Capitolo 25 Sommario del capitolo 25.1 La globalizzazione e il problema dell’instabilità 25.2 L’unione economica e monetaria europea (UEM) 25.3 Conseguire una maggiore stabilità valutaria Interdipendenza globale e regionale Le fluttuazioni valutarie sono ascrivibili, tra gli altri fattori, alle condizioni molto diverse vigenti nei vari paesi e alle differenze tra le politiche economiche perseguite. Per esempio, una politica fiscale espansiva, abbinata a una politica monetaria restrittiva, può causare un marcato apprezzamento del tasso di cambio se altri paesi non adottano provvedimenti analoghi. Ciò è quanto è accaduto al dollaro nel 1983 e nel 1984. Per contro, un persistente disavanzo del conto corrente della bilancia dei pagamenti, unitamente a una politica di riduzione dei tassi di interesse volta a stimolare l’economia, può provocare un deprezzamento di notevole entità, come accaduto alla sterlina britannica dopo l’uscita del Regno Unito dall’ERM nel 1992, al dollaro nel 2007 e ancora alla valuta britannica nel 2008. Le fluttuazioni dei tassi di cambio sono spesso amplificate dalla speculazione, un problema che diventa ogni giorno più grave. Come abbiamo visto, per i mercati dei cambi transitano quotidianamente circa 4000 miliardi di dollari. Data l’entità di questi flussi finanziari, è pressoché impossibile per un singolo paese contrastare un’ondata speculativa su grande scala; in alcune circostanze, neppure l’azione concertata di un gruppo di paesi riesce a mantenere la stabilità dei tassi di cambio. Nel primo paragrafo esploreremo la natura dell’interdipendenza tra le diverse economie e le ragioni per cui i paesi sono così vulnerabili alle fluttuazioni internazionali. Esamineremo quindi le possibili misure per favorire un maggiore coordinamento delle politiche economiche internazionali, nonché il ruolo svolto in questo processo dai paesi del G-8 e del G-20. La soluzione estrema al problema dell’instabilità valutaria è l’adozione di una moneta comune. Nel Paragrafo 25.2 ci soffermeremo sull’euro e sul funzionamento dell’Unione economica e monetaria europea (UEM). Il capitolo si chiude con una disamina di alcuni suggerimenti alternativi per ridurre le fluttuazioni valutarie. 80 Parte G – L’economia mondiale 25.1 La globalizzazione e il problema dell’instabilità Viviamo in un mondo globalmente interconnesso: tutti i paesi risentono delle condizioni economiche di altre nazioni e delle politiche dei loro governi. I problemi in una parte del pianeta possono diffondersi come un contagio in altre regioni, tanto che nessun paese, probabilmente, può considerarsi immune. Due sono i canali attraverso i quali questo processo di “globalizzazione” si ripercuote sui singoli paesi: il primo è costituito dagli scambi internazionali, il secondo dai mercati finanziari. L’interdipendenza attraverso gli scambi Nella misura in cui le nazioni intrattengono rapporti di scambio fra loro, i provvedimenti di politica economica interna adottati da un paese producono conseguenze per i suoi partner commerciali. Per esempio, se l’amministrazione statunitense ritiene che l’economia nazionale sta crescendo troppo rapidamente, può adottare diverse misure restrittive, come un innalzamento dei tassi di interesse o delle aliquote fiscali. Tali provvedimenti, oltre a ridurre la spesa per l’acquisto di beni di produzione interna, tendono anche a deprimere il consumo di prodotti importati. Ma le importazioni degli Stati Uniti sono le esportazioni di altri paesi; pertanto, il calo della domanda di importazioni negli Stati Uniti innesca un effetto moltiplicatore nelle nazioni che esportano verso gli USA, dove la produzione e l’occupazione quindi diminuiscono. Le variazioni della domanda aggregata in un paese si propagano dunque all’intera economia mondiale. Il processo mediante il quale una variazione delle importazioni verso un paese (o delle esportazioni da un paese) si ripercuote sul reddito nazionale di altri Stati è detto moltiplicatore del commercio internazionale. Quanto più un’economia è aperta, tanto più è vulnerabile all’andamento dell’attività economica nel resto del mondo. Questo problema risulta particolarmente acuto se una