EAN– European Astrosky Network
n. 20/2014
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© EAN 2014
ASTRONOMIA & INFORMAZIONE
SOMMARIO
C. De Angelis, M. Romagnoli, La fotonica nell’anno della luce 2015,
p. 04
C. Ruscica, Gli oggetti vaganti ‘identificati’,
p. 09
M. Marelli, Blu Nobel,
p. 14
S. Ossicini, L’aureola della gloria. Huygens, Newton e la natura della luce,
p. 18
M.U. Lugli, La costellazione della Vergine e Spica, la stella dell’EXPO 2015 ,
p. 21
S. Covino, Comete, spese e PIL,
p. 25
M. Cardaci, Le macchie solari le ha scoperte… Pincopallo,
p. 31
M. Dho, Citizen Science: la protagonista di un prossimo libro,
p. 37
M. Cardaci, Macchie, ombre e alieni,
p. 45
P. Bacci, Il frammento B della cometa C/2011 J2 (LINEAR),
R. Calanca, Cometografia italica, (seconda parte)
p. 50
p. 57
F. Manzini,Una visione differente della cometa 67P: le polveri e i getti,
p. 72
A. Villa, Transiti di pianeti extrasolari all’Osservatorio di Libbiano. Autunno 2014,
p. 81
U. Quadri, et al., Cronistoria della scoperta di una nuova stella variabile,
p. 85
Pagina 2
ASTRONOMIA NOVA
n. 20/2014
REDAZIONE
Direttore editoriale: Rodolfo Calanca, [email protected]
Co-direttore: Angelo Angeletti, [email protected]
Redattore responsabile: Manlio Bellesi, [email protected]
Redattore: Lorenzo Brandi, [email protected]
Responsabile dei servizi web: Nicolò Conte [email protected]
Luogo e data di pubblicazione:
La webzine Astronomia Nova è pubblicata a Medolla (MO) in Via A. Gramsci 7, il 18 gennaio 2015
In copertina: Immagine di Cristian Fattinnanzi della cometa C/2011 W3 Lovejoy del 13 gennaio 2015,
3 pose da 2 minuti in sequenza, obiettivo da 400mm f2,8 e reflex Canon 5D Mark3 ad 800 ISO.
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PROGETTI EAN
ASTRONOMIA NOVA
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EDITORIALE A CURA DELLA REDAZIONE EAN
Ecco un altro numero molto ricco della nostra webzine!
Ancora una volta, gli argomenti sui quali ci siamo soffermati sono, in primo luogo, l’Anno Internazionale
della Luce ed argomenti affini, con gli articoli di De Angelis, Romagnoli, Marelli, Ossicini, senza dimenticare l’EXPO 2015, con l’articolo di Lugli che ci racconta la storia, il mito ed il catasterismo della Vergine
e di Spica, che deve essere considerata, a pieno diritto la stella dell’EXPO.
Naturalmente non potevano mancare contributi all’impresa di Rosetta sulla cometa 67P. Segnaliamo il
bell’articolo, riccamente illustrato, di Manzini, che mette in evidenza le zone della superficie della cometa
dalle quali fuoriescono polveri e gas: le immagini son davvero straordinarie ed appositamente elaborate
dall’autore. Consigliamo inoltre la lettura del contributo di Covino, che, in modo brillante e preciso, risponde alle critiche mosse da più parti, sui costi, ritenuti eccessivi e non giustificati, della missione Rosetta.
Un altro argomento, presentato da Ruscica, e che diventerà di drammatica attualità tra non molti anni, è
la crescita, quasi esponenziale, del numero dei detriti spaziali artificiali che orbitano intorno al nostro
pianeta, autentici proiettili con potenzialità devastanti per tutte le future imprese spaziali.
Poi, in ordine sparso, i contributi di Cardaci sulle macchie solari e la loro storia osservativa; la descrizione del frammento B della cometa C/2011 J2 (LINEAR) osservato in numerosi Osservatori, soprattutto
italiani, che Bacci ha studiato, valutandone la velocità di distacco dal nucleo.
Proseguendo: la cronistoria della scoperta di una interessante variabile, avvenuta all’Osservatorio di Bassano Bresciano; l’osservazione di alcuni transiti extrasolari all’Osservatorio di Libbiano (i precedenti rapporti osservativi, sempre a cura di Villa, sono riportati nei precedenti nn. 18 e 19 di Astronomia Nova).
Di particolare rilievo perché, almeno in Italia, si tratta di una novità assoluta, l’articolo di Dho sulla
Citizen Science in rapporto all’astronomia. Questo contributo di Dho annuncia l’uscita, nel 2015, di un
suo libro che farà il punto sulle più recenti ed evolute tecnologie e tecniche osservative in ambito astronomico. Il libro costituirà lo strumento più utile ed aggiornato, su questo argomento, in lingua italiana.
Infine, ricordiamo la seconda parte dell’articolo sugli scopritori italiani di comete, scritto dal nostro direttore: un contributo storico che mancava e che arriverà, con la terza parte, fino ai giorni nostri.
LA REDAZIONE DI ASTRONOMIA NOVA
Da sinistra: Rodolfo Calanca, Angelo Angeletti, Manlio Bellesi, Lorenzo Brandi, Nicolò Conte
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ASTRONOMIA NOVA
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C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica
LA FOTONICA NELL'ANNO DELLA LUCE 2015
Costantino De Angelis1*, Marco Romagnoli2
1Dipartimento
di Ingegneria dell'Informazione,
Università degli Studi di Brescia, Brescia 25123, Italy
2CNIT
National Laboratory of Photonic Networks, 56124 Pisa, Italy
*[email protected]
Nell'Anno internazionale della Luce e delle tecnologie
basate sulla Luce, vogliamo qui fornire una rapida panoramica sul settore della fotonica per ricordare le
principali scoperte scientifiche e le rivoluzioni tecnologiche la cui reale portata innovativa, anche dal punto
di vista sociale, ci è ancora in parte sconosciuta.
Il 20 dicembre 2013, l'Assemblea Generale delle Nazioni
Unite ha proclamato il 2015 Anno internazionale della
Luce e delle tecnologie basate sulla Luce (International
Year of Light, IYL 2015, http://www.light2015.org).
Dopo la pietra miliare della invenzione della sorgente
laser [1, 2, 3], a partire dai primi anni sessanta e da allora in modo sempre più forte e condiviso nella comunità
scientifica internazionale, il termine fotonica è stato
introdotto per fare esplicito riferimento a tutte le applicazioni tecnologiche della luce nella regione spettrale
che, a partire dall'ultravioletto, arriva fino al lontano
infrarosso, includendo tutte le onde elettromagnetiche
visibili all'occhio umano.
Il termine fotonica deriva dalla parola fotone che a sua
volta deriva dal greco φῶς che significa luce e che viene
usata per indicare il quanto di energia della radiazione
elettromagnetica. Nell'anno internazionale della luce, il
sogno della comunità scientifica internazionale è di contribuire a fare sì che il 21-esimo secolo possa essere per
il fotone quello che il 20-esimo secolo è stato per l'elettrone. Il mercato globale della fotonica oggi è stimato
attorno ai 300 miliardi di euro, con un ruolo importante
giocato dagli stati della Unione Europea che si conquistano mediamente il 20% del mercato complessivo, raggiungendo punte del 45% in alcune particolari tecnologie fotoniche abilitanti.
Dal punto di vista tecnico si può dire che oggi si parla di
fotonica ogni volta che si ha a che fare con la generazione, l'emissione, la trasmissione, la modulazione, la commutazione, l'amplificazione e la rivelazione della luce.
Un ambito importantissimo nel quale la fotonica si impone oggi per le fondamentali ricadute tecnologiche è
quello delle nanotecnologie e delle relative applicazioni.
Gli importanti risultati ottenuti negli ultimi anni dalle
nanotecnologie consentono infatti di avere a disposizione processi di fabbricazione in grado di controllare su
scala nanometrica la produzione di strutture guidanti e
la deposizione di film e particelle su substrati dielettrici.
Ciò ha permesso di progettare dispositivi che non erano
nemmeno lontanamente immaginabili fino a pochi anni
fa. Si pensi alle moderne fibre ottiche microstrutturate
(un esempio è riportato in figura 1) e alle loro vastissime
applicazioni: grazie alla ingegnerizzazione di queste guide ottiche, la generazione di luce bianca coerente confinata in una fibra ottica singolo modo è divenuta una
realtà realizzabile con un semplice apparato sperimentale e ciò ha permesso di ottenere risultati pionieristici nel
campo della metrologia [4, 5].
FIG. 1: Immagine SEM di una fibra ottica microstrutturata
a sette nuclei.
C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica
Fra le aree che stanno traendo maggior beneficio dalla
sinergia fra fotonica e nanotecnologie va certamente
citata la plasmonica[6], ambito in cui fotonica ed elettronica si incontrano per offrire un'incredibile varietà
di dispositivi innovativi da utilizzare per diverse applicazioni.
In questo contesto, negli ultimi anni, si è assistito ad
un'enorme produzione scientifica di lavori, sia teorici
sia sperimentali, rivolti alla realizzazione di dispositivi
nanostrutturati che consentono l'accoppiamento efficiente e a larga banda di modi che si propagano nello
spazio libero in eccitazioni localizzate di luce. L'ampia
gamma di possibili applicazioni include, fra l'altro, realizzazione di celle solari a film sottile, spettroscopia e
microscopia ottica in campo vicino, nanolitografia, sorgenti, memorie e comunicazioni ottiche su singolo chip.
Un altro settore che, anche in ragione del rapido sviluppo dimostrato negli ultimi anni e in considerazione delle importantissime potenzialità, è doveroso menzionare
è l'ottica del grafene e più in generale una nuova classe
di materiali che promette di rivoluzionare la nostra
concezione dei dispositivi, quella dei materiali bidimensionali. Dopo essere stato isolato nel 2004 [7, 8], il grafene viene oggi studiato sia per meglio comprenderne le
proprietà fondamentali sia per esplorare le sue grandissime potenzialità applicative. Gli investimenti in ricerca
di base e applicata su questo materiale sono oggi ingenti a livello internazionale e l'Unione Europea ha un ruolo di primo piano anche grazie al programma di ricerca
“Graphene Flagship” [9]. All'interno di questo programma di ricerca decennale la fotonica ha già dato
prova di potenziali rivoluzioni tecnologiche e molte altre sono ancora attese [10].
Dal punto di vista applicativo, infine, la fotonica riveste
un ruolo chiave nella società moderna, rivelandosi fondamentale e insostituibile in svariati ambiti.
Si pensi ad esempio alle applicazioni delle tecnologie
basate sulla luce in ambito biomedicale che già oggi
rivestono e che sempre più rivestiranno un ruolo insostituibile nella indagine e nella diagnosi. Si tratta ovviamente di un solo particolare esempio, ma vale la pena
ricordare quanto l'affermarsi della tecnica OCT (Optical
Coherence Tomography) abbia rivoluzionato in poco
più di 20 anni le indagini oculistiche [11].
E’ doveroso anche citare il settore dell'energia: senza
dubbio le celle solari di nuova generazione troveranno
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FIG. 2: Rappresentazione schematica del principio di funzionamento di una cella solare nanostrutturata.
enorme beneficio dalla capacità di ingegnerizzazione su
scala nanometrica delle superfici per permettere un
sempre più efficiente utilizzo dei materiali, in particolare per l'intrappolamento della luce e la gestione dei fotoni, come schematicamente descritto in figura 2.
Senza dubbio, tuttavia, il primo ambito applicativo in
cui la fotonica ha avuto modo di cambiare l'evoluzione
di una tecnologia fondamentale per la società moderna
è il settore delle telecomunicazioni. Fino ad oggi, il paradigma che ha fatto compagnia ai progressi della fotonica in tutti i diversi ambiti applicativi sopra menzionati è sempre stato legato al fatto che lo sviluppo di sorgenti, mezzi trasmissivi e rivelatori per le telecomunicazioni portava come ricaduta dispositivi e tecnologie a
basso costo disponibili anche in altri settori e fra questi
in prima fila quelli legati al biomedicale e all'energia.
E’ anche per questo motivo che nel nostro breve excursus abbiamo deciso di dedicare una maggiore attenzione alla fotonica nelle telecomunicazioni.
Come già ricordato, il laser ha rappresentato la dea Aurora della fotonica e, fin dai suoi primi giorni di vita, ha
suscitato vivissimo interesse nel mondo delle telecomunicazioni. I primi tentativi di utilizzarlo si indirizzarono
verso la trasmissione libera in atmosfera. Non mancarono successi a livello dimostrativo, ma le inevitabili
difficoltà in condizioni meteo avverse, impedirono di
poter giungere a un servizio affidabile. Si puntò allora
sulla propagazione guidata, ideando e sperimentando
strutture costituite da sequenze periodiche di lenti, posizionate in tubi al cui interno l'atmosfera veniva mantenuta sotto controllo.
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C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica
Si ebbe così modo di ottenere risultati molto brillanti
ma allo stesso tempo ci si rese presto conto che i costi
legati all'installazione delle guide sarebbero stati proibitivi. In questo scenario irruppe a sorpresa la fibra ottica: nel 1966 Charles K. Kao and George Hockham, degli
``Standard Telecommunication Laboratories'' ad Harlow, Inghilterra, presentarono per la prima volta una
descrizione dettagliata del mezzo trasmissivo fibra ottica dimostrando che le perdite di un tale mezzo trasmissivo (stimabili nell'ordine di circa 1000 dB/km utilizzando il vetro in quel momento disponibile in commercio) erano in realtà principalmente dovute a impurezze
residue nel processo produttivo e che quindi si poteva
immaginare di poter sviluppare una tecnologia produttiva in grado di eliminarle per ottenere un mezzo trasmissivo quasi perfetto [12]. Charles K. Kao, figura 3, fu
insignito del premio Nobel per la Fisica 2009 per le
enormi ricadute applicative che la sua proposta ha ricevuto nei decenni seguenti [13].
Nel 1970, infatti, Corning Glass Works, fino a quel momento totalmente estranea al mondo delle telecomunicazioni, realizzò il primo vetro con attenuazione sufficientemente bassa (circa 20 dB/km) per realizzare fibre
ottiche competitive con i mezzi trasmissivi alternativi a
quel tempo utilizzati; tale valore di attenuazione ha luogo proprio alle stesse lunghezze d'onda a cui in quegli
anni venivano sviluppati i primi laser a semiconduttore
in arseniuro di gallio: la trasmissione della luce su lunghe distanze all'interno di cavi a fibra ottica diveniva
per la prima volta una realtà.
Già nel 1975 il primo sistema di comunicazione su fibra
ottica veniva commercializzato e rapidamente andavano diffondendosi quelli che oggi consideriamo i sistemi
su fibra ottica di prima generazione. Tali sistemi lavoravano a una lunghezza d'onda di 0.8 μm in fibre ottiche
multimodo con un bit rate di B=45 Mbit/s e con una
distanza tipica di D=10 km fra due ripetitori di segnale
(BD=450 Mbit km/s).
La seconda generazione di sistemi di comunicazione su
fibra ottica fu pensata per sfruttare la finestra del mezzo trasmissivo fibra ottica, in prossimità di una lunghezza di lavoro di 1.3 μm, dove l'attenuazione del vetro
raggiunge un minimo locale di 0.3 dB/km e dove la dispersione è nulla. Si trattava a tutti gli effetti di una rivoluzione sia dal punto di vista delle sorgenti (nuovi
laser a semiconduttore), sia dal punto di vista del mezzo trasmissivo: risultava chiaro in quegli anni che nonostante alcune difficoltà pratiche che dovevano ancora
FIG. 3: Charles Kuen Kao (Shanghai, 4 novembre 1933) è
un ingegnere e fisico cinese, insignito del premio Nobel per
la Fisica nel 2009 per i suoi studi sulle fibre ottiche.
essere superate, la fibra ottica monomodale (figura 4)
era destinata a prendere ovunque il posto della fibra
multimodale per ottenere sistemi molto più performanti: le prime fibre ottiche monomodali introdotte nel
mercato (nel 1983) sono conosciute come fibre a dispersione non spostata (UnShiftedFiber, USF) o fibre convenzionali. Utilizzando queste fibre, i sistemi a fibra ottica disponibili a metà degli anni 80 raggiunsero capacità trasmissive di 2 Git/s con una distanza fra i ripetitori
che arrivò fino a 50 km (BD=100 Gbit km/s).
La terza generazione di sistemi di trasmissione a fibra
ottica nacque per permettere di utilizzare la terza finestra del mezzo trasmissivo fibra ottica, dove l'attenuazione del vetro raggiunge il suo valore minimo (0.2 dB/
km). Le difficoltà tecnologiche affrontate per permettere
la nascita di questi sistemi non sono state banali da risolvere: da un lato fu necessario sviluppare nuovi laser a
semiconduttore operanti alla lunghezza d'onda di 1.55
μm, dall'altro fu necessario modificare la geometria della guida d'onda per produrre le cosiddette fibre a dispersione spostata che consentono di avere la dispersione
minima a 1.55 μm, nonostante la dispersione minima
della silice vetrosa sia a 1.27 μm. Alla fine degli anni
ottanta erano disponibili sistemi con capacità trasmissive di 2.5 Gbit/s con distanze fra i ripetitori anche oltre i
100 km.
C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica
FIG. 4: Struttura tipica della fibra ottica monomodale:
1. Nucleo (core) di 8 µm di diametro
2. Cladding di 125 µm di diametro
3. Buffer di 250 µm di diametro
4. Jacket di 400 µm di diametro
Ma la grande innovazione dei sistemi della terza generazione è che essi lavorano in una regione spettrale dove,
anche grazie al fondamentale contributo di Pirelli[14], è
stato possibile realizzare una vera e propria rivoluzione:
l'amplificazione ottica.
La quarta generazione di sistemi di comunicazione su
fibra ottica, grazie all'uso degli amplificatori ottici, ha
aperto anche la strada alla multiplazione in divisione di
lunghezza d'onda (Wavelength Division Multiplexing,
WDM).
Grazie a questa vera e propria rivoluzione nei primi anni
del secolo sono stati realizzati sistemi con bit rate di decine di Tbit/s su distanze di centinaia di chilometri
(BD=1000 Tbit km/s).
La quinta generazione di sistemi di comunicazione su
fibra ha per obiettivo un sempre più massiccio uso del
WDM: a partire dalla banda convenzionale
(nell'intervallo di lunghezze d'onda compreso fra 1.53 e
1.57 μm, si intende sfruttare l'intera finestra dove le perdite sono basse (da 1.30 a 1.65 μm). La crescita di
internet e quindi del datacom ha portato ad uno sviluppo delle comunicazioni tra server in e tra data center. Il
contemporaneo affermarsi dell'integrazione delle comunicazioni dati e telecom su IP ha portato alla trasformazione delle tradizionali reti di trasporto, metro ed accesso in comunicazioni intra e tra cloud. Il ruolo principale
degli operatori dati sta rapidamente sostituendo il ruolo
tradizionale degli operatori telecom. Questo cambio sta
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portando a nuove richieste di densità di banda, basso
consumo e costo all'interno dei data center con un conseguente cambio radicale delle tecnologie per le comunicazioni. Il parametro di riferimento per le prestazioni
nel telecom è la banda per unità di distanza (bit/s/m),
mentre nell'evoluzione verso il processing nei data
center i parametri di riferimento chiave diventano due:
la densità di banda per unità di superficie (bit/s/m 2) ed
il costo energetico espresso in J/bit (o potenza per unità
di banda, W/Hz) In questo contesto stanno prendendo
rapidamente piede le tecnologie ottiche in silicio che
andranno ad affiancare la microelettronica con lo scopo
di aumentare la densità di banda. Si prevede che nella
prossima decade grandi processamenti di dati avverranno direttamente su e tra board di servers nei data center
con obiettivo di densità di banda di 10Tb/s/cm 2. In questo contesto, a partire dal 2015, la fotonica in silicio giocherà il ruolo che ha avuto l'elettronica con la legge di
Moore. Molti dei dispositivi elettronici per processing e
storage conterranno porte I/O ottiche basate anch'esse
su silicio e finalmente si assisterà alla produzione di
massa di dispositivi fotonici integrati che era stata auspicata sin dagli anni 80 con i primi esempi di dispositivi in ottica integrata.
Concludendo la nostra rapida panoramica dedicata alle
tecnologie basate sulla luce, si può senza dubbio dire che
negli ultimi cinquanta anni la fotonica ha vissuto uno
splendore di tipo rinascimentale; epocali scoperte scientifiche, spesso addirittura insignite del premio Nobel, si
sono rapidamente concretizzate in rivoluzioni tecnologiche la cui reale portata innovativa, anche dal punto di
vista sociale, ci è ancora in parte sconosciuta.
Gli autori desiderano sentitamente ringraziare il Professor Carlo Giacomo Someda per il prezioso contributo
fornito nella stesura di questo articolo.
Bibliografia
[1] T. H. Maiman, “Stimulated Optical Radiation in Ruby,”
Nature, vol. 187, No. 4736, pp. 493-494, 1960.
[2] www.nobelprize.org/physics/laureates/1964/towneslecture.pdf
[3] C. H. Townes, “Production of coherent radiation by atoms
and molecules,” Science, vol. 149, no. 3686, pp. 831-841,
1965.
[4] J. L. Hall, “Nobel Lecture: Defining and measuring optical frequencies,” Reviews of Modern Physics, vol. 78, no. 4, p.
1279-1295, 2006.
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C. De Angelis, M. Romagnoli, Fotonica
[5] T. Hänsch, “Nobel Lecture: Passion for precision,” Reviews of Modern Physics, vol. 78, no. 4, pp. 1297-1309,
2006.
[6] N. Savage, “Photonics: Trick of the light,” Nature, vol.
495, no. 7440, pp. S8-S9, 2013.
[7] A. K. Geim, “Random walk to graphene,” International
Journal of Modern Physics B, vol. 25, no. 30, pp. 40554080, 2011.
[8] www.nobelprize.org/physics/laureates/2010/
novoselov_lecture.pdf
[9] http://graphene-flagship.eu
[10] K. S. Novoselov, V. I. Falko, L. Colombo, P. R. Gellert,
M. G. Schwab, and K. Kim, “A roadmap for graphene,” Nature, vol. 490, no. 7419, pp. 192-200, 2012.
[11] D. Huang, E. A. Swanson, C. P. Lin, J. S. Schuman, W.
G. Stinson, W. Chang, M. R. Hee, T. Flotte, K. Gregory, C. A.
Puliafito, and others, “Optical coherence tomography,” Science, vol. 254, no. 5035, pp. 1178-1181, 1991.
[12] K. C. Kao and G. A. Hockham, “Dielectric-fibre surface
waveguides for optical frequencies,” in Proceedings of the
Institution of Electrical Engineers, 1966, vol. 113, pp. 11511158.
[13] C. K. Kao and others, “Sand from centuries past: Send
future voices fast,” Uspekhi Fizicheskikh Nauk, vol. 180, no.
12, pp. 1350-1356, 2010.
[14] W. L. Barnes, R. I. Laming, E. J. Tarbox, and P. R. Morkel, “Absorption and emission cross-section of Erbium
doped silica fibers,” IEEE Journal of Quantum Electronics,
vol. 27, no. 4, pp. 1004-1010, 1991.
Costantino De Angelis. E’ professore ordinario di Campi
Elettromagnetici presso il Dipartimento di Ingegneria
dell’Informazione dell’Università degli Studi di Brescia.
L’attività di ricerca di Costantino De Angelis riguarda le tecnologie fotoniche e in particolare le loro applicazioni in ambito sensoristico e nel settore delle telecomunicazioni. Dopo
essersi laureato con lode in Ingegneria Elettronica nel 1989
presso l’Università degli Studi di Padova, Costantino De Angelis ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Ingegneria delle Telecomunicazioni presso l’Università degli Studi di Padova. Dal 1994 al 1998 è stato ricercatore universitario presso
l’Università degli Studi di Padova e dal 1998 professore di
Campi Elettromagnetici presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di Brescia.
Nel corso della sua attività di ricerca ha prestato servizio
come professore invitato presso l’Università di Limoges
(1996), presso il MIT, Massachusetts Institute of Technology, (2010 e 2011) e l’Università di Jena (2012).
Costantino De Angelis è autore di più di 300 articoli su riviste e convegni, ha avuto la responsabilità scientifica di svariati progetti nazionali e internazionali sulla fotonica e attualmente coordina un progetto Erasmus Mundus dedicato
alle applicazioni delle nanotecnologie in ambito fotonico
(http://nanophi.unibs.it).
Marco Romagnoli, Area leader di Tecnologie Avanzate
per l’Integrazione Fotonica del Laboratorio nazionale di Reti
Fotoniche del CNIT a Pisa, professore a contratto della Scuola Superiore Sant’Anna a Pisa e precedente direttore in R&D.
Marco Romagnoli ha 30 anni di esperienza nel settore della
ricerca ed in particolare nell’area delle tecnologie fotoniche
per TLC. Dopo la laurea in Fisica conseguita presso
l’Università di Roma ‘La Sapienza’, nel 1983 ha iniziato la
sua attività presso i laboratori di ricerca dell’IBM a San Jose
(California). Nel 1984 è entrato in servizio presso la Fondazione Bordoni nel Dipartimento Comunicazioni Ottiche contribuendo su componenti ottici per sistemi di trasmissione.
Nel 1998 si è trasferito al centro R&D Pirelli a Milano dove
nel 2000 ha assunto l’incarico di direttore del Design e Caratterizzazione e successivamente di Chief Scientist.
Nell’ottobre 2010 si è trasferito in PhotoIC Corp, un’azienda
di Si Photonics, in qualità di direttore delle operazioni a Boston e con incarico di program manager al MIT
(Massachusetts Institute of Technology) per lo sviluppo di
un processore multicore otticamente interconnesso. In questo periodo ha dimostrato emissione laser da Ge iniettato
elettricamente.
Marco Romagnoli è autore di 170 articoli su riviste e convegni, è inventore in più di 40 brevetti, è membro delle commissioni tecniche delle principali conferenze in fotonica
(CLEO/QELS, CLEO Europe, ECOC, MNE, Group IV Photonics), ha servito come Expert Evaluator per la Comunità
Europea nel VI programma quadro e dal 2001 al 2006 ha
coordinato un accordo di ricerca tra MIT e Pirelli in cui è
stato sviluppata per la prima volta la piattaforma della Silicon Photonics. Nel 1994 Marco Romagnoli ha vinto il premio Philip Morris per l’innovazione ottica e nel 2004 gli è
stato riconosciuto il titolo di Chief Scientist Pirelli.
C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’
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GLI OGGETTI VAGANTI "IDENTIFICATI'
Corrado Ruscica
[email protected]
L’immagine illustra una simulazione della variazione di densità dei detriti spaziali che circondano la Terra, fino al 2209.
Credit: ESA
Abstract
I satelliti in orbita attorno alla Terra sono utilizzati in
molti settori e discipline, tra cui le scienze spaziali e
per lo studio della Terra, la meteorologia, le telecomunicazioni, la navigazione, l'esplorazione umana dello
spazio e offrono una risorsa unica e strategica per la
raccolta di dati scientifici che sono destinati non solo
alla ricerca ma anche nell’ambito commerciale. Tuttavia, negli ultimi decenni, con l'incremento delle attività
spaziali è emerso un nuovo ed inatteso pericolo per la
nostra civiltà: stiamo parlando degli oggetti volanti
‘identificati’, meglio noti come detriti spaziali.
Tutti su in orbita
Dopo quasi 50 anni di attività spaziali, oltre 4.900 lanci
hanno messo in orbita più di 6.000 satelliti di cui circa
3.600 rimangono nello spazio e solo una piccola frazione, circa un migliaio, sono ancora in funzione.
Se li pesassimo idealmente tutti quanti, troveremmo
che la massa totale di tutti questi oggetti supera 6.000
tonnellate. Naturalmente, non tutti i satelliti sono rimasti intatti. Si è calcolato che più di 23.000 oggetti orbi-
tano attorno al nostro pianeta e sono regolarmente monitorati dal consorzio americano Space Surveillance
Network, il cui catalogo comprende oggetti più grandi
di circa 5-10 cm distribuiti nell’orbita terrestre bassa e
oggetti che hanno dimensioni superiori, cioè da 30 cm a
1 m, che si trovano invece ad altitudini geostazionarie. I
veicoli spaziali operativi rappresentano solo il 6% della
popolazione di tutti gli oggetti orbitanti catalogati,
mentre circa il 30% consiste di satelliti dismessi, stadi
superiori spenti e accessori vari come, ad esempio, adattatori di lancio, custodie per lenti e così via.
