il 1996 ed il 2015, arriverà a costare 20 centesimi all’anno (in tutto, meno di 4 euro) ad ogni cittadino europeo. Si tenga presente che il biglietto di un film in prima visione, costa 8-9 euro. grosso modo vent'anni di lavoro. O, se volete, pochi decimi di Euro per anno. E con questo capitale si è costruito tutto. La potenza delle collaborazioni è che rende possibile con un carico finanziario davvero modesto per i cittadini imprese di grande portata come queste, e come molte altre. Tuttavia, sebbene l'avere coscienza di quanto le attività spaziali scientifiche costino in realtà pochissimo nel budget complessivo aiuti a porre la questione in una prospettiva corretta, la cifra in se non esaurisce la discussione. La questione è che per quanto piccola sia la spesa, queste cifre vengono tolte ad altri capitoli di spesa potenzialmente più urgenti o rilevanti. É meglio mandare un robottino su una cometa o dare una migliore assistenza domiciliare a degli anziani? O garantire un supporto a famiglie in difficoltà economica? O ad una qualunque delle attività sociali mai sufficientemente apprezzate e finanziate? L'argomento è complesso, a rischio perenne di derive demagogiche di cui, per altro, i parlamenti nazionali ed europei conoscono bene gli effetti. Ma in ultima analisi può essere presentato in maniera semplice. E la risposta è chiara: vale la pena sempre di investire in conoscenza ed innovazione, ed il confronto con le esigenze primarie immediate è ingannevole. Mappa mondiale del coefficiente di Gini che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito. I paesi a coefficiente di Gini più basso (colore chiaro) sono i paesi dove il reddito è distribuito più equamente. Al contrario, quelli a coefficiente di Gini più elevato sono quelli dove la diseguaglianza nella distribuzione del reddito è maggiore. La mappa è tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Coefficiente_di_Gini Pagina 28 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 S. Covino, Comete, spese, PIL Vediamo però di capire perché con una serie di ragionamenti semplici e non tecnici. Il punto chiave di tutto il ragionamento è comprendere innanzitutto che per poterci permettere tutti i servizi di cui abbiamo bisogno, e che lo Stato direttamente o indirettamente è delegato ad elargire, è necessario avere a disposizione le risorse finanziare per farlo. Sembra una banalità, ma non lo è per nulla. Il gratuito, in realtà, non esiste. Nemmeno il prezioso ed encomiabile servizio di volontariato. I servizi richiedono competenze, strutture e spesso tecnologia, e tutto questo costa. Uno dei pregiudizi più diffusi, ovviamente basati sull'enorme cumulo di ingiustizie con cui quotidianamente abbiamo a che fare, è che se le risorse fossero meglio distribuite... "ce ne sarebbe per tutti". Tutto questo non è privo di logica, è un fenomeno ben noto in economia, dove una adeguata politica fiscale che guidi una redistribuzione dei redditi di vario genere porta ad economie più efficienti e competitive (si veda il “coefficiente di Gini” alla pagina precedente per una valutazione immediata della ridistribuzione della ricchezza nel mondo). Ed al contrario, dove le differenze fra i primi e gli ultimi della classe sono eccessive, di solito anche le strutture economiche sono inefficienti. Ma in sostanza, fatto salvo che una maggiore equità sarebbe un grande passo avanti in tutti i sensi, per avere le risorse per poter fornire i servizi che sempre in maggiore intensità sono richiesti bisogna avere un'economia in grado di produrle. E non è certo una grande scoperta che le risorse vengono create tramite il lavoro. Ed a questo punto la domanda si trasforma sul come si può fare a rendere il lavoro più produttivo. E la risposta la sappiamo da sempre. C'è necessità di innovazione tecnologica e di sviluppo di competenze tecniche. In pratica, se vogliamo avere aziende che producono reddito è necessario che queste aziende, in qualunque settore, siano in grado di competere sul mercato globale (altrimenti chiudono... mi pare ne sappiamo qualcosa in Italia). E se questa competizione non vogliamo che la si conquisti con politiche di contenimento salariale, cosa che per altro sta avvenendo da tempo in tutta Europa, l'unica alternativa è quella della formazione e dello sviluppo tecnologico. Quindi da qui l'importanza primaria della scuola di ogni ordine e grado e della ricerca scientifica. Un robottino sulla cometa potrà dare risposte che i planetologi cercano da tanto, ed aumentare il nostro grado di cono- scenza e consapevolezza. Temi che non è possibile quantificare realmente nella loro importanza fondamentale. Ma anche se fossimo, contrariamente all'Ulisse dantesco, "fatti come bruti" e conseguire virtù e conoscenza non ci interessasse più di tanto, avere mandato Philae a mezz'ora luce dalla Terra ha permesso a generazioni di ingegneri di acquisire le competenze ed esperienza per risolvere problemi complessi. Pensate alle questioni di navigazione, elettronica, comunicazioni, generazione di energia. Per non parlare delle competenze nell'organizzazione di lavori in contesti complessi e multinazionali, il cosiddetto management. E queste competenze non rimangono nell'ambiente scientifico. Gli scienziati, nelle Università ed Enti di Ricerca, formano studenti, laureandi e dottorandi, e questi portano le loro competenze nel mondo del lavoro. E le aziende che sanno valorizzare queste competenze, ce ne sono molte più di quanto si pensi anche in Italia, sono in grado di offrire capacità produttive di altissimo valore aggiunto. Ovvero, perdonate la brutalità, fanno guadagnare molti soldi… S. Covino, Comete, spese, PIL Il punto è che l'importanza della competenza specifica, il "know-how" come dicono gli anglosassoni, non viene chiaramente percepita nella quotidianità. Può sembrare, ingannevolmente, che basterebbe ad esempio un po' più di buon senso e magari di onestà per sistemare tutto. Questi sono certamente requisiti di base, ovvero non se ne può fare a meno, ma su quelli va costruita una struttura di formazione e valorizzazione che richiede grandi imprese scientifiche e tecnologiche. In buona sostanza, le grandi imprese scientifiche (ma non solo) permettono di convertire con grande efficienza i finanziamenti pubblici in competenze che tornano al mondo industriale ed imprenditoriale, e più in generale alla società. La collaborazione europea, sulla quale si dovrebbe essere molto più cauti nel celebrare giudizi dozzinali con leggerezza, ha permesso alle economie europee di crescere e produrre ricchezza e benessere. E, per dirla in breve ma in maniera efficace, ogni soldo speso per la grande (ma anche piccola) scienza, ne produce molti di più. Badate che si tratta di un tema che è stato studiato seriamente, e che si potrebbe in altra sede quantificare in termini di resa dell'investimento (fra il 20 ed il 50%). Permettendo, qui ovviamente semplifico un po', di finalmente chiudere il cerchio che unisce Philae sulla cometa ed i nostri anziani che hanno bisogno di assistenza sanitaria specializzata. Tagliamo le prime, ci dobbiamo scordare anche le seconde. ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 29 Stefano Covino nasce nel 1964. In piena era spaziale, come si diceva con un po' di enfasi, ma lui non ne era allora cosciente sebbene l'eco e l'eccitazione per le missioni Apollo lo ha accompagnato per tutta l'infanzia (prolungatasi probabilmente fino a pochi anni fa'). Laureato in fisica e dottorato in astronomia all'Università degli Studi di Milano, sotto la direzione di Laura Pasinetti, ha cominciato fin da subito ad essere parte di collaborazioni internazionali sostenendo diversi periodi di lavoro in istituti esteri. Di formazione è un astrofisico stellare, con particolare attenzione allo studio delle popolazioni stellari, ma con il tempo si è sempre più avvicinato all'astrofisica delle alte energie divenendo parte del gruppo ricerca dedicato presso INAF - Osservatorio Astronomico di Brera. E' quindi divenuto membro della collaborazione Swift, volta allo sfruttamento scientifico dei dati di questa missione, lanciata nel 2004 e tutt'ora proficuamente attiva, frutto di una collaborazione trinazionale fra Stati Uniti, Regno Unito ed Italia. "Principal Investigator" in numerossime occasioni di progetti osservativi volti allo studio di GRB, dal 2007 è divenuto membro della collaborazione MAGIC volta allo studio di raggi gamma di altissima energia attraverso la radiazione Cerenkov da essi prodotta in atmosfera. Si è occupato però anche di sviluppi tecnologici come responsabile del software per il telescopio robotico a puntamento veloce REM, al momento operativo presso l'osservatorio di La Silla dell'ESO (Cile). Sposato con un bravo medico pneumologo che, fortunamente, lo costringe a casa per almeno per il 50% del suo tempo, è stato fino al matrimonio un attivo alpinista sebbene tutt'ora, occasionalmente, non disegni pareti e vette insieme alla relatività e la fisica dei processi radiativi. Pagina 30 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M.Cardaci, Macchie solari ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 31 LE MACCHIE SOLARI LE HA SCOPERTE... PINCOPALLO! Massimo Cardaci [email protected] Le macchie solari come le vediamo oggi con i grandi strumenti e le sonde spaziali. Ad esempio, nel corso della seconda metà di ottobre 2014, una Regione Attiva del Sole, la AR12192, si è accresciuta esponenzialmente fino a diventare la più grande degli ultimi 24 anni e ha generato dei brillamenti rilevanti. La macchia solare era così grande da poter essere individuata ad occhio nudo. AR 12192, tra il 19 ed il 28 ottobre scorso, ha prodotto 6 brillamenti classe X, i più intensi, e 4 brillamenti classe M. “Disporre di tanti flare simili prodotti dalla stessa regione attiva è molto importante per chi tenta di trovare un filo conduttore per la previsione dei brillamenti,” dichiara Dean Pesnell, del Solar Dynamics Observatory NASA. “Sarebbe importante studiare questi eventi per migliorare l’abilità di previsione e persino proteggere tecnologia e astronauti nello spazio.” del loro svilupparsi cronologico. Divideremo il percorso in due viaggi distinti: prima vedremo cosa è successo in occidente e poi in oriente. Molti sanno cosa siano le macchie solari, almeno per sentito dire, e altrettanti ricordano che Galileo Galilei fu tra i primi a osservarle con un cannocchiale. Ma questo fenomeno solare non ebbe ovviamente inizio nel XVII secolo. In quest’articolo faremo un viaggio a ritroso nel tempo, per andare a vedere chi effettivamente le scoprì per primo. Ci occuperemo delle osservazioni “pretelescopiche”, quelle fatte prima dell’invenzione del cannocchiale. Non ci soffermeremo sull’interpretazione più o (spesso) meno esatta delle osservazioni, ma solo Si comincia con i “pezzi grossi!” Paradossalmente, nel nostro viaggio a ritroso partiamo proprio da dove c’eravamo lasciati. Fu infatti proprio Galileo Galilei a effettuare l’ultima osservazione a occhio nudo nota in occidente, durante i giorni 19, 20 e 21 Agosto 1612. Qualcuno dirà “bene, allora doppia medaglia per lo scienziato Pisano!” Ma nel nostro viaggio nel tempo, c’e’ subito un altro personaggio di calibro che lo scavalca. Parliamo nientedimeno che di Keplero (1571-1630), noto per le sue tre leggi e per la sua impareggiabile precisione nelle osservazioni astronomiche di qualsiasi genere. Abbiamo una sua accurata descrizione (nel senso di posizione, dimensione, luminosità e durata del fenomeno) di una macchia solare avvistata a occhio nudo, risalente al 18 maggio 1607. Pagina 32 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M.Cardaci, Macchie solari A sinistra, una grande macchia solare, osservata da Giovanni Keplero nel 1607 con l’ausilio della camera oscura (J. Kepler, Phaenomenon singulare seu Mercurius in Sole, Lipsia 1609). Pincopallo era Russo? I Russi avevano veramente pregustato la vittoria: il titolo di prima osservazione rimase saldamente in loro mano per quasi due secoli. Non avevano però fatto i conti con “mamma gli arabi!”. Infatti un filosofo della mezzaluna (Ibn Rushd) affermò nel 1200 di essere stato testimone di una macchia presente sul Sole. Gli arabi iniziarono veramente a preparare i festeggiamenti, poiché (a parte un anonimo che riporta un’osservazione nel 1096), per secoli non si seppe più nulla. Ma… era arabo o europeo? Ci pensarono i francesi a rimettere tutto in ballo, tramite le cronache della biblioteca Pithoei, nel capitolo riguardante la descrizione degli avvenimenti accaduti nel terzo anno del regno di Re Lotario (957 d.C.): Il 15 gennaio di quell'anno si ebbe un'eclissi solare e le stelle furono visibili dalla prima ora alla terza Addio Italia. Da. Il XVI secolo (e forse anche qualche anno prima), aveva saldamente mantenuto il primato in Italia, con alcuni nomi poco noti (come Guido e Giovanni Carrara). La speranza di mantenere il titolo nel Bel Paese durò parecchio, dato che si dovette attendere il 1375 e poi il 1371 per avere successive notizie. Si tratta di alcune cronache Russe: Nel Sole vi era un segno... …macchie scure sul Sole, come se chiodi vi fossero stati conficcati; e la foschia rendeva impossibile vedere alcunché a una distanza superiore ai due metri o poco più. La grande macchia solare “veduta alla semplice vista dal Sig. Galilei”, nei giorni 19, 20,21 agosto 1612 (da: Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, 1613). M.Cardaci, Macchie solari ASTRONOMIA NOVA n. 19/2014 Pagina 33 Beda il Venerabile (672 ca.—735), da un'incisione contenuta nelle Cronache di Norimberga (1493) di Hartmann Schedel. Come fece notare 750 anni dopo Christoph Scheiner (1573-1650), non potendo un’eclissi durare tanto, è più probabile pensare che oltre all'eclissi totale quel giorno fossero presenti sul Sole numerosi gruppi di macchie gigantesche che ebbero l'effetto di prolungare più a lungo l'oscurità al di fuori della fase di totalità. Ma gli arabi non si diedero per vinti, e sfoderarono una nuova osservazione nell’840 d.C., attribuita al filosofo al-Kindi. Anche in questo caso un’interpretazione errata, ma come detto nell’introduzione, non ci soffermiamo su questo. Stavolta gli arabi limitarono i preparativi per il festeggiamento, e fecero bene. Infatti abbiamo una nuova osservazione risalente circa all’ 814 d.C. Un tale, chiamato Beda il Venerabile, descrive inconsapevolmente nel suo De mundi coelestis terrestrisque constitutione liber, scritto dopo la morte di Carlo Magno, l'osservazione di una macchia solare di enormi dimensioni: egli riporta di aver osservato un transito di Mercurio durato 10 giorni (per 8 lo aveva potuto osservare, ma per 2 giorni il tempo era stato nuvoloso), il che è impossibile per un pianeta. E se non bastasse, ci pensa Eginardo, nell'opera Vita di Carlo Magno, a riportare un'osservazione risalente all’807 d.C. Vi si legge infatti che per otto giorni tutto il popolo di Francia poté vedere una macchia sul Sole. Anche in questo caso fu letta come un transito planetario, ma sappiamo che, per la durata del fenomeno, doveva trattarsi di una macchia. La concorrenza è sbaragliata (o almeno così sembra) perché per 250 anni non si riportano altri avvistamenti. Che sia Eginardo il nostro Pincopallo occidentale? Già i suoi fan preparavano il podio, quando arriva una doccia fredda: negli annali di Costantinopoli leggiamo che durante il settimo anno di Costantino: Il Sole rimase oscurato per 17 giorni, senza emettere alcun raggio. Tanto buie furono le tenebre che persino le navi si allontanavano dalla propria rotta. e che per tutto il settimo anno di Giustiniano il Grande (534 d.C.): Il Sole splendeva di luce fioca e senza raggi in modo simile alla Luna. Quest’ultimo fenomeno è forse da addebitare all’enorme quantità di polveri e gas immessi nell’atmosfera a seguito di una gigantesca esplosione vulcanica, si veda: www.amazon.it/Catastrofesconvolgente-scoperta-David-Keys/dp/8838446318 . Tutte le strade portano a… Beh, stavolta sembra proprio che ci siamo… si va indietro nei secoli e il record precedentemente menzionato per Costantinopoli, resiste. Ma poi si svegliano i Romani, e quando si svegliano loro… beh, tutte le strade portano all’Urbe! Eccome! Si comincia con la morte di Cesare (44 a.C.), nella cui occasione calibri quali Xifilino, Ovidio (nelle Metamorfosi), lo stesso Virgilio (nelle Georgiche) e Plinio (nell’Historia Mundi) ci riportano fatti straordinari, Eginardo (775-840) fu autore di una fondamentale Vita di Carlo Magno. Pagina 34 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M.Cardaci, Macchie solari Studi condotti nella seconda metà del secolo scorso, in particolare da John A. Eddy (1931-2009), cercano di mettere in correlazione l'affermarsi e la caduta delle civiltà con l'aumento e la diminuzione dell'attività solare. Al di la delle ipotesi, più o meno condivisibili, il grafico ci interessa perché visualizza l'andamento dell'attività solare nel tempo, confermando la possibilità che osservatori abbiano effettivamente potuto vedere grandi macchie ad occhio nudo, nei periodi indicati (fonte: www.crystalinks.com/sun.html). riconducibili a macchie sul Sole (oggi sappiamo che quello fu un periodo di notevole attività solare). Sentiamo Plinio: Durante quasi tutto l'anno in cui venne ucciso Cesare e si ebbe la guerra di Antonio, il Sole presentò prodigiosi e lunghi affievolimenti tanto che apparve continuamente di colore pallido. E per rinforzare il primato, giocarono anche la carta del centravanti di sfondamento Tito Lucrezio Caro (94—50 a.C.), con il suo De Rerum Natura, opera scritta tra il 60 e il 54 a.C. in cui si hanno i primi riferimenti a questo periodo di grande attività solare. E in Oriente? Gli orientali, con in testa la Cina, ma anche con contributi di Giappone e Corea, non sono stati affatto a guardare (o meglio, lo sono stati, a guardare, e con attenzione!). Le notizie principali riguardanti queste osservazioni le troviamo nei cosiddetti Cheng Shih, gli annali di una specie di società astronomica di stato cinese, che si estendono per oltre 2000 anni. Questi, oltre alle osservazioni del Sole, contengono anche le previsioni e le registrazioni di numerosi fenomeni atmosferici e celesti: andamento della situazione meteorologica, eclissi di Sole e di Luna, congiunzioni planetarie, apparizioni di comete, ecc. Pincopallo civis romanus est? Beh, dire che Lucrezio Caro sia un pincopallo qualunque è per lo meno offensivo, ma comunque un primato da I secolo a.C. dovrebbe