nazione è fortemente dipendente dal commercio con un altro paese (come il Canada nei confronti degli Stati Uniti) o un’altra regione (come la Svizzera nei confronti dell’Unione europea). Da parecchi anni il commercio internazionale cresce più rapidamente del reddito nazionale di molti paesi. Questa tendenza è illustrata nella Figura 25.1, che mostra la crescita delle esportazioni reali e del PIL reale a livello mondiale. Come si può osservare, l’espansione delle esportazioni ha superato nettamente quella del PIL: dal 1951 al 2011 la crescita media annua della proCF 14 p448 duzione mondiale si è attestata al 4,1%, quella delle esportazioni mondiali al 6,1%. Siccome la maggior parte dei paesi è impegnata a promuovere la liberalizzazione degli scambi e a smantellare le barriere commerciali sotto la supervisione della World Trade Organization (WTO), il commercio internazionale continuerà verosimilmente a crescere in rapporto al PIL mondiale. Ma ciò non farà che accentuare l’interdipendenza delle nazioni e la loro vulnerabilità alle fluttuazioni del commercio internazionale, come accaduto durante la recessione mondiale della fine degli 2000. Nel 2009 la produzione mondiale è diminuita dello 0,5% e le esportazioni mondiali hanno segnato una flessione del 12%. Si è trattato della maggiore contrazione degli scambi internazionali globali registrata dalla Seconda guerra mondiale. Interdipendenza finanziaria Il commercio internazionale ha registrato una rapida crescita negli ultimi trenta anni, ma comunque inferiore a quella dei flussi finanziari internazionali. Ogni giorno nei mercati dei cambi vengono effettuate negoziazioni per un valore complessivo di circa 4000 miliardi di dollari. Gran parte delle operazioni dà luogo a flussi finanziari a breve termine, che si riversano nelle piazze dove i tassi di interesse sono più favorevoli o nelle valute il cui tasso di cambio potrebbe apprezzarsi. Il risultato è che le istituzioni finanziarie non preposte alla raccolta dei depositi, come i fondi pensione, le compagnie di assicurazione e i fondi comuni di investimento, sono diventate importanti operatori nei mercati dei cambi. Nel Capitolo 17 abbiamo esaminato una varietà di strumenti finanziari. A causa della natura globalmente interconnessa dei sistemi finanziari, tali strumenti varcano molto facilmente i confini nazionali; di conseguenza, le istituzioni finanziarie operanti in un paese tendono ad avere passività nei confronti di investitori esteri (individui e istituzioni). Nel Box 25.1 esaminiamo l’importanza degli acquisti esteri dei titoli del debito pubblico statunitense. Un esempio eloquente di interdipendenza finanziaria globale è stato il crollo dei mercati dei mutui sub-prime IC 32 p338 PAROLE CHIAVE Moltiplicatore del commercio internazionale Effetto sul reddito nazionale del paese B di una variazione delle esportazioni (o delle importazioni) del paese A. Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 81 Figura 25.1 Crescita annua del PIL mondiale reale e del volume delle esportazioni mondiali di merci, 1951–2012. 14 12 10 8 6 4 % 2 0 -2 -4 -6 -8 Esportazioni Crescita media delle esportazioni -10 -12 -14 1951 1956 1961 1966 1971 1976 1981 PIL Crescita media del PIL 1986 1991 1996 2001 2006 2011 Nota: dati relativi al 2011 e al 2012 basati su previsioni. Fonte: basata sui dati tratti da International Trade Statistics, 2010 (World Trade Organization) e World Economic Outlook, svariate edizioni (International Monetary Fund). negli Stati Uniti alla fine degli anni 2000, che si è esteso come un contagio fino a causare una recessione mondiale. Il debito delle famiglie in molti paesi avanzati, compresi il Regno Unito e gli Stati Uniti, era cresciuto sensibilmente rispetto al reddito disponibile. Tra il 2000 e il 2008 lo stock di debito dei nuclei familiari del Regno Unito è aumentato dal 110 al 170% del reddito disponibile annuo. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, il debito dei nuclei familiari è salito dal 97 al 130% del reddito disponibile annuo. Come discusso nel Paragrafo 17.2, l’espansione del credito a livello nazionale è stata facilitata sia dalla deregolamentazione del sistema finanziario, che si è concretizzata anche nella rimozione dei controlli sui capitali, sia dal ricorso sempre più massiccio al finanziamento all’ingrosso da parte delle istituzioni finanziarie. Il processo di cartolarizzazione, per esempio, ha consentito a queste ultime di raccogliere capitali dagli investitori di tutto il mondo, in modo da poter erogare alle famiglie mutui ipotecari e prestiti a breve termine. In altre parole, l’espansione vertiginosa dei bilanci delle banche nazionali è stata finanziata dai flussi di capitali internazionali. La deregolamentazione e l’innovazione finanziaria hanno creato dunque una complessa catena di interdipendenza tra le istituzioni finanziarie, i sistemi finanziari e le economie nazionali. Ma la resistenza di questa catena dipende dalla capacità di tenuta del suo anello più debole. Durante la crisi finanziaria della fine degli anni 2000, le prassi creditizie troppo aggressive delle banche di alcuni paesi hanno avuto conseguenze negative per gli investitori di tutto il mondo. A seguito dell’aumento dei tassi di interesse statunitensi, registrato tra il 2004 e il 2007, i flussi di pagamenti dai nuclei familiari statunitensi alle banche hanno iniziato a prosciugarsi, perché le famiglie hanno tardato a rimborsare i prestiti o peggio si sono rese insolventi. Ma questi flussi di pagamenti erano la fonte di rendimento per gli investitori finanziari globali che avevano acquistato le collateralized debt obligations (CDO: vedi Paragrafo 17.2). Pertanto, a causa del nuovo ordine finanziario internazionale il contagio si è esteso a tutto il mondo. In ragione dell’interdipendenza finanziaria mondiale, inoltre, le variazioni dei tassi di interesse in un paese possono ripercuotersi su altre economie nazionali. Ipotizziamo che la Federal Reserve Bank degli Stati Uniti, nel timore di un aumento dell’inflazione, decida di innalzare i tassi di interesse. Questo provvedimento esplica tre effetti principali sui partner commerciali degli USA. • Se la domanda aggregata statunitense diminuisce, la domanda di beni di importazione subisce una contrazione, andando a colpire direttamente le imprese che esportano verso gli Stati Uniti. Il calo delle esportazioni provoca una contrazione della domanda aggregata in questi altri paesi. 82 Parte G – L’economia mondiale BOX 25.1 Analisi di casi e applicazioni La globalizzazione e lo squilibrio commerciale degli Stati Uniti Il mondo sta pagando le conseguenze dell’eccesso di spesa statunitense? Nel 2010 gli Stati Uniti avevano un disavanzo di conto corrente pari a 470 miliardi di dollari, equivalente al 3,2% del PIL (vedi grafico). Dal 2000 il disavanzo corrente medio statunitense si attesta al 4,5%, con un picco del 6% nel 2006. Tale disavanzo di conto corrente è esattamente controbilanciato dall’avanzo del conto capitale e del conto finanziario, gran parte del quale è alimentato dall’acquisto di titoli di Stato e buoni del Tesoro degli Stati Uniti. Questi enormi afflussi finanziari verso gli USA, che rappresentano circa l’80% del risparmio che il resto del mondo investe all’estero, hanno favorito l’ampliamento del disavanzo corrente. Nonostante questo, per la maggior parte degli anni 2000 i tassi di interesse statunitensi sono rimasti a livelli storicamente bassi. Tra la metà del 2003 e la metà del 2004 i tassi nominali sono stati mantenuti all’1% (vedi grafico nel Box 13.4), mentre i tassi reali hanno segnato addirittura un –1,3%. Analogamente, durante la crisi finanziaria della fine degli anni Duemila, la Fed ha tenuto i tassi di interesse a livelli nettamente più bassi rispetto ad altri paesi. Come è possibile, dunque, che con tassi di interesse così contenuti gli Stati Uniti abbiano registrato un avanzo tanto ampio del conto finanziario? valore artificialmente depresso delle valute asiatiche ha contribuito a mantenere bassi i tassi di interesse statunitensi e dunque ad alimentare la spesa per le esportazioni dall’Asia verso gli Stati Uniti. Nel 2005 il governo cinese, cedendo alle forti pressioni internazionali, acconsentì a rivalutare lo yuan e ad ancorarlo a un paniere di valute, con la prospettiva di ulteriori rivalutazioni. Tra il luglio del 2005 e il