Le principali cause dei frammenti orbitanti
Dal 1961, sono stati registrati più di 250 eventi di frammentazione di oggetti orbitanti e solo pochissimi, meno
di 10, si possono attribuire a collisioni accidentali o intenzionali.
La maggior parte degli eventi distruttivi sono riconducibili a esplosioni di veicoli spaziali e stadi superiori. Si
presume che questi eventi abbiano generato una popolazione di oggetti più grandi di 1 cm e si calcola che sono dell'ordine di 600.000.
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C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’
Il flusso sporadico dovuto a meteoroidi può prevalere
sui detriti spaziali solo per dimensioni dell’ordine di 0,11 mm. In generale, per velocità superiori a 4 Km/sec un
impatto con un proiettile può generare una rottura completa che dipende dal tipo di materiale e la sua eventuale
fusione con il bersaglio. Le velocità di impatto dei detriti
spaziali sono tipicamente dell’ordine di 14 Km/sec e diventano significativamente più elevate nel caso dei meteoroidi.
La principale causa di esplosioni in orbita è legata sostanzialmente al combustibile residuo che rimane nei
serbatoi o nei condotti del carburante, una volta che il
razzo vettore o il satellite viene abbandonato nell’orbita
terrestre. Nel corso del tempo, il difficile ambiente spaziale può deteriorare l'integrità meccanica di parti esterne e interne, determinando perdite o miscelazioni di
componenti di carburanti che potrebbero innescare una
serie di autocombustioni.
Per questo motivo, l'esplosione risultante può distruggere l'oggetto e disperdere la sua massa sotto forma di numerosi frammenti, creando una varietà di oggetti che
hanno masse e velocità diverse. Oltre alle rotture accidentali, un importante contributo alla formazione di
detriti spaziali è stato determinato, nel recente passato,
dalle intercettazioni dei veicoli spaziali da parte di missili di superficie.
La fonte più importante di detriti non causati da frammentazione si riferisce a più di un migliaio di incendi
provocati dai motori a razzo che hanno rilasciato ossido
di alluminio in forma di polvere delle dimensioni del
micrometro e da altre particelle di scorie delle dimensioni di qualche centimetro.
Durante gli anni ’60, un'altra fonte storica di detriti spaziali è stata causata dal rilascio di fili di rame sottili, parte di un esperimento di comunicazioni radio, durante le
missioni MIDAS. Più tardi, nel 1980, si è registrato
l’episodio relativo all’espulsione dei nuclei del reattore
di Buk dopo la fine delle operazioni dei satelliti russi
RORSATs (Radar Ocean Reconnaissance Satellites).
In 16 eventi di espulsione, sono stati rilasciati nello spazio numerose gocce di liquido di raffreddamento del
reattore, una lega di sodio e potassio a basso punto di
fusione. Infine, a causa della radiazione ultravioletta
estrema, che interagisce con l’ossigeno atomico, e
dell’impatto dovuto alle micro particelle, le superfici
degli oggetti spaziali sono soggette ad una costante erosione. Questo porta alla perdita di massa dei rivestimenti superficiali e al distacco delle scaglie di vernice che
hanno dimensioni che vanno da qualche micrometro a
qualche millimetro.
Le osservazioni realizzate con il telescopio di 1 m dell'ESA a Tenerife hanno permesso di identificare una popolazione di oggetti che hanno un rapporto area/massa
estremamente elevato. L'origine e la natura di questi
oggetti non sono pienamente comprese; si ritiene che
questi oggetti abbiano origine nella regione geostazionaria, forse prodotti da materiale del rivestimento termico
rilasciato da alcuni satelliti.
L’evoluzione della popolazione
di detriti spaziali monitorati.
Credit: ESA
C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’
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Lo strumento software più importante dell’ESA per la valutazione del rischio dovuto principalmente ai detriti spaziali
e ai meteoroidi si chiama MASTER, che sta per Meteoroid
and Space Debris Terrestrial Environment Reference. Si
tratta di un programma che ha lo scopo di monitorare fino
al 2050 quegli oggetti che hanno dimensioni più grandi di 1
micrometro (sopra, il logo creato da ESA per MASTER).
Collisioni spaziali
Il primo incidente in assoluto, avvenuto nello spazio,
riguarda la collisione tra due satelliti: lo scontro si è verificato alle 16:56 UTC del 10 febbraio 2009, ad una altitudine di 776 km sopra la Siberia. Un satellite americano di una società privata di comunicazioni, Iridium 33, e
un satellite militare russo, Kosmos-2251, entrarono in
collisione ad una velocità relativa di 11,7 km/sec. Entrambi furono distrutti generando più di 2.000 frammenti.
I satelliti in orbita bassa sono continuamente esposti
alle forze aerodinamiche degli strati superiori dell'atmosfera terrestre. Ora, a seconda dell'altitudine, dopo un
paio di settimane, mesi, anni o addirittura secoli, la resistenza dell’aria rallenterà il satellite al punto da farlo
rientrare nell'atmosfera. Invece a quote più elevate, superiori cioè a 800 km, l'attrito dell'aria diventa meno
efficace perciò gli oggetti rimarranno in orbita anche per
molti decenni.
Ad ogni modo, la produzione di detriti causata dalle
normali operazioni di lancio, da frammentazioni varie o
da altri eventi è controbilanciata da processi di pulizia
naturali, come ad esempio l’attrito dell'aria e gli effetti
dovuti all'attrazione gravitazionale Sole-Luna. Il risultato di questi effetti combinati determina una concentrazione di detriti spaziali in funzione dell’altitudine e della
latitudine. La densità maggiore di detriti si estende ad
altitudini di 800-1.000 km ma può arrivare fino a circa
1.400 km. La densità spaziale dei detriti nelle orbite geostazionarie e in prossimità delle orbite percorse dai
L’ESA ha un ruolo fondamentale per quanto riguarda le misure di controllo e di monitoraggio dei detriti spaziali. Dopo
il 1997 non si sono più verificati eventi esplosivi relativi agli
stadi dei vettori Ariane. Inoltre, l’agenzia spaziale europea
ha riposizionato tutti i satelliti geostazionari che sono sotto il
suo controllo, evitando così eventuali collisioni per quei satelliti su orbite più basse. Le misure di prevenzione forniscono un quadro di “ciò che deve essere fatto”. Il modo con cui
bisogna procedere è specificato in maniera formale mediante
delle regole internazionali che sono meglio specificate
nell’European Cooperation on Space Standardization
(ECSS). Nella foto, il drammatico momento dell’esplosione
del vettore Ariane, designato con la sigla V88 Ariane 501,
accaduta il 4 giugno 1996.
satelliti di navigazione è più bassa di almeno due o tre
ordini di grandezza.
La sindrome di Kessler
Al ritmo con cui vengono lanciati ogni anno i nuovi satelliti, circa 60-70, e con le frammentazioni che continuano a verificarsi con un tasso medio di 4-5 all’anno, il
numero di detriti spaziali aumenterà costantemente nel
tempo. Ciò porterà ad un incremento progressivo della
probabilità con la quale potranno verificarsi delle collisioni catastrofiche (se raddoppia il numero di oggetti, il
rischio di collisione aumenta di circa quattro volte).
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C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’
Andando di questo passo, nel giro di qualche decennio
le collisioni cominceranno a prevalere sulle frammentazioni, che sono attualmente la causa principale della
produzione di detriti spaziali. Alla fine, i frammenti
prodotti dalle collisioni si scontreranno con altri frammenti, fino a quando l'intera popolazione di detriti si
sarà ridotta a dimensioni critiche. Questo processo che
si auto mantiene risulta particolarmente significativo
nella zona delle orbite più basse ed è noto come la
“sindrome di Kessler”. Si tratta di uno scenario proposto nel 1991 dal consulente della NASA Donald J. Kessler, il quale aveva ipotizzato che la densità dei detriti
spaziali che si trovano in orbita bassa diventerà così
elevata che gli oggetti in orbita entreranno spesso in
collisione, creando di conseguenza una reazione a catena con un incremento esponenziale della densità dei
frammenti stessi e quindi del rischio di ulteriori impatti. Insomma, si tratta di un problema che dovrà essere
evitato a livello internazionale mediante una applicazione tempestiva di misure di riduzione e di bonifica degli
oggetti vaganti ‘identificati’.
A partire dagli anni ’60, lo studio dei detriti spaziali e le
misure da prendere contro i relativi rischi sono decisamente migliorati. I risultati delle ricerche vengono presentati ogni quattro anni ad una serie di conferenze
Donald J. Kessler, il consulente della NASA che nel 1991
ha formulato lo scenario al quale è stato dato il nome di
“sindrome di Kessler”.
organizzate dall’ESA sui detriti spaziali ma anche durante le sessioni dedicate a questo problema
dell’International Astronautical Congress (IAC) e durante i congressi del Committee on Space Research
L’immagine illustra una simulazione di quella che potrebbe essere la nuova distribuzione dei detriti spaziali se si interverrà
sulla riduzione e la bonifica del fenomeno fino al 2209. Credit: ESA
C. Ruscica, Oggetti ‘Identificati’
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Il grafico sopra è ripreso da uno studio condotto dalla Inter-Agency Space Debris Coordination Committee (IADC) , da quale
si evince che le collisioni in orbita, definite catastrofiche, nei prossimi 200 anni, avverranno ad una quota compresa tra gli
800 e i 1000 Km. Le curve a colori si riferiscono ai detriti prodotti dalle diverse agenzie spaziali. A quanto pare, l’Agenzia che
avrà il più alto numero di collisioni (probabili) è la giapponese JAXA (curva in blu).
Fonte: www.iadc-online.org/index.cgi?item=docs_pub
(COSPAR). Dal 1993, la Inter-Agency Space Debris Coordination Committee (IADC) organizza dei convegni
annuali per discutere il fenomeno dei detriti spaziali, i
relativi rischi e le misure di monitoraggio e controllo. La
IADC è riconosciuta a livello internazionale dal Comitato delle Nazioni Unite per l’Uso Pacifico dello Spazio
Esterno e dall’International Standardisation Organisation come un centro di ricerca specifico dedicato allo
studio dei detriti spaziali.
Corrado Ruscica, astronomo e scrittore, conduce atti-
vità di divulgazione scientifica attraverso articoli e conferenze pubbliche e cura il blog AstronomicaMens dedicato ad argomenti che spaziano dalla cosmologia alla
fisica delle particelle. E' autore di "Idee sull'Universo",
"Enigmi Astrofisici" e "L'Universo Infante", editi da
Macro Edizioni, www.gruppomacro.com/editori/macro
-edizioni .
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M. Marelli, Blu Nobel
Blu Nobel
Monica Marelli
http://www.monicamarelli.com/
Oltre al documentatissimo articolo sulla Fotonica dei
professori De Angelis e Romagnoli (pp. 4-8), ospitiamo
anche questo brillante ed “illuminante” contributo di
Monica Marelli, laureata in fisica e blogger eclettica,
allo scopo di introdurre uno dei temi tecnologici più
significativi dell’Anno Internazionale della Luce 2015.
Premio Nobel per la Fisica agli studiosi Nakamura, Akasaki, Amano che hanno messo a punto il led a luce blu. A
parte i buffi titoli dei giornali italiani dedicati a una fantomatica “luce ecologica”, avete notato che gli espositori
al supermercato tolgono spazio alle lampade fluorescenti (che non mi sono MAI piaciute, la loro luce è troppo
fredda, obitorio-style) per darne sempre di più a quelle a
led? Costano un po’ di più ma i vantaggi non mancano.
Per esempio le lampadine led non hanno bisogno dei
vapori di mercurio per fare luce come invece accade nelle lampade a fluorescenza. La luce, infatti, sgorga grazie
a piccoli ma preziosi incidenti di percorso.
LED: è l’acronimo di light emetting diode cioè diodo a
emissione di luce. E allora che cos’è un diodo? E’ un piccolo pezzetto di metallo che ha le caratteristiche del semiconduttore. Il semiconduttore è un materiale in cui se
la corrente fluisce in un senso, si comporta come un
conduttore (l’elettricità scorre come un fiume al suo interno) se invece scorre nella direzione inversa, diventa
un isolante (l’elettricità non riesce a muoversi, un po’
come un insetto intrappolato nella resina). Il semiconduttore si comporta così perché contiene delle impurità,
cioè atomi che non fanno parte della sua struttura cristallina naturale. In termini tecnici si dice che il semiconduttore è stato drogato.
Doping cristallino : la “droga” è costituita da cariche
negative (portate da atomi che hanno un eccesso di elettroni) e cariche positive (atomi a cui mancano elettroni,
che invece di essere chiamati ioni positivi sono chiamati
“buche”).
M. Marelli, Blu Nobel
Il doping avviene durante la “coltivazione” del cristallo
in laboratorio, strato atomico dopo strato atomico. Le
cariche elettriche positive si incastonano da una parte
del cristallo, le negative dall’altra in modo da ottener
due zone distinte. La parte ricca di elettroni è la zona n,
quella positiva ricca di buche è la zona p.
Per esempio, il silicio è il materiale semiconduttore per
eccellenza: per drogarlo di elettroni si aggiunge un pizzico di fosforo o di arsenico mentre per aggiungergli le
buche, lo si droga con atomi di boro.
Al confine: immaginate una torta in cui nella metà
alta c’è la granella di nocciola e nella metà inferiore le
scaglie di cioccolato. Nello strato centrale, scaglie e
granella si incontrano e il cioccolato grazie al calore si
fonde con i frammenti di noccioline. Ecco, nel diodo
avviene una cosa simile: il led ha due zone, di tipo p e
di tipo n e nella zona centrale, quando non passa corrente, si forma la zona di svuotamento o giunzione pn . E’ una specie di barriera che si forma perché le cariche positive e negative risentono dell’attrazione reciproca là dove sono a contatto e così si combinano (o gli
elettroni “riempiono” le buche). La barriera dunque è
fatta di atomi elettricamente neutri che impedisce altre
ricombinazioni, come se fosse il famigerato muro di
Berlino: frontiere chiuse, niente scambi!
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Alla carica! Ma cosa succede se si applica una differenza di potenziale (voltaggio), cioè una forza elettromotrice capace di mettere in moto le cariche rimaste
confinate nei territori p ed n? Accade che le cariche
hanno la forza per attraversare il muro. Se colleghiamo
una pila alle due estremità del diodo in modo da avere
un passaggio di corrente, gli elettroni sentono
l’attrazione del polo positivo e inizieranno a muoversi
verso di esso, viceversa le buche si muoveranno verso il
polo negativo.
Durante questa migrazione di massa in direzioni opposte, è inevitabile che avvengano degli scontri: alcuni
elettroni si legheranno agli atomi carichi “+”. Quando
questo avviene, si liberano i fotoni. Scegliendo il materiale idoneo, si hanno fotoni con l’energia giusta per
essere visibili ai nostri occhi, cioè si ha la luce (l’energia
rilasciata dagli elettroni dopo essere “caduti nella buca”
infatti può non essere visibile. Per esempio quando si
tratta di silicio, i fotoni emessi sono ultravioletti, quindi
invisibili ai nostri occhi).
Prima era il rosso: il led rosso è stato il primo a essere creato e commercializzato: era il 1962, fu sviluppato
dall’americano Nick Holonyak ed era un diodo semiconduttore fatto da gallio-arsenico-fosforo.
L’immagine è tratta da sito: http://www.radio.walkingitaly.com/radio/radiosito/tutorial/diodi/d_led/d_led.htm
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M. Marelli, Blu Nobel
Il più sfuggevole è stato il blu, arrivato trent’anni dopo
quello
rosso, grazie agli studi dei futuri premi Nobel. E’ una
rivoluzione: con il blu disponibile, finalmente si può
ottenere una bella, piacevole luce bianca. Però... come
mai il blu è arrivato così tardi?
Sua maestà il blu: ottenere un diodo semiconduttore
che emettesse luce blu era difficilissimo perché il semiconduttore necessario è il cristallo di nitruro di gallio ed
è molto delicato: durante il drogaggio (aggiunta di atomi di silicio per aggiungere elettroni e di magnesio per
le buche), il cristallo si rovinava e perdeva le sue proprietà ottiche.
Allora quei geniacci da Nobel di Nakamura-AkasakiAmano dopo anni di studi hanno trovato il modo per
drogare il cristallo senza rovinarlo. In parole povere:
hanno combinato diversi strati nitruro di gallio insieme
all’alluminio e all’indio, drogandolo con zinco,
“cucinando” il tutto su uno strato di supporto fatto di
zaffiro. Et voilà, signore e signori, la luce blu è servita!
In pratica: bene, ma torniamo alla luce bianca. Si potrebbe ottenere mescolando i tre led rosso+blu+verde
ma questo metodo è poco efficiente ed è riservato alle
lampade che creano giochi di luce colorata. La luce
bianca infatti si può fare anche in un altro modo, più
economico ed efficiente.
Si prende il led a luce blu e lo si fa collaborare con i fosfori. Il led emette luce blu, quindi i fotoni “piovono” su
uno strato di fosfori stesi sul semiconduttore oppure sul
rivestimento interno della lampada. Così i fosfori assorbono la luce blu e riemettono una luce di energia inferiore che al nostro occhio appare gialla. Dato che non
tutti i fotoni blu sono intercettati dai fosfori, al nostro
occhio arriva un fascio di luce blu mescolata a luce gialla, che il nostro occhio percepisce come bianca.
Bianca??? Questo fenomeno si chiama metamerismo
ed è un fenomeno che si crea a causa della struttura dei
nostri recettori, i coni, che sono sensibili solo a tre colori (blu/verde/rosso) ma nel cervello “ricostruiamo” tutti
gli altri. Un esempio di metamerismo può essere il colore di un tappeto, magari di un tenue azzurro-polvere,
che cambia a seconda che sia sotto le luci al neon di un
negozio o quella del sole che lo lambisce quando è steso
nel salotto di casa: qual è la vera tinta del tappeto?
Alcuni colori sono più metamerici di altri, fra cui il grigio-blu, il lilla, il grigio-talpa, il cenere, il verde pallido.
Il metamerismo è veramente fastidioso non solo nel
campo della grafica editoriale ma anche nel make up:
un rossetto può apparire très-chic in negozio ma diventare un omaggio a Dracula se indossato alla luce del
Sole.
il metamerismo è lo stesso fenomeno per cui il colore
degli occhi cambia a seconda che sia bel tempo o nuvoloso (mi dispiace, non è magia dell'anima ma meraviglia della fisica!).
M. Marelli, Blu Nobel
Parliamo di soldi: conviene abbandonare le fluorescenti per passare ai led? I led sono ancora un po’ cari:
una lampada in media al supermercato l’ho vista a 10
euro. Però: La vita media di una lampadina a led è di
30.000 ore contro le 10.000 delle fluorescenti. Le lampade led non contengono mercurio, al contrario delle
fluorescenti. Emettono una luce più simile a quella della vecchia lampadina a incandescenza, quindi meno
fredda e più piacevole. Le lampade a fluorescenza convertono in luce il 20% dell’energia elettrica necessaria
al loro funzionamento, il resto è sprecato in calore. I led
per ora si attestano intorno al 25% (alcuni produttori
“sparano” anche il 30%).
La vecchia lampadina con il filamento in tungsteno trasformava solo il 5% di energia elettrica in luce. Il Dipartimento dell’energia americano ha calcolato che in 20
anni di uso di led, si potrebbero risparmiare 120 miliardi di dollari e ridurre l’emissione di gas serra di una
quantità pari a 246 milioni di tonnellate cubiche.
FONTI
 http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/physics/
laureates/2014/advanced-p...
 http://www.photonstartechnology.com/learn/
how_leds_produce_white_light
 http://www.hadco.com/Hadco/Upload/Content/
downloads/techPapers/Philips_H...
 http://www.uwsp.edu/pointeronline/Pages/articles/
Lighting-the-Way-to-Ene...
 http://physicscentral.com/explore/action/led.cfm
 h t t p : / / w w w . l i gh t so n . c a / c o m p a r i n g - l i g h t - b ul b efficiencies-or-the-money-yo...
 http://www.globalgraphics.com/technology/color management/metamerism/
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Monica Marelli è nata a Milano nel 1968. Il suo grande
amore è l’astronomia. Da piccola amava passare notti intere sul balcone di casa con un piccolo telescopio: riconoscere la costellazione di Orione o il Cigno era un’emozione
bellissima. Certo, il cielo di Milano è un po’ avaro di stelle
ma nelle sere particolarmente terse, lo spettacolo non è poi
così male.
Crescendo ha scelto la strada della fisica: prima a Milano,
poi a Pavia, dove si laurea. È proprio durante la stesura
della tesi che si accorge quanto sia bello scrivere di scienza: perché non farne una professione? Comincia con le
riviste di divulgazione e prosegue con quelle femminili,
dove descrive i prodotti di bellezza sotto una luce nuova: i
mascara con i loro polimeri incurvanti, i nuovi rossetti lucidissimi grazie ai cristalli.
Qui troverete l’elenco dei libri pubblicati da Monica:
http://www.monicamarelli.com/taxonomy/term/3
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S. Ossicini, Aureola della Gloria
L’AUREOLA DELLA GLORIA
HUYGENS, NEWTON E LA NATURA DELLA LUCE
Stefano Ossicini
[email protected]
Un uomo può ben immaginare cose false, ma può
comprendere solo cose vere. Perché se le cose sono
false, il loro apprendimento non è vera comprensione.
Il dubbio inquieta la mente, dato che tutto il mondo si
adegua volentieri all’opinione di quelli che pretendono
di aver trovato la certezza.
Isaac Newton (1642-1727)
Christiaan Huygens (1629-1695)
Questo bell’articolo, che parla della natura della luce
com’era vista, ed interpretata, da due dei maggiori
scienziati di ogni tempo, Newton e Huygens, è la Prefazione ad uno spettacolo teatrale, di notevole interesse
culturale, storico e scientifico, che ha lo scopo di “far
capire qualcosa in più su ciò che tutti crediamo di conoscere”.
Lo spettacolo teatrale ha avuto il supporto, per la drammaturgia e la regia, dell’Associazione Teatro dell’Otium
di Modena, http://otiumteatro.blogspot.it/, mentre gli
interpreti sono Matteo Bertocchi, Franca Manghi e lo
stesso prof. Ossicini.
Il 12 giugno 1689 l’olandese Christiaan Huygens, il più
grande scienziato del continente, e Isaac Newton, il
campione inglese, da poco divenuto immensamente celebre per la pubblicazione dei suoi “Principia” sulla teoria della gravitazione universale, si incontrano per la
prima volta presso la Royal Society di Londra. Un incontro divenuto leggendario. Solo l’anno prima la “Gloriosa
Rivoluzione” inglese aveva trovato il suo esito finale con
lo sbarco in Inghilterra e la salita al trono di Guglielmo
III, Guglielmo d’Orange, Statolder d’Olanda, il cui principale consigliere diplomatico era Constantijn Huygens,
fratello di Christiaan. E proprio questo fatto aveva finito
per facilitare quella speciale sessione della Royal
Society. Speciale anche perché per lungo tempo Newton
aveva accuratamente evitato di partecipare a quelle sedute. La ragione stava nel suo mai sopito contrasto con
il rivale Robert Hooke, curatore degli esperimenti della
Società, su diverse tematiche, dalle ricerche sulla luce a
quelle sulla gravità.
La presenza di Newton era così da intendersi come un
particolare omaggio a Huygens, uno dei pochi “filosofi
naturali” dell’epoca, di cui Isaac, per carattere estremamente orgoglioso e diffidente, aveva stima.
E in quella occasione i due scienziati mostrarono appieno la stoffa di cui erano fatti. Huygens riferì delle sue
idee sulla gravitazione, mentre Newton decise di concentrarsi sui suoi esperimenti sulla doppia rifrazione del
cristallo di Islanda.
S. Ossicini, Aureola della Gloria
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Le grandi scoperte ed invenzioni di Isaac Newton sono sintetizzate in questo bel quadro, nel quale è raffigurata la gravitazione universale (attraverso il moto dei pianeti intorno al
Sole, in alto a sinistra e, alle sue spalle, il famoso melo... ); in
primo piano il suo telescopio riflettore mentre, in mano,
Newton regge un prisma con il quale scompone un raggio di
luce bianca.
Molti hanno sottolineato la particolarità di questo incontro, da una parte Huygens, l’incomparabile olandese,
così lo chiamava Gottfried Leibniz, che discute e si concentra sul tema principe delle ricerche di successo di
Newton, la gravità; dall’altra Newton, il leone britannico, così definito da Johann Bernouilli, che, specularmente, affronta invece il tema considerato da Huygens il
suo capolavoro, la spiegazione delle particolari proprietà
ottiche della calcite islandese.
Le note ufficiali della Royal Society poco ci dicono
dell’esito di quest’incontro/scontro; d’altronde era costume dell’epoca, per precisa scelta dei membri della
Società, mantenere il tono delle discussioni scientifiche
all’interno di parametri estremamente “soft”, la ricerca
scientifica doveva essere un lavoro da “gentleman”. Gli
scontri, spesso invero molto feroci, erano lasciati alle
corrispondenze epistolari e alle “voci di corridoio”.
Ma ancora più interessante per la nostra storia è il successivo incontro, sempre avvenuto durante quell’estate
londinese, fra i due ricercatori, un incontro organizzato
proprio da Newton, incontro del quale, malgrado le ampie raccolte dedicate alle opere e alle corrispondenze dei
due [1],[2], non abbiamo però alcun resoconto.
Così è proprio una ricostruzione immaginaria di questa
riunione che è al centro della storia che raccontiamo in
questa commedia: “L’Aureola della Gloria”.
Non tutti sanno che il termine Gloria non solo indica
fama ed onore universalmente riconosciuti, ma che è
anche il nome dato ad un particolare fenomeno luminoso [3], per cui, in determinate condizioni, si forma attorno all’ombra proiettata della testa di un osservatore una
sorta di aureola, simile a quella che circonda il capo dei
santi nei dipinti medioevali.
Così il tema della gloria viene qui affrontato in relazione
alla soluzione dell’aspro dibattito che coinvolse Huygens
e Newton riguardo la natura della luce: essa è un’onda o
è composta da particelle?
In scena i due scienziati, alle prese con uno scontro a
due, una partita, un esplicito riferimento all’esempio
usato da Newton nel suo primo lavoro sulla teoria dei
colori e sulla natura corpuscolare della luce, esempio
relativo al moto di un pallina da tennis colpita obliquamente da una racchetta.
Una partita senza esclusione di colpi dove i due scienziati fanno sfoggio di tutte le loro conoscenze scientifiche e
delle loro particolari abilità manuali, utilizzando appositi strumenti e modelli, e dialettiche per uscire vittoriosi,
convincere l’avversario e il pubblico e così coprirsi di
gloria eterna quali scopritori dell’essenza dei fenomeni
luminosi.
Accanto a loro, come terzo e ultimo personaggio, la dea
Fama, allo stesso tempo dea degli onori e delle dicerie,
che qui gioca il ruolo del coro, come nell’antico teatro
greco e nel moderno “Chortheater” tedesco [4]. Un coro
pronto a dialogare con gli attori, a riassumere e commentare le loro storie, a rappresentare un punto di vista
esterno.
Christiaan Huygens era ritratto in questa bella banconota
celebrativa da 25 gulden, emessa dalla Banca Centrale olandese, che lo raffigurava insieme ad alcune delle sue scoperte:
l’anello di Saturno e il satellite Titano.
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S. Ossicini, Aureola della Gloria
La birifrangenza osservata nello spato d'Islanda è una proprietà di certi cristalli anisotropi che dà luogo al fenomeno
della doppia rifrazione, consistente nello sdoppiamento di
un raggio incidente in due raggi rifratti, che hanno diverse
velocità di propagazione. Il fenomeno, particolarmente
evidente nei cristalli limpidi di spato d’Islanda, fu scoperto
nel 1669 da Erasmus Bartholinus e studiato successivamente da Huygens.
E questo punto di vista altro, accanto alla possibilità
della Dea Fama di viaggiare nel tempo e nello spazio,
permette non solo di mettere in evidenza aspetti nascosti e personali della vita di un ricercatore, ma anche di
seguire nel tempo l’evolversi delle convinzioni scientifiche, il loro tortuoso percorso, molte volte simile ad una
spirale. Vedremo così come la scienza sia un fenomeno
collettivo, dove accanto all’impegno dei grandi personaggi risulta importante il lavoro dei molti dimenticati.