dare garanzie di vittoria (o almeno di podio). Ed in effetti ci siamo… quasi. Ci pensa un colpo di coda di quei curiosoni dei Greci a far scendere di un gradino del podio il caro Lucrezio. La prima osservazione occidentale è infatti datata all’incirca 350 a.C. ed è attribuita a Teofrasto (371-287 a.C.). Si tratta proprio di uno dei principali discepoli di Aristotele, quello dell’incorruttibilità del Sole e dei Cieli – Guarda tu l’ingratitudine di certi discepoli! Teofrasto, allievo di Aristotele M.Cardaci, Macchie solari Il contenuto di questi annali va però accettato con cautela: non possiamo sapere quanto abbiano influito l'astrologia, o i fatti storici o un intento sociale, sulla registrazione di alcuni aspetti di un fenomeno invece di altri, o addirittura sulla stessa scelta di annotarlo. Da ciò derivano i contrastanti conteggi di osservazioni, effettuate dagli studiosi negli ultimi 150 anni: alcuni sostengono che ve ne sono non meno di 112, altri, ed è il caso di D.H.Clark e J.R.Stephenson (1978), ne contano 106, mentre Ma-Twan-Lin (1850) affermava di averne individuate 45 dal 301 al 1205 d.C., e il giapponese S.Kanda (1933) era propenso per una media di 5-10 osservazioni per secolo. Le difficoltà di conteggio sono per lo più dovute al fatto che negli annali la segnalazione di un’osservazione di macchie sul Sole avviene molto spesso per analogie col mondo degli eventi terrestri. Le seguenti frasi, che sono unanimemente da attribuire a macchie comparse sul nostro astro, ne sono un esempio molto eloquente: Il Sole era di color arancio e all'interno vi era un vapore scuro simile a una gazza in volo Sopra il Sole vi era una macchia oscura grande come un uovo di gallina Il Sole non aveva forza e sopra di esso vi era un punto oscuro grande come una prugna ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 35 All'interno del Sole vi era qualcosa che assomigliava a una rondine in volo Il Sole non aveva lucentezza e sopra di esso si è visto un corvo In quel mese sul Sole comparvero frequentemente delle macchie oscure Uccelli volanti sul Sole E l’elenco potrebbe continuare con altri oggetti come mele borracce, monete, etc. Inoltre, fenomeni atmosferici, incentivi governativi e interesse scientifico potrebbero essere cambiati nel tempo, rendendo i conteggi delle macchie solari non necessariamente consistenti per una quantificazione dell’attività solare. Questa parentesi (doverosa) si chiude subito perché a noi qui interessa l’aspetto temporale, e non quello quantitativo. Si consideri solo che non vi è alcun dubbio che tali osservatori abbiano visto delle macchie, sia perché anche oggi gruppi giganteschi assumono queste forme se visti a occhio nudo, e sia per i riscontri incrociati ottenuti ai nostri giorni sull’effettiva grande attività del Sole nelle epoche delle osservazioni. In ogni caso, il grafico di questa pagina (adattato da una tabella in l'Astronomia n° 26), contiene i conteggi delle osservazioni accertate a partire dal 300 d.C. Pagina 36 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M.Cardaci, Macchie solari La descrizione di una macchia solare del 28 a.C. nel testo cinese Han shu * Wuxing zhi Macchie sul Sole? Stai scherzando,vero? Questo articolo è tratto da una collana di 14 volumetti dal titolo “Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”. Si tratta dell’avvincente storia della scoperta delle Macchie Solari. Una storia di uomini e idee lunga 3000 anni. Ciascun volumetto copre un tema specifico: dalle osservazioni pre-telescopiche, ai cicli e rotazione, dalle prime scoperte scientifiche alla fotografia e cinematografia solare, dalla nascita della moderna fisica solare all’influenza sull’ecosistema Terrestre. Al fianco di tantissimi personaggi poco noti, ma non per questo meno importanti, ci sono anche alcune “monografie”: Istituto delle Scienze di Bologna, Galilei e Scheiner, Secchi, Hale. Monografie con alcune interessanti sorprese che aprono la strada a una rilettura diversa di alcuni eventi storici. I volumetti, frutto di numerosi anni di ricerca, sono in formato E-Pub, e sono venduti con ricavato interamente versato in beneficenza (www.edcconsulting.org – Sezione “Storia Macchie Solari” – da cui si possono anche liberamente scaricare le anteprime). E allora eccoci qui già con un testa a testa, con l’Oriente indietro solo di 4 secoli. Per poco. Abbiamo infatti traccia di osservazioni di macchie, ancora in Cina, che risalgono rispettivamente al 165 e al 28 a.C. Secondo alcuni autori, queste prime registrazioni sono particolarmente importanti poiché diedero il via, in quel paese, a osservazioni sistematiche del fenomeno. Mamma li Turchi, o mamma i Cinesi? Greci e Romani iniziano a vacillare nella loro certezza di podio. La zampata finale arriva in extremis, e il titolo si sposta ancora una volta. Infatti la prima testimonianza di una macchia osservata ad occhio nudo risale al VIII secolo a.C. ed è stata trovata in un esagramma all'interno di un importantissimo testo cinese, Zhou Yi (il Libro dei mutamenti). Quindi Pincopallo era in realtà Pin-Xon-Pan-Lin. Tutti sono comunque rappresentati sul podio in questa ipotetica gara per la conoscenza: Cinesi, Greci e Romani, accumunati da un fenomeno bello e sfuggente come mai, le Macchie Solari. Massimo Cardaci nasce a Roma nel 1966. Completati gli studi secondari classici e la laurea in Fisica, è entrato nel mondo del lavoro dalla porta del terziario avanzato. Lavora attualmente come manager nel settore Spazio per una Multinazionale di Servizi. Ha pubblicato un saggio sui sistemi di Governance Aziendali Etici (“La Terza Strada: una storia di Principi, Maestri e Cappellai”), un testo sul Time Management (“Mi cambierebbe 25 minuti?”) e una serie di 14 volumetti (“Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”) sulla storia della scoperta delle Macchie Solari. Ha anche scritto diversi articoli a tema management, tecnologia e sicurezza informatica. Si interessa di giardinaggio, cucina e fantascienza, accompagnati dalla passione per la corsa e da un costante impegno nel volontariato. M. Dho, Citizen Science ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 37 CITIZEN SCIENCE: LA PROTAGONISTA DI UN PROSSIMO LIBRO Mario Dho [email protected] Abstract We propose to the readers of “Astronomia Nova” an important preview of what will be, in the near future, a volume wanted by the European Astrosky Network and written by a known technician, who is appreciated by the astronomical community in general, for the dozens of his technical contributions on automation and robotization published on paper and electronic magazines. This work will provide a modern guide in Italian language (there is also the project of an English transla- tion) dedicated to modern astronomy and some of its branches still little known and studied at both amateur and professional levels. Its technical content and management and implementation solutions are of great value and the high quality of the whole is rather important. The arguments, although specialized and highly defined, in some ways, of niche, are analyzed and processed with a language not strictly elementary but still within the reach of every amateur astronomer. We present a chapter from the book written by the in- Pagina 38 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M. Dho, Citizen Science FIG. 1: La Citizen Science è l’espressione di forza derivante da una ricerca condivisa. dustrial chief expert Mario Dho, which mentions the importance of the citizen science phenomenon. The topic undoubtedly of extreme relevance, often will be used in chapters of the work to the point that it can be referred to as the main theme. What follows is an essay of what might constitute a reference text in the advanced astronomical bibliography and that certainly will fill an editorial gap other than represent an absolute novelty in respect of the publications made in Italy. Proponiamo ai lettori di Astronomia Nova un’importante anticipazione di quello che sarà, nel prossimo futuro, un volume voluto da European Astrosky Network e scritto da Mario Dho, un tecnico conosciuto e molto apprezzato dalla comunità astronomica, non solo nazionale, per le decine di contributi tecnici sull’automazione e sulla robotizzazione strumentale, pubblicati su magazine cartacei ed elettronici. Questo lavoro costituirà un’innovativa guida in lingua italiana, è prevista anche una versione in lingua inglese, dedicata all’astronomia moderna e ad alcune sue branche ancora poco conosciute e studiate a livello sia amatoriale che professionale. I contenuti tecnici e le soluzioni di gestione e realizzazione sono di notevole valore e la caratura dell’insieme è rilevante. Gli argomenti, seppur caratterizzati da aspetti specialistici e definibili, per certi versi, di nicchia, sono analizzati e trattati con un linguaggio comunque accessibile anche all’astrofilo medio. Qui presentiamo un capitolo tratto dal libro, in cui si delineano i tratti salienti del fenomeno Citizen Science, indubbiamente un argomento assai significativo e di grande attualità anche in ambito astronomico. Le seguenti righe rappresentano un saggio di quello che potrebbe divenire un testo di riferimento nella bibliografia astronomica e che di certo andrà a colmare un gap editoriale oltre che a rappresentare una novità assoluta per quanto concerne le pubblicazioni made in Italy. M. Dho, Citizen Science Con Citizen Science, che letteralmente significa scienza dei cittadini, s’identifica una serie di attività, essenzialmente amatoriali, consistenti nella raccolta di dati e informazioni scientifiche servendosi di strumenti quali computer o smartphone capaci di operare in “rete” e di attivare un “network di cervelli”. La distribuzione delle attività di raccolta, verifica e analisi dei dati avviene fra ricercatori non professionisti. I citizen scientist sono di già costituiti nei più disparati gruppi e perseverano obiettivi che vanno dal controllo della fauna alla scoperta di oggetti celesti, dallo studio del clima alla botanica ecc. Uno dei primi passi verso l’avvento della moderna citizen science è rappresentato da un progetto di ricerca di intelligenze extraterrestri, provenienti dallo spazio profondo, lanciato alle “ultime luci” dello scorso secolo dall’Università di Berkley: il programma scientifico SETI@home, Search for Extra Terrestrial Intelligence. Dal momento del suo lancio, nel maggio del 1999, le partecipazioni sono proliferate così come il numero di attività che sfruttano questa forma di volontariato globale. Gli @home, così possiamo definire i progetti di calcolo distribuito fra un numero n di calcolatori, sfruttano APP per smartphone e mobile device o programmi per computer, freeware, strutturati in maniera tale da ricevere, selezionare, analizzare e indirizzare a specifici centri di raccolta una serie d’informazioni (fig. 1). Attraverso la rete, Internet, prende vita un super calcolatore la cui potenza è direttamente proporzionale al numero di dilettanti che aderiscono a un particolare lavoro e alle macchine informatiche che questi impiegano per lo scopo. Cittadini comuni, anche privi di nozioni o conoscenze specifiche, guidati da teste e mani competenti, dedicano parte del loro tempo alla scienza, mettendo al servizio dei team di professionisti i loro strumenti di lavoro quotidiano; un aiuto non indifferente per ricercatori, ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 39 studiosi e scienziati. La Citizen Science ha trovato, in tempi recenti, gli strumenti per la sua applicazione su scala globale; i servizi partecipativi e Internet forniscono, ai professionisti, gruppi di lavoro composti da migliaia d’individui. Un crowdsourcing è una sorta di humus per le più disparate branche della scienza; un terreno sul quale i ricercatori tradizionali coltiveranno i loro progetti futuri. La rete rende possibili comportamenti che, nel tradizionale mondo analogico, richiederebbero risorse e fatiche immani; la scala della partecipazione cambia in modo radicale incrementando drasticamente la disponibilità di dati che si possono spostare dinamicamente in tutto il mondo. L’Astronomia è una disciplina che ben si presta allo sposalizio con le realtà emergenti della “scienza popolare” e dei calcoli distribuiti; un paio di conferme a questa affermazione possono essere, ancora, trovate nella riuscita di Stardust@home e nel grande successo riscontrato, sul finire del primo decennio di questo millennio, dal progetto Galaxy Zoo (fig. 2). Lo “zoo delle galas- Pagina 40 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M. Dho, Citizen Science FIG. 2: Schema del flusso di dati fra elaboratori impegnati nel calcolo distribuito. sie”, ideato da Christofer John Lintott e da Kevin Schawinski in un pub di Oxford nella primavera del 2007, richiese addirittura la clonazione dello SkyServer su più calcolatori per il salvataggio rapido di tutti i riscontri provenienti da una marea di persone che avevano accolto con entusiasmo l’idea di contribuire attivamente alla classificazione di galassie riprese dal telescopio robotico, ubicato nel New Mexico, della SDSS, Sloan Digital Sky Survey. In poche ore i citizen scientist, scienziati cittadini, eseguirono un milione di classificazioni con dei semplici “click” del mouse! L’originale, e per allora parzialmente inedito, stratagemma di coinvolgere persone comuni nella definizione morfologica delle galassie permise di ottenere risultati finali, in tutto e per tutto, paragonabili a quelli che sarebbero emersi da un lavoro di astronomi professionisti, facendo lievitare interessanti considerazioni sull’evoluzione galattica e sui buchi neri. L’ausilio degli “zooiti” ha fornito un contributo importante per la definizione di una nuova classe di galassie compatte evidenziando, anche, un cruciale anello mancante nel ciclo vitale di questi immensi insiemi di stelle. Lo stesso progetto Galaxy Zoo, ha lasciato capire come l’intervento umano possa appoggiare, completare e, in certi casi, superare la capacità di scoperta dei programmi automatici: una “chiazza” verdastra, di forma irregolare, situata nelle immediate prospettiche vicinanze della galassia IC 2497, per anni sfuggita all’individuazione, da parte degli addetti ai lavori, fu notata, per la prima volta, dall’olandese Hanny van Arkel, insegnante di biologia presso il Citaverde College, in veste di “zooita”, analizzando un’immagine SDSS. La scoperta dell’oggetto, che divenne immediatamente noto come “Hanny’s Voorswerp”, non è stata un caso isolato in seno al Galaxy Zoo, giacché altri “scienziati cittadini” trovarono cosiddette new entry in alcuni campi di galassie. M. Dho, Citizen Science L’importanza scientifica e l’incredibile popolarità che hanno accompagnato il progetto iniziale e le successive ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 41 integrazioni, hanno incentivato il concepimento di programmi di scienza online collettiva, sempre più numerosi e ad ampio raggio, che trovano collocazione sul sito Internet richiamabile dal link www.zooniverse.org/ about (fig. 3). Un universo virtuale in espansione che si propone di fare vera ricerca e che lascia intravedere prospettive ottimistiche di scoperte, anche, fortuite. Il considerevole numero di aderenti ai singoli progetti, oltre a fornire una capacità di calcolo impensabile, rende, infatti, più probabile la serendipità. Il Team di ZOONIVERSE si presenta ai visitatori come home del più vasto, popolare e riuscito progetto Internet di Citizen Science, invita ad iscriversi e lascia comprendere la vitalità dello stesso attraverso i projet in corso e, soprattutto, quelli che emergeranno in futuro: - The Zooniverse is home to the Internet's largest, most popular and most successful citizen science projects. Our current projects are here but plenty more are on the way. If you're new to the Zooniverse, we suggest picking a project and diving in - the same account will get you into all of our projects, and you can keep track of what you've contributed by watching ‘My Zooniverse’. Per quanto concerne l’astronomia sono, al momento, in svolgimento circa una decina di attività distribuite che Fig. 3: La pagina web di ZOONIVERSE dedicata ai progetti di astronomia. Pagina 42 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M. Dho, Citizen Science si prefiggono, fra le altre cose, di trovare pianeti intorno a stelle appoggiandosi alle curve di luce ottenute dalle riprese della sonda Kepler, scoprire oggetti tipo NEA, Near Earth Asteroids, estrapolare dettagli sulla formazione stellare o, ancora, individuare buchi neri nell’universo comparando dati radio e infrarossi. È opportuno ricordare, anche, le attenzioni richieste agli “zooiti” inerenti a progetti connessi al clima del nostro pianeta, alla natura, alla storia dell’umanità e alla biologia. Argomenti estremamente interessanti e iniziative che, in qualche modo, coinvolgendo un pubblico in gran parte non specializzato, incrementano la preparazione culturale stimolando, a dispetto dell’apparente passività partecipativa, approfondimenti dei temi. Quello che può essere interpretato come un fornire informazioni basilari senza che sia richiesta alcuna preparazione particolare su questo o su quell’argomento, può potenzialmente rappresentare la molla capace di proiettare profani, adulti, giovani, gruppi socio/educativi, scolaresche, università e, più in generale, qualunque realtà umana singola o collettiva, in differenti ambienti e ambiti disciplinari. Un fenomeno di scienza popolare che offre l’opportunità di partecipare e che, al tempo stesso, pone le credenziali per creare potenziali ideatori di futuri progetti che, a loro volta, coinvolgeranno altre schiere di individui. Una “ricerca da scrivania”, quella delle Citizen Science, che rende fattibili lavori specifici e complessi altrimenti improponibili, nel mondo professionistico, a causa dell’immane richiesta di risorse umane, di tempi e di denaro. Questa tendenza scientifica, al tempo stesso, enfatizza ed esalta molte caratteristiche e sensorialità tipicamente umane delle quali spesso ci dimentichiamo; nessun algoritmo svolge taluni compiti meglio del nostro cervello, nessuna routine automatica riesce a discernere e riconoscere aspetti peculiari, irregolarità o variazioni nelle immagini meglio dell’occhio umano. A titolo di esempio e come ulteriore dimostrazione pratica delle potenzialità di Citizen Science e del calcolo M. Dho, Citizen Science distribuito, ricordiamo la recente scoperta di quattro nuovi pulsar avvenuta, in seno all’Einstein@Home, elaborando i dati del Fermi LAT. Artefici di questa importante tappa, che ha visto la Citizen Science fare il suo ingresso nell’astronomia gamma, sono cinque appassionati residenti in Australia, Canada, Francia, Giappone e Stati Uniti d’America. L’unione di migliaia di personal computer ha dato vita a un supercalcolatore con la notevole capacità di calcolo di 1 petaFLOPS al secondo, il quale ha consentito questo exploit. Se è vero che la potenza dell’hardware informatico va aumentando in modo quasi esponenziale (si veda la prima legge di Moore, http://it.wikipedia.org/ wiki/Legge_di_Moore ), è anche vero che le tecnologie moderne producono una mole di dati tale da richiedere capacità di calcolo che spesso superano i budget a disposizione degli stessi Enti e delle Agenzie che propongono e lanciano un’idea progettuale. Questo ostacolo può essere sminuito sensibilmente, sino a non dover essere considerato più tale, intraprendendo la soluzione del calcolo distribuito, la quale sfrutta potenziali e risorse inutilizzate di un vasto parco macchine. Un network, sulla carta, può pianificare e concepire un lavoro di calcolo distribuito, made in Italy, fornendo un supporto tipo “server pronto all’uso” che funga da piattaforma di lavoro per uno o più gruppi. Un servizio, per incrementare le potenzialità di un insieme di osservatori astronomici e per, eventualmente, creare un proprio @home teso a sfruttare, nel migliore dei modi, una mole di dati e informazioni provenienti dai settori operativi, da seri appassionati, dalle università, dalle scuole, dalle amministrazioni e, soprattutto, dalla gente comune. Non è inverosimile immaginare un network costituito ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 43 da risorse umane e tecniche impegnate nell’acquisizione mirata di immagini, opportunamente archiviate e organizzate in task, resi disponibili, su server in rete, per essere scaricati ed elaborati da un numero molto elevato di calcolatori (fig. 4). L’inserimento in un contesto Citizen Science potrebbe avvenire in modo convenzionale attraverso la creazione di un gruppo aderente a uno o più specifici programmi, oppure in maniera autonoma creando task, applicazioni per il prelevamento delle unità di lavoro, per la loro elaborazione e per la trasmissione dei pacchetti analizzati. Appare assai interessante l’ipotesi di eseguire verifiche parallele sui frame digitali ovvero, ”scandagliare” le immagini con le procedure implementate nei software di gestione e controllo, id est blinking automatico, e, successivamente, organizzarle in work unit per un’analisi di tipo distribuito. La creazione di un client progettuale, inteso, in questo specifico caso, come programma che si occupa di pianificare, organizzare e distribuire i pacchetti contenenti le unità di lavoro, deve rispettare criteri di priorità per impedire rallentamenti procedurali nell’elaboratore sul quale è installato. Organizzando in modo appropriato le precedenze, il client progettuale richiede risorse alla macchina solo quando questa è in grado di dispensarle ottimizzando la resa dell’hardware stesso. Una piattaforma per il calcolo distribuito costituirebbe un’innovazione, almeno sulla carta, molto importante che consentirebbe di usare al meglio le immagini ottenute dalle strumentazioni e di estrapolarne quante più informazioni possibili anche in tempi postumi all’acquisizione. L’archivio stesso diventerebbe, per davvero, una risorsa dalla quale attingere e non fungerebbe solo da magazzino di deposito organizzato. Come spunto per intraprendere un percorso valutativo da seguire al momento di decidere se creare o meno un determinato programma distribuito o una specifica APP for Citizen Science, possiamo considerare un contatto intercorso, a metà dell’anno 2014, fra Rodolfo Calanca, Direttore editoriale EANweb community, e Andrea Sforzi, Direttore del Museo di Storia Naturale della Maremma, nel quale il cofondatore dell’European Citizen Science Association, ha manifestato un apprezzamento nei confronti di alcune idee, contenute in questo volume, nell’ottica di un loro eventuale inserimento nel quadro ECSA, http://ecsa.biodiv.naturkundemuseumberlin.de . Pagina 44 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M. Dho, Citizen Science menti non attuabili e neppure pensabili. Non dimentichiamo, inoltre, il vantaggio, per nulla indifferente, di poter usufruire di risorse tecniche e umane a costo zero! La natura intrinseca di un percorso di tipo Citizen Science avvicina persone comuni agli studiosi professionisti e ai loro campi d’indagine, contribuisce all’avanzamento della ricerca anche in periodi di ristrettezze economiche e di tagli ai budget. Non dimentichiamo, per concludere, il valore istruttivo e didattico che il coinvolgimento attivo a un progetto di scienza popolare può assumere negli ambienti scolastici. Nell’ultimo anno della Scuola Primaria e, ancor più nella Secondaria, gli insegnanti possono disporre di uno strumento di apprendimento del tutto innovativo e ricco di stimoli per far comprendere agli studenti i metodi della scienza in generale. FIG. 4: Ipotetica architettura organizzativa di un progetto di tipo Citizen Science made by itself. La costituzione di un’associazione per il coordinamento di progetti Citizen Science, dovuta a trustees fondatori di rilievo quali Jaqueline MacGlade, per dieci anni direttrice dell’European Environment Agency, Johannes Christian Vogel, direttore generale del Museo di Storia Naturale di Berlino e il nostro, sopra citato, Andrea Sforzi, definisce, per certi aspetti, una strategia europea in tema e determina le linee guida da seguire per entrare in un mondo particolarmente ricco di prospettive e certamente destinato a divenire una realtà portante e di rilievo nel contesto scientifico internazionale. Un’associazione di astrofili può e dovrebbe avere un approccio partecipativo alla scienza avvalendosi delle esperienze e delle capacità dei propri membri, appoggiando e coadiuvando progetti in svolgimento e fornendo indicazioni e spunti per quelli a venire, senza scartare il concepimento e il lancio di idee di tipo @home o APP, for Citizen Science, made by itself. Questi piani progettuali garantiscono evidenti vantaggi agli scienziati giacché, questi ultimi, possono svolgere compiti e dedicarsi all’estrapolazione di deduzioni altri- Mario Dho , master-chief technician, first head of the instrumentation section of the Unione Astrofili Italiani (Italian Amateur Astronomers Union) and of the “CCD-UAI” project. Author of a manual with foreword of the astrophysicist Margherita Hack, dedicated to the automation and remote controlling of an astronomical observatory. Dozens of his technical articles were published in national journals of science and culture, webzines and websites. Numerous contributions to popular tendency, signed by him, have appeared in local magazines. Software and application modules tester for the automatic control of astronomical instruments. --Perito-capotecnico industriale, primo responsabile della Sezione Strumentazione dell’Unione Astrofili Italiani e del progetto “CCD-UAI”. Autore di un manuale, con prefazione dell’astrofisica Margherita Hack, dedicato alla robotizzazione e alla remotizzazione di un osservatorio astronomico. Decine di suoi articoli tecnici sono stati pubblicati su riviste nazionali di scienza e cultura, webzine e siti Internet. Numerosi contributi a carattere divulgativo, da lui firmati, sono apparsi su periodici nazionali e locali Tester di software e moduli applicativi per il controllo automatico di strumentazioni astronomiche. M. Cardaci, Macchie, ombre ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 45 MACCHIE, OMBRE E ALIENI Massimo Cardaci [email protected] In questo dipinto di Eyre Crowe, del 1891, è raffigurato il giovanissimo astronomo inglese Jeremiah Horrocks (1618– 1641) mentre osserva il transito di Venere sul disco del Sole del 4 dicembre 1639. Nel precedente articolo, a pagina 31 di questo stesso numero della webzine Astronomia Nova, abbiamo sbirciato le prime briciole della storia che sta dietro la scoperta delle macchie solari. Vi avete trovato delle annotazioni sulla necessità di trascurare le interpretazioni del fenomeno, di solito piuttosto fantasiose. In quest’articolo faremo una carrellata delle prime interpretazioni scientifiche, ovvero delle interpretazioni formulate una volta che il fenomeno è stato riconosciuto come interessante soggetto di studio in se. Ma dove sono queste macchie? A noi oggi sembrerà strano, ma per secoli, e fino alle soglie del 1700, uno dei primi quesiti da dipanare sul nuovo fenomeno era la sua posizione spaziale. Probabilmente influenzati dalla fede nell’incorruttibilità dei cieli di origine aristotelica, schiere di scienziati occidentali ritenevano, infatti, che le macchie fossero corpi celesti in rotazione intorno alla Terra o al Sole, che diventavano visibili come ombre nel passaggio davanti al nostro astro. Ma anche a oriente non se la passavano meglio, dato che come abbiamo visto. gli annali le riportano come ombre di oggetti o animali. Le dispute al riguardo furono lunghe e “feroci”, coinvolgendo personaggi di primo piano. Si potrebbero elencare qui le prove sostanziali presentate da Galileo, nella sua famosa disputa con il gesuita Christoph Scheiner (le Tre Lettere), ma preferisco riportare il contributo del meno noto, ed assai sfortunato, geniale astronomo inglese Jeremiah Horrocks, morto ad appena 23 anni per cause sconosciute. Pagina 46 ASTRONOMIA NOVA n.20/2014 M. Cardaci, Macchie, ombre Disegno del disco del Sole durante il transito di Venere del 4 dicembre 1639, eseguito da Horrocks, il quale riporta tre posizioni del disco planetario, che rappresenta scurissimo e perfettamente circolare ma estremamente piccolo, appena 1’ di diametro , assai minore rispetto alle stime di astronomi come Tycho Brahe che addirittura gli attribuiva un diametro di 12’ (più di un terzo del disco solare!) o i 7’ di Keplero. Questo disegno è contenuto nell’opera postuma di Horrocks, Venus in Sole visa, pubblicata a Danzica nel 1662 da Johannes Hevelius. Quest’ultimo, ricco commerciante di birra e straordinario astronomo, acquisì per pochi denari il preziosissimo manoscritto dello studioso inglese. Il giovane Jeremiah fu il primo astronomo ad avere la piena consapevolezza delle circostanze del transito di Venere del 4 dicembre 1639, che osservò con grande cura, annotando con gioia le circostanze del fenomeno: "Osservai allora il più piacevole degli spettacoli [il pianeta Venere], l'oggetto dei miei ardenti desideri: una nuova macchia di grandezza insolita e di forma perfettamente circolare che era già totalmente entrato nella parte sinistra del disco del Sole". L’aspetto perfettamente circolare del disco di Venere non gli fece mai dubitare di trovarsi davanti ad un transito planetario anziché alle tanto discusse ed elusive macchie solari. Nel proseguo dei suoi studi, egli, in modo anche molto appassionato, presentò quattro prove sulla realtà delle macchie quale fenomeno proprio del Sole. Egli le presentò come confutazione all’affermazione che una particolare macchia osservata fosse Venere, o comunque un oggetto celeste. La prima riguarda le dimensioni delle macchie, che sarebbero molto maggiori di Venere. La seconda riguarda la forma delle stesse. Egli fa infatti notare che le macchie: “non sono altro che esalazioni di fumo e (come dice la parola) nubi solari, che costando di materia fluida, e facilmente dissipabile, rarissimamente assumono una forma circolare, ma figure irregolari e deformi, assomigliano esattamente alle nubi terrestri”. Ne segue che, essendo la figura della macchia in esame molto allungata, “non è una stella, come alcuni sognano, ma null’altro che una macchia poco comune”. Un altro elemento a differenza di semplici ombre di oggetti orbitanti sarebbe il colore e le sfumature che esse assumono: "Le macchie ordinarie, o nubi solari, essendo materie tra le più varie, non del tutto condensate, e appena superanti la densità di alcuni spessi fumi, per questo motivo non possono nascondere perfettamente la luce del Sole, ma i suoi raggi, un poco attenuati passeranno: onde accade, per quanto raramente, mai fino a tal punto, anneriscano una zona regolarmente, ma con un colore pallido, mostrano luce e tenebre miste insieme specialmente verso la loro bocca". Ciò è in contrasto con quello che fanno Venere e Mercurio, i due soli pianeti che transitano davanti al Sole: l’ombra che essi proietterebbero è uniforme, e non presenterebbe un nucleo più scuro, oltre al fatto che nemmeno la loro ombra sia così uniforme e nera come quella dell’interno delle macchie. Ultimo fattore di differenza sarebbe il moto delle macchie. Horrocks evidenzia che mentre i pianeti, quali ad esempio Venere, che più si avvicinano alle dimensioni della macchia, si spostano sul disco solare attraversandolo tutto in poche ore (ad esempio, il transito di Vene- M. Cardaci, Macchie, ombre ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 47 Il disegno di una grande macchia solare, apparsa il 4 gennaio 1801, eseguito da William Herschel ed inserito in un suo ampio saggio pubblicato nella rivista della Royal Society (W. Herschel, Observations tending to investigate the Nature of the Sun, Philosophical Transactions, 91, 1801, pp. 265-318) re dell’8 giugno 2004, in Italia, durò mediamente 5 ore e 24 minuti), le macchie fanno una rotazione in circa un mese, e che il moto dei pianeti sul disco è uniforme, mentre le macchie mostrano un rallentamento nell’approssimarsi ai bordi. Horrocks è solo un esempio, ma oltre a Galilei, ci furono altri studiosi del calibro di Hevelius e Flamsteed, oltre a tantissimi altri “sconosciuti” che si prodigarono a che il fenomeno fosse posto sul Sole e non altrove. Buche o nuvole luminose? Accertare che le macchie fossero un fenomeno proprio del sole era solo il primo passo. Le prime ricerche avevano avuto l’effetto di interessare la comunità scientifica al fenomeno, con il notevole risultato di una mole ingente di osservazioni indipendenti. Il problema era che tali osservazioni andavano poi interpretate… E, come si sa, l’homo sapiens ha una prodigiosa fantasia. Ci furono personaggi anche notevoli che a fronte di osservazioni accurate, le consolidarono in teorie per lo meno “particolari”. Tanto per fornire un esempio, farò il caso della coppia (padre e figlio) degli Herschel, scienziati di meritata e indubbia fama. La teoria di Herschel padre (Fredrick Wilhelm Her- schel) sulle macchie solari fu pubblicata nel 1795, ma le ricerche iniziarono con l’osservazione della grande macchia del 1779. La macchia in questione fu osservabile per circa sei mesi e aveva un diametro tale che la Terra ci sarebbe entrata circa 64 volte! Herschel scriveva: “Il Sole non sembra essere null'altro se non un grandissimo e larghissimo pianeta chiaro, evidentemente il primo, il solo originario del nostro sistema; tutti gli altri sono certamente posteriori a esso. La sua somiglianza con gli altri globi del sistema solare con riguardo alla sua solidità, alla sua superficie differenziata, alla rotazione intorno ad un proprio asse, al precipitare dei corpi pesanti, ci induce a supporre che esso sia con molta probabilità abitato, come il resto dei pianeti, essendo i corpi dei suoi abitanti abituati alle peculiari caratteristiche di un così vasto globo”. Questo è quanto, in generale, egli si propose di dimostrare. Un’accurata descrizione dell'ipotesi del padre ce la fornisce suo figlio, John Fredrick Wilhelm Herschel. Egli, rifacendosi alla seconda pubblicazione della teoria (datata 1801 e dalla quale è tratto il disegno in questa pagina), che comunque risentì di poche varianti, dice: “Herschel [NdA: il padre] pensa che lo strato luminoso dell'atmosfera sia sostenuto appena sopra il livello Pagina 48 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 M. Cardaci, Macchie, ombre A sinistra, il ritratto di Frederick William Herschel (1738-1822) e, a destra, il ritratto fotografico del figlio, John Frederick William Herschel (1792 – 1871), realizzato nel 1867 dalla grande fotografa Julia Margaret Cameron. del corpo solido da un mezzo trasparente elastico che continua verso la superficie con uno opaco, il quale, essendo molto illuminato da sopra, riflette una notevole porzione di luce ai nostri occhi e forma la penombra, mentre lo strato solido, riparato dalle nubi, non riflette. La temporanea rimozione di entrambi gli strati, ma il superiore in misura maggiore, per lui è causato da correnti ascendenti dell'atmosfera che nascono da spiragli nel corpo o da agitazioni locali". In pratica, Herschel padre ipotizzò l'esistenza di due strati di nubi luminose che, in seguito a perturbazioni, potevano temporaneamente squarciarsi. In caso di rottura dello strato superiore si sarebbe visto l’inferiore meno luminoso (la penombra), e dove si fosse squarciato anche quest’ultimo si sarebbe potuto osservare il suolo oscuro (il nucleo delle macchie). E magari anche i suoi abitanti. D’altra opinione fu Alexander Wilson (1714-1786), astronomo ed ornitologo scozzese. Egli nel 1774 formulò un’ipotesi diversa (e una legge che porta il suo nome). I risultati che scaturirono da quasi cinque anni di ricerche, iniziate con l'osservazione della grande macchia del 1769, furono pubblicati nel 1774. Vi si legge: “Io ho trovato che l'ombra, che prima era uniformemente disposta intorno al nucleo, appare molto contratta in quella parte che è verso il centro del disco, mentre l'altra parte di essa rimane circa delle stesse dimensioni. Io conclusi che la zona oscura, o penombra, che circonda il nucleo, non potrebbe essere null'altro che una depressione nella superficie luminosa del Sole”. Oggi chiamiamo questo fenomeno con il nome del suo scopritore: Effetto Wilson, ossia l’apparente restringersi o allargarsi della parte di penombra rivolta verso il centro del disco è dovuta a un semplice effetto prospettico. Altre ipotesi suggestive Spiegazioni di quanto era osservato ne furono presentate tante altre, ma una vale la pena di essere riportata, dato che fece molti proseliti e fu addirittura ripresa per spiegare diversi fenomeni collegati alle macchie solari. Si tratta di un deja-vu (duro a cedere il passo): la teoria meteorica. Avete presente le fantastiche macchie lasciate sulle nubi di Giove dalla relativamente recente caduta di una cometa (Shoemaker-Levy 9 del 