Vedremo scontrarsi diverse concezioni filosofiche, anche queste carsicamente pronte a scomparire e a riemergere nel tempo. Troppo spesso lo sviluppo scientifico è
stato presentato come un processo lineare, una sequenza inesauribile di successi dimenticando circostanze casuali, errori, abbagli, motivazioni personali e sociali, la
stessa umanità, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, degli
scienziati.
NOTE
[1] Christiaan Huygens, Oeuvres complete, 22 volumi
(The Hague, 1888-1950)
[2] Isaac Newton, Correspondence, 7 volumi
(Cambridge, Cambridge University Press, 1959-1977)
[3] Olmes Bisi, Visibile e Invisibile. Le meraviglie dei
fenomeni luminosi, (Sironi Editore 2011)
[4] Charlotte Ossicini, Chortheater. Genesi di un modello Tipologie corali nel Novecento, [Dissertation thesis],
Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Dottorato
di ricerca in Studi teatrali e cinematografici, Bologna
2010
Stefano Ossicini è ordinario di Fisica Sperimentale presso il Dipartimento di Scienze e Metodi dell'Ingegneria
all'Università di Modena e Reggio Emilia, ricercatore all'Istituto Nanoscienze del Cnr di Modena e presso il Centro«EN&TECH» di Reggio Emilia su risparmio energetico e
energie rinnovabili.
In ambito divulgativo è autore della commedia Non ho nulla da rimproverarmi: 1911 Stoccolma e dintorni, sulla figura di Marie Curie (Scienza Express 2013) e del libro L'universo è fatto di storie, non solo di atomi (Neri Pozza
2012).
M.U. Lugli, Costellazione Vergine
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LA COSTELLAZIONE DELLA VERGINE
E
SPICA, LA “STELLA DELL’EXPO 2015”
Mario Umberto Lugli
[email protected]
Bellissima immagine della costellazione della Vergine tratta da: A Celestial Atlas comprising a sistematic display of the Heaven, London 1822, di Alexander Jamieson. Nella mano destra regge un ramo di palma, nella sinistra una spiga di grano, con
al centro la stella più luminosa della costellazione, Spica (dal sito: http://www.atlascoelestis.com/ja%2018.htm)
Quando il Sole, nel suo moto apparente annuo, “raggiunge”
la testa della Vergine [1] taglia l’equatore nel nodo discendente, segnando il momento dell’equinozio d’autunno.
Poiché questa stagione raccoglie gli ultimi frutti dei lavori nei campi ed i granai sono pieni di cereali, già negli
antichi tempi la Vergine era stata presa a simbolo delle
messi e dell’alimentazione in genere. Non a caso è rappresentata come una fanciulla che stringe in una mano
un grappolo d’uva e nell’altra un mazzo di spighe di grano.
Ecco perché volendo dare un riferimento classico alla
imminente Esposizione Universale di Milano, dedicata
appunto alla nutrizione, abbiamo pensato a questa costellazione ed alla sua stella più luminosa, Spica, la spiga di grano che è anche il simbolo dell’alimentazione
umana.
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ASTRONOMIA NOVA
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M.U. Lugli, Costellazione Vergine
L'inno omerico a Demetra (per i latini Cerere, da cui
“cereali”) racconta infatti di Persefone o Kore,
(Proserpina, per i latini) che, mentre a Enna raccoglieva
narcisi, fu rapita da Ade (Plutone), dio dei morti, e condotta come sposa nel suo tenebroso mondo sotterraneo.
Demetra, la madre, dopo averla cercata invano su tutta
la terra mentre la ninfa Eco la confondeva, apprese la
sorte della figlia da Elios, il Sole, che dall'alto vede ogni
cosa.
Inorridita, si vendicò crudelmente proibendo alle piante di crescere, scatenando così una terribile carestia.
Invano gli uomini gettavano sementi, nessun germoglio
nasceva dai bruni solchi e la fame discese rapida sulla
terra. I mortali, in preda alla disperazione, invocarono
aiuto al padre Zeus che, allarmato, ordinò ad Ermes di
scendere agli inferi e riportare Kore alla madre. Approfittando dell’ingenuità della fanciulla, il sinistro dio ipogeo le diede da assaggiare un chicco di melagrana così
da assicurarsene il ritorno [2]. Il melograno, come l'anemone rosso, infatti, si diceva nato dal sangue di Adone quando fu sbranato da un cinghiale, e il suo frutto
era simbolo di fertilità (al suo interno custodisce molti
chicchi) e vincolo amoroso.
All'apparire di Kore la vegetazione rifiorì lussureggiante, l'erba ritornò a verdeggiare, i frutti maturarono rigogliosi, ma la fanciulla, avendo ormai gustato quel frutto
fatale, si era indissolubilmente legata agli inferi ed al
suo tiranno. Sorpreso dallo straordinario risveglio della
natura, e temendo il ripetersi della calamità, Zeus stabilì che Persefone rimanesse per i due terzi di ciascun
anno sulla terra con la madre Demetra, ed un terzo agli
inferi col marito Ade. Il mito è trasparente e simboleggia il grano che rimane sepolto sotto terra nell'inverno,
riappare a primavera e matura all'inizio dell'estate. E’
per questo motivo che la Vergine appare sempre rappresentata con alcune spighe di grano in mano.
La costellazione della Vergine, raffigurata da Zacharias
Bornmann in ASTRA. Alle Bilder des Himmels, Breslavia,
1596. (immagine tratta da: www.atlascoelestis.com/
bornmann%2015.htm)
Un’interessante versione Ittita del mito di Persefone
narra del dio della fertilità Telipinu che, irato per la
malvagità degli uomini, si nascose provocando una gravissima carestia [3]. I Semiti dedicarono la costellazione alla loro dea Istar, la Regina delle Stelle, citata dalla
Bibbia come Astarte [4], da cui alcuni [5] fanno derivare i nomi di "Est" e "stella", nonché Eostre, dea Sassone della primavera, probabile origine del termine inglese Easter, Pasqua. Secondo Arato la costellazione
rappresenta Astrea, figlia del Titano Astreo, l'antico
Una rara moneta d'argento coniata a Metaponto, risalente a circa il 340-330 a.C., con testa di
Demetra che indossa una corona di grano ed
orecchini; sull'altro lato, la scritta META e una
spiga di grano.
M.U. Lugli, Costellazione Vergine
padre delle stelle che combatté a fianco dei Giganti;
avendo difeso gli dei contro lo stesso suo padre, Astrea
fu considerata dea della giustizia e raffigurata in cielo
come una bellissima giovane recante in mano le coppe
della bilancia o qualche fulgente spiga di grano.
Fu l'ultima dei celesti ad abbandonare gli uomini: essa
infatti viveva fra i mortali nell'Età dell'Oro, quando
non vi erano guerre e gli uomini, che non conoscevano
liti né contese, ricevevano sostentamento dai frutti
della terra e dai campi arati coi buoi. Quando negli
uomini si insinuò l'avidità e l'inganno, quella casta
fanciulla si rifugiò in cielo, e da quei tempi remoti sulla terra non vi fu più né giustizia, né lealtà.
Nel Medio Evo l'asterismo fu dedicato alla Vergine
Maria ed alle iniziali del suo nome (MV) si vuol far
risalire il simbolo della costellazione . Nell'atlante di
Schiller la Vergine è sostituita da San Giacomo il Minore, cugino di Gesù da parte materna, primo vescovo
di Gerusalemme, martirizzato nel 62, al tempo di Nerone. Per la Scuola Biblica, la costellazione ricorda
Ruth, la moabita, che lasciò la patria per accompagnare a Betlemme la vecchia suocera israelita Noemi.
La sua pietà fu premiata non solo col matrimonio di
un ricco proprietario di campi di grano, ma specialmente con la nascita del figlio Obed, uno degli antenati di re Davide. Se aggiungiamo che in un globo arabico del Secolo Decimoprimo, la costellazione è rappre-
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La costellazione della Vergine, dal meraviglioso Firmamentum
Sobiescianum sive Uranographia di Johannes Hevelius
(Danzica 1687). Le incisioni dell’atlante furono eseguite su disegni dell’artista polacco Andreas Stech. L’immagine è colorata
a mano e le stelle sono dipinte in oro.
sentata da un essere alato, qualcuno potrebbe pensare
che dei tanti personaggi evocati non ce ne è uno che
vada bene. Infatti è così: non dobbiamo mai dimenticare che le costellazioni esistono solo nella fantasia di chi
guarda le stelle, ma non hanno alcun significato fisico o
astronomico. Rappresentano solo l’alfabeto con cui gli
antichi hanno raccontato e descritto la volta celeste, che
per loro, come per noi, fungeva da orologio, calendario
ed atlante. Altri significati attribuiti a queste figure di
pura fantasia, sono solo impostura.
Antoine Watteau, “Cerere, il trionfo dell’estate” , 1715.
National Gallery, Washington.
Le stelle della Vergine
αVirginis o Spica, così detta perché segna la posizione
delle “spighe di grano” in mano alla vergine, riveste una
notevole importanza nella storia dell'astronomia perché
assieme a Regolo fornì ad Ipparco le misure di riferimento per la determinazione del moto di precessione
degli equinozi.
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M.U. Lugli, Costellazione Vergine
Variabile ad eclisse, azzurra, dista 250 anni luce dalla
Terra. Nel Planisfero Geuranico di Quirico Filopanti la
troviamo col nome "topico" di Adbe e dedicata a Galileo
Galilei. γ Virginis è Arich, Porrima o Antevorta.
Porrima e Postvorta erano due sibille romane: la prima
cantava gli avvenimenti passati, la seconda quelli futuri.
Postvorta presiedeva anche i parti difficili, specialmente
quelli podalici. Entrambe erano compagne di Carmenta, madre di Evandro, sibilla che si esprimeva sempre e
soltanto in versi, cosí celebre nel mondo antico che da
essa la tradizione fa derivare la parola carmen, cioé
“verso”. La stella è una doppia fisica (Bradley, 1718)
gialla, distante 35 anni luce; δ Virginis, Minelauva, dista 180 anni luce ed appare di color rosso.
Padre Secchi osservandone lo spettro, particolarmente
ricco di righe e bande, la definì "Bellissima"; εVirginis,
gialla distante 95 anni luce, è detta Vindemiatrix,
“Vendemmiatrice”, perché anticamente il suo sorgere
eliaco annunziava l'epoca del raccolto dell'uva. Vuole
anche ricordare Ampelos [6] , figlio di un satiro ed una
ninfa, che ebbe da Dioniso in regalo una pianta di vite;
questa crebbe alta e rigogliosa e mentre Ampelos raccoglieva i grappoli d'uva cadde malamente uccidendosi.
Dioniso, dispiaciuto di essere stato involontario strumento della rovina del suo favorito, lo volle in cielo trasformato in una splendida stella.
Al pane e al vino, dunque, allude la costellazione che si
manifesta così adeguata a rappresentare il simbolo naturale dell’esposizione dedicata ai temi dell’alimentazione.
Ad essa ci si potrebbe in qualche modo riferire nel momento dell’inaugurazione, come del resto è già avvenuto per altre importanti Expo in-ternazionali, come quella di Chicago del 1933, dedicata al progresso tecnologico, che fu inaugurata dalla luce della stella Arturo collimata su di una cellula fotoelettrica [7]. Gli antichi la
collegavano anche alla Fortuna, poiché le stelle che ne
formano il capo sono poco luminose, quasi fosse cieca o
bendata, ed è proprio con l’immagine della Fortuna che
chiudiamo queste brevi note. Un emblema che vuol essere anche un augurio per il felice esito
dell’Esposizione, ma ancor di più perché la “buona stella” eviti il flagello della fame e la Terra possa produrre
cereali ed alimenti in quantità adeguata a sostentare
l’intera umanità.
(Adattato da “Argo Siderea”, Modena, 2014)
NOTE
[1] e in particolare quando il centro del disco solare si
viene a trovare nelle vicinanze (prospettiche!) di β
(Vir).
[2] Era antica credenza che se un vivente, penetrato nel
mondo dei morti, fosse stato indotto ad assaggiare un
qualsiasi frutto non avrebbe mai più potuto uscirne
(cfr. Apollodoro, Biblioteca).
[3] Gaster, ”Il Dio che scomparve”, in Le più antiche
storie del mondo.
[4] I Re, XI, 5 e 33
[5] tra cui Allen, Star names, p. 463.
[6] ampelos, in greco significa "vite", da cui ampelografia, ampelologia, ampeloterapia col significato, rispettivamente, di descrizione, trattato sulla coltivazione della
vite e cura dell’uva.
[7] All’epoca si riteneva che la stella distasse 40 anni
luce e che quel raggio che accese le lampadine di tutti i
padiglioni fosse perciò partito nel 1893, quando,
quarant’anni prima, sempre a Chicago, era stata inaugurata l’Esposizione Universale.
Mario Umberto Lugli, laureato in Fisica, è stato docente di Fisica Applicata e Laboratorio all’Istituto Tecnico
“F. Corni” di Modena.
Ha promosso ed è stato primo direttore, fino al 1998, del
Planetario di Modena. Membro dell’Accademia Nazionale
di Scienze di Modena, della Società Astronomica Italiana,
della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, della Società dei Naturalisti e Matematici
di Modena e conferenziere al Civico Planetario, di cui ora
è Presidente onorario. Tra l'altro, ha pubblicato le biografie di numerosi astronomi modenesi: Geminiano Montanari, Giuseppe Bianchi, Annibale Riccò, Pietro Tacchini,
Carlo Bonacini e, recentemente Argo Siderea, mitologia e
folclore nelle costellazioni.
S. Covino, Comete, spese, PIL
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COMETE, SPESE E PIL
Stefano Covino
[email protected]
http://mitescienza.blogspot.it/
Il 12 novembre abbiamo seguito con trepidazione
l'"accometaggio", concediamoci un simpatico neologismo, della sonda Philae sulla cometa 67P/ChuryumovGerasimenko. L'interesse, quasi si potrebbe dire l'entusiasmo, del grande pubblico per l'evento è stato palpabile. In Italia come nel resto del mondo. E certamente si
è trattato di un'impresa dal punto di vista ingegneristico oggettivamente eccezionale.
Oggi stiamo ricevendo informazioni un po' più dettagliate ed elaborate. Sappiamo che l'atterraggio non è
stato per nulla semplice, e che la sonda ha probabilmente rimbalzato in qualche occasione, ma che appare
essere in buone condizioni. Una delle prime immagini
inviate a Terra dalla sonda, in cui si vede una delle
gambe della stessa con in primissimo piano il terreno
cometario, ha degli aspetti persino commoventi.
Commoventi, dico, sia per la suggestione del pensiero
di questo oggettino costruito dall'uomo, a mezz'ora luce
da Terra, che lavora su un corpo celeste rimasto indisturbato dai tempi della formazione del sistema solare.
Ma anche per il pensiero del lavoro di tante persone che
per lungo tempo ha accompagnato questa missione.
Pensata verso la fine degli anni '80, sviluppata nella
seconda metà del decennio successivo e lanciata nel
2004. E quindi in volo nello spazio da un decennio e,
tramite orbite accuratamente calcolate, arrivata all'appuntamento con la cometa. Ingegneri, tecnici, scienziati
di varie estrazioni, al lavoro in un contesto soprannazionale frutto della cooperazione europea.
Philip Dick componeva, qualche anno fa, il famosissimo
romanzo "do androids dream of electric sheep?" (in
italiano, "il cacciatore di androidi"). Viene da pensare,
giochiamo senza inibizioni per un po', se il robottino
sulla 67P aveva pensieri suoi quando, atterrando, si è
trovato a rimbalzare e rotolare sulla superficie della
cometa!
Una delle prime immagini dal "suolo" cometario
inviate da Philae
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S. Covino, Comete, spese, PIL
Tornando seri, oggi, nel pieno sviluppo di una crisi economica che si è trasformata, o è sempre stata, in una
crisi sociale, culturale, di principi e valori, e che inevitabilmente dovrebbe portarci a porci delle domande importanti sul nostro stile di vita e modello di sviluppo,
appare quasi retorico ricordare cosa non molti decenni
fa l'Europa è stata. Nell’immagine sotto, possiamo vedere una composizione fotografica, certamente retorica,
ma non priva di significato, che mostra un terreno sfregiato da buche di artiglieria o bombardamento. L'Euro-
pa della Grande Guerra, 100 anni fa. E il rendering pittorico di Philae sulla cometa, esempio indiscutibile di
dove la cooperazione internazionale può portare. La
cooperazione di noi tutti.
Ma, esattamente, fuor di retorica, dove è che siamo arrivati? Senza dubbio tutto questo è scenografico ed anche affascinante, ma ne vale la pena, in un continente
flagellato da disoccupazione, debiti incombenti, movimenti xenofobi, ed in generale da una diffusa e percepibile sensazione di sfiducia e di disastro imminente? Ha
senso spendere una marea di soldi quando si tagliano le
spese dei servizi in ogni settore? Domande non solo
non-retoriche, ma direi persino doverose.
Al riguardo, mi è stato segnalato questo servizio giornalistico: www.dailymotion.com/video/x29zzbh_scienzaquesta-sconosciuta-il-tg4-e-rosetta_fun .
Guardatelo, è fortemente sintomatico. Ora, vorrei evitare di cadere nella sterile polemica politica interna,
non è rilevante in se. Dalla stessa testata sono arrivati
servizi molto migliori su questa impresa. Ma questo
servizio specifico, che nelle intenzioni voleva probabilmente essere "leggero", di "costume", con un occhio
strizzato all'uomo della strada che ha ben altri problemi
a cui pensare, è riuscito ad inserire in pochi minuti una
vera "summa" di dove la pochezza di pensiero, la superficialità, e presunzione stanno rischiando di portarci.
Un esempio di anti-giornalismo, i cui danni nei riguardi
della pubblica opinione, che ha ben diritto di chiedersi
come vengono spesi i soldi delle proprie tasse, sono
potenzialmente enormi.
Tuttavia, come si diceva, magari in maniera goffa e dozzinale, il servizio in questione ha portato alla luce domande che senza dubbio una parte almeno dell'opinione pubblica si pone. Discutiamone quindi con calma.
Innanzitutto il costo della missione è stato (è...) ovviamente rilevante. Si tratta, cifra tonda, di qualcosa vicino
a 1,4 miliardi di Euro. Per avere un'idea si tratta di una
cifra comparabile allo 0,1% del prodotto interno lordo
(PIL) del nostro Paese in un anno. La cifra però ovviamente va distribuita per tutta la durata, inclusa la fase
di sviluppo della missione, e divisa per i contribuenti
europei. Non è difficile calcolare che, quindi, per ogni
cittadino europeo la missione Rosetta sia costata qualcosa tipo 3-4€. Meno, molto meno, di un cinema in
L’Europa ieri e oggi: in alto, immagine desolante di una guerra fratricida; sotto, uno dei grandi risultati della collaborazione tra i popoli europei: lo sbarco di una sonda su di un corpo cometario.
S. Covino, Comete, spese, PIL
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Quanto ci costa Rosetta?
Lo schema a fianco, riassume i costi: sono equivalenti
all’acquisto di 4,2 Airbus A380. In altre parole, Rosetta, tra il
1996 ed il 2015, arriverà a costare 20 centesimi all’anno (in tutto, meno di 4 euro) ad ogni cittadino europeo. Si tenga presente
che il biglietto di un film in prima visione, costa 8-9 euro.
grosso modo vent'anni di lavoro. O, se volete, pochi
decimi di Euro per anno. E con questo capitale si è costruito tutto. La potenza delle collaborazioni è che rende possibile con un carico finanziario davvero modesto
per i cittadini imprese di grande portata come queste, e
come molte altre.
Tuttavia, sebbene l'avere coscienza di quanto le attività
spaziali scientifiche costino in realtà pochissimo nel
budget complessivo aiuti a porre la questione in una
prospettiva corretta, la cifra in se non esaurisce la discussione. La questione è che per quanto piccola sia la
spesa, queste cifre vengono tolte ad altri capitoli di spesa potenzialmente più urgenti o rilevanti. É meglio
mandare un robottino su una cometa o dare una migliore assistenza domiciliare a degli anziani? O garantire un supporto a famiglie in difficoltà economica? O ad
una qualunque delle attività sociali mai sufficientemente apprezzate e finanziate?
L'argomento è complesso, a rischio perenne di derive
demagogiche di cui, per altro, i parlamenti nazionali ed
europei conoscono bene gli effetti. Ma in ultima analisi
può essere presentato in maniera semplice. E la risposta è chiara: vale la pena sempre di investire in conoscenza ed innovazione, ed il confronto con le esigenze
primarie immediate è ingannevole.
Mappa mondiale del coefficiente di Gini che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito. I paesi a coefficiente
di Gini più basso (colore chiaro) sono i paesi dove il reddito è distribuito più equamente. Al contrario, quelli a coefficiente
di Gini più elevato sono quelli dove la diseguaglianza nella distribuzione del reddito è maggiore.
La mappa è tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Coefficiente_di_Gini
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S. Covino, Comete, spese, PIL
Vediamo però di capire perché con una serie di ragionamenti semplici e non tecnici. Il punto chiave di tutto il
ragionamento è comprendere innanzitutto che per poterci permettere tutti i servizi di cui abbiamo bisogno, e
che lo Stato direttamente o indirettamente è delegato
ad elargire, è necessario avere a disposizione le risorse
finanziare per farlo. Sembra una banalità, ma non lo è
per nulla. Il gratuito, in realtà, non esiste.
Nemmeno il prezioso ed encomiabile servizio di volontariato. I servizi richiedono competenze, strutture e
spesso tecnologia, e tutto questo costa. Uno dei pregiudizi più diffusi, ovviamente basati sull'enorme cumulo
di ingiustizie con cui quotidianamente abbiamo a che
fare, è che se le risorse fossero meglio distribuite... "ce
ne sarebbe per tutti". Tutto questo non è privo di logica,
è un fenomeno ben noto in economia, dove una adeguata politica fiscale che guidi una redistribuzione dei redditi di vario genere porta ad economie più efficienti e
competitive (si veda il “coefficiente di Gini” alla pagina
precedente per una valutazione immediata della ridistribuzione della ricchezza nel mondo). Ed al contrario,
dove le differenze fra i primi e gli ultimi della classe
sono eccessive, di solito anche le strutture economiche
sono inefficienti. Ma in sostanza, fatto salvo che una
maggiore equità sarebbe un grande passo avanti in tutti
i sensi, per avere le risorse per poter fornire i servizi che
sempre in maggiore intensità sono richiesti bisogna
avere un'economia in grado di produrle.
E non è certo una grande scoperta che le risorse vengono create tramite il lavoro. Ed a questo punto la domanda si trasforma sul come si può fare a rendere il lavoro
più produttivo. E la risposta la sappiamo da sempre.
C'è necessità di innovazione tecnologica e di sviluppo di
competenze tecniche. In pratica, se vogliamo avere aziende che producono reddito è necessario che queste
aziende, in qualunque settore, siano in grado di competere sul mercato globale (altrimenti chiudono... mi pare
ne sappiamo qualcosa in Italia). E se questa competizione non vogliamo che la si conquisti con politiche di
contenimento salariale, cosa che per altro sta avvenendo da tempo in tutta Europa, l'unica alternativa è quella
della formazione e dello sviluppo tecnologico.
Quindi da qui l'importanza primaria della scuola di ogni ordine e grado e della ricerca scientifica. Un robottino sulla cometa potrà dare risposte che i planetologi
cercano da tanto, ed aumentare il nostro grado di cono-
scenza e consapevolezza. Temi che non è possibile
quantificare realmente nella loro importanza fondamentale.
Ma anche se fossimo, contrariamente all'Ulisse dantesco, "fatti come bruti" e conseguire virtù e conoscenza
non ci interessasse più di tanto, avere mandato Philae a
mezz'ora luce dalla Terra ha permesso a generazioni di
ingegneri di acquisire le competenze ed esperienza per
risolvere problemi complessi. Pensate alle questioni di
navigazione, elettronica, comunicazioni, generazione di
energia. Per non parlare delle competenze nell'organizzazione di lavori in contesti complessi e multinazionali, il cosiddetto management. E queste competenze non rimangono nell'ambiente scientifico. Gli
scienziati, nelle Università ed Enti di Ricerca, formano
studenti, laureandi e dottorandi, e questi portano le
loro competenze nel mondo del lavoro. E le aziende che
sanno valorizzare queste competenze, ce ne sono molte
più di quanto si pensi anche in Italia, sono in grado di
offrire capacità produttive di altissimo valore aggiunto.
Ovvero, perdonate la brutalità, fanno guadagnare molti
soldi…
S. Covino, Comete, spese, PIL
Il punto è che l'importanza della competenza specifica,
il "know-how" come dicono gli anglosassoni, non viene
chiaramente percepita nella quotidianità. Può sembrare, ingannevolmente, che basterebbe ad esempio un po'
più di buon senso e magari di onestà per sistemare tutto. Questi sono certamente requisiti di base, ovvero
non se ne può fare a meno, ma su quelli va costruita
una struttura di formazione e valorizzazione che richiede grandi imprese scientifiche e tecnologiche.
In buona sostanza, le grandi imprese scientifiche (ma
non solo) permettono di convertire con grande efficienza i finanziamenti pubblici in competenze che tornano
al mondo industriale ed imprenditoriale, e più in generale alla società.
La collaborazione europea, sulla quale si dovrebbe essere molto più cauti nel celebrare giudizi dozzinali con
leggerezza, ha permesso alle economie europee di crescere e produrre ricchezza e benessere. E, per dirla in
breve ma in maniera efficace, ogni soldo speso per la
grande (ma anche piccola) scienza, ne produce molti di
più. Badate che si tratta di un tema che è stato studiato
seriamente, e che si potrebbe in altra sede quantificare
in termini di resa dell'investimento (fra il 20 ed il 50%).
Permettendo, qui ovviamente semplifico un po', di finalmente chiudere il cerchio che unisce Philae sulla
cometa ed i nostri anziani che hanno bisogno di assistenza sanitaria specializzata.
Tagliamo le prime, ci dobbiamo scordare anche le seconde.
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Stefano Covino nasce nel 1964. In piena era spaziale,
come si diceva con un po' di enfasi, ma lui non ne era
allora cosciente sebbene l'eco e l'eccitazione per le missioni Apollo lo ha accompagnato per tutta l'infanzia
(prolungatasi probabilmente fino a pochi anni fa'). Laureato in fisica e dottorato in astronomia all'Università
degli Studi di Milano, sotto la direzione di Laura Pasinetti, ha cominciato fin da subito ad essere parte di collaborazioni internazionali sostenendo diversi periodi di
lavoro in istituti esteri. Di formazione è un astrofisico
stellare, con particolare attenzione allo studio delle popolazioni stellari, ma con il tempo si è sempre più avvicinato all'astrofisica delle alte energie divenendo parte
del gruppo ricerca dedicato presso INAF - Osservatorio
Astronomico di Brera. E' quindi divenuto membro della
collaborazione Swift, volta allo sfruttamento scientifico
dei dati di questa missione, lanciata nel 2004 e tutt'ora
proficuamente attiva, frutto di una collaborazione trinazionale fra Stati Uniti, Regno Unito ed Italia.
"Principal Investigator" in numerossime occasioni di
progetti osservativi volti allo studio di GRB, dal 2007 è
divenuto membro della collaborazione MAGIC volta
allo studio di raggi gamma di altissima energia attraverso la radiazione Cerenkov da essi prodotta in atmosfera. Si è occupato però anche di sviluppi tecnologici
come responsabile del software per il telescopio robotico a puntamento veloce REM, al momento operativo
presso l'osservatorio di La Silla dell'ESO (Cile).
Sposato con un bravo medico pneumologo che, fortunamente, lo costringe a casa per almeno per il 50% del suo
tempo, è stato fino al matrimonio un attivo alpinista
sebbene tutt'ora, occasionalmente, non disegni pareti e
vette insieme alla relatività e la fisica dei processi radiativi.
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M.Cardaci, Macchie solari
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LE MACCHIE SOLARI LE HA SCOPERTE... PINCOPALLO!
Massimo Cardaci
[email protected]
Le macchie solari come le vediamo oggi con i grandi
strumenti e le sonde spaziali. Ad esempio, nel corso
della seconda metà di ottobre 2014, una Regione Attiva del
Sole, la AR12192, si è accresciuta esponenzialmente fino a
diventare la più grande degli ultimi 24 anni e ha generato
dei brillamenti rilevanti. La macchia solare era così grande
da poter essere individuata ad occhio nudo. AR 12192, tra il
19 ed il 28 ottobre scorso, ha prodotto 6 brillamenti classe X,
i più intensi, e 4 brillamenti classe M. “Disporre di tanti flare
simili prodotti dalla stessa regione attiva è molto importante
per chi tenta di trovare un filo conduttore per la previsione
dei brillamenti,” dichiara Dean Pesnell, del Solar Dynamics
Observatory NASA. “Sarebbe importante studiare questi
eventi per migliorare l’abilità di previsione e persino proteggere tecnologia e astronauti nello spazio.”
del loro svilupparsi cronologico.
Divideremo il percorso in due viaggi distinti: prima vedremo cosa è successo in occidente e poi in oriente.
Molti sanno cosa siano le macchie solari, almeno per
sentito dire, e altrettanti ricordano che Galileo Galilei fu
tra i primi a osservarle con un cannocchiale.
Ma questo fenomeno solare non ebbe ovviamente inizio
nel XVII secolo.
In quest’articolo faremo un viaggio a ritroso nel tempo,
per andare a vedere chi effettivamente le scoprì per primo. Ci occuperemo delle osservazioni “pretelescopiche”, quelle fatte prima dell’invenzione del
cannocchiale. Non ci soffermeremo sull’interpretazione
più o (spesso) meno esatta delle osservazioni, ma solo
Si comincia con i “pezzi grossi!”
Paradossalmente, nel nostro viaggio a ritroso partiamo
proprio da dove c’eravamo lasciati.
Fu infatti proprio Galileo Galilei a effettuare l’ultima
osservazione a occhio nudo nota in occidente, durante i
giorni 19, 20 e 21 Agosto 1612.
Qualcuno dirà “bene, allora doppia medaglia per lo
scienziato Pisano!”
Ma nel nostro viaggio nel tempo, c’e’ subito un altro
personaggio di calibro che lo scavalca.
Parliamo nientedimeno che di Keplero (1571-1630),
noto per le sue tre leggi e per la sua impareggiabile precisione nelle osservazioni astronomiche di qualsiasi
genere. Abbiamo una sua accurata descrizione (nel senso di posizione, dimensione, luminosità e durata del
fenomeno) di una macchia solare avvistata a occhio
nudo, risalente al 18 maggio 1607.
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M.Cardaci, Macchie solari
A sinistra, una grande macchia solare, osservata da Giovanni Keplero nel 1607 con l’ausilio della camera oscura (J.
Kepler, Phaenomenon singulare seu Mercurius in Sole, Lipsia 1609).
Pincopallo era Russo?
I Russi avevano veramente pregustato la vittoria: il titolo di prima osservazione rimase saldamente in loro mano per quasi due secoli.
Non avevano però fatto i conti con “mamma gli arabi!”.
Infatti un filosofo della mezzaluna (Ibn Rushd) affermò
nel 1200 di essere stato testimone di una macchia presente sul Sole.
Gli arabi iniziarono veramente a preparare i festeggiamenti, poiché (a parte un anonimo che riporta
un’osservazione nel 1096), per secoli non si seppe più
nulla.
Ma… era arabo o europeo?
Ci pensarono i francesi a rimettere tutto in ballo, tramite le cronache della biblioteca Pithoei, nel capitolo riguardante la descrizione degli avvenimenti accaduti nel
terzo anno del regno di Re Lotario (957 d.C.):
Il 15 gennaio di quell'anno si ebbe un'eclissi solare e le
stelle furono visibili dalla prima ora alla terza
Addio Italia. Da.
Il XVI secolo (e forse anche qualche anno prima), aveva
saldamente mantenuto il primato in Italia, con alcuni
nomi poco noti (come Guido e Giovanni Carrara). La
speranza di mantenere il titolo nel Bel Paese durò parecchio, dato che si dovette attendere il 1375 e poi il
1371 per avere successive notizie. Si tratta di alcune cronache Russe:
Nel Sole vi era un segno...
…macchie scure sul Sole, come se chiodi vi fossero stati
conficcati;
e la foschia rendeva impossibile vedere alcunché a una
distanza superiore ai due metri o poco più.
La grande macchia solare “veduta alla semplice vista dal Sig.
Galilei”, nei giorni 19, 20,21 agosto 1612 (da: Galileo Galilei,
Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, 1613).
M.Cardaci, Macchie solari
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Beda il Venerabile (672 ca.—735), da un'incisione contenuta nelle Cronache di Norimberga (1493) di Hartmann Schedel.
Come fece notare 750 anni dopo Christoph Scheiner
(1573-1650), non potendo un’eclissi durare tanto, è più
probabile pensare che oltre all'eclissi totale quel giorno
fossero presenti sul Sole numerosi gruppi di macchie
gigantesche che ebbero l'effetto di prolungare più a lungo l'oscurità al di fuori della fase di totalità.
Ma gli arabi non si diedero per vinti, e sfoderarono una
nuova osservazione nell’840 d.C., attribuita al filosofo
al-Kindi. Anche in questo caso un’interpretazione errata, ma come detto nell’introduzione, non ci soffermiamo su questo.
Stavolta gli arabi limitarono i preparativi per il festeggiamento, e fecero bene. Infatti abbiamo una nuova
osservazione risalente circa all’ 814 d.C. Un tale, chiamato Beda il Venerabile, descrive inconsapevolmente
nel suo De mundi coelestis terrestrisque constitutione
liber, scritto dopo la morte di Carlo Magno, l'osservazione di una macchia solare di enormi dimensioni: egli
riporta di aver osservato un transito di Mercurio durato
10 giorni (per 8 lo aveva potuto osservare, ma per 2
giorni il tempo era stato nuvoloso), il che è impossibile
per un pianeta.
E se non bastasse, ci pensa Eginardo, nell'opera Vita di
Carlo Magno, a riportare un'osservazione risalente
all’807 d.C. Vi si legge infatti che per otto giorni tutto il
popolo di Francia poté vedere una macchia sul Sole.
Anche in questo caso fu letta come un transito planetario, ma sappiamo che, per la durata del fenomeno, doveva trattarsi di una macchia.
La concorrenza è sbaragliata (o almeno così sembra)
perché per 250 anni non si riportano altri avvistamenti.
Che sia Eginardo il nostro Pincopallo occidentale?
Già i suoi fan preparavano il podio, quando arriva una
doccia fredda: negli annali di Costantinopoli leggiamo
che durante il settimo anno di Costantino:
Il Sole rimase oscurato per 17 giorni, senza emettere
alcun raggio. Tanto buie furono le tenebre che persino
le navi si allontanavano dalla propria rotta.
e che per tutto il settimo anno di Giustiniano il Grande
(534 d.C.):
Il Sole splendeva di luce fioca e senza raggi in modo
simile alla Luna.
Quest’ultimo fenomeno è forse da addebitare
all’enorme quantità di polveri e gas immessi
nell’atmosfera a seguito di una gigantesca esplosione
vulcanica,
si
veda:
www.amazon.it/Catastrofesconvolgente-scoperta-David-Keys/dp/8838446318 .
Tutte le strade portano a…
Beh, stavolta sembra proprio che ci siamo… si va indietro nei secoli e il record precedentemente menzionato
per Costantinopoli, resiste. Ma poi si svegliano i Romani, e quando si svegliano loro… beh, tutte le strade portano all’Urbe!
Eccome!
Si comincia con la morte di Cesare (44 a.C.), nella cui
occasione calibri quali Xifilino, Ovidio (nelle Metamorfosi), lo stesso Virgilio (nelle Georgiche) e Plinio
(nell’Historia Mundi) ci riportano fatti straordinari,
Eginardo (775-840) fu autore di una fondamentale Vita di Carlo Magno.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 20/2014
M.Cardaci, Macchie solari
Studi condotti nella seconda metà del secolo scorso, in particolare da John A. Eddy (1931-2009), cercano di mettere in correlazione l'affermarsi e la caduta delle civiltà con l'aumento e la diminuzione dell'attività solare. Al di la delle ipotesi, più o
meno condivisibili, il grafico ci interessa perché visualizza l'andamento dell'attività solare nel tempo, confermando la possibilità che osservatori abbiano effettivamente potuto vedere grandi macchie ad occhio nudo, nei periodi indicati (fonte:
www.crystalinks.com/sun.html).
riconducibili a macchie sul Sole (oggi sappiamo che
quello fu un periodo di notevole attività solare). Sentiamo Plinio:
Durante quasi tutto l'anno in cui venne ucciso Cesare e
si ebbe la guerra di Antonio, il Sole presentò prodigiosi
e lunghi affievolimenti tanto che apparve continuamente di colore pallido.
E per rinforzare il primato, giocarono anche la carta del
centravanti di sfondamento Tito Lucrezio Caro (94—50
a.C.), con il suo De Rerum Natura, opera scritta tra il
60 e il 54 a.C. in cui si hanno i primi riferimenti a questo periodo di grande attività solare.
E in Oriente?
Gli orientali, con in testa la Cina, ma anche con contributi di Giappone e Corea, non sono stati affatto a guardare (o meglio, lo sono stati, a guardare, e con attenzione!). Le notizie principali riguardanti queste osservazioni le troviamo nei cosiddetti Cheng Shih, gli annali di
una specie di società astronomica di stato cinese, che si
estendono per oltre 2000 anni.
Questi, oltre alle osservazioni del Sole, contengono anche le previsioni e le registrazioni di numerosi fenomeni atmosferici e celesti: andamento della situazione meteorologica, eclissi di Sole e di Luna, congiunzioni planetarie, apparizioni di comete, ecc.
Pincopallo civis romanus est?
Beh, dire che Lucrezio Caro sia un pincopallo qualunque è per lo meno offensivo, ma comunque un primato
da I secolo a.C. dovrebbe dare garanzie di vittoria (o
almeno di podio).
Ed in effetti ci siamo… quasi.
Ci pensa un colpo di coda di quei curiosoni dei Greci a
far scendere di un gradino del podio il caro Lucrezio.
La prima osservazione occidentale è infatti datata
all’incirca 350 a.C. ed è attribuita a Teofrasto (371-287
a.C.). Si tratta proprio di uno dei principali discepoli di
Aristotele, quello dell’incorruttibilità del Sole e dei Cieli
– Guarda tu l’ingratitudine di certi discepoli!
Teofrasto, allievo di Aristotele
M.Cardaci, Macchie solari
Il contenuto di questi annali va però accettato con cautela: non possiamo sapere quanto abbiano influito l'astrologia, o i fatti storici o un intento sociale, sulla registrazione di alcuni aspetti di un fenomeno invece di
altri, o addirittura sulla stessa scelta di annotarlo.
Da ciò derivano i contrastanti conteggi di osservazioni,
effettuate dagli studiosi negli ultimi 150 anni: alcuni
sostengono che ve ne sono non meno di 112, altri, ed è il
caso di D.H.Clark e J.R.Stephenson (1978), ne contano
106, mentre Ma-Twan-Lin (1850) affermava di averne
individuate 45 dal 301 al 1205 d.C., e il giapponese
S.Kanda (1933) era propenso per una media di 5-10
osservazioni per secolo.
Le difficoltà di conteggio sono per lo più dovute al fatto
che negli annali la segnalazione di un’osservazione di
macchie sul Sole avviene molto spesso per analogie col
mondo degli eventi terrestri. Le seguenti frasi, che sono
unanimemente da attribuire a macchie comparse sul
nostro astro, ne sono un esempio molto eloquente:
Il Sole era di color arancio e all'interno vi era un vapore scuro simile a una gazza in volo
Sopra il Sole vi era una macchia oscura grande come
un uovo di gallina
Il Sole non aveva forza e sopra di esso vi era un punto
oscuro grande come una prugna
ASTRONOMIA NOVA
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All'interno del Sole vi era qualcosa che assomigliava a
una rondine in volo
Il Sole non aveva lucentezza e sopra di esso si è visto
un corvo
In quel mese sul Sole comparvero frequentemente delle
macchie oscure
Uccelli volanti sul Sole
E l’elenco potrebbe continuare con altri oggetti come
mele borracce, monete, etc.
Inoltre, fenomeni atmosferici, incentivi governativi e
interesse scientifico potrebbero essere cambiati nel
tempo, rendendo i conteggi delle macchie solari non
necessariamente consistenti per una quantificazione
dell’attività solare.
Questa parentesi (doverosa) si chiude subito perché a
noi qui interessa l’aspetto temporale, e non quello
quantitativo. Si consideri solo che non vi è alcun dubbio
che tali osservatori abbiano visto delle macchie, sia perché anche oggi gruppi giganteschi assumono queste
forme se visti a occhio nudo, e sia per i riscontri incrociati ottenuti ai nostri giorni sull’effettiva grande attività del Sole nelle epoche delle osservazioni.
In ogni caso, il grafico di questa pagina (adattato da
una tabella in l'Astronomia n° 26), contiene i conteggi
delle osservazioni accertate a partire dal 300 d.C.
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M.Cardaci, Macchie solari
La descrizione di una macchia solare del 28 a.C. nel testo
cinese Han shu * Wuxing zhi
Macchie sul Sole? Stai scherzando,vero?
Questo articolo è tratto da una collana di 14 volumetti
dal titolo “Macchie sul Sole? Stai scherzando,
vero”.
Si tratta dell’avvincente storia della scoperta delle Macchie Solari. Una storia di uomini e idee lunga 3000 anni. Ciascun volumetto copre un tema specifico: dalle
osservazioni pre-telescopiche, ai cicli e rotazione, dalle
prime scoperte scientifiche alla fotografia e cinematografia solare, dalla nascita della moderna fisica solare
all’influenza sull’ecosistema Terrestre. Al fianco di tantissimi personaggi poco noti, ma non per questo meno
importanti, ci sono anche alcune “monografie”: Istituto
delle Scienze di Bologna, Galilei e Scheiner, Secchi, Hale. Monografie con alcune interessanti sorprese che aprono la strada a una rilettura diversa di alcuni eventi
storici. I volumetti, frutto di numerosi anni di ricerca,
sono in formato E-Pub, e sono venduti con ricavato interamente
versato
in
beneficenza
(www.edcconsulting.org – Sezione “Storia Macchie Solari” – da
cui si possono anche liberamente scaricare le anteprime).
E allora eccoci qui già con un testa a testa, con l’Oriente
indietro solo di 4 secoli.
Per poco. Abbiamo infatti traccia di osservazioni di
macchie, ancora in Cina, che risalgono rispettivamente
al 165 e al 28 a.C. Secondo alcuni autori, queste prime
registrazioni sono particolarmente importanti poiché
diedero il via, in quel paese, a osservazioni sistematiche del fenomeno.
Mamma li Turchi, o mamma i Cinesi?
Greci e Romani iniziano a vacillare nella loro certezza
di podio.
La zampata finale arriva in extremis, e il titolo si sposta
ancora una volta. Infatti la prima testimonianza di una
macchia osservata ad occhio nudo risale al VIII secolo
a.C. ed è stata trovata in un esagramma all'interno di un
importantissimo testo cinese, Zhou Yi (il Libro dei mutamenti).
Quindi Pincopallo era in realtà Pin-Xon-Pan-Lin.
Tutti sono comunque rappresentati sul podio in questa
ipotetica gara per la conoscenza: Cinesi, Greci e Romani, accumunati da un fenomeno bello e sfuggente come
mai, le Macchie Solari.
Massimo Cardaci nasce a Roma nel 1966. Completati gli
studi secondari classici e la laurea in Fisica, è entrato
nel mondo del lavoro dalla porta del terziario avanzato.
Lavora attualmente come manager nel settore Spazio
per una Multinazionale di Servizi.
Ha pubblicato un saggio sui sistemi di Governance Aziendali Etici (“La Terza Strada: una storia di Principi,
Maestri e Cappellai”), un testo sul Time Management
(“Mi cambierebbe 25 minuti?”) e una serie di 14 volumetti (“Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”) sulla
storia della scoperta delle Macchie Solari. Ha anche
scritto diversi articoli a tema management, tecnologia e
sicurezza informatica.
Si interessa di giardinaggio, cucina e fantascienza, accompagnati dalla passione per la corsa e da un costante
impegno nel volontariato.
M. Dho, Citizen Science
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CITIZEN SCIENCE: LA PROTAGONISTA DI UN PROSSIMO LIBRO
Mario Dho
[email protected]
Abstract
We propose to the readers of “Astronomia Nova” an
important preview of what will be, in the near future,
a volume wanted by the European Astrosky Network
and written by a known technician, who is appreciated by the astronomical community in general, for
the dozens of his technical contributions on automation and robotization published on paper and electronic magazines.
This work will provide a modern guide in Italian language (there is also the project of an English transla-
tion) dedicated to modern astronomy and some of its
branches still little known and studied at both amateur
and professional levels.
Its technical content and management and implementation solutions are of great value and the high quality
of the whole is rather important.
The arguments, although specialized and highly defined, in some ways, of niche, are analyzed and processed with a language not strictly elementary but still
within the reach of every amateur astronomer.
We present a chapter from the book written by the in-
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ASTRONOMIA NOVA
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M. Dho, Citizen Science
FIG. 1: La Citizen Science è l’espressione di forza derivante da una ricerca condivisa.
dustrial chief expert Mario Dho, which mentions the
importance of the citizen science phenomenon. The
topic undoubtedly of extreme relevance, often will be
used in chapters of the work to the point that it can be
referred to as the main theme.
What follows is an essay of what might constitute a
reference text in the advanced astronomical bibliography and that certainly will fill an editorial gap other
than represent an absolute novelty in respect of the
publications made in Italy.
Proponiamo ai lettori di Astronomia Nova
un’importante anticipazione di quello che sarà, nel
prossimo futuro, un volume voluto da European Astrosky Network e scritto da Mario Dho, un tecnico conosciuto e molto apprezzato dalla comunità astronomica, non solo nazionale, per le decine di contributi tecnici sull’automazione e sulla robotizzazione strumentale,
pubblicati su magazine cartacei ed elettronici.
Questo lavoro costituirà un’innovativa guida in lingua
italiana, è prevista anche una versione in lingua inglese,
dedicata all’astronomia moderna e ad alcune sue branche ancora poco conosciute e studiate a livello sia amatoriale che professionale.
I contenuti tecnici e le soluzioni di gestione e realizzazione sono di notevole valore e la caratura dell’insieme
è rilevante.
Gli argomenti, seppur caratterizzati da aspetti specialistici e definibili, per certi versi, di nicchia, sono analizzati e trattati con un linguaggio comunque accessibile
anche all’astrofilo medio.
Qui presentiamo un capitolo tratto dal libro, in cui si
delineano i tratti salienti del fenomeno Citizen Science,
indubbiamente un argomento assai significativo e di
grande attualità anche in ambito astronomico.
Le seguenti righe rappresentano un saggio di quello che
potrebbe divenire un testo di riferimento nella bibliografia astronomica e che di certo andrà a colmare un
gap editoriale oltre che a rappresentare una novità assoluta per quanto concerne le pubblicazioni made in
Italy.
M. Dho, Citizen Science
Con Citizen Science, che letteralmente significa scienza
dei cittadini, s’identifica una serie di attività, essenzialmente amatoriali, consistenti nella raccolta di dati e
informazioni scientifiche servendosi di strumenti quali
computer o smartphone capaci di operare in “rete” e di
attivare un “network di cervelli”.
La distribuzione delle attività di raccolta, verifica e analisi dei dati avviene fra ricercatori non professionisti.
I citizen scientist sono di già costituiti nei più disparati
gruppi e perseverano obiettivi che vanno dal controllo
della fauna alla scoperta di oggetti celesti, dallo studio
del clima alla botanica ecc.
Uno dei primi passi verso l’avvento della moderna
citizen science è rappresentato da un progetto di ricerca
di intelligenze extraterrestri, provenienti dallo spazio
profondo, lanciato alle “ultime luci” dello scorso secolo
dall’Università di Berkley: il programma scientifico SETI@home, Search for Extra Terrestrial Intelligence.
Dal momento del suo lancio, nel maggio del 1999, le
partecipazioni sono proliferate così come il numero di
attività che sfruttano questa forma di volontariato globale.
Gli @home, così possiamo definire i progetti di calcolo
distribuito fra un numero n di calcolatori, sfruttano
APP per smartphone e mobile device o programmi per
computer, freeware, strutturati in maniera tale da ricevere, selezionare, analizzare e indirizzare a specifici
centri di raccolta una serie d’informazioni (fig. 1).
Attraverso la rete, Internet, prende vita un super calcolatore la cui potenza è direttamente proporzionale al
numero di dilettanti che aderiscono a un particolare
lavoro e alle macchine informatiche che questi impiegano per lo scopo.
Cittadini comuni, anche privi di nozioni o conoscenze
specifiche, guidati da teste e mani competenti, dedicano
parte del loro tempo alla scienza, mettendo al servizio
dei team di professionisti i loro strumenti di lavoro
quotidiano; un aiuto non indifferente per ricercatori,
ASTRONOMIA NOVA
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studiosi e scienziati.
La Citizen Science ha trovato, in tempi recenti, gli strumenti per la sua applicazione su scala globale; i servizi
partecipativi e Internet forniscono, ai professionisti,
gruppi di lavoro composti da migliaia d’individui.
Un crowdsourcing è una sorta di humus per le più disparate branche della scienza; un terreno sul quale i
ricercatori tradizionali coltiveranno i loro progetti futuri. La rete rende possibili comportamenti che, nel tradizionale mondo analogico, richiederebbero risorse e fatiche immani; la scala della partecipazione cambia in
modo radicale incrementando drasticamente la disponibilità di dati che si possono spostare dinamicamente
in tutto il mondo.
L’Astronomia è una disciplina che ben si presta allo
sposalizio con le realtà emergenti della “scienza popolare” e dei calcoli distribuiti; un paio di conferme a questa
affermazione possono essere, ancora, trovate nella riuscita di Stardust@home e nel grande successo riscontrato, sul finire del primo decennio di questo millennio,
dal progetto Galaxy Zoo (fig. 2). Lo “zoo delle galas-
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M. Dho, Citizen Science
FIG. 2: Schema del flusso di dati fra elaboratori impegnati
nel calcolo distribuito.
sie”, ideato da Christofer John Lintott e da Kevin Schawinski in un pub di Oxford nella primavera del 2007,
richiese addirittura la clonazione dello SkyServer su
più calcolatori per il salvataggio rapido di tutti i riscontri provenienti da una marea di persone che avevano
accolto con entusiasmo l’idea di contribuire attivamente alla classificazione di galassie riprese dal telescopio
robotico, ubicato nel New Mexico, della SDSS, Sloan
Digital Sky Survey. In poche ore i citizen scientist,
scienziati cittadini, eseguirono un milione di classificazioni con dei semplici “click” del mouse!
L’originale, e per allora parzialmente inedito, stratagemma di coinvolgere persone comuni nella definizione
morfologica delle galassie permise di ottenere risultati
finali, in tutto e per tutto, paragonabili a quelli che sarebbero emersi da un lavoro di astronomi professionisti, facendo lievitare interessanti considerazioni
sull’evoluzione galattica e sui buchi neri.
L’ausilio degli “zooiti” ha fornito un contributo importante per la definizione di una nuova classe di galassie
compatte evidenziando, anche, un cruciale anello mancante nel ciclo vitale di questi immensi insiemi di stelle.
Lo stesso progetto Galaxy Zoo, ha lasciato capire come
l’intervento umano possa appoggiare, completare e, in
certi casi, superare la capacità di scoperta dei programmi automatici: una “chiazza” verdastra, di forma irregolare, situata nelle immediate prospettiche vicinanze
della galassia IC 2497, per anni sfuggita
all’individuazione, da parte degli addetti ai lavori, fu
notata, per la prima volta, dall’olandese Hanny van Arkel, insegnante di biologia presso il Citaverde College,
in veste di “zooita”, analizzando un’immagine SDSS.
La scoperta dell’oggetto, che divenne immediatamente
noto come “Hanny’s Voorswerp”, non è stata un caso
isolato in seno al Galaxy Zoo, giacché altri “scienziati
cittadini” trovarono cosiddette new entry in alcuni campi di galassie.
M. Dho, Citizen Science
L’importanza scientifica e l’incredibile popolarità che
hanno accompagnato il progetto iniziale e le successive
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integrazioni, hanno incentivato il concepimento di programmi di scienza online collettiva, sempre più numerosi e ad ampio raggio, che trovano collocazione sul sito
Internet richiamabile dal link www.zooniverse.org/
about (fig. 3).
Un universo virtuale in espansione che si propone di
fare vera ricerca e che lascia intravedere prospettive
ottimistiche di scoperte, anche, fortuite. Il considerevole numero di aderenti ai singoli progetti, oltre a fornire
una capacità di calcolo impensabile, rende, infatti, più
probabile la serendipità.
Il Team di ZOONIVERSE si presenta ai visitatori come
home del più vasto, popolare e riuscito progetto
Internet di Citizen Science, invita ad iscriversi e lascia
comprendere la vitalità dello stesso attraverso i projet
in corso e, soprattutto, quelli che emergeranno in futuro:
- The Zooniverse is home to the Internet's largest, most
popular and most successful citizen science projects.
Our current projects are here but plenty more are on
the way. If you're new to the Zooniverse, we suggest
picking a project and diving in - the same account will
get you into all of our projects, and you can keep track
of what you've contributed by watching ‘My Zooniverse’.
Per quanto concerne l’astronomia sono, al momento, in
svolgimento circa una decina di attività distribuite che
Fig. 3: La pagina web di ZOONIVERSE dedicata ai progetti di
astronomia.
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ASTRONOMIA NOVA
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M. Dho, Citizen Science
si prefiggono, fra le altre cose, di trovare pianeti intorno
a stelle appoggiandosi alle curve di luce ottenute dalle
riprese della sonda Kepler, scoprire oggetti tipo NEA,
Near Earth Asteroids, estrapolare dettagli sulla formazione stellare o, ancora, individuare buchi neri
nell’universo comparando dati radio e infrarossi.
È opportuno ricordare, anche, le attenzioni richieste
agli “zooiti” inerenti a progetti connessi al clima del
nostro pianeta, alla natura, alla storia dell’umanità e
alla biologia.
Argomenti estremamente interessanti e iniziative che,
in qualche modo, coinvolgendo un pubblico in gran
parte non specializzato, incrementano la preparazione
culturale stimolando, a dispetto dell’apparente passività partecipativa, approfondimenti dei temi.
Quello che può essere interpretato come un fornire informazioni basilari senza che sia richiesta alcuna preparazione particolare su questo o su quell’argomento, può
potenzialmente rappresentare la molla capace di proiettare profani, adulti, giovani, gruppi socio/educativi,
scolaresche, università e, più in generale, qualunque
realtà umana singola o collettiva, in differenti ambienti
e ambiti disciplinari.
Un fenomeno di scienza popolare che offre
l’opportunità di partecipare e che, al tempo stesso, pone
le credenziali per creare potenziali ideatori di futuri
progetti che, a loro volta, coinvolgeranno altre schiere
di individui.
Una “ricerca da scrivania”, quella delle Citizen Science,
che rende fattibili lavori specifici e complessi altrimenti
improponibili, nel mondo professionistico, a causa
dell’immane richiesta di risorse umane, di tempi e di
denaro.
Questa tendenza scientifica, al tempo stesso, enfatizza
ed esalta molte caratteristiche e sensorialità tipicamente umane delle quali spesso ci dimentichiamo; nessun
algoritmo svolge taluni compiti meglio del nostro cervello, nessuna routine automatica riesce a discernere e
riconoscere aspetti peculiari, irregolarità o variazioni
nelle immagini meglio dell’occhio umano.
A titolo di esempio e come ulteriore dimostrazione pratica delle potenzialità di Citizen Science e del calcolo
M. Dho, Citizen Science
distribuito, ricordiamo la recente scoperta di quattro
nuovi pulsar avvenuta, in seno all’Einstein@Home, elaborando i dati del Fermi LAT. Artefici di questa importante tappa, che ha visto la Citizen Science fare il suo
ingresso nell’astronomia gamma, sono cinque appassionati residenti in Australia, Canada, Francia, Giappone e
Stati Uniti d’America.
L’unione di migliaia di personal computer ha dato vita a
un supercalcolatore con la notevole capacità di calcolo
di 1 petaFLOPS al secondo, il quale ha consentito questo exploit. Se è vero che la potenza dell’hardware informatico va aumentando in modo quasi esponenziale (si
veda la prima legge di Moore, http://it.wikipedia.org/
wiki/Legge_di_Moore ), è anche vero che le tecnologie
moderne producono una mole di dati tale da richiedere
capacità di calcolo che spesso superano i budget a disposizione degli stessi Enti e delle Agenzie che propongono e lanciano un’idea progettuale.
Questo ostacolo può essere sminuito sensibilmente,
sino a non dover essere considerato più tale, intraprendendo la soluzione del calcolo distribuito, la quale
sfrutta potenziali e risorse inutilizzate di un vasto parco macchine.