1994)? I fautori di questa ipotesi (tra cui lo stesso Herschel figlio) ritenevano che le macchie fossero il risultato visibile del precipitare di meteoriti, orbitanti in un anello intorno al Sole, tali da provocare squarci che mettevano in vista gli strati sottostanti più oscuri. Costoro andarono oltre, assegnando a queste meteore altre proprietà fenomenali, come essere la causa della rotazione differenziale del Sole (grazie al trasferimento d’impulso dovuto alla loro caduta), e il determinare lo stesso ciclo undecennale di attività solare. Conclusioni I primi passi nello studio delle macchie solari dimostra- M. Cardaci, Macchie, ombre ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 49 Composizione di immagini di una grande macchia solare ripresa nell’arco di due settimane, nello scorso mese di ottobre, dalla sonda giapponese Hinode. L’effetto Wilson è evidente nelle immagini del 18 e del 28 ottobre. rono presto che il fenomeno era tutt’altro che di semplice spiegazione, come poteva essere sembrato. E si era solo all’inizio, perché ben altre sorprese aspettavano la comunità, scientifica e non, e molta acqua sarebbe dovuta passare prima di comprendere un po’ meglio questo fantastico evento solare. Ma questa è tutta un’altra storia, che vedremo prossimamente. Macchie sul Sole? Stai scherzando,vero? Questo articolo è tratto da una collana di 14 volumetti dal titolo “Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”. Si tratta dell’avvincente storia della scoperta delle Macchie Solari. Una storia di uomini e idee lunga 3000 anni. Ciascun volumetto copre un tema specifico: dalle osservazioni pre-telescopiche, ai cicli e rotazione, dalle prime scoperte scientifiche alla fotografia e cinematografia solare, dalla nascita della moderna fisica solare all’influenza sull’ecosistema Terrestre. Al fianco di tantissimi personaggi poco noti, ma non per questo meno importanti, ci sono anche alcune “monografie”: Istituto delle Scienze di Bologna, Galilei e Scheiner, Secchi, Hale. Monografie con alcune interessanti sorprese che aprono la strada a una rilettura diversa di alcuni eventi storici. I volumetti, frutto di numerosi anni di ricerca, sono in formato E-Pub, e sono venduti con ricavato interamente versato in beneficenza (www.edc-consulting.org – Sezione “Storia Macchie Solari” – da cui si possono anche liberamente scaricare le anteprime). Massimo Cardaci nasce a Roma nel 1966. Completati gli studi secondari classici e la laurea in Fisica, è entrato nel mondo del lavoro dalla porta del terziario avanzato. Lavora attualmente come manager nel settore Spazio per una Multinazionale di Servizi. Ha pubblicato un saggio sui sistemi di Governance Aziendali Etici (“La Terza Strada: una storia di Principi, Maestri e Cappellai”), un testo sul Time Management (“Mi cambierebbe 25 minuti?”) e una serie di 14 volumetti (“Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”) sulla storia della scoperta delle Macchie Solari. Ha anche scritto diversi articoli a tema management, tecnologia e sicurezza informatica. Si interessa di giardinaggio, cucina e fantascienza, accompagnati dalla passione per la corsa e da un costante impegno nel volontariato. Pagina 50 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 P. Bacci et al., Frammento B IL FRAMMENTO B DELLA COMETA C/2011 J2 (LINEAR) Paolo Baccia,b [email protected] Luciano Tesia, Giancarlo Fagiolia Emilio Rossib, Maurizo Ferabolib, Alberto Villab, Carlo Buscemib, Paolo Piludub, Menichini Valeriob, Dario Ciurlib, Francesco Biascib, Mimmo Bellib, Fabio Marziolia A sinistra, il telescopio di 60 cm dell’Osservatorio astronomico di San Marcello Pistoiese (Pistoia), gestito dal GAMP, Gruppo Astrofili Montagna Pistoiese, http://www.gamp-pt.net/ . A destra, il telescopio di 50 cm dell’Osservatorio astronomico di Libbiano, nel Comune di Peccioli (Pisa), gestito dall’AAAV, Associazione Astrofili Alta Valdera, http://aaav.altervista.org/ . Abstract L'osservazione del frammento B della cometa C/2011 J2 (LINEAR) ottenuta da tre Osservatori astronomici amatoriali, ha permesso di misurare il suo progressivo allontanamento dal falso nucleo cometario da 8,4” a 23,7” in un periodo di 45,9 giorni, di calcolare la velocità media di separazione che da 5,1 m/s è aumentata a 10,2 m/s, e di registrare una diminuzione della luminosità di circa 2,8±0,2 magnitudini. La cometa C/2011 J2 (LINEAR) è stata scoperta all'Osservatorio Catalina Sky Survey USA (MPC 703), http://www.lpl.arizona.edu/css/ , la notte del 10 marzo 2011 come riportato dalla circolare MPEC 2011-J31 [1]. Quando l'oggetto era ancora nella pagina web della The NEO Confirmation Page (NEOCP) del Minor Planet Center (MPC), di 19a magnitudine, l'Osservatorio di San Marcello Pistoiese ne confermava la natura cometaria. Per i successivi tre anni dalla scoperta la cometa non ha evidenziato alcuna caratteristica peculiare, almeno fino a quando il Central Bureau for Astronomical Telegrams, con il CBAT n. 3979 del 19 settembre scorso, annuncia la scoperta di un frammento staccatosi dalla cometa, individuato da F. Manzini, V. Oldani, e A. Dan, dalla Stazione Astronomica di Sozzago, e R. Crippa, dall'Osservatorio di Tradate, nelle notti del 27-28 agosto 2014. Il frammento viene confermato anche dall'Osservatorio di San Marcello il 14 settembre e da altri osservatori italiani, come riportato nella CBAT sopra citata. Nel momento della prima osservazione, il frammento, che si ______________________ a. GAMP – Gruppo Astrofili Montagna Pistoiese, Osservatorio Astronomico San Marcello Pistoiese (code MPC 104) b. AAAV – Associazione Astrofili Alta Valdera, Centro Astronomico Libbiano Peccioli (Code MPC B33) P. Bacci et al., Frammento B ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 51 Tabella 1: misure astrometriche della cometa ottenute con DS9. trovava ad appena 0,8” dal corpo principale (stimato di 14a magnitudine), era di magnitudine 16,5 circa. Le osservazioni della cometa e del frammento B sono continuate presso gli Osservatori di San Marcello Pistoiese e di Libbiano, rispettivamente il 19 ed il 29 ottobre scorsi. Sono state esaminate ed utilizzate anche le immagini, acquisite da Andrea Mantero, il 21 settembre all'Osservatorio di Bernezzo (Cuneo). Il materiale fotografico è stato elaborato con il software DS9[2] per determinare il centro fotometrico sia del falso nucleo sia del frammento B e quindi ricavare le posizioni astrometriche di entrambi gli oggetti (tabelle 1 e 2). In figura 1 abbiamo l’immagine in falsi colori del 19 settembre ottenuta all’Osservatorio di San Marcello; i due cerchi circoscrivono i “centroidi” del falso nucleo e del frammento B. La successiva immagine (figura 2), anch’essa in falsi colori, è stata ottenuta il 29 ottobre al telescopio di 50 cm dell’Osservatorio di Libbiano, 40 giorni dopo la precedente. I dati estrapolati sono stati inseriti nel grafico di figura 3, dove sulle ascisse sono riportati i giorni successivi al passaggio al perielio, e sulle ordinate la distanza del frammento B dal falso nucleo della cometa in secondi d'arco. Il telescopio newtoniano di 25 dell’Osservatorio di Bernezzo (Cuneo). cm Tabella 2: sono riportate le misure, ottenute con il software DS9, ricavate dalle immagini di cui alla tabella 1. Per ogni data è stata determinata la separazione angolare tra il falso nucleo ed il frammento B, l'angolo di posizione (PA), che però in questa tabella, per una diversa convenzione, differisce di -90° rispetto ai valori ricavati dalle Minor Planet Circulars; quindi Δ, ossia la distanza in Unità Astronomiche UA della cometa dal Sole, infine, r, la distanza Terracometa in UA. Pagina 52 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 P. Bacci et al., Frammento B Tabella 3: Caratteristiche strumentali e di risoluzione dei sistemi di ripresa. In figura 4 sono riportati gli angoli di posizione del frammento B, calcolati dalle osservazioni (vedi tabella 2), confrontati con i valori estrapolati dalle Minor Planet Circulars per le stesse date. In figura è anche riportato l’angolo di fase, ripreso dalla tabella 4. Si noti che gli angoli di posizione PA, da noi osservati rispetto a quelli calcolati dalle MPC, coincidono solamente nell’osservazione di Bernezzo del 29 ottobre. Negli altri casi le differenze arrivano fino a 40°. In figura 5 sono invece riportati sia i valori dell'angolo FIG. 1: Immagine in falsi colori della cometa ottenuta il 19 settembre al 60 cm dell’Osservatorio di San Marcello. Fig. 2: La cometa, 40 giorni dopo la precedente immagine, ripresa all’Osservatorio di Libbiano con il telescopio di 50 cm. P. Bacci et al., Frammento B ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 53 FIG. 3: Grafico dei valori della distanza del frammento B dal falso nucleo delle quattro osservazioni di cui alla tabella 2, espressi in funzione dei giorni trascorsi dalla passaggio al perielio, avvenuto il 25 dicembre 2013. Tabella 4 (sotto): Alcuni dati sulla cometa, relativi alle osservazioni di cui alla tabella 2, estrapolati dal Minor Planet & Comet Ephemeris Service. L’elongazione è l'angolo tra il Sole e la cometa, visto dal centro della Terra; l'angolo di fase è l’angolo formato delle direzioni cometa— Sole e cometa—Terra. di posizione PA del frammento B secondo le nostre misure e quelle fornite dalle MPC (vedi anche fig. 4), sia quelli dell'elongazione della cometa nelle stesse date. Analisi delle osservazioni In attesa di ricevere ulteriori immagini della cometa che consentano di approfondire l’analisi, possiamo dire che, dall’esame del materiale in nostro possesso, il frammento B si è allontanato dal nucleo cometario, nel periodo in esame, da 8,3±0,1” a 23,7±0,1” (si veda tabella 2). Inoltre, le stesse immagini mostrano che il frammento B ha modificato la propria traiettoria, rispetto alla nostra prima immagine del 14 settembre, deviando di 39.5°±5.0, in modo non lineare. FIG. 4: Angolo di posizione (in rosso) del frammento B, calcolato dalle osservazioni di cui alla tabella 2, confrontato con i valori estrapolati dalle Minor Planet Circulars (in blu) per le stesse date. E’ riportato anche l’angolo di fase (triangolo nero) ripreso dalla tabella 4. Gli angoli di posizione PA coincidono solamente nell’osservazione di Bernezzo del 29 ottobre. Negli altri casi le differenze arrivano fino a 40°. Pagina 54 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 P. Bacci et al., Frammento B FIG. 5: nel grafico i valori dell'angolo di posizione PA del frammento B secondo le nostre misure e quelle fornite dalle MPC, così come in fig. 4, confrontati con l'elongazione della cometa, in funzione dei giorni trascorsi dal passaggio al perielio. Il frammento ha anche aumentato la propria velocità di allontanamento dal falso nucleo, così come mostrato in figura 6. L'incremento medio della velocità è passato da 5,2 metri al secondo a 10,3 metri al secondo, nel periodo considerato (si veda la tabella 5). I valori ricavati sono abbastanza in accordo con quanto riportato in figura 7, ottenuta da H. Boehnhardt[4]. Nella tabella 6, tramite il software Astrometrica [5], abbiamo riportato la magnitudine del frammento B su di un periodo di 45.9 giorni, che è diminuita di quasi 3 magnitudini, da 16,5±0,20 a 19,30±0,20. Tabella 5 (sopra): Misure eseguite sul frammento B, ricavate dalle immagini riprese negli Osservatori di San Marcello, Libbiano e Bernezzo, prendendo come punto di partenza l’osservazione del 14 settembre. FIG. 6: velocità angolare di allontanamento del frammento B in secondi d’arco al giorno. P. Bacci et al., Frammento B ASTRONOMIA NOVA n.20/2014 Pagina 55 FIG. 7: velocità di separazione dei frammenti in funzione della distanza dal Sole, in Unità astronomiche. Le comete a corto periodo sono indicate con un quadrato; quelle a lungo periodo con un rombo, mentre le nuove comete (quelle che hanno avuto rari passaggi in prossimità del Sole), con triangoli. Fonte: H. Boehnhardt, Comet Split, http:// www.lpi.usra.edu/books/ CometsII/7011.pdf In queste stime di magnitudine, occorre considerare il fatto che nei primi giorni dopo il distacco il frammento era ancora molto vicino al nucleo cometario, per cui la sua l'effettiva luminosità è stata certamente influenzata dalla luminosità della chioma. La cometa, al momento del distacco del frammento B, si trovava ad una distanza dal Sole di circa 4,2 UA, in una zona dove la sua temperatura superficiale stimata può variare tra 130°K e i 195°K. L'indeterminatezza di questi valori è funzione della formula utilizzata nei calcoli. In figura 8 indichiamo le curve di temperatura in funzione della distanza eliocentrica della cometa, utiliz- zando le formule contenute negli studi [5,6]. La linea orizzontale di colore fucsia corrisponde alla temperatura di 273 °K, mentre con una linea verticale di colore grigio riportiamo la distanza eliocentrica della cometa al momento della frammentazione. L'analisi fotometrica ed astrometrica di altre immagini cometarie, riprese in tempi successivi a quelle qui proposte, ci consentirà di raccogliere ulteriori informazioni sull'evolversi del moto del frammento B e quindi perfezionare i risultati qui solo sommariamente esposti. FIG. 8: temperatura superficiale della cometa in funzione della distanza dal Sole. Il valore, alquanto indeterminato può essere compreso tra le curve rossa e verde. Pagina 56 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 P. Bacci et al., Frammento B TABELLA 6: misure astrometriche e di magnitudine del frammento B della cometa C/2011 J2 (LINEAR). Ringraziamenti Si ringrazia Andrea Mantero dell'Osservatorio di Bernezzo (C77) per aver messo a disposizione le sue immagini; la Prof.ssa Eleonora Tommasi per la revisione di questo testo. Bibliografia [1] Minor Planet Center M.P.E.C.: www.minorplanetcenter.org/mpec/K11/K11J31.html [2] Software SAOImage DS9 Version 7.3.2 http:// ds9.si.edu/ [3] Minor Planet Center effemeridi [4] H. Boehnhardt, Comet Split, www.lpi.usra.edu/ books/CometsII/7011.pdf [4] Software Astrometrica [5] I. Ferrin et al.The location of Asteroidal Belt Comets (ABCs), in a comets' evolutionary diagram: The Lazarus Comets, http://arxiv.org/ftp/arxiv/ papers/1305/1305.2621.pdf [6]J. A. Fernández, Comets: Nature, Dynamics, Origin, and their Cosmogonical Relevance , p. 65 Paolo Bacci, nato nel 1968, astrofilo sin dall'adolescenza, quando si associò al GAMP Gruppo Astrofili Montagna Pistoiese, e si occupava dell'osservazione visuale di meteore e stelle variabili. Successivamente è entrato a far parte dell'AAAV Associazione Astrofili Alta Valdera, dove si occupa di asteroidi e comete. Osserva da: B33 Osservatorio “G. Galilei” Centro Astronomico Libbiano Peccioli (PI) 104 San Marcello Pistoiese (PT). Il suo sito: www. backman.altervista.org R. Calanca, Cometografia, IIa ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 57 COMETOGRAFIA ITALICA UNA RASSEGNA DELLE COMETE SCOPERTE DA ITALIANI SECONDA PARTE (segue dal n. 19 di A.N., pp. 71-81) Rodolfo Calanca [email protected] FIG. 1: Il gesuita Padre Angelo Secchi, uno dei maggiori astronomi dell’Ottocento. FIG. 2: : Il rifrattore di Merz da 24 cm, installato nella specola Pontificia del Collegio Romano, sopra la chiesa di S. Ignazio, in una stampa del 1854. Angelo Secchi Il reggiano Angelo Secchi (1818 - 1878), figura 1, è uno dei più eminenti astronomi dell'Ottocento. Entra nella Compagnia di Gesù all'età di 15 anni, studia al Collegio Romano (successivamente chiamato ‘Università Gregoriana’) e insegna fisica e matematica nel collegio dei gesuiti a Loreto, ad appena 23 anni. Nella breve parentesi della Repubblica romana, la cacciata da Roma della Compagnia costringe Secchi all’esilio in Inghilterra e negli USA. Nel 1849 torna in Italia e l'anno successivo succede a Francesco De Vico nella direzione dell'osservatorio del Collegio Romano, che ricostruisce, trasferendolo sopra la chiesa di S. Ignazio, anche grazie al contributo economico del suo assistente, il padre Paolo Rosa che, con l'eredità paterna, acquista, e dona subito all'Osservatorio, un eccel- lente equatoriale di Merz di 24 cm di apertura e 435 cm di distanza focale, (figura 2). L'attività scientifica di padre Secchi è molto vasta ed articolata: nel 1852 rintraccia i due frammenti della cometa di Biela; qualche anno dopo crede di individuare su Marte due "canali", in largo anticipo su Schiaparelli e Lowell. E' tra i primi a fotografare la corona solare in eclisse e a ottenere immagini spettroscopiche del bordo dell'astro. E' considerato da molti il fondatore della spettroscopia stellare, per avere classificato le stelle in quattro tipi spettrali. Scrive libri divulgativi molto apprezzati e, insieme a Pietro Tacchini (1838-1905), fonda le Memorie della Società degli spettroscopisti italiani, la prima pubblicazione periodica dedicata esclusivamente all'astrofisica. Pagina 58 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 R. Calanca, Cometografia, IIa Lo ricordiamo qui per la cometa C/1853 E1 Secchi, scoperta il 6 marzo 1853, alla specola pontificia, nei pressi della stella μ della costellazione della Lepre. Così egli la descrive: “Essa era assai splendida e visibile anche in un mediocre cercatore, ma da quei giorni in poi è andata sempre scemando di luce”. In diverse notti, il nucleo gli appare “come composto di vari piccoli nuclei e che pure questo nelle prime sere [dopo la scoperta] appariva con più punti luminosi al centro”. Nel corso del mese di marzo, dopo aver esaminato i calcoli preliminari dell’orbita della cometa eseguiti dal padre Rosa, e dopo un rapido esame del catalogo delle comete di Galle, gli viene il sospetto che la sua cometa sia la stessa apparsa nel 1664, la C/1664 W1; quest’ultima “presenta elementi quasi identici colla nostra”. Secchi così scrive: “fortunatamente di quella del 1664 abbiamo una bella serie di osservazioni di vari Astronomi e sopratutti di Evelio il quale la osservò a Danzica per più di due mesi… Comparsa da principio alla mattina passò all’opposizione sul finire del dicembre 1664 ed era assai vicina alla terra… Se veramente i due astri fossero identici questa cometa compirebbe il suo giro in 188 anni e la sua distanza media dal Sole sarebbe poco maggiore di quella di Nettuno”. Oggi però sappiamo che si tratta di due comete che non hanno nulla in comune tra loro. Ma qualcosa che la caratterizza, la cometa di Secchi del 1853, comunque ce l’ha: studi recenti hanno dimostrato che essa ha un’orbita iperbolica accentuata che, in assoluto, è superata solamente dalla C/1980 E1 Bowell. Nel 2006, R.L. Branham Jr, dell’Instituto Argentino de Nivologia, ha pubblicato una disamina delle osservazioni della cometa di Secchi, per la quale l’orbita è sempre stata considerata parabolica. Branham prende in considerazione 91 osservazioni, pubblicate nel 1853 nelle Astronomische Nachrichten e nell’Astronomical Journal ed eseguite in 17 diversi Osservatori europei ed americani. Dopo aver apportato tutte le correzioni del caso, le osservazioni sono state rielaborate utilizzando il catalogo Tycho-2 per le stelle di confronto. I risultati dello studio hanno dimostrato, in primo luogo, che la cometa di Secchi non può essere identificata con la C/1664 W1, come mostra, anche con un semplice colpo d’occhio, la figura 3; poi, che la sua orbita ha un’eccentricità di 1,0106 superata solamente dalla C/1980 E1 Bowell, con eccentricità 1,0573. Giovanni Battista Donati Giovanni Battista Donati (1826 - 1873), figura 4, è nato a Pisa, dove studia fisica e astronomia. Dal 1852 è aggregato all'osservatorio di Firenze presso il Regio Museo di Fisica e Storia Naturale, allora diretto da Giovanni Battista Amici (1786-1863) , famoso ottico modenese. FIG. 3: Grafico del percorso della cometa di Secchi tra il 1664 ed il 1853, secondo Branham. Il grafico mostra che, nel 1664, si trovava ad oltre 20 Unità Astronomiche dalla Terra, pertanto essa non può essere identificata con la C/1664 W1 che invece, nella stessa epoca, era a meno di 1 UA da noi (fonte: R.L. Branham Jr, “Orbit of Comet C/1853 E1 (Secchi)”, Revista Mexicana de Astronomía y Astrofísica, 42, 107116, 2006, p. 111). R. Calanca, Cometografia, IIa FIG. 4: Ritratto di Giovanni Battista Donati L’Osservatorio fiorentino non è dotato di strumentazione avanzata, dispone però delle montature provvisorie degli ottimi obbiettivi astronomici di Amici (al quale si deve la fondazione delle “Officine Galileo”), che possono essere impiegati nella ricerca di nuove comete. Gli interessi scientifici di Donati sono molteplici. Nel 1860 si reca in Spagna per osservare l’eclisse totale di Sole del 18 luglio. Durante l’eclisse disegna la corona solare con un cannocchiale di Dollond, opportunamente modificato da Amici. Divenuto direttore dell’Osservatorio, si occupa, tra i primi al mondo, di spettroscopia stellare e cometaria, ed è proprio in Spagna che, conversando con Johann Von Lamont (1805-1879), direttore dell’Osservatorio di Bergenhausen, apprende delle difficoltà incontrate dagli astronomi tedeschi nel tentativo di osservare gli spettri stellari. Tornato a Firenze, ha in mente una brillante soluzione tecnica che gli consente di osservare gli spettri di un buon numero di stelle e di qualche cometa. Ricorda che il Museo dispone di una lente ustoria, di corta focale, realizzata ben 150 anni prima da Benedetto Bregans e donata dal costruttore al Granduca Cosimo III de' Medici e che, montata su di una opportuna struttura meccanica, può servire benissimo allo scopo (figura 5). Segue anche le indicazioni di Amici, che gli consiglia di inserire una piccola lente cilindrica sul percorso ottico, prima della fenditura dello spettroscopio. Con questo strumento le osservazioni degli spettri di stelle brillanti gli suggeriscono una relazione tra il colore delle stelle e la configurazione delle righe. Negli anni successivi Do- ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 59 FIG. 5: L’obbiettivo di Benedetto Bregan, montato su di un supporto in legno, utilizzato da Donati come collettore di luce per osservare gli spettri stellari e cometari nati progetta e costruisce l’Osservatorio di Arcetri, inaugurato il 27 ottobre 1872. Non ha però la possibilità di proseguire i suoi studi nella nuova specola; muore l’anno successivo, ad appena 47 anni, dopo aver contratto il colera al ritorno da un congresso di meteorologia a Vienna. La sua prima cometa, indicata con la sigla C/1855 L1, la scopre la sera del 3 giugno 1855, quando gli appare di sesta magnitudine in Auriga. Ne dà l’annuncio nelle Astronomische Nachrichten (A.N.) n. 968, con queste parole: “… scuoprii una Cometa nella costellazione del Telescopio di Herschel… non ho scorto né nucleo né coda, e la giudico, in splendore, più debole della nebulosa di Ercole [il famoso ammasso globulare M13]”. La costellazione del Telescopio di Herschel, oggi obsoleta, è introdotta da Johann Elert Bode (17471826) nella sua Uranographia del 1801 ed è collocata tra i Gemelli ed Auriga. La notte successiva la cometa è osservata anche da Wilhelm Klinkerfues (1827-1884) a Goettingen e da Charles Dien (1809-1870) a Parigi. Una settimana dopo la scoperta, Donati ne calcola un’orbita approssimata, retrograda, con un metodo proposto dal grande matematico Ottaviano Fabrizio Mossotti (1791-1863). In quei giorni è osservata anche alla specola di Padova da Virgilio Trettenero (18221863) e da Giovanni Santini (1787-1877), che ne determinano nuovamente l’orbita parabolica grazie alle nuove osservazioni, fissando il momento del passaggio al perielio al 30 maggio 1855. Pagina 60 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 R. Calanca, Cometografia, IIa La cometa non è mai stata visibile ad occhio nudo e scompare definitivamente il 30 giugno, a meno di un mese dalla scoperta. Pochi mesi dopo, con sole quattro osservazioni astrometriche, Donati calcola un’orbita ellittica con un periodo di 493 anni. Una successiva ricerca nei cataloghi cometari gli fa balenare l’idea che la sua cometa sia la stessa apparsa il 5 marzo 1362, la C/1362 E1, ed osservata dai cinesi nell’Aquario, poi in Pegaso e nei pressi delle Pleiadi, per un totale di 34 giorni. In quell’anno, in Europa, la cometa colpisce l’immaginazione popolare dispiegando una lunga coda di 20°, dal cupo colore della cenere. In un articolo sul The Astronomical Journal del 24 marzo 1916, Georges van Biesbrock (1880-1974) ricalcola per l’ennesima volta l’orbita della cometa C/1855 L1 utilizzando 49 posizioni astrometriche. Scopre però che il periodo coperto dalle osservazioni è troppo breve per ricavarne, con sufficiente accuratezza, l’eccentricità. Ne deriva un periodo orbitale incerto, compreso tra 155 e 523 anni. Van Biesbrock conclude il suo lungo lavoro di analisi affermando che “secondo la mia opinione, l’identità tra la cometa del 1362 [C/1362 E1] con quella del 1855 [C/1855 L1] non può essere in alcun modo provata”. Passano oltre due anni dalla scoperta della sua seconda cometa, la C/1857 V1, che oltre il suo nome, porta anche quello dell’amatore Robert van Arsdale, un ricco americano di Newark, New Jersey, appassionato cacciatore di comete e proprietario di un attrezzato Osservatorio astronomico. Donati la scopre il 10 novembre 1857 nella costellazione del Dragone, con un piccolo cannocchiale e subito dopo con il grande rifrattore di Amici di 28 centimetri: la descrive, piccola, assai debole e di aspetto nebulare. Nella stessa serata, van Arsdale, con il suo cercatore di comete di 10 centimetri, costruito da Henry Fitz, noto produttore americano di telescopi, la trova e si affretta a comunicarne la posizione all’Astronomical Journal, associando così il suo nome a quello di Donati, in veste di secondo scopritore. Nel corso del mese di novembre è osservata a Washington da James Ferguson (1797-1867), che la descrive piccola e debole. A Roma anche padre Secchi la trova pressoché insignificante. Appare un po’ meno evanescente all’Osservatorio di Amburgo: George Friedrich Wilhelm Rümker (1833-1900) la vede sfumata e assai diffusa. Anche il giovanissimo Georg Friedrich Julius Arthur von Auwers (1838 – 1915), da Göttingen, nota una leggera condensazione di circa 5’ intorno al falso nucleo. L’ultima osservazione risale al 19 dicembre ed è eseguita a Berlino dall’assistente di Encke, Wilhelm Julius Foerster (1832 – 1921), che la intravede nel Delfino. Nelle Astronomische Nachrichten n. 1184, del 1859, appare un ampio articolo sull’orbita della C/1857 V1, Bahnbestimmung des Cometen VI. 1857, pp. 116-122, nel quale l’autore, von Auwers, ipotizza due tipi di orbite, una parabolica e l’altra ellittica, con un periodo stimato di 6143 anni. Ma è nella notte del 2 giugno 1858 che Donati fa una scoperta sensazionale: non lontano da λ Leonis osserva una delle comete più belle di tutti i tempi, la C/1858 L1 (figura 6). In una memoria pubblicata qualche anno dopo, la descrive così: “La Cometa il 2 di Giugno, [al rifrattore di Amici di 28 cm] si presentava come una piccola macchia nebulosa del diametro di circa 3’, avente una luce uniforme su tutta la sua estensione. FIG. 6: A sinistra, stupendo acquerello del pittore inglese William Turner (1789-1862) che raffigura la grande cometa C/1858 L1 Donati. A destra, la stessa cometa in un prezioso dipinto, olio su tela, del pittore inglese James Poole (18031883), con la cometa che si riflette nelle acque di un fiume. R. Calanca, Cometografia, IIa ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 61 FIG. 7: Questa immagine della cometa C/1858 L1 Donati, ripresa il 27 settembre 1858 da un fotografo inglese, William Usherwood (1821-1915), è sicuramente il primo di questi oggetti ad essere immortalato con l’allora nuovissima tecnica fotografica. Con tale apparenza si mantenne fino al mese di agosto, durante il quale la Cometa presentò nel suo centro una assai forte condensazione di luce, che non potevasi però dichiarare per un nucleo. Il 3 di Settembre la Cometa fu veduta ad occhio nudo; e allora, adoprando i deboli ingrandimenti, scorgevasi nel mezzo della nebulosità della testa una specie di nucleo bastantemente definito, il quale aveva una luce quieta ed una forma ellittica coll’asse maggiore in direzione perpendicolare alla direzione della coda, la quale aveva allora una lunghezza di circa 2°”. Il 27 settembre, il fotografo inglese William Usherwood (1821-1915), per la prima volta nella storia, ottiene una bella immagine fotografica della cometa (figura 7). Ma è dai primi giorni di ottobre che la cometa Donati diventa assolutamente spettacolare! Estende una coda di 30° di lunghezza e presenta degli aloni parabolici che, ad Harvard, George Phillips Bond (1825 – 1865), (figura 8), studia al Grande Rifrattore di 38 cm (figura 9). Bond chiede la collaborazione di un ottimo disegnatore, James Watts, per rendere in modo realistico il continuo mutamento in atto nella zona della testa (figura 10). Ciò che in quel periodo si osserva nella cometa Donati è già stato descritto ed interpretato da un grande matematico ed astronomo tedesco, Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846), figura 11, in occasione del passaggio della cometa di Halley del 1835. Nel corso di quel passaggio, Bessel studia attentamente la struttura fine della chioma di questa luminosa cometa e mette in evidenza getti, strutture e raggi a ventaglio che sembrano staccarsi dal nucleo in direzione del Sole. FIG. 8: Ritratto di George Phillips Bond, che successe al padre, William Cranch Bond (1789 – 1859), alla direzione dell’Osservatorio di Harvard. Pagina 62 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 R. Calanca, Cometografia, IIa FIG. 9: Il Grande Rifrattore di 15 pollici (38 cm di diametro) installato nel 1847 all’Osservatorio di Harvard, per vent’anni il maggior telescopio degli Stati Uniti. Molte di queste strutture sembrano essere curvate o ripiegate come se fossero spinte da qualche forza di repulsione da parte del Sole. Bessel pensa che siano in atto delle forze elettriche repulsive tra le particelle cometarie e le cariche solari. Si basa su questa ipotesi per calcolare le curve che le particelle avrebbero dovuto seguire. Ne deduce che al centro della chioma c’è una sorta di “fontana” (figura 12), dalla quale la maggior parte della materia “zampilla” verso il Sole. Ma, come il getto di una fontana d’acqua ritorna al suolo per gravità, così il Sole sospinge la materia nella cometa, ed il risultato è abbastanza simile a quello di una fontana. Dalla chioma, Bessel passa a studiare la coda, giungendo alla conclusione che il fenomeno delle code cometarie, estese decine di gradi, può essere spiegato solo con una forza repulsiva, che sospinge il materiale lontano dal Sole, ed è superiore, come intensità, a quella di gravità. Partendo da questi fondamentali risultati, Bessel Fig. 10: Il 2 ottobre 1858 James Watts esegue uno splendido disegno della cometa Donati al rifrattore da 15 pollici all'osservatorio di Harvard College, mentre Bond la descrive così: "il nucleo ... era insolitamente luminoso, e arrotondato sul lato verso il sole. L'aumento della luminosità del nucleo annunciava l'emissione di materiale dalla sua superficie ..." getta le basi della teoria delle forme cometarie, risultanti dal moto di particelle che, dopo aver lasciato la testa di una cometa, sono poi soggette a forze repulsive ed alla gravità. Anche la cometa di Donati del 1858, come quella di Halley nell’apparizione del 1835, illustra perfettamente il concetto di “fontana di Bessel”, così come è stata raffigurata in decine di disegni eseguiti nei maggiori Osservatori europei ed americani. La cometa, infatti, continua ad emettere regolarmente involucri a forma di fontana per molte settimane. Passa al perielio, a 0,58 UA dal Sole, il 30 settembre mentre il punto della sua orbita più vicino alla Terra è raggiunto il 10 ottobre, a 0,54 UA. Comincia ad emettere una coda in settembre: il 1° del mese è lunga poco meno di un grado, il giorno 16 è già di 7°, mentre alla fine del mese supera i 25°. Tra il 22 settembre e l’8 ottobre, diversi osservatori la vedono anche con il cielo ancora illuminato dalla luce del giorno. Il primo ad eseguire questo tipo di osservazione, è Johann Heinrich von Mädler (1794-1874), dall’Osservatorio di Dorpat, due soli 2 minuti prima del R. Calanca, Cometografia, IIa ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 63 FIG. 11: Francobollo emesso dalle poste tedesche in occasione dei 200 anni dalla nascita di Bessel. tramonto, il 22 settembre, al rifrattore Fraunhofer di 24,4 cm dell'Osservatorio. Nel frattempo, le osservazioni proseguono con alacrità in tutti i maggiori Osservatori del mondo. Dall’Osservatorio del Collegio Romano, Padre Secchi ed i suoi assistenti, padre Paolo Rosa (1825-1874) e padre Enrico Cappelletti (1831-1899), seguono la cometa con cura ed attenzione. La sera del 2 ottobre, essi scrivono: “Le apparenze da questo giorno in poi sembrano aver preso un carattere tutto diverso dai giorni precedenti. La cometa ha tre inviluppi ben distinti [si veda anche la figura 10] il più lontano è una nebulosità diffusa, il secondo è più lucido, più deciso ed è simile al nimbo che si dipinge attorno ai Santi dai pittori del trecento ed è in forma circolare che tende a rientrare in se stesso senza ripiegarsi per secondare la coda, il terzo è una specie di alone o aureola formata attorno al nucleo e che vedesi distintamente separata dall’inviluppo intermedio da uno spazio meno luminoso”. Anche Donati documenta le osservazioni della “sua” cometa: “Il 4 e 5 ottobre l’aureola che principiò a vedersi il dì 2, aumento successivamente di diametro e mostrò una piccola macchia oscura nella sua parte Nord. Le nuvole impedirono di prendere delle misure. Un’altra aureola cominciò il 4 a vedersi distaccare dal nucleo. La coda aveva una lunghezza di 40°… Il 6 ottobre io vidi sempre la macchia scura, nel centro della quale scorsi una piccola macchia lucida che aveva l’aspetto, se non di un secondo nucleo, almeno di una agglomerazione informe di materia, intorno a cui si era formata un’aureola semicircolare che interrompeva l’altra aureola che circondava il nucleo principale”. FIG. 13: In questa bellissima litografia eseguita il 4 ottobre 1858, la cometa, sospesa sopra Notre Dame, mostra due code spettacolari, quella doppia, rettilinea e filiforme di gas ionizzato e quella, maestosa, incurvata, di polveri. Nell’immagine, a sinistra della testa, spicca Arturo, mentre, in alto, fa mostra di sé la Corona Boreale. FIG. 12: La “fontana di Bessel”: la luce solare rimanda indietro il materiale che fuoriesce dalla chioma della cometa. Pagina 64 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 R. Calanca, Cometografia, IIa FIG. 14: La cometa Donati come appariva nel cielo di Praga l’8 ottobre 1858, alle 8 di sera. Il 7 ottobre al Collegio Romano annotano così le loro osservazioni: “il secondo involucro è divenuto assai irregolare, mentre sembra ‘pendere’ verso l’est apparente”. Due giorni dopo gli astronomi vedono quattro inviluppi, poi tre ventagli concentrici, dei quali quello più interno appare più lucido e meglio definito. Abbiamo già accennato al lavoro di Bond, presso l’Osservatorio di Harvard. In quei giorni è particolarmente impegnato nello studio della cometa e, in effetti, il suo rapporto, Account of the Great Comet of 1858, pubblicato a Cambridge (USA) nel 1862, è in assoluto la più esaustiva raccolta di osservazioni di questa cometa. Bond ha un particolare interesse per lo studio dettagliato degli aloni cometari, pertanto, fin dai primi giorni di ottobre, rivolge il Grande Rifrattore sulla testa di questo luminoso astro chiomato. Da una sera all’altra gli aloni diventano sempre più grandi: giunge alla conclusione che essi sono emessi in media ogni 5 o 6 giorni. Ma egli non è il solo ad occuparsene. A Vienna, in ogni serata serena, J.F. Julius Schmidt (1825-1884) misura con precisione i diametri degli aloni lungo la chioma perpendicolare alla direzione della coda. Conclude che gli aloni crescono velocemente e che ogni 4 ore ne appare un altro. Ma ciò contrasta con i tempi stimati da Bond, 30 volte superiori. In effetti, gli studi di Nicholas T. Bobrovnikoff (18961988), e di Fred L. Whipple (1906-2004), quasi cento anni dopo l’apparizione della cometa Donati, fissano il periodo di formazione di un alone (coincidente con il tempo di rotazione intorno al suo asse) in 4 ore e 37 minuti, in buon accordo con le considerazioni di Schmidt. Bond, invece, convinto di essere nel giusto, non accetta le stime di Schmidt, a causa di una curiosa coincidenza. Infatti, per una fatale casualità, la longitudine di Harvard, rispetto a Greenwich, è di 4 ore e 44 minuti, vale a dire solo 7 minuti di più del periodo di rotazione della cometa. Quando in Inghilterra e nella parte occidentale dell’Europa gli astronomi osservano la cometa ogni sera più o meno alla stessa ora, vedono quasi esattamente ciò che vede Bond nel periodo di rotazione successivo; R. Calanca, Cometografia, IIa ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 65 FIG. 15: La