Un network, sulla carta, può pianificare e concepire un
lavoro di calcolo distribuito, made in Italy, fornendo un
supporto tipo “server pronto all’uso” che funga da piattaforma di lavoro per uno o più gruppi. Un servizio, per
incrementare le potenzialità di un insieme di osservatori astronomici e per, eventualmente, creare un proprio
@home teso a sfruttare, nel migliore dei modi, una mole di dati e informazioni provenienti dai settori operativi, da seri appassionati, dalle università, dalle scuole,
dalle amministrazioni e, soprattutto, dalla gente comune.
Non è inverosimile immaginare un network costituito
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da risorse umane e tecniche impegnate nell’acquisizione
mirata di immagini, opportunamente archiviate e organizzate in task, resi disponibili, su server in rete, per
essere scaricati ed elaborati da un numero molto elevato
di calcolatori (fig. 4).
L’inserimento in un contesto Citizen Science potrebbe
avvenire in modo convenzionale attraverso la creazione
di un gruppo aderente a uno o più specifici programmi,
oppure in maniera autonoma creando task, applicazioni
per il prelevamento delle unità di lavoro, per la loro elaborazione e per la trasmissione dei pacchetti analizzati.
Appare assai interessante l’ipotesi di eseguire verifiche
parallele sui frame digitali ovvero, ”scandagliare” le immagini con le procedure implementate nei software di
gestione e controllo, id est blinking automatico, e, successivamente, organizzarle in work unit per un’analisi di
tipo distribuito.
La creazione di un client progettuale, inteso, in questo
specifico caso, come programma che si occupa di pianificare, organizzare e distribuire i pacchetti contenenti le
unità di lavoro, deve rispettare criteri di priorità per impedire rallentamenti procedurali nell’elaboratore sul
quale è installato.
Organizzando in modo appropriato le precedenze, il
client progettuale richiede risorse alla macchina solo
quando questa è in grado di dispensarle ottimizzando la
resa dell’hardware stesso.
Una piattaforma per il calcolo distribuito costituirebbe
un’innovazione, almeno sulla carta, molto importante
che consentirebbe di usare al meglio le immagini ottenute dalle strumentazioni e di estrapolarne quante più
informazioni possibili anche in tempi postumi
all’acquisizione. L’archivio stesso diventerebbe, per davvero, una risorsa dalla quale attingere e non fungerebbe
solo da magazzino di deposito organizzato.
Come spunto per intraprendere un percorso valutativo
da seguire al momento di decidere se creare o meno un
determinato programma distribuito o una specifica APP
for Citizen Science, possiamo considerare un contatto
intercorso, a metà dell’anno 2014, fra Rodolfo Calanca,
Direttore editoriale EANweb community, e Andrea Sforzi, Direttore del Museo di Storia Naturale della Maremma, nel quale il cofondatore dell’European Citizen
Science Association, ha manifestato un apprezzamento
nei confronti di alcune idee, contenute in questo volume, nell’ottica di un loro eventuale inserimento nel quadro ECSA, http://ecsa.biodiv.naturkundemuseumberlin.de .
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M. Dho, Citizen Science
menti non attuabili e neppure pensabili. Non dimentichiamo, inoltre, il vantaggio, per nulla indifferente, di
poter usufruire di risorse tecniche e umane a costo zero! La natura intrinseca di un percorso di tipo Citizen
Science avvicina persone comuni agli studiosi professionisti e ai loro campi d’indagine, contribuisce
all’avanzamento della ricerca anche in periodi di ristrettezze economiche e di tagli ai budget. Non dimentichiamo, per concludere, il valore istruttivo e didattico che il
coinvolgimento attivo a un progetto di scienza popolare
può assumere negli ambienti scolastici. Nell’ultimo anno della Scuola Primaria e, ancor più nella Secondaria,
gli insegnanti possono disporre di uno strumento di
apprendimento del tutto innovativo e ricco di stimoli
per far comprendere agli studenti i metodi della scienza
in generale.
FIG. 4: Ipotetica architettura organizzativa di un progetto
di tipo Citizen Science made by itself.
La costituzione di un’associazione per il coordinamento
di progetti Citizen Science, dovuta a trustees fondatori
di rilievo quali Jaqueline MacGlade, per dieci anni direttrice dell’European Environment Agency, Johannes
Christian Vogel, direttore generale del Museo di Storia
Naturale di Berlino e il nostro, sopra citato, Andrea
Sforzi, definisce, per certi aspetti, una strategia europea
in tema e determina le linee guida da seguire per entrare in un mondo particolarmente ricco di prospettive e
certamente destinato a divenire una realtà portante e di
rilievo nel contesto scientifico internazionale.
Un’associazione di astrofili può e dovrebbe avere un
approccio partecipativo alla scienza avvalendosi delle
esperienze e delle capacità dei propri membri, appoggiando e coadiuvando progetti in svolgimento e fornendo indicazioni e spunti per quelli a venire, senza scartare il concepimento e il lancio di idee di tipo @home o
APP, for Citizen Science, made by itself.
Questi piani progettuali garantiscono evidenti vantaggi
agli scienziati giacché, questi ultimi, possono svolgere
compiti e dedicarsi all’estrapolazione di deduzioni altri-
Mario Dho , master-chief technician, first head of the instrumentation section of the Unione Astrofili Italiani (Italian
Amateur Astronomers Union) and of the “CCD-UAI” project.
Author of a manual with foreword of the astrophysicist Margherita Hack, dedicated to the automation and remote controlling of an astronomical observatory.
Dozens of his technical articles were published in national
journals of science and culture, webzines and websites.
Numerous contributions to popular tendency, signed by him,
have appeared in local magazines.
Software and application modules tester for the automatic
control of astronomical instruments.
--Perito-capotecnico industriale, primo responsabile della Sezione Strumentazione dell’Unione Astrofili Italiani e del progetto
“CCD-UAI”. Autore di un manuale, con prefazione
dell’astrofisica Margherita Hack, dedicato alla robotizzazione e
alla remotizzazione di un osservatorio astronomico. Decine di
suoi articoli tecnici sono stati pubblicati su riviste nazionali di
scienza e cultura, webzine e siti Internet.
Numerosi contributi a carattere divulgativo, da lui firmati,
sono apparsi su periodici nazionali e locali
Tester di software e moduli applicativi per il controllo automatico di strumentazioni astronomiche.
M. Cardaci, Macchie, ombre
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MACCHIE, OMBRE E ALIENI
Massimo Cardaci
[email protected]
In questo dipinto di Eyre Crowe, del 1891, è raffigurato il giovanissimo astronomo inglese Jeremiah Horrocks
(1618– 1641) mentre osserva il transito di Venere sul disco del Sole del 4 dicembre 1639.
Nel precedente articolo, a pagina 31 di questo stesso
numero della webzine Astronomia Nova, abbiamo sbirciato le prime briciole della storia che sta dietro la scoperta delle macchie solari. Vi avete trovato delle annotazioni sulla necessità di trascurare le interpretazioni
del fenomeno, di solito piuttosto fantasiose.
In quest’articolo faremo una carrellata delle prime interpretazioni scientifiche, ovvero delle interpretazioni
formulate una volta che il fenomeno è stato riconosciuto come interessante soggetto di studio in se.
Ma dove sono queste macchie?
A noi oggi sembrerà strano, ma per secoli, e fino alle
soglie del 1700, uno dei primi quesiti da dipanare sul
nuovo fenomeno era la sua posizione spaziale.
Probabilmente
influenzati
dalla
fede
nell’incorruttibilità dei cieli di origine aristotelica,
schiere di scienziati occidentali ritenevano, infatti, che
le macchie fossero corpi celesti in rotazione intorno alla
Terra o al Sole, che diventavano visibili come ombre nel
passaggio davanti al nostro astro.
Ma anche a oriente non se la passavano meglio, dato
che come abbiamo visto. gli annali le riportano come
ombre di oggetti o animali. Le dispute al riguardo furono lunghe e “feroci”, coinvolgendo personaggi di primo
piano.
Si potrebbero elencare qui le prove sostanziali presentate da Galileo, nella sua famosa disputa con il gesuita
Christoph Scheiner (le Tre Lettere), ma preferisco riportare il contributo del meno noto, ed assai sfortunato,
geniale astronomo inglese Jeremiah Horrocks, morto
ad appena 23 anni per cause sconosciute.
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ASTRONOMIA NOVA
n.20/2014
M. Cardaci, Macchie, ombre
Disegno del disco del Sole durante il transito di Venere del
4 dicembre 1639, eseguito da
Horrocks, il quale riporta tre
posizioni del disco planetario,
che rappresenta scurissimo e
perfettamente circolare ma
estremamente piccolo, appena
1’ di diametro , assai minore
rispetto alle stime di astronomi come Tycho Brahe che addirittura gli attribuiva un diametro di 12’ (più di un terzo
del disco solare!) o i 7’ di Keplero. Questo disegno è contenuto nell’opera postuma di
Horrocks, Venus in Sole visa,
pubblicata a Danzica nel 1662
da Johannes Hevelius.
Quest’ultimo, ricco commerciante di birra e straordinario
astronomo, acquisì per pochi
denari il preziosissimo manoscritto dello studioso inglese.
Il giovane Jeremiah fu il primo astronomo ad avere la
piena consapevolezza delle circostanze del transito di
Venere del 4 dicembre 1639, che osservò con grande
cura, annotando con gioia le circostanze del fenomeno:
"Osservai allora il più piacevole degli spettacoli [il pianeta Venere], l'oggetto dei miei ardenti desideri: una
nuova macchia di grandezza insolita e di forma perfettamente circolare che era già totalmente entrato nella
parte sinistra del disco del Sole".
L’aspetto perfettamente circolare del disco di Venere
non gli fece mai dubitare di trovarsi davanti ad un
transito planetario anziché alle tanto discusse ed elusive macchie solari.
Nel proseguo dei suoi studi, egli, in modo anche molto
appassionato, presentò quattro prove sulla realtà delle
macchie quale fenomeno proprio del Sole. Egli le presentò come confutazione all’affermazione che una particolare macchia osservata fosse Venere, o comunque un
oggetto celeste.
La prima riguarda le dimensioni delle macchie, che sarebbero molto maggiori di Venere.
La seconda riguarda la forma delle stesse. Egli fa infatti
notare che le macchie: “non sono altro che esalazioni di
fumo e (come dice la parola) nubi solari, che costando
di materia fluida, e facilmente dissipabile, rarissimamente assumono una forma circolare, ma figure irregolari e deformi, assomigliano esattamente alle nubi
terrestri”.
Ne segue che, essendo la figura della macchia in esame
molto allungata, “non è una stella, come alcuni sognano, ma null’altro che una macchia poco comune”.
Un altro elemento a differenza di semplici ombre di
oggetti orbitanti sarebbe il colore e le sfumature che
esse assumono: "Le macchie ordinarie, o nubi solari,
essendo materie tra le più varie, non del tutto condensate, e appena superanti la densità di alcuni spessi
fumi, per questo motivo non possono nascondere perfettamente la luce del Sole, ma i suoi raggi, un poco
attenuati passeranno: onde accade, per quanto raramente, mai fino a tal punto, anneriscano una zona regolarmente, ma con un colore pallido, mostrano luce e
tenebre miste insieme specialmente verso la loro bocca".
Ciò è in contrasto con quello che fanno Venere e Mercurio, i due soli pianeti che transitano davanti al Sole:
l’ombra che essi proietterebbero è uniforme, e non presenterebbe un nucleo più scuro, oltre al fatto che nemmeno la loro ombra sia così uniforme e nera come quella dell’interno delle macchie.
Ultimo fattore di differenza sarebbe il moto delle macchie. Horrocks evidenzia che mentre i pianeti, quali ad
esempio Venere, che più si avvicinano alle dimensioni
della macchia, si spostano sul disco solare attraversandolo tutto in poche ore (ad esempio, il transito di Vene-
M. Cardaci, Macchie, ombre
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Il disegno di una grande macchia solare, apparsa il 4 gennaio 1801, eseguito da William Herschel ed inserito in un suo ampio saggio pubblicato nella rivista della Royal Society (W. Herschel, Observations tending to investigate the Nature of the
Sun, Philosophical Transactions, 91, 1801, pp. 265-318)
re dell’8 giugno 2004, in Italia, durò mediamente 5 ore
e 24 minuti), le macchie fanno una rotazione in circa un
mese, e che il moto dei pianeti sul disco è uniforme,
mentre le macchie mostrano un rallentamento
nell’approssimarsi ai bordi.
Horrocks è solo un esempio, ma oltre a Galilei, ci furono altri studiosi del calibro di Hevelius e Flamsteed,
oltre a tantissimi altri “sconosciuti” che si prodigarono
a che il fenomeno fosse posto sul Sole e non altrove.
Buche o nuvole luminose?
Accertare che le macchie fossero un fenomeno proprio
del sole era solo il primo passo.
Le prime ricerche avevano avuto l’effetto di interessare
la comunità scientifica al fenomeno, con il notevole risultato di una mole ingente di osservazioni indipendenti. Il problema era che tali osservazioni andavano poi
interpretate… E, come si sa, l’homo sapiens ha una prodigiosa fantasia.
Ci furono personaggi anche notevoli che a fronte di osservazioni accurate, le consolidarono in teorie per lo
meno “particolari”. Tanto per fornire un esempio, farò
il caso della coppia (padre e figlio) degli Herschel,
scienziati di meritata e indubbia fama.
La teoria di Herschel padre (Fredrick Wilhelm Her-
schel) sulle macchie solari fu pubblicata nel 1795, ma le
ricerche iniziarono con l’osservazione della grande
macchia del 1779. La macchia in questione fu osservabile per circa sei mesi e aveva un diametro tale che la Terra ci sarebbe entrata circa 64 volte!
Herschel scriveva: “Il Sole non sembra essere null'altro
se non un grandissimo e larghissimo pianeta chiaro,
evidentemente il primo, il solo originario del nostro
sistema; tutti gli altri sono certamente posteriori a
esso. La sua somiglianza con gli altri globi del sistema
solare con riguardo alla sua solidità, alla sua superficie differenziata, alla rotazione intorno ad un proprio
asse, al precipitare dei corpi pesanti, ci induce a supporre che esso sia con molta probabilità abitato, come
il resto dei pianeti, essendo i corpi dei suoi abitanti
abituati alle peculiari caratteristiche di un così vasto
globo”. Questo è quanto, in generale, egli si propose di
dimostrare.
Un’accurata descrizione dell'ipotesi del padre ce la fornisce suo figlio, John Fredrick Wilhelm Herschel.
Egli, rifacendosi alla seconda pubblicazione della teoria
(datata 1801 e dalla quale è tratto il disegno in questa
pagina), che comunque risentì di poche varianti, dice:
“Herschel [NdA: il padre] pensa che lo strato luminoso
dell'atmosfera sia sostenuto appena sopra il livello
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M. Cardaci, Macchie, ombre
A sinistra, il ritratto di Frederick William Herschel (1738-1822) e, a destra, il ritratto fotografico del figlio, John Frederick
William Herschel (1792 – 1871), realizzato nel 1867 dalla grande fotografa Julia Margaret Cameron.
del corpo solido da un mezzo trasparente elastico che
continua verso la superficie con uno opaco, il quale,
essendo molto illuminato da sopra, riflette una notevole porzione di luce ai nostri occhi e forma la penombra,
mentre lo strato solido, riparato dalle nubi, non riflette. La temporanea rimozione di entrambi gli strati, ma
il superiore in misura maggiore, per lui è causato da
correnti ascendenti dell'atmosfera che nascono da spiragli nel corpo o da agitazioni locali".
In pratica, Herschel padre ipotizzò l'esistenza di due
strati di nubi luminose che, in seguito a perturbazioni,
potevano temporaneamente squarciarsi. In caso di rottura dello strato superiore si sarebbe visto l’inferiore
meno luminoso (la penombra), e dove si fosse squarciato anche quest’ultimo si sarebbe potuto osservare il
suolo oscuro (il nucleo delle macchie). E magari anche i
suoi abitanti.
D’altra opinione fu Alexander Wilson (1714-1786), astronomo ed ornitologo scozzese. Egli nel 1774 formulò
un’ipotesi diversa (e una legge che porta il suo nome). I
risultati che scaturirono da quasi cinque anni di ricerche, iniziate con l'osservazione della grande macchia
del 1769, furono pubblicati nel 1774. Vi si legge: “Io ho
trovato che l'ombra, che prima era uniformemente
disposta intorno al nucleo, appare molto contratta in
quella parte che è verso il centro del disco, mentre l'altra parte di essa rimane circa delle stesse dimensioni.
Io conclusi che la zona oscura, o penombra, che circonda il nucleo, non potrebbe essere null'altro che una
depressione nella superficie luminosa del Sole”.
Oggi chiamiamo questo fenomeno con il nome del suo
scopritore: Effetto Wilson, ossia l’apparente restringersi
o allargarsi della parte di penombra rivolta verso il centro del disco è dovuta a un semplice effetto prospettico.
Altre ipotesi suggestive
Spiegazioni di quanto era osservato ne furono presentate
tante altre, ma una vale la pena di essere riportata, dato
che fece molti proseliti e fu addirittura ripresa per spiegare diversi fenomeni collegati alle macchie solari.
Si tratta di un deja-vu (duro a cedere il passo): la teoria
meteorica.
Avete presente le fantastiche macchie lasciate sulle nubi
di Giove dalla relativamente recente caduta di una cometa (Shoemaker-Levy 9 del 1994)?
I fautori di questa ipotesi (tra cui lo stesso Herschel figlio) ritenevano che le macchie fossero il risultato visibile
del precipitare di meteoriti, orbitanti in un anello intorno al Sole, tali da provocare squarci che mettevano in
vista gli strati sottostanti più oscuri.
Costoro andarono oltre, assegnando a queste meteore
altre proprietà fenomenali, come essere la causa della
rotazione differenziale del Sole (grazie al trasferimento
d’impulso dovuto alla loro caduta), e il determinare lo
stesso ciclo undecennale di attività solare.
Conclusioni
I primi passi nello studio delle macchie solari dimostra-
M. Cardaci, Macchie, ombre
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Composizione di immagini di una grande macchia solare ripresa nell’arco di due settimane, nello scorso mese di ottobre, dalla
sonda giapponese Hinode. L’effetto Wilson è evidente nelle immagini del 18 e del 28 ottobre.
rono presto che il fenomeno era tutt’altro che di semplice spiegazione, come poteva essere sembrato. E si era
solo all’inizio, perché ben altre sorprese aspettavano la
comunità, scientifica e non, e molta acqua sarebbe dovuta passare prima di comprendere un po’ meglio questo fantastico evento solare.
Ma questa è tutta un’altra storia, che vedremo prossimamente.
Macchie sul Sole? Stai scherzando,vero?
Questo articolo è tratto da una collana di 14 volumetti dal
titolo “Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”.
Si tratta dell’avvincente storia della scoperta delle Macchie
Solari. Una storia di uomini e idee lunga 3000 anni. Ciascun volumetto copre un tema specifico: dalle osservazioni
pre-telescopiche, ai cicli e rotazione, dalle prime scoperte
scientifiche alla fotografia e cinematografia solare, dalla
nascita della moderna fisica solare all’influenza
sull’ecosistema Terrestre. Al fianco di tantissimi personaggi poco noti, ma non per questo meno importanti, ci sono
anche alcune “monografie”: Istituto delle Scienze di Bologna, Galilei e Scheiner, Secchi, Hale. Monografie con alcune interessanti sorprese che aprono la strada a una rilettura diversa di alcuni eventi storici. I volumetti, frutto di
numerosi anni di ricerca, sono in formato E-Pub, e sono
venduti con ricavato interamente versato in beneficenza
(www.edc-consulting.org – Sezione “Storia Macchie Solari” – da cui si possono anche liberamente scaricare le anteprime).
Massimo Cardaci nasce a Roma nel 1966. Completati
gli studi secondari classici e la laurea in Fisica, è entrato nel mondo del lavoro dalla porta del terziario
avanzato. Lavora attualmente come manager nel settore Spazio per una Multinazionale di Servizi.
Ha pubblicato un saggio sui sistemi di Governance
Aziendali Etici (“La Terza Strada: una storia di Principi, Maestri e Cappellai”), un testo sul Time
Management (“Mi cambierebbe 25 minuti?”) e una
serie di 14 volumetti (“Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”) sulla storia della scoperta delle Macchie
Solari. Ha anche scritto diversi articoli a tema
management, tecnologia e sicurezza informatica.
Si interessa di giardinaggio, cucina e fantascienza, accompagnati dalla passione per la corsa e da un costante impegno nel volontariato.
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P. Bacci et al., Frammento B
IL FRAMMENTO B DELLA COMETA C/2011 J2 (LINEAR)
Paolo Baccia,b
[email protected]
Luciano Tesia, Giancarlo Fagiolia
Emilio Rossib, Maurizo Ferabolib, Alberto Villab,
Carlo Buscemib, Paolo Piludub, Menichini Valeriob,
Dario Ciurlib, Francesco Biascib, Mimmo Bellib, Fabio Marziolia
A sinistra, il telescopio di 60 cm dell’Osservatorio astronomico di San Marcello Pistoiese (Pistoia), gestito dal GAMP, Gruppo Astrofili Montagna Pistoiese, http://www.gamp-pt.net/ . A destra, il telescopio di 50 cm dell’Osservatorio astronomico di
Libbiano, nel Comune di Peccioli (Pisa), gestito dall’AAAV, Associazione Astrofili Alta Valdera, http://aaav.altervista.org/ .
Abstract
L'osservazione del frammento B della cometa C/2011
J2 (LINEAR) ottenuta da tre Osservatori astronomici
amatoriali, ha permesso di misurare il suo progressivo
allontanamento dal falso nucleo cometario da 8,4” a
23,7” in un periodo di 45,9 giorni, di calcolare la velocità media di separazione che da 5,1 m/s è aumentata
a 10,2 m/s, e di registrare una diminuzione della luminosità di circa 2,8±0,2 magnitudini.
La cometa C/2011 J2 (LINEAR) è stata scoperta all'Osservatorio Catalina Sky Survey USA (MPC 703),
http://www.lpl.arizona.edu/css/ , la notte del 10 marzo
2011 come riportato dalla circolare MPEC 2011-J31 [1].
Quando l'oggetto era ancora nella pagina web della The
NEO Confirmation Page (NEOCP) del Minor Planet
Center (MPC), di 19a magnitudine, l'Osservatorio di San
Marcello Pistoiese ne confermava la natura cometaria.
Per i successivi tre anni dalla scoperta la cometa non ha
evidenziato alcuna caratteristica peculiare, almeno fino a
quando il Central Bureau for Astronomical Telegrams,
con il CBAT n. 3979 del 19 settembre scorso, annuncia la
scoperta di un frammento staccatosi dalla cometa, individuato da F. Manzini, V. Oldani, e A. Dan, dalla Stazione Astronomica di Sozzago, e R. Crippa, dall'Osservatorio di Tradate, nelle notti del 27-28 agosto 2014.
Il frammento viene confermato anche dall'Osservatorio
di San Marcello il 14 settembre e da altri osservatori italiani, come riportato nella CBAT sopra citata. Nel momento della prima osservazione, il frammento, che si
______________________
a. GAMP – Gruppo Astrofili Montagna Pistoiese, Osservatorio Astronomico San Marcello Pistoiese (code MPC 104)
b. AAAV – Associazione Astrofili Alta Valdera, Centro Astronomico Libbiano Peccioli (Code MPC B33)
P. Bacci et al., Frammento B
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Tabella 1: misure astrometriche della cometa ottenute
con DS9.
trovava ad appena 0,8” dal corpo principale (stimato di
14a magnitudine), era di magnitudine 16,5 circa.
Le osservazioni della cometa e del frammento B sono
continuate presso gli Osservatori di San Marcello Pistoiese e di Libbiano, rispettivamente il 19 ed il 29 ottobre
scorsi. Sono state esaminate ed utilizzate anche le immagini, acquisite da Andrea Mantero, il 21 settembre
all'Osservatorio di Bernezzo (Cuneo).
Il materiale fotografico è stato elaborato con il software
DS9[2] per determinare il centro fotometrico sia del
falso nucleo sia del frammento B e quindi ricavare le
posizioni astrometriche di entrambi gli oggetti (tabelle 1
e 2).
In figura 1 abbiamo l’immagine in falsi colori del 19 settembre ottenuta all’Osservatorio di San Marcello; i due
cerchi circoscrivono i “centroidi” del falso nucleo e del
frammento B.
La successiva immagine (figura 2), anch’essa in falsi
colori, è stata ottenuta il 29 ottobre al telescopio di 50
cm dell’Osservatorio di Libbiano, 40 giorni dopo la precedente.
I dati estrapolati sono stati inseriti nel grafico di figura
3, dove sulle ascisse sono riportati i giorni successivi al
passaggio al perielio, e sulle ordinate la distanza del
frammento B dal falso nucleo della cometa in secondi
d'arco.
Il telescopio newtoniano di 25
dell’Osservatorio di Bernezzo (Cuneo).
cm
Tabella 2: sono riportate le misure,
ottenute con il software DS9, ricavate
dalle immagini di cui alla tabella 1.
Per ogni data è stata determinata la
separazione angolare tra il falso nucleo ed il frammento B, l'angolo di
posizione (PA), che però in questa
tabella, per una diversa convenzione,
differisce di -90° rispetto ai valori
ricavati dalle Minor Planet Circulars;
quindi Δ, ossia la distanza in Unità
Astronomiche UA della cometa dal
Sole, infine, r, la distanza Terracometa in UA.
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P. Bacci et al., Frammento B
Tabella 3: Caratteristiche
strumentali e di risoluzione dei sistemi di ripresa.
In figura 4 sono riportati gli angoli di posizione del
frammento B, calcolati dalle osservazioni (vedi tabella
2), confrontati con i valori estrapolati dalle Minor Planet Circulars per le stesse date. In figura è anche riportato l’angolo di fase, ripreso dalla tabella 4. Si noti che
gli angoli di posizione PA, da noi osservati rispetto a
quelli calcolati dalle MPC, coincidono solamente
nell’osservazione di Bernezzo del 29 ottobre. Negli altri
casi le differenze arrivano fino a 40°.
In figura 5 sono invece riportati sia i valori dell'angolo
FIG. 1: Immagine in falsi
colori della cometa ottenuta
il 19 settembre al 60 cm
dell’Osservatorio di San
Marcello.
Fig. 2: La cometa, 40 giorni
dopo la precedente immagine, ripresa all’Osservatorio
di Libbiano con il telescopio
di 50 cm.
P. Bacci et al., Frammento B
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FIG. 3: Grafico dei valori della distanza del
frammento B dal falso nucleo delle quattro osservazioni di cui alla tabella 2, espressi in funzione dei giorni trascorsi dalla passaggio al perielio, avvenuto il 25 dicembre 2013.
Tabella 4 (sotto): Alcuni dati sulla cometa,
relativi alle osservazioni di cui alla tabella 2,
estrapolati dal Minor Planet & Comet Ephemeris
Service. L’elongazione è l'angolo tra il Sole e la
cometa, visto dal centro della Terra; l'angolo di
fase è l’angolo formato delle direzioni cometa—
Sole e cometa—Terra.
di posizione PA del frammento B secondo le nostre misure e quelle fornite dalle MPC (vedi anche fig. 4), sia
quelli dell'elongazione della cometa nelle stesse date.
Analisi delle osservazioni
In attesa di ricevere ulteriori immagini della cometa
che consentano di approfondire l’analisi, possiamo dire
che, dall’esame del materiale in nostro possesso, il
frammento B si è allontanato dal nucleo cometario, nel
periodo in esame, da 8,3±0,1” a 23,7±0,1” (si veda tabella 2). Inoltre, le stesse immagini mostrano che il
frammento B ha modificato la propria traiettoria, rispetto alla nostra prima immagine del 14 settembre,
deviando di 39.5°±5.0, in modo non lineare.
FIG. 4: Angolo di posizione (in rosso) del
frammento B, calcolato dalle osservazioni
di cui alla tabella 2, confrontato con i valori estrapolati dalle Minor Planet Circulars
(in blu) per le stesse date. E’ riportato anche l’angolo di fase (triangolo nero) ripreso dalla tabella 4. Gli angoli di posizione
PA coincidono solamente nell’osservazione
di Bernezzo del 29 ottobre. Negli altri casi
le differenze arrivano fino a 40°.