massima luminosità della testa della cometa di Donati è raggiunta nel periodo compreso tra la fine di settembre e la prima decina di ottobre 1858 (da: G. P. Bond, Account of the Great Comet of 1858, Cambridge, USA, 1862, p. 334). pertanto, per un paio di settimane, gli involucri risultano quasi identici e ciò determina il grosso errore temporale commesso dall’astronomo di Harvard. Nell’Astronomie Populaire del 1880, Camille Flammarion descrive le code di plasma e gli aloni della Donati: “Questi getti [in numero di due apparsi il 3 e 5 ottobre] sottili ed appena incurvati erano all’incirca tangenti alla coda principale nei pressi della testa. Essi avevano entrambi pressoché la stessa lunghezza. La testa della coda fu la sede di cambiamenti importanti. Degli inviluppi gassosi si staccavano alla velocità di 13 metri al secondo, come scrive Bond nella sua relazione”. Se torniamo alle cronache di quei giorni concitati di osservazione, troviamo delle indicazioni interessanti. Al Collegio Romano, l’11 ottobre, scrivono: “Si vede un cambiamento totale. La cometa è tutta arruffata, ed è mirabile il cambiamento del nucleo interno… che misu- rava 6,4”. Ma l’osservazione della sera del 15 ottobre è la più importante di tutta l’apparizione. Il commento di Secchi è significativo: “La cometa comparve questa sera fornita di una specie di raggio a virgola [figura 17] come se uno dei due raggi che si vedeano prima si fosse torto a spira. Piccola da principio e molto aperta questa appendice a spirale si andò sempre ingrandendo ed allungando fino al 22 ottobre in cui parea la sua punta quasi prossima a toccare il nucleo per richiudersi… E’ degno di osservazione che quest’ultima apparenza a foggia di virgola fu mostrata anche dalla cometa di Halley nel 1682 da Hevelius [figura 16]. Questi osservò getti di luce l’8 settembre in quella cometa ed è pure singolare che la produzione di tali getti combina colla massima vicinanza della cometa alla Terra ”. FIG. 16: La strana configurazione a “virgola” nella testa della cometa di Halley, osservata da Hevelius l’8 settembre 1682 (da: J. Hevelii, Annus Climactericus, p. 12, Danzica 1685). Pagina 66 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 R. Calanca, Cometografia, IIa FIG. 17: La “virgola” in prossimità del falso nucleo della cometa Donati, disegnata dagli astronomi del Collegio Romano il 19 ottobre 1858. Essa è del tutto simile a quella disegnata da Hevelius per la cometa di Halley nell’apparizione del 1682 e riportata in figura 16. Insomma, i gesuiti del Collegio Romano, con Secchi in testa, sospettano che, oltre al Sole, che indubbiamente esercita le principali azioni osservate sulla testa di una cometa, anche la vicinanza ai pianeti possa in un qualche modo influenzarne la forma, come sembrerebbe dimostrare la “virgola”, osservata prima nell’apparizione della Halley del 1682, e poi nella Donati dell’autunno del 1858. E’ certo che i pianeti non hanno nulla a che fare con il fenomeno osservato. E’ assai più probabile che la virgola sia stata prodotta dalle forze repulsive che, come abbiamo descritto nelle pagine precedenti, generano il fenomeno della “fontana di Bessel”, vista dalla Terra sotto una particolare prospettiva. Nella seconda metà di ottobre la cometa diminuisce di declinazione e si porta nello Scorpione, diventando più favorevole all’osservazione nell’emisfero australe. Il 22 ottobre, Donati da Firenze scrive che: “non vi era quasi più traccia di coda”. Rimane visibile fino al 4 marzo 1859: gli ultimi ad osservarla sono gli astronomi di Città del Capo. Si stima che sia stata vista al telescopio per 275 giorni e ben 112 giorni ad occhio nudo. Nelle Astronomische Nachrichten del 1865, volume 64, pp. 185-192, escono i calcoli orbitali, indipendenti, eseguiti da Georg William Hill (1838-1914) e Friedrich Emil von Asten (1842-1878). Hill, del Nautical Almanac Office, utilizza 1000 posizioni astrometriche della Donati ottenute tra il 7 giugno 1858 ed il 4 marzo 1859, ed ottiene così un’orbita ellittica con un periodo di circa 1950 anni. Invece, Von Asten, dall’Osservatorio di Bonn, si ferma alle osservazioni di Città del Capo del 18 febbraio 1859 e la sua orbita ellittica ha un periodo di 1880 anni. Recentemente (Astronomische Nachrichten, Vol.335, Issue 2, 2014, p. 135) l’astronomo argentino R.L. Branham ha calcolato una nuova orbita della cometa Donati, basata su 1036 posizioni in Ascensione Retta e 971 in declinazione, tra il 7 giugno 1858 3 il 5 marz0 1859, utilizzando tecniche molto avanzate di calcolo. L’orbita ellittica risultante ha un’eccentricità e = 0,996265, un semiasse maggiore a = 154,861 UA ed un periodo di 1927 anni; ha pure previsto il suo ritorno per l’anno 3759. In un dizionario enciclopedico di fine Ottocento si legge che: “Questa cometa è stata la più bella e la più rimarchevole non solo degli anni di cui ci occupiamo, ma eziandio di tutto il secolo; conciossiaché essa non la cedette in grandezza e splendore alle altre due del 1811 e del 1843, che erano le più celebri viste finora in questo secolo”. FIG. 18: Un raro stereogramma della cometa Donati (credito: Stuart Schneider). R. Calanca, Cometografia, IIa ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 67 FIG. 19: Il The Illustrated London News, nel numero del 25 settembre 1858 raffigura la cometa Donati vista dal parco che circonda l’Osservatorio di Greenwich. Alla cometa di Donati si attribuisce un “impatto” significativo sull’arte, la letteratura e sulla società in generale nella metà dell’Ottocento. Uno studio condotto da A. Gasperini, D. Galli e L. Nenzi, dell’Osservatorio di Arcetri, mostra chiaramente che la cometa ha ispirato pittori, anche di grande talento, poeti, scrittori, opere teatrali e satiriche, specialmente in Gran Bretagna e Francia e, nell’Estremo Oriente, in Siam e Giappone. Molte testate giornalistiche recepiscono il fascino e l’eccitazione che l’apparizione di questo astro produce nel grande pubblico. In Gran Bretagna The Illustrated London News (figura 19) dedica alla cometa alcune copertine, e così fanno anche Le Monde Illustrèe di Parigi, Harper’s Weekly e The New York Times negli Stati Uniti. Ma anche i giornali satirici diedero il loro contributo, Le Charivari (figura 20) e The Punch, con vignette caustiche e di grande effetto esilarante. Uno scrittore famoso come Jules Verne, nel 1877 , pubblica un romanzo che potremmo definire di proto-fantascienza, Hector Servadac, Voyages et Aventures à travers le Monde Solaire, (figura 21) chiaramente ispirato alla cometa Donati. Ma anche Charles Dickens, in Chips from the comet del 1858, scrive della cometa, come fa del resto Nathaniel Hawthorne (1804 – 1864) che nel settembre del 1858 è a Firenze, quando essa comincia a manifestarsi in tutto il suo splendore. Non possono certo mancare le celebrazioni dei poeti, più o meno ispirati che si sbizzarriscono sul tema. Tra questi il reverendo Alexander J.D. D’Orsey (1812-1894) con il suo roboante The great Comet of 1858 ed Henri Calland, La comète de 1858, che mette in versi il senso del mistero legato alla costituzione ed all’origine della cometa. Abbiamo già accennato ai pittori, specialmente di area britannica, che hanno raffigurato la cometa Donati. Tra essi spiccano William Turner (1775-1851), il pittore della luce, grande incisore e pittore romantico, specializzato in meravigliosi paesaggi e considerato un anticipatore dell’impressionismo. La sua cometa Donati (figura 6, a sinistra), un delicatissimo acquerello, è memorabile. Altrettanto delicato il paesaggio con cometa di James Poole (figura 6 a destra). Di tutt’altra natura la cometa su Pegwell Bay, nel Kent, (figura 22) del preraffaellita William Dyce (1806-1864) che cattura, sfumata, ma con crudo realismo la cometa nel cielo della sera. FIG. 20: Il caricaturista Honoré Daumier è l’autore di questa vignetta satirica, assai pungente, sulla cometa Donati, apparsa su Le Charivari, il giornale satirico parigino del 22 settembre. Il disegno è accompagnato dal seguente commento: “il signor Babinet è stato preavvertito dalla portinaia dell’arrivo della cometa”. Jacques Babinet (1794-1872), dell’Observatoire de Paris, preso di mira dalla satira, era uno dei è più famosi scienziati francesi. Pagina 68 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 R. Calanca, Cometografia, IIa FIG. 21: A sinistra il frontespizio del romanzo fantascientifico di Jules Verne del 1877, Hector Servadac; a destra, in una delle illustrazioni della prima edizione è raffigurata la cometa Donati. Dopo questa ampia digressione sulla cometa che ha dato tanta luminosa gloria a Donati, passiamo alla sua scoperta successiva, la quarta, avvenuta sei anni dopo la precedente, nella calda notte del 23 luglio 1864. La nuova cometa, allora designata come 1864 III (oggi: C/1864 O1), appare nella costellazione della Chioma di Berenice debole e con un diametro della testa di circa 2’. Donati ne dà notizia nelle Astronomische Nachrichten n. 62 dell’agosto di quell’anno, associando al proprio nome, in qualità di co-scopritore, anche quello di Carlo Toussaint, assistente presso l’Osservatorio fiorentino, del quale però ben presto si FIG. 22: William Dyce, la cometa Donati a Pegwell Bay, Kent, nel cielo della sera (all’interno del cerchio rosso). perdono le tracce (in una lettera di Donati degli inizi del 1865 al conte Ridolfi, direttore del Museo cittadino, si parla della precaria condizione professionale nella quale era costretto ad operare Toussaint, che probabilmente rinuncia all’incarico presso l’Osservatorio a causa del risibile trattamento economico). Il 30 luglio la cometa è osservata a Brera da Giovanni Virginio Schiaparelli (1835 – 1910), il quale, nella comunicazione alle solite Astronomische Nachrichten, scrive: “la cometa è assai difficile da osservare a causa della sua debole luminosità e della sua prossimità al crepuscolo. Essa si muove assai rapidamente verso sud, di modo che non la si potrà ancora osservare a lungo in questa sua prima parte dell’apparizione, prima della sua immersione nei raggi solari”. In quei giorni, anche Edmund Weiss (1837-1917) dell’Osservatorio di Vienna la descrive debole con un nucleo stellare di 5a magnitudine. Sempre a Vienna, l’astronomo e matematico Theodor von Oppolzer (184-1886) è di parere diverso: “La cometa non è poi così debole, rassomiglia infatti ad una nebulosa di prima classe, di moderata luminosità e mostra un’evidente condensazione centrale”. Con la definizione di “nebulosa di prima classe” von Oppolzer si riferisce alla terminologia utilizzata da William Herschel per il suo catalogo di nebulose. Nel frattempo, la cometa diventa invisibile nell’emisfero nord e R. Calanca, Cometografia, IIa si affaccia pertanto sui cieli meridionali. Il 30 Carl Wilhelm Moesta (1825-1884) un astronomo tedesco divenuto il primo direttore dell’Osservatorio Astronomico Nazionale cileno, comunica di aver osservato una piccola coda di 20’ che, nella successiva osservazione dell’8 settembre, sembra totalmente assente. Continua a seguirla in settembre (il 24 settembre ha un’elongazione dal Sole di appena 16°), ottobre e novembre. Nel mese di gennaio 1865 la cometa riappare nel cielo boreale ed uno dei suoi più attenti osservatori è l’astronomo tedesco Johann Friedrich Julius Schmidt (1825-1884), direttore dell’Osservatorio astronomico di Atene (figura 23). Il 19 gennaio descrive la cometa come veramente debole, con la coda curva, la chioma di 1° ed un nucleo di magnitudine 11. Due giorni dopo, la chioma gli appare di 2°. La sua ultima osservazione risale al 30 gennaio. L’ultimo a vedere la cometa è l’americano, di origine tedesca, Christian Heinrich Friedrich Peters (18131890) dall’Osservatorio dell’Hamilton College (NY, USA) che la osserva il 25 febbraio 1865. La prima orbita parabolica è calcolata da Carl Nicolaus Adalbert Krüger (1832-1896), direttore dell’Osservatorio di Helsinki, secondo il quale il passaggio al perielio è avvenuto l’11 ottobre 1864. Le orbite più ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 69 recenti sono state ricavate da von Asten (1866) e da F. Schröter nel 1906. Secondo il primo il periodo della cometa è di 2,8 milioni di anni; per il secondo, il periodo è di 55242 anni ed una eccentricità di 0,999358. Infine parliamo dell’ultima cometa scoperta da Donati il 9 settembre 1864 in Leo Minor, ed oggi nota con la sigla: C/1864 R1. E’ una cometa senza caratteristiche di rilievo che resta visibile per una quarantina di giorni, durante i quali non appare mai sufficientemente luminosa per l’osservazione ad occhio nudo. Un fatto curioso è che non c’è accordo unanime sulla data esatta della scoperta. Kronk, nella sua Cometography, indica il 10 settembre, ma è lo stesso Donati che fuga ogni dubbio nelle Astronomische Nachrichten n. 1493: “ho scoperto una nuova cometa, della quale ho fatto le seguenti osservazioni: 9 settembre 1864…”. La sua scarsa luminosità ne riduce il numero di osservazioni fisiche e morfologiche. Schiaparelli, dalla specola di Brera, la osserva il 13 settembre: “la cometa era appena visibile e assai difficile da osservare”. Con altre due osservazioni, Giovanni Celoria (1842-1920) calcola un’orbita parabolica approssimata, che pone il passaggio al perielio al 27 luglio (in realtà, calcoli successivi, più accurati, lo danno per il giorno successivo). L’ultima osservazione di questa debole cometa si è avuta il 20 ottobre 1864 dal parte di Augustin Reslhuber (1808-1875), direttore della specola Kremsmünster in Austria. Lorenzo Respighi Lorenzo Respighi (1824-1889) - figura 24 - nato a Cortemaggiore, Piacenza, nel 1854 ottiene la cattedra di astronomia all'Università di Bologna e, per quasi dieci anni, copre la carica di direttore del locale Osservatorio astronomico. Nel 1865 è nominato direttore dell'Osservatorio astronomico del Campidoglio a Roma. Tra le sue varie attività scientifiche è ricordato per i notevoli contributi allo studio della fisica solare. Di assoluto valore le sue ricerche spettroscopiche della cromosfera solare col metodo, da lui ideato, della fenditura allargata dello spettroscopio. Assiduo osservatore, scopre, a Bologna, nell’arco di appena due anni, ben tre comete. La prima, la C/1862 W1, la scopre il 28 novembre FIG. 23: Il rifrattore di 15cm dell’Osservatorio di Atene, utilizzato per decenni da Schmidt nelle sue osservazioni lunari, planetarie e di comete. Pagina 70 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 R. Calanca, Cometografia, IIa FIG. 24: Lorenzo Respighi, astronomo e matematico piacentino. 1862 che nelle Astronomische Nachrichten n. 1396 descrive così: “...ho trovato nella costellazione della Vergine una nebulosità di aspetto cometario… L’aspetto è quello di una nebulosità condensata al centro senza nucleo deciso, del diametro di oltre tre primi ed abbastanza splendente per essere visibile anche ai deboli cannocchiali”, resta visibile al cannocchiale per quasi tre mesi. Il 2 dicembre è osservata, indipendentemente, a Leipzig da Karl Christian Bruhns (1830-1881) che, la sera prima, ha scoperto la cometa C/1862 X1. A Roma, p. Secchi la osserva il 5 ed il 9 dicembre: “la cometa appare rotonda e assai luminosa al centro”. Ai primi di gennaio 1863 ha una grande declinazione australe (il 7 gennaio è a –79°) e torna ad essere visibile nel nostro emisfero in febbraio. L’ultimo ad osservarla, il 20 febbraio, bassa sull’orizzonte, è Bruhns dalla specola di Leipzig. Lo stesso Bruhns calcola la prima orbita parabolica e fissa il passaggio al perielio al 31 dicembre 1862. Più accurata quella determinata, sulla base di un più ampio periodo di osservazioni, da Rudolf Engelmann (18411888), secondo il quale la cometa è passata al perielio il 28 dicembre. Il 1863 è un anno fortunato per Respighi, scopre infatti altre due comete. Il 12 aprile è la volta della C/1863 G2, che al direttore delle Astronomische Nachrichten (n. 1410), descrive così: “Nel giorno 12 aprile ho trovato nella costellazione di Pegaso una bella cometa con traccia di coda… la cometa presentava un nucleo ben distinto, dello splendore di una stella di sesta grandezza, con coda abbastanza decisa per una lunghezza di circa 40’”. Respighi, da eccellente matematico, calcola una prima orbita parabolica approssimata con le osservazioni del 14, 16 e 18 aprile e determina il passaggio al perielio per il 20 aprile 1863. Oggi si ritiene che il perielio sia stato raggiunto il giorno dopo, 21 aprile. La sua terza ed ultima cometa, la C/1863 Y1, la scopre il 28 dicembre in Ercole. Il primo gennaio, in Germania, la rileva anche Karl Wilhelm Baecker (1819-1882) che per alcuni mesi risulta essere il titolare della scoperta anche sulle Astronomische Nachrichten (figura 25), la più importante rivista astronomica internazionale. Il 4 gennaio Bruhns la descrive così: “brillante e con una nebulosità rotondeggiante con una corta coda” e la stima, in piccolo telescopio, luminosa come una stella di 6-7 magnitudine. Nei giorni successivi è ritrovata anche da Franciszek Karlinski (1830-1906) a Cracovia, che stima le dimensioni della testa pari a 3-4’ ed un falso nucleo di magnitudine 8 e una coda di 30’ di lunghezza. L’ultima osservazione risale al 1° marzo 1864 ed è eseguita in Inghilterra da Herman Romberg nel Barclay Observatory a Leyton, Essex, con un rifrattore di Cooke di 18 cm. Secondo alcuni astronomi la cometa si muove su di un’orbita ellittica. Tra questi, Edmund Weiss (1837-1917) che suggerisce un’orbita con un periodo di 53 anni, molto simile a quella della famosa cometa del 1810. Accurati calcoli successivi, eseguiti nel 1869 dal giovanissimo Karl Wilhelm Friedrich Johann Valentiner (1845-1931), hanno invece consentito di accertare che essa percorre un’orbita parabolica. FIG. 25: Il n. 1464 delle Astronomische Nachrichten riporta le effemeridi della cometa 1863 V (C/1863 Y1) calcolate da Engelmann, dell’Osservatorio di Leipzig, che ne attribuisce la scoperta a Bäcker anziché a Respighi. R. Calanca, Cometografia, IIa Temistocle Zona Temistocle Zona (1848-1910), figura 26, nato a Porto Tolle, Rovigo, dopo una laurea in architettura all'Università di Padova diventa assistente volontario presso l'Osservatorio patavino dal 1868 al 1871. Nel 1880 diviene astronomo aggiunto all'Osservatorio di Palermo e, dieci anni dopo, direttore del medesimo Osservatorio, carica che mantiene fino al 1898. E’ ricordato soprattutto per le sue doti di paziente osservatore di comete, meteore ed eclissi. Zona, all’Osservatorio di Palermo, con il grande rifrattore Merz di 25 cm (figura 27), la notte del 15 novembre 1890 scopre nell’Auriga la cometa C/1890 V1 che dice: “è piuttosto luminosa!”