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P. Bacci et al., Frammento B
FIG. 5: nel grafico i valori dell'angolo di
posizione PA del frammento B secondo le
nostre misure e quelle fornite dalle MPC,
così come in fig. 4, confrontati con l'elongazione della cometa, in funzione dei
giorni trascorsi dal passaggio al perielio.
Il frammento ha anche aumentato la propria velocità di
allontanamento dal falso nucleo, così come mostrato
in figura 6. L'incremento medio della velocità è passato
da 5,2 metri al secondo a 10,3 metri al secondo, nel periodo considerato (si veda la tabella 5). I valori ricavati
sono abbastanza in accordo con quanto riportato in figura 7, ottenuta da H. Boehnhardt[4].
Nella tabella 6, tramite il software Astrometrica [5], abbiamo riportato la magnitudine del frammento B su di
un periodo di 45.9 giorni, che è diminuita di quasi 3 magnitudini, da 16,5±0,20 a 19,30±0,20.
Tabella 5 (sopra): Misure eseguite sul frammento
B, ricavate dalle immagini riprese negli Osservatori
di San Marcello, Libbiano e Bernezzo, prendendo
come punto di partenza l’osservazione del 14 settembre.
FIG. 6: velocità angolare di allontanamento del
frammento B in secondi d’arco al giorno.
P. Bacci et al., Frammento B
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FIG. 7: velocità di separazione dei frammenti in
funzione della distanza dal
Sole, in Unità astronomiche. Le comete a corto
periodo sono indicate con
un quadrato; quelle a lungo periodo con un rombo,
mentre le nuove comete
(quelle che hanno avuto
rari passaggi in prossimità del Sole), con triangoli.
Fonte: H. Boehnhardt,
Comet Split, http://
www.lpi.usra.edu/books/
CometsII/7011.pdf
In queste stime di magnitudine, occorre considerare il
fatto che nei primi giorni dopo il distacco il frammento
era ancora molto vicino al nucleo cometario, per cui la
sua l'effettiva luminosità è stata certamente influenzata
dalla luminosità della chioma.
La cometa, al momento del distacco del frammento B,
si trovava ad una distanza dal Sole di circa 4,2 UA, in
una zona dove la sua temperatura superficiale stimata
può variare tra 130°K e i 195°K. L'indeterminatezza di
questi valori è funzione della formula utilizzata nei calcoli. In figura 8 indichiamo le curve di temperatura in
funzione della distanza eliocentrica della cometa, utiliz-
zando le formule contenute negli studi [5,6]. La linea
orizzontale di colore fucsia corrisponde alla temperatura di 273 °K, mentre con una linea verticale di colore
grigio riportiamo la distanza eliocentrica della cometa
al momento della frammentazione.
L'analisi fotometrica ed astrometrica di altre immagini
cometarie, riprese in tempi successivi a quelle qui proposte, ci consentirà di raccogliere ulteriori informazioni
sull'evolversi del moto del frammento B e quindi perfezionare i risultati qui solo sommariamente esposti.
FIG. 8: temperatura
superficiale della cometa in funzione della
distanza dal Sole. Il
valore, alquanto indeterminato può essere
compreso tra le curve
rossa e verde.
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P. Bacci et al., Frammento B
TABELLA 6: misure
astrometriche e di
magnitudine
del
frammento B della
cometa C/2011 J2
(LINEAR).
Ringraziamenti
Si ringrazia Andrea Mantero dell'Osservatorio di Bernezzo (C77) per aver messo a disposizione le sue immagini;
la Prof.ssa Eleonora Tommasi per la revisione di questo
testo.
Bibliografia
[1] Minor Planet Center M.P.E.C.:
www.minorplanetcenter.org/mpec/K11/K11J31.html
[2] Software SAOImage DS9 Version 7.3.2 http://
ds9.si.edu/
[3] Minor Planet Center effemeridi
[4] H. Boehnhardt, Comet Split, www.lpi.usra.edu/
books/CometsII/7011.pdf
[4] Software Astrometrica
[5] I. Ferrin et al.The location of Asteroidal Belt Comets
(ABCs), in a comets' evolutionary diagram: The Lazarus Comets, http://arxiv.org/ftp/arxiv/
papers/1305/1305.2621.pdf
[6]J. A. Fernández, Comets: Nature, Dynamics, Origin,
and their Cosmogonical Relevance , p. 65
Paolo Bacci, nato nel 1968, astrofilo sin dall'adolescenza, quando si associò al GAMP Gruppo Astrofili
Montagna Pistoiese, e si occupava dell'osservazione
visuale di meteore e stelle variabili.
Successivamente è entrato a far parte dell'AAAV Associazione Astrofili Alta Valdera, dove si occupa di asteroidi e comete.
Osserva da:

B33 Osservatorio “G. Galilei” Centro Astronomico Libbiano Peccioli (PI)

104 San Marcello Pistoiese (PT).
Il suo sito: www. backman.altervista.org
R. Calanca, Cometografia, IIa
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COMETOGRAFIA ITALICA
UNA RASSEGNA DELLE COMETE SCOPERTE DA ITALIANI
SECONDA PARTE
(segue dal n. 19 di A.N., pp. 71-81)
Rodolfo Calanca
[email protected]
FIG. 1: Il gesuita Padre Angelo Secchi, uno
dei maggiori astronomi dell’Ottocento.
FIG. 2: : Il rifrattore di Merz da 24 cm, installato nella specola Pontificia del
Collegio Romano, sopra la chiesa di S. Ignazio, in una stampa del 1854.
Angelo Secchi
Il reggiano Angelo Secchi (1818 - 1878), figura 1, è uno
dei più eminenti astronomi dell'Ottocento. Entra nella
Compagnia di Gesù all'età di 15 anni, studia al Collegio
Romano (successivamente chiamato ‘Università
Gregoriana’) e insegna fisica e matematica nel collegio
dei gesuiti a Loreto, ad appena 23 anni.
Nella breve parentesi della Repubblica romana, la cacciata da Roma della Compagnia costringe Secchi
all’esilio in Inghilterra e negli USA. Nel 1849 torna in
Italia e l'anno successivo succede a Francesco De Vico
nella direzione dell'osservatorio del Collegio Romano,
che ricostruisce, trasferendolo sopra la chiesa di S. Ignazio, anche grazie al contributo economico del suo
assistente, il padre Paolo Rosa che, con l'eredità paterna, acquista, e dona subito all'Osservatorio, un eccel-
lente equatoriale di Merz di 24 cm di apertura e 435 cm
di distanza focale, (figura 2).
L'attività scientifica di padre Secchi è molto vasta ed
articolata: nel 1852 rintraccia i due frammenti della
cometa di Biela; qualche anno dopo crede di individuare su Marte due "canali", in largo anticipo su Schiaparelli e Lowell.
E' tra i primi a fotografare la corona solare in eclisse e a
ottenere immagini spettroscopiche del bordo dell'astro.
E' considerato da molti il fondatore della spettroscopia
stellare, per avere classificato le stelle in quattro tipi
spettrali.
Scrive libri divulgativi molto apprezzati e, insieme a
Pietro Tacchini (1838-1905), fonda le Memorie della
Società degli spettroscopisti italiani, la prima pubblicazione periodica dedicata esclusivamente all'astrofisica.
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ASTRONOMIA NOVA
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R. Calanca, Cometografia, IIa
Lo ricordiamo qui per la cometa C/1853 E1 Secchi,
scoperta il 6 marzo 1853, alla specola pontificia, nei
pressi della stella μ della costellazione della Lepre.
Così egli la descrive: “Essa era assai splendida e visibile
anche in un mediocre cercatore, ma da quei giorni in
poi è andata sempre scemando di luce”.
In diverse notti, il nucleo gli appare “come composto di
vari piccoli nuclei e che pure questo nelle prime sere
[dopo la scoperta] appariva con più punti luminosi al
centro”.
Nel corso del mese di marzo, dopo aver esaminato i calcoli preliminari dell’orbita della cometa eseguiti dal
padre Rosa, e dopo un rapido esame del catalogo delle
comete di Galle, gli viene il sospetto che la sua cometa
sia la stessa apparsa nel 1664, la C/1664 W1;
quest’ultima “presenta elementi quasi identici colla nostra”. Secchi così scrive: “fortunatamente di quella del
1664 abbiamo una bella serie di osservazioni di vari
Astronomi e sopratutti di Evelio il quale la osservò a
Danzica per più di due mesi… Comparsa da principio
alla mattina passò all’opposizione sul finire del dicembre 1664 ed era assai vicina alla terra… Se veramente i
due astri fossero identici questa cometa compirebbe il
suo giro in 188 anni e la sua distanza media dal Sole
sarebbe poco maggiore di quella di Nettuno”.
Oggi però sappiamo che si tratta di due comete che non
hanno nulla in comune tra loro.
Ma qualcosa che la caratterizza, la cometa di Secchi del
1853, comunque ce l’ha: studi recenti hanno dimostrato
che essa ha un’orbita iperbolica accentuata che, in assoluto, è superata solamente dalla C/1980 E1 Bowell.
Nel 2006, R.L. Branham Jr, dell’Instituto Argentino de
Nivologia, ha pubblicato una disamina delle osservazioni della cometa di Secchi, per la quale l’orbita è sempre stata considerata parabolica.
Branham prende in considerazione 91 osservazioni,
pubblicate nel 1853 nelle Astronomische Nachrichten e
nell’Astronomical Journal ed eseguite in 17 diversi Osservatori europei ed americani. Dopo aver apportato
tutte le correzioni del caso, le osservazioni sono state
rielaborate utilizzando il catalogo Tycho-2 per le stelle
di confronto. I risultati dello studio hanno dimostrato,
in primo luogo, che la cometa di Secchi non può essere
identificata con la C/1664 W1, come mostra, anche con
un semplice colpo d’occhio, la figura 3; poi, che la sua
orbita ha un’eccentricità di 1,0106 superata solamente
dalla C/1980 E1 Bowell, con eccentricità 1,0573.
Giovanni Battista Donati
Giovanni Battista Donati (1826 - 1873), figura 4, è nato
a Pisa, dove studia fisica e astronomia. Dal 1852 è aggregato all'osservatorio di Firenze presso il Regio Museo di Fisica e Storia Naturale, allora diretto da Giovanni
Battista Amici (1786-1863) , famoso ottico modenese.
FIG. 3: Grafico del percorso della
cometa di Secchi tra il 1664 ed il
1853, secondo Branham. Il grafico
mostra che, nel 1664, si trovava ad
oltre 20 Unità Astronomiche dalla
Terra, pertanto essa non può essere
identificata con la C/1664 W1 che
invece, nella stessa epoca, era a
meno di 1 UA da noi (fonte: R.L.
Branham Jr, “Orbit of Comet C/1853
E1 (Secchi)”, Revista Mexicana de
Astronomía y Astrofísica, 42, 107116, 2006, p. 111).
R. Calanca, Cometografia, IIa
FIG. 4: Ritratto di Giovanni Battista Donati
L’Osservatorio fiorentino non è dotato di strumentazione avanzata, dispone però delle montature provvisorie
degli ottimi obbiettivi astronomici di Amici (al quale si
deve la fondazione delle “Officine Galileo”), che possono essere impiegati nella ricerca di nuove comete. Gli
interessi scientifici di Donati sono molteplici. Nel 1860
si reca in Spagna per osservare l’eclisse totale di Sole
del 18 luglio. Durante l’eclisse disegna la corona solare
con un cannocchiale di Dollond, opportunamente modificato da Amici. Divenuto direttore dell’Osservatorio,
si occupa, tra i primi al mondo, di spettroscopia stellare
e cometaria, ed è proprio in Spagna che, conversando
con Johann Von Lamont (1805-1879), direttore
dell’Osservatorio di Bergenhausen, apprende delle difficoltà incontrate dagli astronomi tedeschi nel tentativo
di osservare gli spettri stellari.
Tornato a Firenze, ha in mente una brillante soluzione
tecnica che gli consente di osservare gli spettri di un
buon numero di stelle e di qualche cometa. Ricorda che
il Museo dispone di una lente ustoria, di corta focale,
realizzata ben 150 anni prima da Benedetto Bregans e
donata dal costruttore al Granduca Cosimo III de' Medici e che, montata su di una opportuna struttura meccanica, può servire benissimo allo scopo (figura 5). Segue anche le indicazioni di Amici, che gli consiglia di
inserire una piccola lente cilindrica sul percorso ottico,
prima della fenditura dello spettroscopio. Con questo
strumento le osservazioni degli spettri di stelle brillanti
gli suggeriscono una relazione tra il colore delle stelle e
la configurazione delle righe. Negli anni successivi Do-
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FIG. 5: L’obbiettivo di Benedetto Bregan, montato su di un
supporto in legno, utilizzato da Donati come collettore di luce
per osservare gli spettri stellari e cometari
nati progetta e costruisce l’Osservatorio di Arcetri, inaugurato il 27 ottobre 1872. Non ha però la possibilità
di proseguire i suoi studi nella nuova specola; muore
l’anno successivo, ad appena 47 anni, dopo aver contratto il colera al ritorno da un congresso di meteorologia a Vienna. La sua prima cometa, indicata con la sigla
C/1855 L1, la scopre la sera del 3 giugno 1855, quando
gli appare di sesta magnitudine in Auriga. Ne dà
l’annuncio nelle Astronomische Nachrichten (A.N.) n.
968, con queste parole: “… scuoprii una Cometa nella
costellazione del Telescopio di Herschel… non ho scorto
né nucleo né coda, e la giudico, in splendore, più debole
della nebulosa di Ercole [il famoso ammasso globulare
M13]”. La costellazione del Telescopio di Herschel, oggi
obsoleta, è introdotta da Johann Elert Bode (17471826) nella sua Uranographia del 1801 ed è collocata
tra i Gemelli ed Auriga. La notte successiva la cometa è
osservata anche da Wilhelm Klinkerfues (1827-1884) a
Goettingen e da Charles Dien (1809-1870) a Parigi.
Una settimana dopo la scoperta, Donati ne calcola
un’orbita approssimata, retrograda, con un metodo
proposto dal grande matematico Ottaviano Fabrizio
Mossotti (1791-1863). In quei giorni è osservata anche
alla specola di Padova da Virgilio Trettenero (18221863) e da Giovanni Santini (1787-1877), che ne determinano nuovamente l’orbita parabolica grazie alle nuove osservazioni, fissando il momento del passaggio al
perielio al 30 maggio 1855.
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La cometa non è mai stata visibile ad occhio nudo e
scompare definitivamente il 30 giugno, a meno di un
mese dalla scoperta. Pochi mesi dopo, con sole quattro
osservazioni astrometriche, Donati calcola un’orbita
ellittica con un periodo di 493 anni. Una successiva ricerca nei cataloghi cometari gli fa balenare l’idea che la
sua cometa sia la stessa apparsa il 5 marzo 1362, la
C/1362 E1, ed osservata dai cinesi nell’Aquario, poi in
Pegaso e nei pressi delle Pleiadi, per un totale di 34
giorni. In quell’anno, in Europa, la cometa colpisce
l’immaginazione popolare dispiegando una lunga coda
di 20°, dal cupo colore della cenere.
In un articolo sul The Astronomical Journal del 24
marzo 1916, Georges van Biesbrock (1880-1974) ricalcola per l’ennesima volta l’orbita della cometa C/1855
L1 utilizzando 49 posizioni astrometriche. Scopre però
che il periodo coperto dalle osservazioni è troppo breve
per ricavarne, con sufficiente accuratezza, l’eccentricità.
Ne deriva un periodo orbitale incerto, compreso tra 155
e 523 anni. Van Biesbrock conclude il suo lungo lavoro
di analisi affermando che “secondo la mia opinione,
l’identità tra la cometa del 1362 [C/1362 E1] con quella
del 1855 [C/1855 L1] non può essere in alcun modo
provata”.
Passano oltre due anni dalla scoperta della sua seconda
cometa, la C/1857 V1, che oltre il suo nome, porta anche quello dell’amatore Robert van Arsdale, un ricco
americano di Newark, New Jersey, appassionato cacciatore di comete e proprietario di un attrezzato Osservatorio astronomico. Donati la scopre il 10 novembre
1857 nella costellazione del Dragone, con un piccolo
cannocchiale e subito dopo con il grande rifrattore di
Amici di 28 centimetri: la descrive, piccola, assai debole
e di aspetto nebulare. Nella stessa serata, van Arsdale,
con il suo cercatore di comete di 10 centimetri, costruito da Henry Fitz, noto produttore americano di telescopi, la trova e si affretta a comunicarne la posizione
all’Astronomical Journal, associando così il suo nome a
quello di Donati, in veste di secondo scopritore. Nel
corso del mese di novembre è osservata a Washington
da James Ferguson (1797-1867), che la descrive piccola
e debole. A Roma anche padre Secchi la trova pressoché
insignificante. Appare un po’ meno evanescente
all’Osservatorio di Amburgo: George Friedrich Wilhelm
Rümker (1833-1900) la vede sfumata e assai diffusa.
Anche il giovanissimo Georg Friedrich Julius Arthur
von Auwers (1838 – 1915), da Göttingen, nota una leggera condensazione di circa 5’ intorno al falso nucleo.
L’ultima osservazione risale al 19 dicembre ed è eseguita a Berlino dall’assistente di Encke, Wilhelm Julius
Foerster (1832 – 1921), che la intravede nel Delfino.
Nelle Astronomische Nachrichten n. 1184, del 1859,
appare un ampio articolo sull’orbita della C/1857 V1,
Bahnbestimmung des Cometen VI. 1857, pp. 116-122,
nel quale l’autore, von Auwers, ipotizza due tipi di orbite, una parabolica e l’altra ellittica, con un periodo stimato di 6143 anni.
Ma è nella notte del 2 giugno 1858 che Donati fa una
scoperta sensazionale: non lontano da λ Leonis osserva
una delle comete più belle di tutti i tempi, la C/1858
L1 (figura 6).
In una memoria pubblicata qualche anno dopo, la descrive così: “La Cometa il 2 di Giugno, [al rifrattore di
Amici di 28 cm] si presentava come una piccola macchia nebulosa del diametro di circa 3’, avente una luce
uniforme su tutta la sua estensione.
FIG. 6: A sinistra, stupendo acquerello del pittore inglese William Turner (1789-1862) che raffigura la grande cometa
C/1858 L1 Donati. A destra, la stessa cometa in un prezioso dipinto, olio su tela, del pittore inglese James Poole (18031883), con la cometa che si riflette nelle acque di un fiume.
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FIG. 7: Questa immagine della cometa C/1858 L1 Donati, ripresa il 27 settembre 1858 da un fotografo inglese, William
Usherwood (1821-1915), è sicuramente il primo di questi oggetti ad essere immortalato con l’allora nuovissima tecnica
fotografica.
Con tale apparenza si mantenne fino al mese di agosto,
durante il quale la Cometa presentò nel suo centro una
assai forte condensazione di luce, che non potevasi però
dichiarare per un nucleo.
Il 3 di Settembre la Cometa fu veduta ad occhio nudo; e
allora, adoprando i deboli ingrandimenti, scorgevasi
nel mezzo della nebulosità della testa una specie di nucleo bastantemente definito, il quale aveva una luce
quieta ed una forma ellittica coll’asse maggiore in direzione perpendicolare alla direzione della coda, la quale
aveva allora una lunghezza di circa 2°”.
Il 27 settembre, il fotografo inglese William Usherwood
(1821-1915), per la prima volta nella storia, ottiene una
bella immagine fotografica della cometa (figura 7).
Ma è dai primi giorni di ottobre che la cometa Donati
diventa assolutamente spettacolare!
Estende una coda di 30° di lunghezza e presenta degli
aloni parabolici che, ad Harvard, George Phillips Bond
(1825 – 1865), (figura 8), studia al Grande Rifrattore di
38 cm (figura 9). Bond chiede la collaborazione di un
ottimo disegnatore, James Watts, per rendere in modo
realistico il continuo mutamento in atto nella zona della
testa (figura 10).
Ciò che in quel periodo si osserva nella cometa Donati è
già stato descritto ed interpretato da un grande matematico ed astronomo tedesco, Friedrich Wilhelm Bessel
(1784-1846), figura 11, in occasione del passaggio della
cometa di Halley del 1835. Nel corso di quel passaggio,
Bessel studia attentamente la struttura fine della chioma di questa luminosa cometa e mette in evidenza getti,
strutture e raggi a ventaglio che sembrano staccarsi dal
nucleo in direzione del Sole.
FIG. 8: Ritratto di George Phillips Bond, che successe al
padre, William Cranch Bond (1789 – 1859), alla direzione
dell’Osservatorio di Harvard.
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FIG. 9: Il Grande Rifrattore di 15 pollici (38 cm di diametro)
installato nel 1847 all’Osservatorio di Harvard, per vent’anni il
maggior telescopio degli Stati Uniti.
Molte di queste strutture sembrano essere curvate o
ripiegate come se fossero spinte da qualche forza di repulsione da parte del Sole.
Bessel pensa che siano in atto delle forze elettriche repulsive tra le particelle cometarie e le cariche solari. Si
basa su questa ipotesi per calcolare le curve che le particelle avrebbero dovuto seguire. Ne deduce che al centro della chioma c’è una sorta di “fontana” (figura 12),
dalla quale la maggior parte della materia “zampilla”
verso il Sole. Ma, come il getto di una fontana d’acqua
ritorna al suolo per gravità, così il Sole sospinge la materia nella cometa, ed il risultato è abbastanza simile a
quello di una fontana.
Dalla chioma, Bessel passa a studiare la coda, giungendo alla conclusione che il fenomeno delle code cometarie, estese decine di gradi, può essere spiegato solo con
una forza repulsiva, che sospinge il materiale lontano
dal Sole, ed è superiore, come intensità, a quella di gravità. Partendo da questi fondamentali risultati, Bessel
Fig. 10: Il 2 ottobre 1858 James Watts esegue uno splendido
disegno della cometa Donati al rifrattore da 15 pollici all'osservatorio di Harvard College, mentre Bond la descrive così: "il
nucleo ... era insolitamente luminoso, e arrotondato sul lato
verso il sole. L'aumento della luminosità del nucleo annunciava
l'emissione di materiale dalla sua superficie ..."
getta le basi della teoria delle forme cometarie, risultanti dal moto di particelle che, dopo aver lasciato la testa
di una cometa, sono poi soggette a forze repulsive ed
alla gravità.
Anche la cometa di Donati del 1858, come quella di
Halley nell’apparizione del 1835, illustra perfettamente
il concetto di “fontana di Bessel”, così come è stata raffigurata in decine di disegni eseguiti nei maggiori Osservatori europei ed americani. La cometa, infatti, continua ad emettere regolarmente involucri a forma di
fontana per molte settimane.
Passa al perielio, a 0,58 UA dal Sole, il 30 settembre
mentre il punto della sua orbita più vicino alla Terra è
raggiunto il 10 ottobre, a 0,54 UA.
Comincia ad emettere una coda in settembre: il 1° del
mese è lunga poco meno di un grado, il giorno 16 è già
di 7°, mentre alla fine del mese supera i 25°.
Tra il 22 settembre e l’8 ottobre, diversi osservatori la
vedono anche con il cielo ancora illuminato dalla luce
del giorno. Il primo ad eseguire questo tipo di osservazione, è Johann Heinrich von Mädler (1794-1874),
dall’Osservatorio di Dorpat, due soli 2 minuti prima del
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FIG. 11: Francobollo emesso dalle poste tedesche in occasione
dei 200 anni dalla nascita di Bessel.
tramonto, il 22 settembre, al rifrattore Fraunhofer di
24,4 cm dell'Osservatorio.
Nel frattempo, le osservazioni proseguono con alacrità
in tutti i maggiori Osservatori del mondo.
Dall’Osservatorio del Collegio Romano, Padre Secchi ed
i suoi assistenti, padre Paolo Rosa (1825-1874) e padre
Enrico Cappelletti (1831-1899), seguono la cometa con
cura ed attenzione. La sera del 2 ottobre, essi scrivono:
“Le apparenze da questo giorno in poi sembrano aver
preso un carattere tutto diverso dai giorni precedenti.
La cometa ha tre inviluppi ben distinti [si veda anche la
figura 10] il più lontano è una nebulosità diffusa, il secondo è più lucido, più deciso ed è simile al nimbo che
si dipinge attorno ai Santi dai pittori del trecento ed è in
forma circolare che tende a rientrare in se stesso senza
ripiegarsi per secondare la coda, il terzo è una specie di
alone o aureola formata attorno al nucleo e che vedesi
distintamente separata dall’inviluppo intermedio da
uno spazio meno luminoso”.
Anche Donati documenta le osservazioni della “sua”
cometa: “Il 4 e 5 ottobre l’aureola che principiò a vedersi il dì 2, aumento successivamente di diametro e mostrò una piccola macchia oscura nella sua parte Nord.
Le nuvole impedirono di prendere delle misure.
Un’altra aureola cominciò il 4 a vedersi distaccare dal
nucleo. La coda aveva una lunghezza di 40°…
Il 6 ottobre io vidi sempre la macchia scura, nel centro
della quale scorsi una piccola macchia lucida che aveva
l’aspetto, se non di un secondo nucleo, almeno di una
agglomerazione informe di materia, intorno a cui si era
formata un’aureola semicircolare che interrompeva
l’altra aureola che circondava il nucleo principale”.
FIG. 13: In questa bellissima litografia eseguita il 4 ottobre
1858, la cometa, sospesa sopra Notre Dame, mostra due
code spettacolari, quella doppia, rettilinea e filiforme di gas
ionizzato e quella, maestosa, incurvata, di polveri.
Nell’immagine, a sinistra della testa, spicca Arturo, mentre,
in alto, fa mostra di sé la Corona Boreale.
FIG. 12: La “fontana di Bessel”: la luce solare rimanda indietro il materiale che fuoriesce dalla chioma della cometa.
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FIG. 14: La cometa Donati come appariva nel cielo di Praga l’8 ottobre 1858, alle 8 di sera.
Il 7 ottobre al Collegio Romano annotano così le loro
osservazioni: “il secondo involucro è divenuto assai irregolare, mentre sembra ‘pendere’ verso l’est apparente”.
Due giorni dopo gli astronomi vedono quattro inviluppi, poi tre ventagli concentrici, dei quali quello più interno appare più lucido e meglio definito.
Abbiamo già accennato al lavoro di Bond, presso
l’Osservatorio di Harvard. In quei giorni è particolarmente impegnato nello studio della cometa e, in effetti,
il suo rapporto, Account of the Great Comet of 1858,
pubblicato a Cambridge (USA) nel 1862, è in assoluto la
più esaustiva raccolta di osservazioni di questa cometa.
Bond ha un particolare interesse per lo studio dettagliato degli aloni cometari, pertanto, fin dai primi giorni di
ottobre, rivolge il Grande Rifrattore sulla testa di questo luminoso astro chiomato.
Da una sera all’altra gli aloni diventano sempre più
grandi: giunge alla conclusione che essi sono emessi in
media ogni 5 o 6 giorni. Ma egli non è il solo ad occuparsene. A Vienna, in ogni serata serena, J.F. Julius
Schmidt (1825-1884) misura con precisione i diametri
degli aloni lungo la chioma perpendicolare alla direzione della coda. Conclude che gli aloni crescono velocemente e che ogni 4 ore ne appare un altro. Ma ciò contrasta con i tempi stimati da Bond, 30 volte superiori.
In effetti, gli studi di Nicholas T. Bobrovnikoff (18961988), e di Fred L. Whipple (1906-2004), quasi cento
anni dopo l’apparizione della cometa Donati, fissano il
periodo di formazione di un alone (coincidente con il
tempo di rotazione intorno al suo asse) in 4 ore e 37
minuti, in buon accordo con le considerazioni di
Schmidt.
Bond, invece, convinto di essere nel giusto, non accetta
le stime di Schmidt, a causa di una curiosa coincidenza.
Infatti, per una fatale casualità, la longitudine di Harvard, rispetto a Greenwich, è di 4 ore e 44 minuti, vale a
dire solo 7 minuti di più del periodo di rotazione della
cometa. Quando in Inghilterra e nella parte occidentale
dell’Europa gli astronomi osservano la cometa ogni sera
più o meno alla stessa ora, vedono quasi esattamente
ciò che vede Bond nel periodo di rotazione successivo;
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FIG. 15: La massima luminosità della testa della cometa di Donati è raggiunta nel periodo compreso tra la fine di settembre e la prima decina di ottobre 1858 (da: G. P. Bond, Account of the Great Comet of 1858, Cambridge, USA, 1862, p. 334).
pertanto, per un paio di settimane, gli involucri risultano quasi identici e ciò determina il grosso errore temporale commesso dall’astronomo di Harvard.
Nell’Astronomie Populaire del 1880, Camille Flammarion descrive le code di plasma e gli aloni della Donati:
“Questi getti [in numero di due apparsi il 3 e 5 ottobre]
sottili ed appena incurvati erano all’incirca tangenti alla
coda principale nei pressi della testa. Essi avevano entrambi pressoché la stessa lunghezza. La testa della coda fu la sede di cambiamenti importanti. Degli inviluppi gassosi si staccavano alla velocità di 13 metri al secondo, come scrive Bond nella sua relazione”.
Se torniamo alle cronache di quei giorni concitati di
osservazione, troviamo delle indicazioni interessanti.
Al Collegio Romano, l’11 ottobre, scrivono: “Si vede un
cambiamento totale. La cometa è tutta arruffata, ed è
mirabile il cambiamento del nucleo interno… che misu-
rava 6,4”. Ma l’osservazione della sera del 15 ottobre è
la più importante di tutta l’apparizione.
Il commento di Secchi è significativo: “La cometa
comparve questa sera fornita di una specie di raggio a
virgola [figura 17] come se uno dei due raggi che si
vedeano prima si fosse torto a spira. Piccola da principio e molto aperta questa appendice a spirale si andò
sempre ingrandendo ed allungando fino al 22 ottobre
in cui parea la sua punta quasi prossima a toccare il
nucleo per richiudersi… E’ degno di osservazione che
quest’ultima apparenza a foggia di virgola fu mostrata
anche dalla cometa di Halley nel 1682 da Hevelius
[figura 16].
Questi osservò getti di luce l’8 settembre in quella cometa ed è pure singolare che la produzione di tali getti
combina colla massima vicinanza della cometa alla
Terra ”.
FIG. 16: La strana configurazione a “virgola” nella testa della
cometa di Halley, osservata da
Hevelius l’8 settembre 1682 (da:
J. Hevelii, Annus Climactericus,
p. 12, Danzica 1685).
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FIG. 17: La “virgola” in prossimità del falso nucleo della
cometa Donati, disegnata dagli astronomi del Collegio Romano il 19 ottobre 1858. Essa è del tutto simile a quella disegnata da Hevelius per la cometa di Halley nell’apparizione
del 1682 e riportata in figura 16.
Insomma, i gesuiti del Collegio Romano, con Secchi in
testa, sospettano che, oltre al Sole, che indubbiamente
esercita le principali azioni osservate sulla testa di una
cometa, anche la vicinanza ai pianeti possa in un qualche modo influenzarne la forma, come sembrerebbe
dimostrare
la
“virgola”,
osservata
prima
nell’apparizione della Halley del 1682, e poi nella Donati dell’autunno del 1858. E’ certo che i pianeti non hanno nulla a che fare con il fenomeno osservato. E’ assai
più probabile che la virgola sia stata prodotta dalle forze repulsive che, come abbiamo descritto nelle pagine
precedenti, generano il fenomeno della “fontana di Bessel”, vista dalla Terra sotto una particolare prospettiva.
Nella seconda metà di ottobre la cometa diminuisce di
declinazione e si porta nello Scorpione, diventando più
favorevole all’osservazione nell’emisfero australe. Il 22
ottobre, Donati da Firenze scrive che: “non vi era quasi
più traccia di coda”. Rimane visibile fino al 4 marzo
1859: gli ultimi ad osservarla sono gli astronomi di Città del Capo. Si stima che sia stata vista al telescopio per
275 giorni e ben 112 giorni ad occhio nudo.
Nelle Astronomische Nachrichten del 1865, volume 64,
pp. 185-192, escono i calcoli orbitali, indipendenti, eseguiti da Georg William Hill (1838-1914) e Friedrich Emil von Asten (1842-1878).
Hill, del Nautical Almanac Office, utilizza 1000 posizioni astrometriche della Donati ottenute tra il 7 giugno
1858 ed il 4 marzo 1859, ed ottiene così un’orbita ellittica con un periodo di circa 1950 anni. Invece, Von Asten, dall’Osservatorio di Bonn, si ferma alle osservazioni di Città del Capo del 18 febbraio 1859 e la sua orbita ellittica ha un periodo di 1880 anni.
Recentemente (Astronomische Nachrichten, Vol.335,
Issue 2, 2014, p. 135) l’astronomo argentino R.L. Branham ha calcolato una nuova orbita della cometa Donati,
basata su 1036 posizioni in Ascensione Retta e 971 in
declinazione, tra il 7 giugno 1858 3 il 5 marz0 1859,
utilizzando tecniche molto avanzate di calcolo. L’orbita
ellittica risultante ha un’eccentricità e = 0,996265, un
semiasse maggiore a = 154,861 UA ed un periodo di
1927 anni; ha pure previsto il suo ritorno per l’anno
3759.
In un dizionario enciclopedico di fine Ottocento si legge che: “Questa cometa è stata la più bella e la più rimarchevole non solo degli anni di cui ci occupiamo, ma
eziandio di tutto il secolo; conciossiaché essa non la
cedette in grandezza e splendore alle altre due del 1811
e del 1843, che erano le più celebri viste finora in questo
secolo”.
FIG. 18: Un raro stereogramma della
cometa Donati (credito: Stuart Schneider).
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FIG. 19: Il The Illustrated London News, nel numero del
25 settembre 1858 raffigura la cometa Donati vista dal
parco che circonda l’Osservatorio di Greenwich.
Alla cometa di Donati si attribuisce un “impatto” significativo sull’arte, la letteratura e sulla società in generale nella metà dell’Ottocento.
Uno studio condotto da A. Gasperini, D. Galli e L. Nenzi, dell’Osservatorio di Arcetri, mostra chiaramente che
la cometa ha ispirato pittori, anche di grande talento,
poeti, scrittori, opere teatrali e satiriche, specialmente
in Gran Bretagna e Francia e, nell’Estremo Oriente, in
Siam e Giappone.
Molte testate giornalistiche recepiscono il fascino e
l’eccitazione che l’apparizione di questo astro produce
nel grande pubblico. In Gran Bretagna The Illustrated
London News (figura 19) dedica alla cometa alcune copertine, e così fanno anche Le Monde Illustrèe di Parigi,
Harper’s Weekly e The New York Times negli Stati
Uniti. Ma anche i giornali satirici diedero il loro contributo, Le Charivari (figura 20) e The Punch, con vignette caustiche e di grande effetto esilarante. Uno scrittore
famoso come Jules Verne, nel 1877 , pubblica un romanzo che potremmo definire di proto-fantascienza,
Hector Servadac, Voyages et Aventures à travers le
Monde Solaire, (figura 21) chiaramente ispirato alla
cometa Donati.
Ma anche Charles Dickens, in Chips from the comet del
1858, scrive della cometa, come fa del resto Nathaniel
Hawthorne (1804 – 1864) che nel settembre del 1858 è
a Firenze, quando essa comincia a manifestarsi in tutto
il suo splendore. Non possono certo mancare le celebrazioni dei poeti, più o meno ispirati che si sbizzarriscono
sul tema. Tra questi il reverendo Alexander J.D.
D’Orsey (1812-1894) con il suo roboante The great Comet of 1858 ed Henri Calland, La comète de 1858, che
mette in versi il senso del mistero legato alla costituzione ed all’origine della cometa. Abbiamo già accennato
ai pittori, specialmente di area britannica, che hanno
raffigurato la cometa Donati.
Tra essi spiccano William Turner (1775-1851), il pittore
della luce, grande incisore e pittore romantico, specializzato in meravigliosi paesaggi e considerato un anticipatore dell’impressionismo. La sua cometa Donati
(figura 6, a sinistra), un delicatissimo acquerello, è memorabile. Altrettanto delicato il paesaggio con cometa
di James Poole (figura 6 a destra). Di tutt’altra natura
la cometa su Pegwell Bay, nel Kent, (figura 22) del preraffaellita William Dyce (1806-1864) che cattura, sfumata, ma con crudo realismo la cometa nel cielo della
sera.
FIG. 20: Il caricaturista Honoré Daumier è l’autore di questa
vignetta satirica, assai pungente, sulla cometa Donati, apparsa
su Le Charivari, il giornale satirico parigino del 22 settembre. Il
disegno è accompagnato dal seguente commento: “il signor
Babinet è stato preavvertito dalla portinaia dell’arrivo della
cometa”. Jacques Babinet (1794-1872), dell’Observatoire de Paris, preso di mira dalla satira, era uno dei è più famosi scienziati francesi.
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FIG. 21: A sinistra il
frontespizio del romanzo fantascientifico di
Jules Verne del 1877,
Hector Servadac; a destra, in una delle illustrazioni della prima
edizione è raffigurata la
cometa Donati.
Dopo questa ampia digressione sulla cometa che ha
dato tanta luminosa gloria a Donati, passiamo alla sua
scoperta successiva, la quarta, avvenuta sei anni dopo la
precedente, nella calda notte del 23 luglio 1864.
La nuova cometa, allora designata come 1864 III
(oggi: C/1864 O1), appare nella costellazione della
Chioma di Berenice debole e con un diametro della testa di circa 2’. Donati ne dà notizia nelle Astronomische Nachrichten n. 62 dell’agosto di quell’anno, associando al proprio nome, in qualità di co-scopritore, anche quello di Carlo Toussaint, assistente presso
l’Osservatorio fiorentino, del quale però ben presto si
FIG. 22: William Dyce, la cometa Donati a Pegwell Bay,
Kent, nel cielo della sera (all’interno del cerchio rosso).
perdono le tracce (in una lettera di Donati degli inizi del
1865 al conte Ridolfi, direttore del Museo cittadino, si
parla della precaria condizione professionale nella quale era costretto ad operare Toussaint, che probabilmente rinuncia all’incarico presso l’Osservatorio a causa del
risibile trattamento economico).
Il 30 luglio la cometa è osservata a Brera da Giovanni
Virginio Schiaparelli (1835 – 1910), il quale, nella comunicazione alle solite Astronomische Nachrichten,
scrive: “la cometa è assai difficile da osservare a causa
della sua debole luminosità e della sua prossimità al
crepuscolo. Essa si muove assai rapidamente verso sud,
di modo che non la si potrà ancora osservare a lungo in
questa sua prima parte dell’apparizione, prima della
sua immersione nei raggi solari”.
In quei giorni, anche Edmund Weiss (1837-1917)
dell’Osservatorio di Vienna la descrive debole con un
nucleo stellare di 5a magnitudine.
Sempre a Vienna, l’astronomo e matematico Theodor
von Oppolzer (184-1886) è di parere diverso: “La cometa non è poi così debole, rassomiglia infatti ad una nebulosa di prima classe, di moderata luminosità e mostra un’evidente condensazione centrale”.
Con la definizione di “nebulosa di prima classe” von
Oppolzer si riferisce alla terminologia utilizzata da William Herschel per il suo catalogo di nebulose. Nel frattempo, la cometa diventa invisibile nell’emisfero nord e
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si affaccia pertanto sui cieli meridionali. Il 30 Carl Wilhelm Moesta (1825-1884) un astronomo tedesco divenuto il primo direttore dell’Osservatorio Astronomico
Nazionale cileno, comunica di aver osservato una piccola coda di 20’ che, nella successiva osservazione dell’8
settembre, sembra totalmente assente. Continua a seguirla in settembre (il 24 settembre ha un’elongazione
dal Sole di appena 16°), ottobre e novembre.
Nel mese di gennaio 1865 la cometa riappare nel cielo
boreale ed uno dei suoi più attenti osservatori è
l’astronomo tedesco Johann Friedrich Julius Schmidt
(1825-1884), direttore dell’Osservatorio astronomico di
Atene (figura 23). Il 19 gennaio descrive la cometa come veramente debole, con la coda curva, la chioma di 1°
ed un nucleo di magnitudine 11. Due giorni dopo, la
chioma gli appare di 2°. La sua ultima osservazione risale al 30 gennaio.
L’ultimo a vedere la cometa è l’americano, di origine
tedesca, Christian Heinrich Friedrich Peters (18131890) dall’Osservatorio dell’Hamilton College (NY, USA) che la osserva il 25 febbraio 1865.
La prima orbita parabolica è calcolata da Carl Nicolaus
Adalbert
Krüger
(1832-1896),
direttore
dell’Osservatorio di Helsinki, secondo il quale il passaggio al perielio è avvenuto l’11 ottobre 1864. Le orbite più
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recenti sono state ricavate da von Asten (1866) e da F.
Schröter nel 1906. Secondo il primo il periodo della
cometa è di 2,8 milioni di anni; per il secondo, il periodo è di 55242 anni ed una eccentricità di 0,999358.
Infine parliamo dell’ultima cometa scoperta da Donati
il 9 settembre 1864 in Leo Minor, ed oggi nota con la
sigla: C/1864 R1. E’ una cometa senza caratteristiche
di rilievo che resta visibile per una quarantina di giorni, durante i quali non appare mai sufficientemente
luminosa per l’osservazione ad occhio nudo.
Un fatto curioso è che non c’è accordo unanime sulla
data esatta della scoperta. Kronk, nella sua Cometography, indica il 10 settembre, ma è lo stesso Donati
che fuga ogni dubbio nelle Astronomische Nachrichten
n. 1493: “ho scoperto una nuova cometa, della quale ho
fatto le seguenti osservazioni: 9 settembre 1864…”.
La sua scarsa luminosità ne riduce il numero di osservazioni fisiche e morfologiche. Schiaparelli, dalla specola di Brera, la osserva il 13 settembre: “la cometa era
appena visibile e assai difficile da osservare”. Con altre
due osservazioni, Giovanni Celoria (1842-1920) calcola
un’orbita parabolica approssimata, che pone il passaggio al perielio al 27 luglio (in realtà, calcoli successivi,
più accurati, lo danno per il giorno successivo).
L’ultima osservazione di questa debole cometa si è avuta il 20 ottobre 1864 dal parte di Augustin Reslhuber
(1808-1875), direttore della specola Kremsmünster in
Austria.
Lorenzo Respighi
Lorenzo Respighi (1824-1889) - figura 24 - nato a Cortemaggiore, Piacenza, nel 1854 ottiene la cattedra di
astronomia all'Università di Bologna e, per quasi dieci
anni, copre la carica di direttore del locale Osservatorio
astronomico. Nel 1865 è nominato direttore dell'Osservatorio astronomico del Campidoglio a Roma. Tra le
sue varie attività scientifiche è ricordato per i notevoli
contributi allo studio della fisica solare. Di assoluto valore le sue ricerche spettroscopiche della cromosfera
solare col metodo, da lui ideato, della fenditura allargata dello spettroscopio. Assiduo osservatore, scopre, a
Bologna, nell’arco di appena due anni, ben tre comete.
La prima, la C/1862 W1, la scopre il 28 novembre
FIG. 23: Il rifrattore di 15cm dell’Osservatorio di Atene, utilizzato per decenni da Schmidt nelle sue osservazioni lunari, planetarie e di comete.
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FIG. 24: Lorenzo Respighi, astronomo e matematico
piacentino.
1862 che nelle Astronomische Nachrichten n. 1396 descrive così: “...ho trovato nella costellazione della Vergine una nebulosità di aspetto cometario… L’aspetto è
quello di una nebulosità condensata al centro senza
nucleo deciso, del diametro di oltre tre primi ed abbastanza splendente per essere visibile anche ai deboli
cannocchiali”, resta visibile al cannocchiale per quasi
tre mesi.
Il 2 dicembre è osservata, indipendentemente, a Leipzig
da Karl Christian Bruhns (1830-1881) che, la sera prima, ha scoperto la cometa C/1862 X1. A Roma, p. Secchi la osserva il 5 ed il 9 dicembre: “la cometa appare
rotonda e assai luminosa al centro”. Ai primi di gennaio
1863 ha una grande declinazione australe (il 7 gennaio
è a –79°) e torna ad essere visibile nel nostro emisfero
in febbraio. L’ultimo ad osservarla, il 20 febbraio, bassa
sull’orizzonte, è Bruhns dalla specola di Leipzig.
Lo stesso Bruhns calcola la prima orbita parabolica e
fissa il passaggio al perielio al 31 dicembre 1862. Più
accurata quella determinata, sulla base di un più ampio
periodo di osservazioni, da Rudolf Engelmann (18411888), secondo il quale la cometa è passata al perielio il
28 dicembre. Il 1863 è un anno fortunato per Respighi,
scopre infatti altre due comete. Il 12 aprile è la volta
della C/1863 G2, che al direttore delle Astronomische
Nachrichten (n. 1410), descrive così: “Nel giorno 12
aprile ho trovato nella costellazione di Pegaso una bella
cometa con traccia di coda… la cometa presentava un
nucleo ben distinto, dello splendore di una stella di sesta grandezza, con coda abbastanza decisa per una lunghezza di circa 40’”.
Respighi, da eccellente matematico, calcola una prima
orbita parabolica approssimata con le osservazioni del
14, 16 e 18 aprile e determina il passaggio al perielio per
il 20 aprile 1863. Oggi si ritiene che il perielio sia stato
raggiunto il giorno dopo, 21 aprile.
La sua terza ed ultima cometa, la C/1863 Y1, la scopre
il 28 dicembre in Ercole.
Il primo gennaio, in Germania, la rileva anche Karl Wilhelm Baecker (1819-1882) che per alcuni mesi risulta
essere il titolare della scoperta anche sulle Astronomische Nachrichten (figura 25), la più importante rivista
astronomica internazionale.
Il 4 gennaio Bruhns la descrive così: “brillante e con
una nebulosità rotondeggiante con una corta coda” e la
stima, in piccolo telescopio, luminosa come una stella
di 6-7 magnitudine. Nei giorni successivi è ritrovata
anche da Franciszek Karlinski (1830-1906) a Cracovia,
che stima le dimensioni della testa pari a 3-4’ ed un falso nucleo di magnitudine 8 e una coda di 30’ di lunghezza.
L’ultima osservazione risale al 1° marzo 1864 ed è eseguita in Inghilterra da Herman Romberg nel Barclay
Observatory a Leyton, Essex, con un rifrattore di Cooke
di 18 cm. Secondo alcuni astronomi la cometa si muove
su di un’orbita ellittica. Tra questi, Edmund Weiss
(1837-1917) che suggerisce un’orbita con un periodo di
53 anni, molto simile a quella della famosa cometa del
1810. Accurati calcoli successivi, eseguiti nel 1869 dal
giovanissimo Karl Wilhelm Friedrich Johann Valentiner (1845-1931), hanno invece consentito di accertare
che essa percorre un’orbita parabolica.
FIG. 25: Il n. 1464 delle Astronomische Nachrichten riporta le effemeridi della cometa 1863 V (C/1863 Y1) calcolate da
Engelmann, dell’Osservatorio di Leipzig, che ne attribuisce la scoperta a Bäcker anziché a Respighi.
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Temistocle Zona
Temistocle Zona (1848-1910), figura 26, nato a Porto
Tolle, Rovigo, dopo una laurea in architettura all'Università di Padova diventa assistente volontario presso
l'Osservatorio patavino dal 1868 al 1871. Nel 1880 diviene astronomo aggiunto all'Osservatorio di Palermo
e, dieci anni dopo, direttore del medesimo Osservatorio, carica che mantiene fino al 1898. E’ ricordato soprattutto per le sue doti di paziente osservatore di comete, meteore ed eclissi.
Zona, all’Osservatorio di Palermo, con il grande rifrattore Merz di 25 cm (figura 27), la notte del 15 novembre
1890 scopre nell’Auriga la cometa C/1890 V1 che dice: “è piuttosto luminosa!”. In realtà non è mai stata
vista ad occhio nudo.
La cometa è osservata per circa due mesi, fino al 13 gennaio. Un po’ tutti gli astronomi d’Europa e d’America la
studiano con attenzione, anche con l’ausilio di alcuni
dei maggiori telescopi dell’epoca.
A Roma, il 16 novembre, Elia Millosevich (1848-1919)
la stima di magnitudine 11,5 ma, il giorno successivo, a
Vienna, Rudolf Ferdinand Spitaler (1849-1946) è più
ottimista e la stima di magnitudine totale 8 mentre
quella del falso nucleo gli appare di 9.
Al Lick Observatory, nel periodo 18-20 novembre, il
famoso astronomo Edward Emerson Barnard (18571923), al rifrattore di 30 cm, la stima di 12 a, rilevando
però un falso nucleo assai mal definito. Al rifrattore di
15 cm dell’Osservatorio di Vienna, il 30 novembre, Johann Holetschek (1846-1923) descrive la cometa come
una piccola nebulosità di magnitudine stellare 11. Il 3 e
il 5 dicembre Antonio Abetti (1846-1928), a Padova,
stima la condensazione centrale di 12 a ed un diametro
di appena 0,33’.
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FIG. 27: Il rifrattore Merz di 25cm
dell’Osservatorio
di Palermo in una
fotografia
ottocentesca (Crediti:
Osservatorio
INAF Palermo).
L’ultima osservazione risale al 13 gennaio 1891 ed è stata effettuata a Kiel da Hermann Kobold (1858-1942)
con un grande rifrattore di 46 cm: la cometa gli appare
assai debole e probabilmente più debole della magnitudine 13. L’orbita definitiva della cometa è stata calcolata
a Palermo da Adolfo Venturi (1852-1914), nel 1896, che
scrive: “Appoggiandomi al massimo numero delle osservazioni fatte, le quali sono circa 120, ho calcolato
l’orbita definitiva nel modo più attendibile. L’orbita
poco diversa dalla parabola, è però una ellisse, con e =
0,995872 ed il passaggio al perielo il 6 agosto 1890”. In
effetti, il confronto delle posizioni coi luoghi normali
aveva dato errori di posizione inferiori a 1” sia in ascensione retta che in declinazione.
FINE SECONDA PARTE
FIG. 26: Ritratto di
Temistocle
Zona
(crediti: Osservatorio INAF di Palermo).
Rodolfo Calanca è direttore editoriale di ASTRONOMIA NOVA e responsabile delle attività culturali e scientifiche di EAN, https://drive.google.com/file/
d/0BxR VI4UFuL 2k b0 p uNU82OU hFeGs/ edit?
usp=sharing
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F. Manzini, 67P, polveri e getti
UNA VISIONE DIFFERENTE DELLA COMETA 67P
LE POLVERI E I GETTI
Federico Manzini
[email protected]
Struttura meccanica di COSIMA
(Cometary Secondary Ions Mass
Analyser), lo spettrometro installato a bordo della navicella Rosetta
che ha il compito di analizzare le
polveri emesse dal nucleo della
cometa .
Con l'arrivo storico della navicella Rosetta dell'Agenzia
Spaziale Europea (ESA) presso la cometa 67P/
Churyumov-Gerasimenko, portato a termine il 6 Agosto
2014 dopo un viaggio lungo un decennio, si è aperto un
nuovo modo di fare scienza innovativa vicino a questi
mondi bizzarri.
Rosetta ha iniziato la raccolta di polvere cometaria dalla chioma che circonda il nucleo della cometa con lo
strumento COSIMA la domenica 10 agosto 2014 ad una
distanza di circa 100 chilometri dalla 67P.
COSIMA è un acronimo che sta per Cometary Secondary Ions Mass Analyser ed è uno degli 11 strumenti
capolavoro di Rosetta che hanno una massa combinata
di 165 kg.
Il suo scopo è quello di condurre la prima analisi "in
situ" dei granelli di particelle di polvere emesse dal nucleo cometario e determinare le loro caratteristiche fisiche e chimiche, in particolare se siano organici o inorganici.
COSIMA raccoglierà la polvere della chioma con 24
“sensori obiettivo” appositamente progettati, il primo
dei quali è stato aperto per studiare l'ambiente il 10 agosto. Poiché la cometa non è particolarmente attiva in
questo momento, il team ha previsto di mantenere aperto il sensore per almeno un mese e verificare lo stato
della raccolta di particelle su base settimanale. Il team
di lavoro ha infatti definito in quel momento l'ambiente
circostante come "ancora paragonabile ad un locale
senza polvere di alta qualità".
Tutti si aspettano che le cose cambino radicalmente
quando il Sole si farà sempre più vicino e il riscaldamento diurno della superficie della cometa aumenti
fino a che raggiunga il perielio in agosto 2015.
I sensori di rilevazione misurano circa un centimetro
quadrato e sono stati sviluppati dalla Universität der
Bundeswehr in Germania. Sono composti da un piatto
d'oro ricoperto di un sottile strato di 30 micron di nanoparticelle di oro ("Black Gold"), che dovrebbe rallentare e catturare le particelle di polvere cometaria che
impattano con velocità fino a circa 100 m/s. L'obiettivo
è illuminato da una coppia di LED per evidenziare le
particelle di polvere che saranno poi analizzate dallo
spettrometro di massa incorporato in COSIMA.
COSIMA utilizza il metodo della spettrometria di massa
di ioni secondari derivanti dalle polveri cometarie colpite da un fascio di ioni di indio che produce ioni secon-
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FIG. 1: Le immagini del
campione analizzato da
MIDAS target prima
(sinistra) e dopo (destra)
l’esposizione di Settembre
2014. L’immagine mostra
solo una porzione di 80x80
µm del campo inquadrato
(il campo intero misura
1.4x2.4 mm). A destra una
indicazione della terza dimensione
spaziale
(altezza).
FIG. 2: A fianco uno zoom
del target esposto a novembre 2014: la polvere
raccolta ha grandi dimensioni, raggiunge i 10 micron in larghezza ed è
profonda almeno 7 micron. Le righe orizzontali
sono dovute a difetto di
lettura.
Immagini delle figg. 1-2:
Mark Bentley.
dari dalla loro superficie. Lo spettrometro di massa ha
la capacità di analizzare la composizione elementare in
una gamma di masse atomiche da 1 a 4.000 unità di
AM, può determinare abbondanze isotopiche di alcuni
elementi chiave, caratterizzare componenti organiche o
inorganiche e gruppi funzionali per informarci della
chimica presente sulla cometa e, forse, alle origini del
Sistema Solare.
FIGG.3-4: L’immagine a sinistra è stata ripresa con una esposizione di meno di 1 secondo e mostra dettagli alla superficie cometaria. La ripresa sovraesposta ha invece una posa di 18.45 secondi per mettere in evidenza dettagli dei getti che sorgono dalla
superficie. Le immagini sono state ottenute dalla camera OSIRIS il 20 ottobre 2014 ad una distanza di 7.2 km dalla superficie.
Immagini: ESA/Rosetta/MPS OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA; Ove non specificato i trattamenti di elaborazione sono dell’autore.
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FIG. 5: Sezione presunta di un getto in
emissione dalla superficie della cometa
67P. Sembra che il componente principale dell’emissione sia CO che trascina
con se polveri e acqua, così come le osservazioni di altre comete hanno già
messo in evidenza. (Phil Harris).
I getti e gli streamers dal nucleo della 67P
Le comete sono residui rimasti dalla formazione del
Sistema Solare circa 5 milardi di anni fa. Quasi tutti gli
scienziati oggi ritengono che abbiano portato una grande quantità di acqua sulla Terra e possono anche averla
disseminata con molecole organiche, i mattoni della
vita come noi la conosciamo. Ogni scoperta di molecole
organiche e la loro identificazione con COSIMA sarà
quindi una scoperta importante per informarci circa
l'origine della vita sulla Terra.
I dati ottenuti finora dagli strumenti di ripresa, VIRTIS
e NavCam, su Rosetta mostrano una superficie della
cometa molto scura e una crosta polverosa, addirittura
più calda di quello che ci si sarebbe aspettati se fosse
costituita da solo ghiaccio ricoperto di polveri.
Il suo albedo, la percentuale di riflessione della luce
incidente, è addirittura simile a quello del carbone, e in
alcuni punti anche inferiore!
FIGG. 6-7-7B:Confronto fra immagini ottenute da NavCam sulla sonda Rosetta rispettivamente il 19 settembre e il 20 novembre
2014; a distanza di due mesi la cometa 67P si è avvicinata al Sole di quasi 0.4 AU, da 3.33 a 2.94 AU. Con l’aumentare della radiazione solare incidente si sono “accesi” nuovi getti e nuove aree emissive su tutto il corpo cometario; l’area di maggiore attività
permane però sempre nella regione del “collo” che unisce i due lobi, dove si osserva una grande quantità di polvere deposta al
suolo. L’immagine in falsi colori rende con migliore evidenza la posizione delle aree emissive su tutto il corpo cometario.
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FIG. 8: Confronto delle “regioni pianeggianti” settentrionali sulla cometa 67P. Si tratta di riprese della NavCam su Rosetta
del 19 settembre, 18 e 24 ottobre e 20 novembre 2014 (cortesia Bill Harris). Le emissioni dal nucleo cometario sono sempre
più intense, ma non si riesce ancora ad individuare la loro provenienza; la linea di frattura sul “collo” non appare essere
responsabile di questa attività.