. In realtà non è mai stata vista ad occhio nudo. La cometa è osservata per circa due mesi, fino al 13 gennaio. Un po’ tutti gli astronomi d’Europa e d’America la studiano con attenzione, anche con l’ausilio di alcuni dei maggiori telescopi dell’epoca. A Roma, il 16 novembre, Elia Millosevich (1848-1919) la stima di magnitudine 11,5 ma, il giorno successivo, a Vienna, Rudolf Ferdinand Spitaler (1849-1946) è più ottimista e la stima di magnitudine totale 8 mentre quella del falso nucleo gli appare di 9. Al Lick Observatory, nel periodo 18-20 novembre, il famoso astronomo Edward Emerson Barnard (18571923), al rifrattore di 30 cm, la stima di 12 a, rilevando però un falso nucleo assai mal definito. Al rifrattore di 15 cm dell’Osservatorio di Vienna, il 30 novembre, Johann Holetschek (1846-1923) descrive la cometa come una piccola nebulosità di magnitudine stellare 11. Il 3 e il 5 dicembre Antonio Abetti (1846-1928), a Padova, stima la condensazione centrale di 12 a ed un diametro di appena 0,33’. ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 71 FIG. 27: Il rifrattore Merz di 25cm dell’Osservatorio di Palermo in una fotografia ottocentesca (Crediti: Osservatorio INAF Palermo). L’ultima osservazione risale al 13 gennaio 1891 ed è stata effettuata a Kiel da Hermann Kobold (1858-1942) con un grande rifrattore di 46 cm: la cometa gli appare assai debole e probabilmente più debole della magnitudine 13. L’orbita definitiva della cometa è stata calcolata a Palermo da Adolfo Venturi (1852-1914), nel 1896, che scrive: “Appoggiandomi al massimo numero delle osservazioni fatte, le quali sono circa 120, ho calcolato l’orbita definitiva nel modo più attendibile. L’orbita poco diversa dalla parabola, è però una ellisse, con e = 0,995872 ed il passaggio al perielo il 6 agosto 1890”. In effetti, il confronto delle posizioni coi luoghi normali aveva dato errori di posizione inferiori a 1” sia in ascensione retta che in declinazione. FINE SECONDA PARTE FIG. 26: Ritratto di Temistocle Zona (crediti: Osservatorio INAF di Palermo). Rodolfo Calanca è direttore editoriale di ASTRONOMIA NOVA e responsabile delle attività culturali e scientifiche di EAN, https://drive.google.com/file/ d/0BxR VI4UFuL 2k b0 p uNU82OU hFeGs/ edit? usp=sharing Pagina 72 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 F. Manzini, 67P, polveri e getti UNA VISIONE DIFFERENTE DELLA COMETA 67P LE POLVERI E I GETTI Federico Manzini [email protected] Struttura meccanica di COSIMA (Cometary Secondary Ions Mass Analyser), lo spettrometro installato a bordo della navicella Rosetta che ha il compito di analizzare le polveri emesse dal nucleo della cometa . Con l'arrivo storico della navicella Rosetta dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA) presso la cometa 67P/ Churyumov-Gerasimenko, portato a termine il 6 Agosto 2014 dopo un viaggio lungo un decennio, si è aperto un nuovo modo di fare scienza innovativa vicino a questi mondi bizzarri. Rosetta ha iniziato la raccolta di polvere cometaria dalla chioma che circonda il nucleo della cometa con lo strumento COSIMA la domenica 10 agosto 2014 ad una distanza di circa 100 chilometri dalla 67P. COSIMA è un acronimo che sta per Cometary Secondary Ions Mass Analyser ed è uno degli 11 strumenti capolavoro di Rosetta che hanno una massa combinata di 165 kg. Il suo scopo è quello di condurre la prima analisi "in situ" dei granelli di particelle di polvere emesse dal nucleo cometario e determinare le loro caratteristiche fisiche e chimiche, in particolare se siano organici o inorganici. COSIMA raccoglierà la polvere della chioma con 24 “sensori obiettivo” appositamente progettati, il primo dei quali è stato aperto per studiare l'ambiente il 10 agosto. Poiché la cometa non è particolarmente attiva in questo momento, il team ha previsto di mantenere aperto il sensore per almeno un mese e verificare lo stato della raccolta di particelle su base settimanale. Il team di lavoro ha infatti definito in quel momento l'ambiente circostante come "ancora paragonabile ad un locale senza polvere di alta qualità". Tutti si aspettano che le cose cambino radicalmente quando il Sole si farà sempre più vicino e il riscaldamento diurno della superficie della cometa aumenti fino a che raggiunga il perielio in agosto 2015. I sensori di rilevazione misurano circa un centimetro quadrato e sono stati sviluppati dalla Universität der Bundeswehr in Germania. Sono composti da un piatto d'oro ricoperto di un sottile strato di 30 micron di nanoparticelle di oro ("Black Gold"), che dovrebbe rallentare e catturare le particelle di polvere cometaria che impattano con velocità fino a circa 100 m/s. L'obiettivo è illuminato da una coppia di LED per evidenziare le particelle di polvere che saranno poi analizzate dallo spettrometro di massa incorporato in COSIMA. COSIMA utilizza il metodo della spettrometria di massa di ioni secondari derivanti dalle polveri cometarie colpite da un fascio di ioni di indio che produce ioni secon- F. Manzini, 67P, polveri e getti ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 73 FIG. 1: Le immagini del campione analizzato da MIDAS target prima (sinistra) e dopo (destra) l’esposizione di Settembre 2014. L’immagine mostra solo una porzione di 80x80 µm del campo inquadrato (il campo intero misura 1.4x2.4 mm). A destra una indicazione della terza dimensione spaziale (altezza). FIG. 2: A fianco uno zoom del target esposto a novembre 2014: la polvere raccolta ha grandi dimensioni, raggiunge i 10 micron in larghezza ed è profonda almeno 7 micron. Le righe orizzontali sono dovute a difetto di lettura. Immagini delle figg. 1-2: Mark Bentley. dari dalla loro superficie. Lo spettrometro di massa ha la capacità di analizzare la composizione elementare in una gamma di masse atomiche da 1 a 4.000 unità di AM, può determinare abbondanze isotopiche di alcuni elementi chiave, caratterizzare componenti organiche o inorganiche e gruppi funzionali per informarci della chimica presente sulla cometa e, forse, alle origini del Sistema Solare. FIGG.3-4: L’immagine a sinistra è stata ripresa con una esposizione di meno di 1 secondo e mostra dettagli alla superficie cometaria. La ripresa sovraesposta ha invece una posa di 18.45 secondi per mettere in evidenza dettagli dei getti che sorgono dalla superficie. Le immagini sono state ottenute dalla camera OSIRIS il 20 ottobre 2014 ad una distanza di 7.2 km dalla superficie. Immagini: ESA/Rosetta/MPS OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA; Ove non specificato i trattamenti di elaborazione sono dell’autore. Pagina 74 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 F. Manzini, 67P, polveri e getti FIG. 5: Sezione presunta di un getto in emissione dalla superficie della cometa 67P. Sembra che il componente principale dell’emissione sia CO che trascina con se polveri e acqua, così come le osservazioni di altre comete hanno già messo in evidenza. (Phil Harris). I getti e gli streamers dal nucleo della 67P Le comete sono residui rimasti dalla formazione del Sistema Solare circa 5 milardi di anni fa. Quasi tutti gli scienziati oggi ritengono che abbiano portato una grande quantità di acqua sulla Terra e possono anche averla disseminata con molecole organiche, i mattoni della vita come noi la conosciamo. Ogni scoperta di molecole organiche e la loro identificazione con COSIMA sarà quindi una scoperta importante per informarci circa l'origine della vita sulla Terra. I dati ottenuti finora dagli strumenti di ripresa, VIRTIS e NavCam, su Rosetta mostrano una superficie della cometa molto scura e una crosta polverosa, addirittura più calda di quello che ci si sarebbe aspettati se fosse costituita da solo ghiaccio ricoperto di polveri. Il suo albedo, la percentuale di riflessione della luce incidente, è addirittura simile a quello del carbone, e in alcuni punti anche inferiore! FIGG. 6-7-7B:Confronto fra immagini ottenute da NavCam sulla sonda Rosetta rispettivamente il 19 settembre e il 20 novembre 2014; a distanza di due mesi la cometa 67P si è avvicinata al Sole di quasi 0.4 AU, da 3.33 a 2.94 AU. Con l’aumentare della radiazione solare incidente si sono “accesi” nuovi getti e nuove aree emissive su tutto il corpo cometario; l’area di maggiore attività permane però sempre nella regione del “collo” che unisce i due lobi, dove si osserva una grande quantità di polvere deposta al suolo. L’immagine in falsi colori rende con migliore evidenza la posizione delle aree emissive su tutto il corpo cometario. F. Manzini, 67P, polveri e getti ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 75 FIG. 8: Confronto delle “regioni pianeggianti” settentrionali sulla cometa 67P. Si tratta di riprese della NavCam su Rosetta del 19 settembre, 18 e 24 ottobre e 20 novembre 2014 (cortesia Bill Harris). Le emissioni dal nucleo cometario sono sempre più intense, ma non si riesce ancora ad individuare la loro provenienza; la linea di frattura sul “collo” non appare essere responsabile di questa attività. Quindi, come ogni corpo scuro (anzi, nero, nerissimo) assume calore dalla radiazione solare e lo cede verso le regioni sottostanti la superficie. E’ probabile che questa sia una delle ragioni per cui si sviluppano getti ed aree attive. La cometa di Rosetta, la 67P/Churyumov-Gerasimenko, comincia ora a mostrare un aumento ben visibile dell’attività alla sua superficie. FIG. 9: Confronto fra le 6 comete osservate da sonde inviate da Terra (Planetary Society). Pagina 76 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 F. Manzini, 67P, polveri e getti FIG. 10: A sinistra, immagine del 24 settembre 2014 di NavCam su Rosetta a confronto con la medesima ripresa (a destra) che riporta il reale albedo della cometa 67P. Al nostro occhio la cometa sarebbe più scura del carbone. Un altro confronto (qui sotto, fig. 11) per la misura dell’albedo propone immagini di Encelado, satellite di Saturno, della Terra, della Luna e della cometa 67P; quest’ultima è uno fra gli oggetti più scuri del Sistema Solare. L’albedo è la percentuale di luce solare riflessa da un corpo rispetto a quella incidente. FIG. 11 Negli ultimi mesi la maggior parte della polvere emessa dalla superficie del corpo sembrava provenire dalla regione del collo che collega i due lobi che costituiscono il corpo bilobato della 67P; nuove immagini ottenute dal sistema scientifico di ripresa OSIRIS mostrano ora getti di polvere lungo quasi tutta l'estensione della cometa. "A questo punto si ritiene che una gran parte della superficie illuminata della cometa possa visualizzare un certo livello di attività", dice Jean-Baptiste Vincent del Max Planck Institute for Solar System Research (MPS), in Germania. Nel corso delle ultime settimane, il team di OSIRIS ha assistito ad un cambiamento graduale ma qualitativo: "nelle prime immagini di questa FIG. 12: Ripresa del 24 ottobre da NavCam su Rosetta: appare evidente una sorta di “foschia estiva” che pervade quest’area della cometa 67P; è probabilmente dovuta a semplice sublimazione dal cryorock superficiale. estate si mostravano distinti getti di polvere che lasciavano la cometa, ed erano limitati alla regione del collo, ma ora nuovi getti appaiono anche sul "corpo" e sulla "testa" della cometa”. Attualmente, ancora più di 400 milioni di chilometri separano la nostra 67P dal Sole e, sulla base di una storia ricca di osservazioni dalla Terra, ci si aspetta che l'attività della cometa divenga notevole una volta che raggiunga una distanza di 300 milioni di chilometri dal Sole, il che avverrà verso la fine di marzo 2015. F. Manzini, 67P, polveri e getti ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 77 FIGG. 13-14: Nelle due immagini, la cometa 67P ripresa da Rosetta in avvicinamento, ad agosto 2014. I getti di materiale collimato che partono dalle regioni polari (lungo l’asse di rotazione del nucleo) sono molto evidenti, ma anche la chioma è già sufficientemente sviluppata nonostante la cometa fosse ancora ad oltre 3.5 AU dal Sole. Sono visibili anche alcune trame dovute al sensore CCD che il trattamento ha messo in evidenza. FIG. 15 (SOPRA): Il lobo più piccolo appariva proiettato verso la camera OSIRIS su Rosetta il 29 settembre 2014; parte del lobo non è illuminato dal Sole e quindi si trova in ombra, dove dovrebbe essere completamente buio. Nonostante ciò è visibile un pallido chiarore, ancora la “foschia estiva” dovuta allo scattering dalla polvere presente nella chioma interna della cometa 67P. FIGG. 16-17 (A DESTRA):La cometa 67P ripresa da NavCam su Rosetta il 14 dicembre 2014 da una distanza di 19.4 km dal centro del nucleo. Dalla grande area pianeggiante coperta da polvere sembra che si possano sviluppare getti o streamers di materiale. In tutta la zona si possono contare un gran numero di strutture circolari che non sono affatto crateri da impatto: potrebbero essere zone da cui sono fuoriusciti gas e polveri nel passato. Nella seconda immagine si osserva un ingrandimento dell’area centrale; la struttura circolare in centro al lato lungo in basso e ricolma di polvere ha un diametro di circa 70 Pagina 78 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 F. Manzini, 67P, polveri e getti FIGG. 18-19-20: Immagini di NavCam del 9 dicembre 2014. I contrasti sono stati accentuati per mettere in evidenza le zone emissive della cometa 67P. Il lobo più piccolo è a destra nelle immagini. La ripresa in falsi colori mostra la struttura di due getti il cui asse è ben collimato. Holger Sierks, principal investigator di Osiris all’MPS, dice che: "essere in grado di monitorare queste emissioni per la prima volta così da vicino, darà una visione molto più dettagliata di ciò che avviene su un corpo cometario". Il team di lavoro vuole ora ricavare dalle immagini di OSIRIS una migliore comprensione dell’evoluzione dell'attività cometaria e dei processi fisici che la ingenerano. In circostanze normali la luminosità del nucleo cometa- rio eclissa quella dei getti, quindi le immagini necessarie per questo studio devono essere drasticamente sovraesposte. Chiaramente una immagine da sola non può raccontare tutta la storia, così con una unica immagine non si può stabilire con esattezza dove sorge un getto alla superficie della Churyumov-Gerasimenko. Bisogna invece confrontare immagini della stessa regione prese da angolazioni diverse per ricostruire la struttura tridimensionale dei getti. FIG. 21: Ci sono segni di modificazioni del terreno sulla cometa 67P tanto più passa il tempo. Le immagini di NavCam, rispettivamente del 2 ottobre (a sinistra) e del 9 dicembre 2014 (a destra), mettono in evidenza un’area che sembra sprofondare in un buco con parete circolare. La risoluzione delle immagini del 9 dicembre è di 1.45 m/pixel; una misura approssimativa della nuova formazione fornisce un valore di circa una ventina di metri di diametro (cortesia di Bill Harris). F. Manzini, 67P, polveri e getti ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 79 FIGG. 22-23: La stessa zona delle foto di figura 21, dove è messa in risalto la struttura semicircolare (indicata dalla freccia nella foto a destra) che ha un diametro di una ventina di metri. Molte altre strutture stanno modificandosi nel tempo, in particolare in questa zona delle “pianure settentrionali” che sono responsabili dell’emissione dei getti polari. Mentre l'attività complessiva della 67P è chiaramente in aumento, il sito di atterraggio di Philae designato sulla "testa" della cometa sembra essere ancora piuttosto tranquillo. Tuttavia, vi è qualche indicazione che nuove aree attive si stanno svegliando a circa un chilometro dell’altra zona di atterraggio che era stata designata come J. Al momento sono apparsi pochi studi di coloro che stanno lavorando sul fenomeno dei getti e degli streamers forse perché non vi è ancora la diretta percezione da dove possano nascere. Con ogni evidenza, però, ove si trova della polvere vi dovrebbero essere getti in uscita: la polvere più pesante tende a “decantare” sul corpo cometario (anche se la gravità è solo di 1/10000 di quella terrestre, 100kg = 1g), mentre micropolveri e corpuscoli di minori dimensioni e più leggeri seguono il movimento dei gas eiettati nei getti e vengono lanciati nello spazio a velocità che si sono misurate fino a 700 m/s. Resta anche da capire un fenomeno che tocca tutte le comete: come possono questi getti rimanere collimati non solo a distanze di qualche chilometro (paragonabili a quelle del nucleo cometario), ma anche a migliaia di chilometri tanto da poter essere visti e studiati da Terra? Qual è la loro origine e natura? C’è chi ha pensato anche ad una fenomenologia correla- ta con l’elettricità; insomma, per dirla con Feynman, per tutti questi “la gravità non è sufficiente”. Vi è però anche chi ha proposto i getti come risultato di fenomeni chiamato “fuoco di S. Elmo”, causati da scariche coronali in un ambiente altamente ionizzato, oppure ancora qualcosa correlato ad elettricità statica. In modo più semplice il tutto potrebbe invece avvenire per effetto di sublimazione che accelererebbe le polveri e i gas. Insomma, le teorie sono tante per ora, ma nessuna sta facendo “centro” tant’è che sul blog di Rosetta sono moltissimi coloro che si succedono con analisi più o meno valide, ma nessuna di queste ha riscosso successo totale. Prima di fare ulteriori passi esplicativi, questa 67P va guardata con occhio “a 360°”, tenendo presente tutto ciò che si conosce dei suoi parametri fisici; ad esempio quello che riguarda la sua densità che pare perfettamente allineata con il valore medio di 0.6 g/cm3 calcolato anche per altre comete. Questo parametro dimostra come essa sia un aggregato molto vuoto: pesa addirittura meno dell’acqua e del ghiaccio! Potrebbero quindi essersi create cavità ripiene di gas al suo interno, in particolare di CO, che a seguito di riscaldamento inizi ad espandersi fino a trovare una via di uscita alla superficie, dove veicolerebbe anche la polvere in una sorta di grande geyser. Pagina 80 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 F. Manzini, 67P, polveri e getti Modelli sviluppati a computer a seguito di precedenti flyby con comete spiegano come getti collimati potrebbero essere prodotti da una sublimazione nel sottosuolo, passando attraverso uno strato superficiale poroso a piccola granulosità; un paragone potrebbe essere fatto con un liquido