Quindi, come ogni corpo scuro (anzi, nero, nerissimo)
assume calore dalla radiazione solare e lo cede verso le
regioni sottostanti la superficie.
E’ probabile che questa sia una delle ragioni per cui si
sviluppano getti ed aree attive. La cometa di Rosetta, la
67P/Churyumov-Gerasimenko, comincia ora a mostrare un aumento ben visibile dell’attività alla sua superficie.
FIG. 9: Confronto
fra le 6 comete
osservate da sonde inviate da Terra
(Planetary
Society).
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FIG. 10: A sinistra, immagine del 24 settembre 2014 di NavCam su Rosetta a confronto con la medesima ripresa (a destra)
che riporta il reale albedo della cometa 67P. Al nostro occhio la cometa sarebbe più scura del carbone.
Un altro confronto (qui sotto, fig. 11) per la misura dell’albedo propone immagini di Encelado, satellite di Saturno, della Terra, della Luna e della cometa 67P; quest’ultima è uno fra gli oggetti più scuri del Sistema Solare. L’albedo è la percentuale di
luce solare riflessa da un corpo rispetto a quella incidente.
FIG. 11
Negli ultimi mesi la maggior parte della polvere emessa
dalla superficie del corpo sembrava provenire dalla regione del collo che collega i due lobi che costituiscono il
corpo bilobato della 67P; nuove immagini ottenute dal
sistema scientifico di ripresa OSIRIS mostrano ora getti
di polvere lungo quasi tutta l'estensione della cometa.
"A questo punto si ritiene che una gran parte della superficie illuminata della cometa possa visualizzare un
certo livello di attività", dice Jean-Baptiste Vincent del
Max Planck Institute for Solar System Research
(MPS), in Germania. Nel corso delle ultime settimane,
il team di OSIRIS ha assistito ad un cambiamento graduale ma qualitativo: "nelle prime immagini di questa
FIG. 12: Ripresa del 24 ottobre da NavCam su Rosetta: appare evidente una sorta di “foschia estiva” che pervade
quest’area della cometa 67P; è probabilmente dovuta a semplice sublimazione dal cryorock superficiale.
estate si mostravano distinti getti di polvere che lasciavano la cometa, ed erano limitati alla regione del collo,
ma ora nuovi getti appaiono anche sul "corpo" e sulla
"testa" della cometa”. Attualmente, ancora più di 400
milioni di chilometri separano la nostra 67P dal Sole e,
sulla base di una storia ricca di osservazioni dalla Terra,
ci si aspetta che l'attività della cometa divenga notevole
una volta che raggiunga una distanza di 300 milioni di
chilometri dal Sole, il che avverrà verso la fine di marzo
2015.
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FIGG. 13-14: Nelle due immagini, la cometa 67P ripresa da Rosetta in avvicinamento, ad agosto 2014. I getti di materiale collimato che partono dalle regioni polari (lungo l’asse di rotazione del nucleo) sono molto evidenti, ma anche la chioma è già sufficientemente sviluppata nonostante la cometa fosse ancora ad oltre 3.5 AU dal Sole. Sono visibili anche alcune trame dovute al
sensore CCD che il trattamento ha messo in evidenza.
FIG. 15 (SOPRA): Il lobo più piccolo appariva proiettato verso
la camera OSIRIS su Rosetta il 29 settembre 2014; parte del
lobo non è illuminato dal Sole e quindi si trova in ombra, dove
dovrebbe essere completamente buio. Nonostante ciò è visibile
un pallido chiarore, ancora la “foschia estiva” dovuta allo
scattering dalla polvere presente nella chioma interna della
cometa 67P.
FIGG. 16-17 (A DESTRA):La cometa 67P ripresa da NavCam su Rosetta il 14 dicembre 2014 da una distanza di 19.4 km dal
centro del nucleo. Dalla grande area pianeggiante coperta da polvere sembra che si possano sviluppare getti o streamers di
materiale. In tutta la zona si possono contare un gran numero di strutture circolari che non sono affatto crateri da impatto:
potrebbero essere zone da cui sono fuoriusciti gas e polveri nel passato. Nella seconda immagine si osserva un ingrandimento dell’area centrale; la struttura circolare in centro al lato lungo in basso e ricolma di polvere ha un diametro di circa 70
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FIGG. 18-19-20: Immagini di NavCam del 9 dicembre 2014. I contrasti sono stati accentuati per mettere in evidenza le zone emissive della cometa 67P. Il lobo più piccolo è a destra nelle immagini. La ripresa in falsi colori mostra la struttura di due getti il
cui asse è ben collimato.
Holger Sierks, principal investigator di Osiris all’MPS,
dice che: "essere in grado di monitorare queste emissioni per la prima volta così da vicino, darà una visione
molto più dettagliata di ciò che avviene su un corpo cometario". Il team di lavoro vuole ora ricavare dalle immagini di OSIRIS una migliore comprensione
dell’evoluzione dell'attività cometaria e dei processi
fisici che la ingenerano.
In circostanze normali la luminosità del nucleo cometa-
rio eclissa quella dei getti, quindi le immagini necessarie per questo studio devono essere drasticamente sovraesposte. Chiaramente una immagine da sola non
può raccontare tutta la storia, così con una unica immagine non si può stabilire con esattezza dove sorge un
getto alla superficie della Churyumov-Gerasimenko.
Bisogna invece confrontare immagini della stessa regione prese da angolazioni diverse per ricostruire la struttura tridimensionale dei getti.
FIG. 21: Ci sono segni di modificazioni del terreno sulla cometa 67P tanto più passa il
tempo. Le immagini di NavCam, rispettivamente del 2
ottobre (a sinistra) e del 9 dicembre 2014 (a destra), mettono in evidenza un’area che
sembra sprofondare in un buco
con parete circolare. La risoluzione delle immagini del 9 dicembre è di 1.45 m/pixel; una
misura approssimativa della
nuova formazione fornisce un
valore di circa una ventina di
metri di diametro (cortesia di
Bill Harris).
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FIGG. 22-23: La stessa zona delle foto di figura 21, dove è messa in risalto la struttura semicircolare (indicata dalla freccia nella foto a destra) che ha un diametro di una ventina di metri. Molte altre strutture stanno modificandosi nel tempo, in particolare in questa zona delle “pianure settentrionali” che sono responsabili dell’emissione dei getti polari.
Mentre l'attività complessiva della 67P è chiaramente in
aumento, il sito di atterraggio di Philae designato sulla
"testa" della cometa sembra essere ancora piuttosto
tranquillo. Tuttavia, vi è qualche indicazione che nuove
aree attive si stanno svegliando a circa un chilometro
dell’altra zona di atterraggio che era stata designata
come J. Al momento sono apparsi pochi studi di coloro
che stanno lavorando sul fenomeno dei getti e degli
streamers forse perché non vi è ancora la diretta percezione da dove possano nascere. Con ogni evidenza, però, ove si trova della polvere vi dovrebbero essere getti
in uscita: la polvere più pesante tende a “decantare” sul
corpo cometario (anche se la gravità è solo di 1/10000
di quella terrestre, 100kg = 1g), mentre micropolveri e
corpuscoli di minori dimensioni e più leggeri seguono il
movimento dei gas eiettati nei getti e vengono lanciati
nello spazio a velocità che si sono misurate fino a 700
m/s.
Resta anche da capire un fenomeno che tocca tutte le
comete: come possono questi getti rimanere collimati
non solo a distanze di qualche chilometro (paragonabili
a quelle del nucleo cometario), ma anche a migliaia di
chilometri tanto da poter essere visti e studiati da Terra? Qual è la loro origine e natura?
C’è chi ha pensato anche ad una fenomenologia correla-
ta con l’elettricità; insomma, per dirla con Feynman,
per tutti questi “la gravità non è sufficiente”. Vi è però
anche chi ha proposto i getti come risultato di fenomeni
chiamato “fuoco di S. Elmo”, causati da scariche coronali in un ambiente altamente ionizzato, oppure ancora
qualcosa correlato ad elettricità statica. In modo più
semplice il tutto potrebbe invece avvenire per effetto di
sublimazione che accelererebbe le polveri e i gas.
Insomma, le teorie sono tante per ora, ma nessuna sta
facendo “centro” tant’è che sul blog di Rosetta sono
moltissimi coloro che si succedono con analisi più o
meno valide, ma nessuna di queste ha riscosso successo
totale. Prima di fare ulteriori passi esplicativi, questa
67P va guardata con occhio “a 360°”, tenendo presente
tutto ciò che si conosce dei suoi parametri fisici; ad esempio quello che riguarda la sua densità che pare perfettamente allineata con il valore medio di 0.6 g/cm3
calcolato anche per altre comete. Questo parametro
dimostra come essa sia un aggregato molto vuoto: pesa
addirittura meno dell’acqua e del ghiaccio! Potrebbero
quindi essersi create cavità ripiene di gas al suo interno,
in particolare di CO, che a seguito di riscaldamento inizi ad espandersi fino a trovare una via di uscita alla superficie, dove veicolerebbe anche la polvere in una sorta
di grande geyser.
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F. Manzini, 67P, polveri e getti
Modelli sviluppati a computer a seguito di precedenti
flyby con comete spiegano come getti collimati potrebbero essere prodotti da una sublimazione nel sottosuolo, passando attraverso uno strato superficiale poroso a
piccola granulosità; un paragone potrebbe essere fatto
con un liquido che passa attraverso un filtro e viene
collimato in un flusso centrale.
Osservando da dove i getti provengono sul lobo cometario più grande, appare evidente come sembrano provenire dalle vaste pianure di polvere presenti su quella
parte della 67P. Le immagini potrebbero suggerire che i
crateri tondi presenti (ora solo come residui di crateri)
abbiano agito per collimare grandi aree di sublimazione. Come i getti di polvere divengano visibili dipende
anche da un ulteriore fattore: le condizioni geometriche
dell’osservazione. Molti studiosi hanno fatto notare che
solo quelli con il corretto angolo di illuminazione saranno visibili; quindi ci potrebbero essere molti più streamers superficiali, ma non possono essere visti in tutte le
immagini della camera NavCam di Rosetta da ogni angolazione.
La sublimazione dalle aree esposte, che in inglese vengono dette cryorock, sembra apparire sotto forma di un
velo di foschia a basso livello che scivola lentamente
dalla superficie nella chioma cometaria. Studiando le
immagini NavCam a meno di 10 km dalla superficie
della 67P, molte superfici esposte sono visibili come
attraverso una sorta di "foschia di calore"; ma c’è però
poca polvere per renderla visibile, solo quella che sarebbe presente all'interno del cryorock e rilasciata per
sublimazione dalla matrice ghiacciata.
La forma e il colore
Stimando l’emissione dei getti in termini di decine di
tonnellate di materiale per orbita, non ci si può quindi
sorprendere se il vettore di spin non sia costante, in
poche parole, se la direzione dell’asse di rotazione cambi nel tempo.
Questi getti potrebbero avere qualche effetto anche sui
parametri orbitali e su quelli fisici del nucleo.
L’accelerazione nella rotazione è attualmente un fenomeno usato per spiegare il numero piuttosto consistente di asteroidi binari che si incontrano.
Un ulteriore meccanismo previsto lega l'illuminazione
solare con l’ assorbimento e con l’emissione termica: la
differenza temporale tra assorbimento e successiva emissione termica provoca una coppia, accelerando la
rotazione già esistente fino al punto in cui le forze centrifughe superano la coesione asteroidale. Sarebbe un
po' come prendere un oggetto già a forma bilobata, facendolo ruotare sempre più velocemente intorno alla
strozzatura centrale, fino a quando uno dei due lobi si
distacca.
Visto che 4 comete su 6 osservate da vicino da sonde
terrestri hanno forma bilobata, è probabile che questa
sia una struttura piuttosto comune fra questi oggetti. I
dati precedenti sono surrogati anche dalle analisi di
Zednek Sekanina che indicherebbero la presenza presso
la cometa Hale-Bopp di un suo satellite; il fatto potrebbe essere più che realistico, visto che Federico Manzini,
Roberto Crippa, Cesare Guaita e Virginio Oldani avevano trovato una possibile precessione dell’asse di rotazione studiando le strutture della chioma interna derivanti dall’espansione dei getti.
Anche la superficie oltremodo scura della 67P potrebbe
giocare a favore della teoria della sublimazione e avere
una qualche importanza per l’individuazione dei luoghi
ove possa esserci remissività più o meno imponente,
ma come si diceva prima, molti dubbi possono ora essere sollevati per qualunque teoria si voglia oggi avanzare.
Bisognerà comunque aspettare ancora qualche mese e
ottenere una maggiore quantità di dati da Rosetta per
riuscire ad aggregarli in maniera convincente.
Federico Manzini, laureato in Fisica, appassionato da
sempre di astronomia, ha scritto migliaia di articoli
scientifici e divulgativi, apparsi su tutte le maggiori riviste astronomiche italiane e straniere.
Da decenni è uno degli esperti più conosciuti in Italia
per le sue rubriche che parlano di tecnica di osservazione e di strumentazione astronomica. E' stato tra i primi, negli anni Novanta, ad utilizzare le camere di ripresa
CCD.
A. Villa, transiti autunno 2014
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TRANSITI DI PIANETI EXTRASOLARI, ALL’OSSERVATORIO DI LIBBIANO,
DURANTE L’AUTUNNO 2014
Alberto Villa
[email protected]
Una rappresentazione artistica di KELT-1b (credito: Julie Turner, Vanderbilt University)
Anche l'autunno 2014 è stato produttivo per
l’Associazione AAAV e per l’Osservatorio di Libbiano,
www.astrofilialtavaldera.it/, in particolare grazie ad
alcune buone osservazioni di transiti extrasolari.
Negli scorsi numeri 18 e 19 di Astronomia Nova abbiamo illustrato i risultati conseguiti nella ripresa di più
serie di transiti che qui proseguiamo, corredandoli con
brevi commenti.
3 ottobre 2014: KELT-1b
KELT-1b è stato scoperto nel 2012 dal Kilodegree Extremely Little Telescope (or KELT) in Arizona (uno dei
due telescopi del complesso, l'altro è in Sud Africa).
Questo pianeta, con una massa pari a 27 volte quella di
Giove (e con diametro di appena 1,1 Giove, con una
temperatura di 2400 °C), è il più massiccio finora scoperto (di fatto, si tratta di una nana bruna) che orbita
attorno ad una stella in Andromeda di magnitudine V =
10,7, tipo spettrale F5, distante da noi 260 parsec.
Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio
Ritchey Chretien 500 mm, f/6 (con ostruzione di 40
cm, per ridurre la luminosità della stella), camera CCD
FLI - Kodak KAF 1001E class 1, 1024 x 1024 pixels (alla
temperatura di -20° C), guida al rifrattore 180 mm –
f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 80 secondi, per
complessive 144 immagini, con intervalli di 5 secondi.
Fortunatamente il cielo è rimasto sereno per tutta la
durata delle riprese. L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle 20:30:46 T.U., la fine alle 00:10:13
T.U. del 4 0tt0bre.
La curva di luce risultante (fig. 1), è di buona qualità,
con un DQ probabile di 3 (Data Quality, secondo la
definizione della Czech Astronomical Society, http://
var2.astro.cz/ETD/index.php).
Dalla curva si può stimare che il raggio del pianeta è
leggermente sovrastimato del 9%, mentre l’inclinazione
del piano orbitale misurata, è minore di 5° rispetto al
valore normalmente accettato.
All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Dario
Ciurli, Flavia Casini, Silvia Gingillo and Lorenzo Bigazzi.
2 e 23 novembre 2014: WASP-52b
WASP-52b è un gioviano caldo scoperto
all’Osservatorio SuperWASP-North, a La Palma, costituito da 8 teleobiettivi Canon da 200 mm, f/1,8 (fig. 2),
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A. Villa, transiti autunno 2014
FIG. 1: Grafico del transito di Kelt-1b del 3-4 ottobre 2014.
accoppiati a camere CCD 2048x2048; il campo celeste
coperto da ognuno dei sistemi di ripresa è 7,8°x7,8°.
La stella ospite, WASP-52, in Pegaso, è di tipo spettrale
K2V, V = 12; ed ha una temperatura di 5000 °K e una
massa di 0,9 volte quella solare. Dista da noi 140 pc. Il
pianeta, un gioviano caldo, orbita in un giorno e 18 ore,
ed ha un raggio 1,3 volte Giove.
Il transito del 2 novembre è stato ripreso, come al solito, con il telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6, senza filtri e senza ostruzione.
Integrazioni singole di 60 secondi, per complessive 146
immagini, con intervalli di 5 secondi. Anche quella notte è stata serena per tutta la durata delle riprese.
L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle
17:28:57 T.U., la fine alle 20:17:09 T.U. del 2 novembre.
La curva di luce risultante (fig. 3), è di buona qualità,
con un DQ probabile di 3. Dalla curva si desume che il
raggio del pianeta è leggermente sovrastimato del 4%,
mentre l’inclinazione del piano orbitale misurata è
pressoché coincidente con il valore normalmente accettato in letteratura. All’osservazione hanno partecipato:
Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Valerio Menichini,
Flavia Casini and Mimmo Belli.
La notte del 23 novembre abbiamo ripetuto
l’osservazione di un transito di WASP-52b al telescopio
Ritchey Chretien 500 mm, f/6.
Integrazioni singole di 60 secondi, per complessive 150
immagini. Cielo sereno con rapido passaggio di nubi
leggere stratificate.
FIG. 3: Curva del transito di WASP-52b del 2 novembre
2014.
FIG. 2: Il sistema di ripresa SuperWASP-North, a La Palma,
costituito da 8 teleobiettivi Canon da 200 mm, f/1,8 con camere CCD 2048x2048, con il quale sono stati scoperti gli
esopianeti della serie WASP.
A. Villa, transiti autunno 2014
FIG. 4: Curva del transito di WASP-52b del 23 novembre
2014.
L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle
17:29:52 T.U., la fine alle 20:10:44 T.U. del 23 novembre.
La curva di luce risultante (fig. 4), è di buona qualità,
con un DQ probabile di 3. Dalla curva si desume che il
raggio del pianeta è leggermente sovrastimato, come
nella precedente osservazione del 2 novembre, del 4%,
mentre l’inclinazione del piano orbitale misurata è
pressoché coincidente con il valore normalmente accettato in letteratura. All’osservazione hanno partecipato:
Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Flavia
Casini, Mimmo Belli, lorenzo Bigazzi e Silvia Gingillo.
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Nel 2009 Shu-lin Li, dell'Università di Pechino, scoprì che il
pianeta WASP-12b differisce per il 10% da una sfera, in pratica una sorta di "ovoide". Infatti, a causa della sua estrema
vicinanza alla sua stella, esso è soggetto a forti effetti mareali. Shu-lin Li conclude che la dissipazione del calore generato
nello strato convettivo del pianeta dalla deformazione mareale sia la principale fonte dell'energia che mantiene il pianeta
espanso oltre le previsioni basate sul solo calore di irraggiamento. L'astronomo cinese prevedeva inoltre che la stella
stesse cannibalizzando il pianeta, come si vede in questa rappresentazione artistica.
8 dicembre 2014: WASP-12b
WASP-12b, scoperto nel 2008, appartiene alla classe
dei pianeti gioviani caldi. La sua atmosfera è estremamente estesa, pertanto il pianeta è uno dei meno densi
conosciuti (la classe di questi pianeti è nota come 'puffy
planets').
Esso impiega poco più di un giorno a orbitare attorno
alla propria stella, rendendolo così parte anche della
classe dei pianeti a periodo ultracorto. Dista dalla stella
Confronto tra le
dimensioni di Giove e di WASP-12b
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A. Villa, transiti autunno 2014
FIG. 5: Grafico del transito di WASP-12b dell’8 dicembre
2014.
solo 1/44 della distanza tra Terra e Sole e possiede
un'eccentricità simile a quella di Giove.
Con un raggio di 1,7 volte Giove, il pianeta, al momento
della scoperta era il più grande conosciuto, nonché il
più caldo mai scoperto con i suoi 2516 °K nel lato diurno. Inoltre, era il terzo pianeta meno denso, con una
densità del 24% di quella gioviana, preceduto solo da
OGLE-TR-10 b e WASP-1 b.
Il transito dell’8 dicembre è stato ripreso, come al solito, con il telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6, senza filtri e senza ostruzione. Integrazioni singole di 60
secondi, per complessive 257 immagini. Cielo sereno
con Luna piena a pochi gradi di distanza da WASP-12b.
L’inizio della sequenza delle riprese è avvenuto alle
00:41:18 T.U., la fine alle 04:18:55 T.U. dell’8 dicembre.
Un’altra rappresentazione artistica di WASP-12b (in arancio), che mostra la sua forma ovoidale. Tra il 24 e il 25 settembre 2009 il telescopio spaziale Hubble ha osservato
WASP-12 b usando il Cosmic Origins Spectrograph (COS)
con una precisione senza precedenti, e dai dati raccolti si
sono dedotte evidenze della distruzione del pianeta da parte
della stella e del disco di gas strappato a quest'ultimo, confermando così lo studio dello scienziato cineseShu-lin Li .
L'espansione dell'atmosfera infatti è così pronunciata che
l'esosfera del pianeta fuoriesce dalla sfera di influenza gravitazionale del pianeta, il lobo di Roche, e ricade in quella
della stella, andando così a formare un disco di gas attorno
a questa. La NASA stima che il pianeta abbia 10 milioni di
anni di vita residua.
La curva di luce risultante (fig. 5), è di buona qualità, con
un DQ probabile di 3. Dalla curva si desume che il raggio
del pianeta è leggermente sovrastimato dell’8%, mentre
l’inclinazione del piano orbitale misurata è in difetto di
1,5°. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa,
Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Flavia Casini, Lorenzo
Bigazzi e Silvia Gingillo.
Alberto Villa è Presidente della AAAV - Associazione
Astrofili Alta Valdera di Peccioli (PI), nell’ambito della
quale è
responsabile delle sezioni “Spettrografia”,
“Eclissi” e “Pianeti extrasolari”. Osserva dall' Osservatorio “Galileo Galilei” del Centro Astronomico di Libbiano.
L. Strabla et al., variabile
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CRONISTORIA DELLA SCOPERTA
DI UNA NUOVA VARIABILE PRESSO
L’OSSERVATORIO DI BASSANO BRESCIANO
Luca Strabla, Ulisse Quadri, Roberto Girelli
La stella variabile scoperta il 9 marzo 2014. A destra, l’Osservatorio astronomico di Bassano Bresciano
La notte del 9 marzo 2014 il telescopio Schmidt
dell’Osservatorio di Bassano Bresciano era impegnato
nella ripresa del pianetino (891) Gunhild allo scopo di
ottenere la curva di luce finalizzata alla determinazione
del suo periodo di rotazione.
Per questo tipo di ricerca l’oggetto viene ripreso in automatico per tutta la durata della notte ottenendo, in
genere, poco più di 200 immagini con esposizione di 2
minuti.
Prima del crepuscolo mattutino la sequenza si interrompe e vengono ripresi (sempre senza intervento umano) i frames dei dark e dei flat.
Il telescopio viene gestito dal software “Polypus” ,di
nostra realizzazione, che provvede al completo automatismo del telescopio e della cupola.
La determinazione della curva di luce e del periodo del
pianetino, che spesso richiede più di una sessione osservativa, viene ottenuta con i software MPO Canopus e
Peranso.
Può accadere che, nei campi attraversati dagli asteroidi,
siano presenti altri oggetti interessanti come variabili a
corto periodo non ancora scoperte e catalogate.
Questo è avvenuto per le immagini del 9 marzo: esami-
nandole con l’ utility VSC (Variable Star Search) del
software Canopus, abbiamo notato che una stella di
14ma magnitudine alle coordinate R.A 11h 51m 40.90s
Dec .+21° 01’ 55.1” presentava una variazione di luminosità molto interessante
Di conseguenza abbiamo programmato di riosservare
questa stella nelle notti successive: sera dopo sera appariva sempre più evidente la sua variabilità.
Come abbiamo potuto appurare in seguito, dall’analisi
della curva di luce, abbiamo scoperto (fig. 1) che si tratta di una variabile ad eclisse di tipo EB.
Ricordiamo che la curva di luce di una binaria ad eclisse
è caratterizzata, per alcuni tipi (EA), da estesi intervalli
di luminosità praticamente costante, con cadute periodiche di intensità, per altri la luminosità non è mai costante (EB,EW).
Un controllo nel sito del VSX (Variable Star Index) dell’
AAVSO e GCVS (General catalogue of Variable Stars)
escludeva la presenza di variabili già catalogate nella
posizione della nostra stella.
Il passo successivo è stato quello di determinare i parametri fondamentali della stella necessari per la sua catalogazione come variabile:
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L. Strabla et al., variabile
FIG. 1: Scoperta della variabile
tramite l’ utility “variable star
search” di MPO Canopus
 Periodo
 Ampiezza
 Epoca
Con il termine periodo intendiamo lo spazio di tempo
che riporta alla medesima fase un fenomeno che si ripete sempre con regolarità.
Con ampiezza, intendiamo la variazione indicata dalla
differenza tra il valore massimo e il valore minimo raggiunto dalla curva.
Infine, con epoca, indichiamo la data di partenza, espressa in giorni giuliani, che va usata per il calcolo dei
minimi successivi.
FIG. 2: Primo studio della curva di luce
L. Strabla et al., variabile
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FIG. 3: Sessioni osservative delle singole notti. Sotto, Curva di luce e periodo tratti dal sito del Catalina Observatory (CRTS)
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L. Strabla et al., variabile
FIG. 4: Curva di luce
combinata, tra le
nostre osservazioni e
quelle del Catalina
Observatory (CRTS)
Dapprima abbiamo scaricato dal sito del CATALINA
SURVEY le misure fotometriche della variabile che, in
questo caso, vanno da Aprile 2005 fino a Giugno 2013,
fig. 3, la cui curva esibisce un periodo di 0.409822 giorni. Le abbiamo aggiunte alle nostre mediante il software Canopus, ottenendo la curva in fig. 4.
Abbiamo così ottenuto un periodo combinato, allo scopo di migliorarne la precisione, di 0.409824 giorni. A
questo punto, grazie all’aiuto di Lorenzo Franco del
Balzaretto Observatory, i dati sono stati elaborati me-
diante Peranso per la determinazione dell’ampiezza e
dell’epoca, che sono risultate rispettivamente di 0.22
magnitudini e 09 Mar 2014 (HJD 2456726.36730), fig.
5.
Una volta determinati i parametri fondamentali, è iniziata la pratica di sottomissione al sito VSX dell’ AAVSO
che ha richiesto un notevole scambio di corrispondenza
con Sebastian Otero (che si occupa di refertare le proposte di nuove variabili) che qui ringraziamo per il supporto che ci ha fornito fino a giungere all’approvazione
FIG. 5: Curva di
luce finale ottenuta mediante il
software Peranso.
L. Strabla et al., variabile
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CARTA D’IDENTITA’ DELLA VARIABILE (VSX-AAVSO)
A seguito di questa prima scoperta l'Osservatorio ha
dato inizio ad una campagna osservativa finalizzata alla
ricerca di nuove stelle variabili a corto periodo in un
ambito compreso tra le magnitudini 13.5 e 15.5.
Questo progetto osservativo denominato "Variable star
Search Project for Automated telescope " (VeSPA): è
una survey fotometrica CCD dell'emisfero Nord che ha
lo scopo di scoprire stelle variabili non ancora conosciute.
Alla data della pubblicazione di questo articolo ne sono
già state scoperte 22. Per maggiori informazioni consultate il sito dell’ Osservatorio al seguente link:
www.osservatoriobassano.org
Desideriamo ringraziare particolarmente l’Amico Lorenzo Franco del Balzaretto Observatory di Roma per
l’ausilio fondamentale che ci ha fornito durante tutta la
fase di sottomissione dei dati al VSX dell’ AAVSO.
Ulisse Quadri (a sinistra) è insegnante di scuola elementare, Luca Strabla (al centro) software engineer
presso una ditta di automazione industriale e Roberto
Girelli è medico del lavoro. Insieme hanno collaborato
alla realizzazione dell'Osservatorio Astronomico di Bassano portando ciascuno le proprie competenze. Ora,
dopo un ventennio di collaborazione, stanno mettendo
a frutto le esperienze e le capacità acquisite per svolgere
vari tipi di ricerca utilizzando i due telescopi robotici
dell'osservatorio.