che passa attraverso un filtro e viene collimato in un flusso centrale. Osservando da dove i getti provengono sul lobo cometario più grande, appare evidente come sembrano provenire dalle vaste pianure di polvere presenti su quella parte della 67P. Le immagini potrebbero suggerire che i crateri tondi presenti (ora solo come residui di crateri) abbiano agito per collimare grandi aree di sublimazione. Come i getti di polvere divengano visibili dipende anche da un ulteriore fattore: le condizioni geometriche dell’osservazione. Molti studiosi hanno fatto notare che solo quelli con il corretto angolo di illuminazione saranno visibili; quindi ci potrebbero essere molti più streamers superficiali, ma non possono essere visti in tutte le immagini della camera NavCam di Rosetta da ogni angolazione. La sublimazione dalle aree esposte, che in inglese vengono dette cryorock, sembra apparire sotto forma di un velo di foschia a basso livello che scivola lentamente dalla superficie nella chioma cometaria. Studiando le immagini NavCam a meno di 10 km dalla superficie della 67P, molte superfici esposte sono visibili come attraverso una sorta di "foschia di calore"; ma c’è però poca polvere per renderla visibile, solo quella che sarebbe presente all'interno del cryorock e rilasciata per sublimazione dalla matrice ghiacciata. La forma e il colore Stimando l’emissione dei getti in termini di decine di tonnellate di materiale per orbita, non ci si può quindi sorprendere se il vettore di spin non sia costante, in poche parole, se la direzione dell’asse di rotazione cambi nel tempo. Questi getti potrebbero avere qualche effetto anche sui parametri orbitali e su quelli fisici del nucleo. L’accelerazione nella rotazione è attualmente un fenomeno usato per spiegare il numero piuttosto consistente di asteroidi binari che si incontrano. Un ulteriore meccanismo previsto lega l'illuminazione solare con l’ assorbimento e con l’emissione termica: la differenza temporale tra assorbimento e successiva emissione termica provoca una coppia, accelerando la rotazione già esistente fino al punto in cui le forze centrifughe superano la coesione asteroidale. Sarebbe un po' come prendere un oggetto già a forma bilobata, facendolo ruotare sempre più velocemente intorno alla strozzatura centrale, fino a quando uno dei due lobi si distacca. Visto che 4 comete su 6 osservate da vicino da sonde terrestri hanno forma bilobata, è probabile che questa sia una struttura piuttosto comune fra questi oggetti. I dati precedenti sono surrogati anche dalle analisi di Zednek Sekanina che indicherebbero la presenza presso la cometa Hale-Bopp di un suo satellite; il fatto potrebbe essere più che realistico, visto che Federico Manzini, Roberto Crippa, Cesare Guaita e Virginio Oldani avevano trovato una possibile precessione dell’asse di rotazione studiando le strutture della chioma interna derivanti dall’espansione dei getti. Anche la superficie oltremodo scura della 67P potrebbe giocare a favore della teoria della sublimazione e avere una qualche importanza per l’individuazione dei luoghi ove possa esserci remissività più o meno imponente, ma come si diceva prima, molti dubbi possono ora essere sollevati per qualunque teoria si voglia oggi avanzare. Bisognerà comunque aspettare ancora qualche mese e ottenere una maggiore quantità di dati da Rosetta per riuscire ad aggregarli in maniera convincente. Federico Manzini, laureato in Fisica, appassionato da sempre di astronomia, ha scritto migliaia di articoli scientifici e divulgativi, apparsi su tutte le maggiori riviste astronomiche italiane e straniere. Da decenni è uno degli esperti più conosciuti in Italia per le sue rubriche che parlano di tecnica di osservazione e di strumentazione astronomica. E' stato tra i primi, negli anni Novanta, ad utilizzare le camere di ripresa CCD. A. Villa, transiti autunno 2014 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 81 TRANSITI DI PIANETI EXTRASOLARI, ALL’OSSERVATORIO DI LIBBIANO, DURANTE L’AUTUNNO 2014 Alberto Villa [email protected] Una rappresentazione artistica di KELT-1b (credito: Julie Turner, Vanderbilt University) Anche l'autunno 2014 è stato produttivo per l’Associazione AAAV e per l’Osservatorio di Libbiano, www.astrofilialtavaldera.it/, in particolare grazie ad alcune buone osservazioni di transiti extrasolari. Negli scorsi numeri 18 e 19 di Astronomia Nova abbiamo illustrato i risultati conseguiti nella ripresa di più serie di transiti che qui proseguiamo, corredandoli con brevi commenti. 3 ottobre 2014: KELT-1b KELT-1b è stato scoperto nel 2012 dal Kilodegree Extremely Little Telescope (or KELT) in Arizona (uno dei due telescopi del complesso, l'altro è in Sud Africa). Questo pianeta, con una massa pari a 27 volte quella di Giove (e con diametro di appena 1,1 Giove, con una temperatura di 2400 °C), è il più massiccio finora scoperto (di fatto, si tratta di una nana bruna) che orbita attorno ad una stella in Andromeda di magnitudine V = 10,7, tipo spettrale F5, distante da noi 260 parsec. Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 (con ostruzione di 40 cm, per ridurre la luminosità della stella), camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1, 1024 x 1024 pixels (alla temperatura di -20° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 80 secondi, per complessive 144 immagini, con intervalli di 5 secondi. Fortunatamente il cielo è rimasto sereno per tutta la durata delle riprese. L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle 20:30:46 T.U., la fine alle 00:10:13 T.U. del 4 0tt0bre. La curva di luce risultante (fig. 1), è di buona qualità, con un DQ probabile di 3 (Data Quality, secondo la definizione della Czech Astronomical Society, http:// var2.astro.cz/ETD/index.php). Dalla curva si può stimare che il raggio del pianeta è leggermente sovrastimato del 9%, mentre l’inclinazione del piano orbitale misurata, è minore di 5° rispetto al valore normalmente accettato. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Dario Ciurli, Flavia Casini, Silvia Gingillo and Lorenzo Bigazzi. 2 e 23 novembre 2014: WASP-52b WASP-52b è un gioviano caldo scoperto all’Osservatorio SuperWASP-North, a La Palma, costituito da 8 teleobiettivi Canon da 200 mm, f/1,8 (fig. 2), Pagina 82 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 A. Villa, transiti autunno 2014 FIG. 1: Grafico del transito di Kelt-1b del 3-4 ottobre 2014. accoppiati a camere CCD 2048x2048; il campo celeste coperto da ognuno dei sistemi di ripresa è 7,8°x7,8°. La stella ospite, WASP-52, in Pegaso, è di tipo spettrale K2V, V = 12; ed ha una temperatura di 5000 °K e una massa di 0,9 volte quella solare. Dista da noi 140 pc. Il pianeta, un gioviano caldo, orbita in un giorno e 18 ore, ed ha un raggio 1,3 volte Giove. Il transito del 2 novembre è stato ripreso, come al solito, con il telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6, senza filtri e senza ostruzione. Integrazioni singole di 60 secondi, per complessive 146 immagini, con intervalli di 5 secondi. Anche quella notte è stata serena per tutta la durata delle riprese. L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle 17:28:57 T.U., la fine alle 20:17:09 T.U. del 2 novembre. La curva di luce risultante (fig. 3), è di buona qualità, con un DQ probabile di 3. Dalla curva si desume che il raggio del pianeta è leggermente sovrastimato del 4%, mentre l’inclinazione del piano orbitale misurata è pressoché coincidente con il valore normalmente accettato in letteratura. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Valerio Menichini, Flavia Casini and Mimmo Belli. La notte del 23 novembre abbiamo ripetuto l’osservazione di un transito di WASP-52b al telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6. Integrazioni singole di 60 secondi, per complessive 150 immagini. Cielo sereno con rapido passaggio di nubi leggere stratificate. FIG. 3: Curva del transito di WASP-52b del 2 novembre 2014. FIG. 2: Il sistema di ripresa SuperWASP-North, a La Palma, costituito da 8 teleobiettivi Canon da 200 mm, f/1,8 con camere CCD 2048x2048, con il quale sono stati scoperti gli esopianeti della serie WASP. A. Villa, transiti autunno 2014 FIG. 4: Curva del transito di WASP-52b del 23 novembre 2014. L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle 17:29:52 T.U., la fine alle 20:10:44 T.U. del 23 novembre. La curva di luce risultante (fig. 4), è di buona qualità, con un DQ probabile di 3. Dalla curva si desume che il raggio del pianeta è leggermente sovrastimato, come nella precedente osservazione del 2 novembre, del 4%, mentre l’inclinazione del piano orbitale misurata è pressoché coincidente con il valore normalmente accettato in letteratura. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Flavia Casini, Mimmo Belli, lorenzo Bigazzi e Silvia Gingillo. ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 83 Nel 2009 Shu-lin Li, dell'Università di Pechino, scoprì che il pianeta WASP-12b differisce per il 10% da una sfera, in pratica una sorta di "ovoide". Infatti, a causa della sua estrema vicinanza alla sua stella, esso è soggetto a forti effetti mareali. Shu-lin Li conclude che la dissipazione del calore generato nello strato convettivo del pianeta dalla deformazione mareale sia la principale fonte dell'energia che mantiene il pianeta espanso oltre le previsioni basate sul solo calore di irraggiamento. L'astronomo cinese prevedeva inoltre che la stella stesse cannibalizzando il pianeta, come si vede in questa rappresentazione artistica. 8 dicembre 2014: WASP-12b WASP-12b, scoperto nel 2008, appartiene alla classe dei pianeti gioviani caldi. La sua atmosfera è estremamente estesa, pertanto il pianeta è uno dei meno densi conosciuti (la classe di questi pianeti è nota come 'puffy planets'). Esso impiega poco più di un giorno a orbitare attorno alla propria stella, rendendolo così parte anche della classe dei pianeti a periodo ultracorto. Dista dalla stella Confronto tra le dimensioni di Giove e di WASP-12b Pagina 84 ASTRONOMIA NOVA n.20/2014 A. Villa, transiti autunno 2014 FIG. 5: Grafico del transito di WASP-12b dell’8 dicembre 2014. solo 1/44 della distanza tra Terra e Sole e possiede un'eccentricità simile a quella di Giove. Con un raggio di 1,7 volte Giove, il pianeta, al momento della scoperta era il più grande conosciuto, nonché il più caldo mai scoperto con i suoi 2516 °K nel lato diurno. Inoltre, era il terzo pianeta meno denso, con una densità del 24% di quella gioviana, preceduto solo da OGLE-TR-10 b e WASP-1 b. Il transito dell’8 dicembre è stato ripreso, come al solito, con il telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6, senza filtri e senza ostruzione. Integrazioni singole di 60 secondi, per complessive 257 immagini. Cielo sereno con Luna piena a pochi gradi di distanza da WASP-12b. L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle 00:41:18 T.U., la fine alle 04:18:55 T.U. dell’8 dicembre. Un’altra rappresentazione artistica di WASP-12b (in arancio), che mostra la sua forma ovoidale. Tra il 24 e il 25 settembre 2009 il telescopio spaziale Hubble ha osservato WASP-12 b usando il Cosmic Origins Spectrograph (COS) con una precisione senza precedenti, e dai dati raccolti si sono dedotte evidenze della distruzione del pianeta da parte della stella e del disco di gas strappato a quest'ultimo, confermando così lo studio dello scienziato cineseShu-lin Li . L'espansione dell'atmosfera infatti è così pronunciata che l'esosfera del pianeta fuoriesce dalla sfera di influenza gravitazionale del pianeta, il lobo di Roche, e ricade in quella della stella, andando così a formare un disco di gas attorno a questa. La NASA stima che il pianeta abbia 10 milioni di anni di vita residua. La curva di luce risultante (fig. 5), è di buona qualità, con un DQ probabile di 3. Dalla curva si desume che il raggio del pianeta è leggermente sovrastimato dell’8%, mentre l’inclinazione del piano orbitale misurata è in difetto di 1,5°. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Flavia Casini, Lorenzo Bigazzi e Silvia Gingillo. Alberto Villa è Presidente della AAAV - Associazione Astrofili Alta Valdera di Peccioli (PI), nell’ambito della quale è responsabile delle sezioni “Spettrografia”, “Eclissi” e “Pianeti extrasolari”. Osserva dall' Osservatorio “Galileo Galilei” del Centro Astronomico di Libbiano. L. Strabla et al., variabile ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 85 CRONISTORIA DELLA SCOPERTA DI UNA NUOVA VARIABILE PRESSO L’OSSERVATORIO DI BASSANO BRESCIANO Luca Strabla, Ulisse Quadri, Roberto Girelli La stella variabile scoperta il 9 marzo 2014. A destra, l’Osservatorio astronomico di Bassano Bresciano La notte del 9 marzo 2014 il telescopio Schmidt dell’Osservatorio di Bassano Bresciano era impegnato nella ripresa del pianetino (891) Gunhild allo scopo di ottenere la curva di luce finalizzata alla determinazione del suo periodo di rotazione. Per questo tipo di ricerca l’oggetto viene ripreso in automatico per tutta la durata della notte ottenendo, in genere, poco più di 200 immagini con esposizione di 2 minuti. Prima del crepuscolo mattutino la sequenza si interrompe e vengono ripresi (sempre senza intervento umano) i frames dei dark e dei flat. Il telescopio viene gestito dal software “Polypus” ,di nostra realizzazione, che provvede al completo automatismo del telescopio e della cupola. La determinazione della curva di luce e del periodo del pianetino, che spesso richiede più di una sessione osservativa, viene ottenuta con i software MPO Canopus e Peranso. Può accadere che, nei campi attraversati dagli asteroidi, siano presenti altri oggetti interessanti come variabili a corto periodo non ancora scoperte e catalogate. Questo è avvenuto per le immagini del 9 marzo: esami- nandole con l’ utility VSC (Variable Star Search) del software Canopus, abbiamo notato che una stella di 14ma magnitudine alle coordinate R.A 11h 51m 40.90s Dec .+21° 01’ 55.1” presentava una variazione di luminosità molto interessante Di conseguenza abbiamo programmato di riosservare questa stella nelle notti successive: sera dopo sera appariva sempre più evidente la sua variabilità. Come abbiamo potuto appurare in seguito, dall’analisi della curva di luce, abbiamo scoperto (fig. 1) che si tratta di una variabile ad eclisse di tipo EB. Ricordiamo che la curva di luce di una binaria ad eclisse è caratterizzata, per alcuni tipi (EA), da estesi intervalli di luminosità praticamente costante, con cadute periodiche di intensità, per altri la luminosità non è mai costante (EB,EW). Un controllo nel sito del VSX (Variable Star Index) dell’ AAVSO e GCVS (General catalogue of Variable Stars) escludeva la presenza di variabili già catalogate nella posizione della nostra stella. Il passo successivo è stato quello di determinare i parametri fondamentali della stella necessari per la sua catalogazione come variabile: Pagina 86 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 L. Strabla et al., variabile FIG. 1: Scoperta della variabile tramite l’ utility “variable star search” di MPO Canopus Periodo Ampiezza Epoca Con il termine periodo intendiamo lo spazio di tempo che riporta alla medesima fase un fenomeno che si ripete sempre con regolarità. Con ampiezza, intendiamo la variazione indicata dalla differenza tra il valore massimo e il valore minimo raggiunto dalla curva. Infine, con epoca, indichiamo la data di partenza, espressa in giorni giuliani, che va usata per il calcolo dei minimi successivi. FIG. 2: Primo studio della curva di luce L. Strabla et al., variabile ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 87 FIG. 3: Sessioni osservative delle singole notti. Sotto, Curva di luce e periodo tratti dal sito del Catalina Observatory (CRTS) Pagina 88 ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 L. Strabla et al., variabile FIG. 4: Curva di luce combinata, tra le nostre osservazioni e quelle del Catalina Observatory (CRTS) Dapprima abbiamo scaricato dal sito del CATALINA SURVEY le misure fotometriche della variabile che, in questo caso, vanno da Aprile 2005 fino a Giugno 2013, fig. 3, la cui curva esibisce un periodo di 0.409822 giorni. Le abbiamo aggiunte alle nostre mediante il software Canopus, ottenendo la curva in fig. 4. Abbiamo così ottenuto un periodo combinato, allo scopo di migliorarne la precisione, di 0.409824 giorni. A questo punto, grazie all’aiuto di Lorenzo Franco del Balzaretto Observatory, i dati sono stati elaborati me- diante Peranso per la determinazione dell’ampiezza e dell’epoca, che sono risultate rispettivamente di 0.22 magnitudini e 09 Mar 2014 (HJD 2456726.36730), fig. 5. Una volta determinati i parametri fondamentali, è iniziata la pratica di sottomissione al sito VSX dell’ AAVSO che ha richiesto un notevole scambio di corrispondenza con Sebastian Otero (che si occupa di refertare le proposte di nuove variabili) che qui ringraziamo per il supporto che ci ha fornito fino a giungere all’approvazione FIG. 5: Curva di luce finale ottenuta mediante il software Peranso. L. Strabla et al., variabile ASTRONOMIA NOVA n. 20/2014 Pagina 89 CARTA D’IDENTITA’ DELLA VARIABILE (VSX-AAVSO) A seguito di questa prima scoperta l'Osservatorio ha dato inizio ad una campagna osservativa finalizzata alla ricerca di nuove stelle variabili a corto periodo in un ambito compreso tra le magnitudini 13.5 e 15.5. Questo progetto osservativo denominato "Variable star Search Project for Automated telescope " (VeSPA): è una survey fotometrica CCD dell'emisfero Nord che ha lo scopo di scoprire stelle variabili non ancora conosciute. Alla data della pubblicazione di questo articolo ne sono già state scoperte 22. Per maggiori informazioni consultate il sito dell’ Osservatorio al seguente link: www.osservatoriobassano.org Desideriamo ringraziare particolarmente l’Amico Lorenzo Franco del Balzaretto Observatory di Roma per l’ausilio fondamentale che ci ha fornito durante tutta la fase di sottomissione dei dati al VSX dell’ AAVSO. Ulisse Quadri (a sinistra) è insegnante di scuola elementare, Luca Strabla (al centro) software engineer presso una ditta di automazione industriale e Roberto Girelli è medico del lavoro. Insieme hanno collaborato alla realizzazione dell'Osservatorio Astronomico di Bassano portando ciascuno le proprie competenze. Ora, dopo un ventennio di collaborazione, stanno mettendo a frutto le esperienze e le capacità acquisite per svolgere vari tipi di ricerca utilizzando i due telescopi robotici dell'osservatorio.