luglio del 2008 lo yuan si apprezzò del 17,5% percento rispetto al dollaro, mentre l’indice del tasso di cambio salì del 21%. Tuttavia, dinnanzi alle ripercussioni della recessione economica mondiale del 2008 e ai timori per un rallentamento della crescita delle esportazioni cinesi, Beijing in effetti ha fissato nuovamente il tasso di cambio dello yuan. La situazione è rimasta invariata fino al giugno del 2010, quando lo yuan è stato rivalutato ancora una volta. Da allora e fino all’aprile del 2011 la divisa cinese ha registrato un ulteriore apprezzamento del 4,5% rispetto al dollaro, pur deprezzandosi nella stessa misura rispetto a un paniere di valute ponderato per l’interscambio. Pertanto, tra il luglio del 2005 e l’aprile del 2011 lo yuan si è rafforzato del 22% rispetto al biglietto verde; ma questo apprezzamento si è rivelato insufficiente per rispristinare la parità dei poteri di acquisto; la valuta cinese, infatti, resta sottovalutata del 40% rispetto al dollaro in termini di PPA. Una risposta in Asia Avendo ancorato le proprie valute, fra cui lo yuan cinese (o “renminbi”), al dollaro statunitense, molti paesi asiatici, compresa la Cina, presentavano ampi avanzi di conto corrente. Per esempio, dal 2000 l’avanzo corrente cinese si attestava in media al 5,5% del PIL (vedi grafico). Invece di lasciare che le proprie valute si apprezzassero rispetto al biglietto verde, le banche centrali asiatiche utilizzavano i surplus per acquistare dollari. Tali paesi vedevano in questo sistema un triplo vantaggio. Innanzitutto, l’ancoraggio della valuta consentiva di accumulare riserve e dunque di potenziare la capacità di resistere agli attacchi speculativi. Si stima che dal 2000 le riserve valutarie delle economie emergenti dell’Asia siano cresciute di oltre il 20% all’anno. Le sole riserve cinesi (escluso l’oro) sono aumentate da 166 miliardi di dollari nel 2000 a 3000 miliardi nel 2011, segnando uno sbalorditivo incremento dell’811%. Questo processo ha alimentato un’enorme espansione della liquidità e dunque dell’offerta di moneta a livello globale. In secondo luogo, cosa ancora più importante, l’ancoraggio delle valute ha permesso alle economie asiatiche di tenere bassi i rispettivi tassi di cambio e dunque di difendere la competitività delle proprie esportazioni, con l’effetto di sostenere i loro rapidi tassi di crescita economica. Infine, il Conseguenze dello squilibrio Bisogna chiedersi, a questo punto, se gli Stati Uniti possano continuare a mantenere un enorme disavanzo di conto corrente, finanziato dall’acquisto di una quantità altrettanto ingente di dollari da parte del resto del mondo (soprattutto l’Asia), oppure se tale squilibrio vada in qualche modo corretto. Un deprezzamento del dollaro. A partire dalla metà del 2004 i tassi di interesse statunitensi hanno iniziato ad aumentare, ma non abbastanza rapidamente da scongiurare un indebolimento del dollaro. Dal 2004 al 2008 il tasso di cambio effettivo del dollaro si è deprezzato del 20%. Inizialmente il disavanzo corrente si è ampliato (vedi grafico), coerentemente con l’effetto della curva a J (vedi Paragrafo 24.4), poi ha segnato un lieve miglioramento prima di registrare un nuovo modesto deterioramento nel 2010. Secondo molti analisti, tuttavia, sarebbe necessario un deprezzamento molto più pronunciato per ridurre il disavanzo statunitense a un livello sostenibile senza un’eccessiva immissione di liquidità nell’economia mondiale. Ma un forte indebolimento del dollaro – che potrebbe scendere, poniamo, a $1,80 sull’euro e a $2,30 sulla sterlina – avrebbe effetti devastanti sulle esportazioni europee, rendendo molto più difficoltosa una ripresa economica sostenuta nel Vecchio continente. Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 83 A causa dei timori per l’impatto inflazionistico esercitato dall’aumento dell’offerta di moneta, le autorità cinesi hanno innalzato ripetutamente i tassi di interesse tra il 2004 e il 2008, contribuendo a così a sterilizzare in parte il surplus del flusso di valuta. Dopo un calo alla fine del 2008, i tassi sono tornati ad aumentare alla fine del 2010. La Cina, tuttavia, si è ben guardata dall’alzare i tassi troppo rapidamente, non solo per via del potenziale impatto sulla crescita economica, ma anche per il rischio di attrarre capitali speculativi che avrebbero accelerato l’apprezzamento dello yuan. Un altro metodo impiegato per frenare la l’espansione del credito è stato l’innalzamento dei coefficienti di riserva obbligatoria delle banche, che ai primi del 2011 erano saliti a un livello record del 20%. Una bolla in Cina. In Cina e nelle altre economie asiatiche vi è il pericolo concreto che la produzione reale non aumenti in misura sufficiente a eguagliare l’espansione dell’offerta di moneta. In tal caso si generebbe una spinta inflazionistica, ulteriormente alimentata dal rincaro delle materie prime. Nel 2008 l’inflazione ha raggiunto un picco dell’8,7%, il massimo da 12 anni, dopo essere rimasta in media all’1,2% fra il 2000 e il 2006. La recessione economica mondiale ha contribuito a raffreddare notevolmente la crescita dei prezzi, con tassi di deflazione annui del 2% nel 2009. Al contempo, è interessante rilevare come il tasso di crescita cinese, che aveva toccato un massimo del 14% nel 2007, sia rimasto compreso tra il 9 e il 10% nel periodo compreso tra il 2008 e il 2011. Con la ripresa della crescita mondiale nel 2010, che ha spinto nuovamente al rialzo i prezzi delle materie prime, l’inflazione cinese ha superato nuovamente il 5%. Un importante fattore di preoccupazione per la stabilità economica è l’espansione del credito nell’economia cinese. I bilanci delle banche del colosso asiatico sono cresciuti in media del 17% all’anno dal 2000 al 2010, e addirittura del 30% nel 2009. Un sintomo della crescita del credito è l’aumento dei prezzi degli immobili, su cui si riversano gli investitori alla ricerca di rendimento. L’inflazione annua dei prezzi delle abitazioni ha superato il 40% nel 2008. Potenziale volatilità delle valute. Nel lungo periodo, il pericolo maggiore posto dall’aumento vertiginoso della liquidità internazionale potrebbe essere una vendita generalizzata di dollari, con il conseguente allontanamento del tasso di cambio dal livello di equilibrio di lungo periodo. Tra il 2009 e il 2010 l’indice del tasso di cambio del dollaro si è sensibilmente ridotto. I timori per le dimensioni del disavanzo di bilancio statunitense non hanno fatto che aggravare il pericolo di una significativa iperreazione del tasso di cambio. Conto corrente della bilancia dei pagamenti di Cina e Stati Uniti (% del PIL). 12 Cina USA 10 8 Conto corrente in % del PIL 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 Nota: dati relativi al 2011 e 2012 basati su previsioni. Fonte: basato sui dati tratti dal World Economic Outlook Database (International Monetary Fund). 2008 2010 2012 84 Parte G – L’economia mondiale • L’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti tende a spingere al rialzo i tassi di altre nazioni, con un effetto negativo sull’investimento. Ancora una volta, la domanda aggregata di questi paesi diminuisce. • All’aumentare dei tassi di interesse statunitensi, si genera un afflusso di fondi da altri paesi verso gli Stati Uniti; di conseguenza, il dollaro si apprezza rispetto ad altre valute. Il rafforzamento del biglietto verde rende le importazioni verso gli Stati Uniti più competitive e le esportazioni dagli Stati Uniti relativamente più costose. Il risultato è un miglioramento del saldo di conto corrente dei partner commerciali degli Stati Uniti, i quali vedono aumentare le esportazioni e diminuire le importazioni. Pertanto, in questi paesi si registra un’espansione della domanda aggregata, un effetto di segno opposto rispetto ai primi due. Il ciclo economico internazionale Recita un vecchio adagio: “Se gli Stati Uniti starnutiscono, il resto del mondo prende un raffreddore”. L’economia mondiale viene continuamente contagiata da virus di questa natura. La rarefazione del credito del 2007–2008, causata dalle insolvenze sui mutui sub-prime negli Stati Uniti, ne fu un drammatico esempio. A causa dell’interdipendenza generata dai commerci e dalle operazioni finanziarie, l’economia mondiale – come quella di un singolo paese – tende a registrare fluttuazioni periodiche dell’attività economica, che danno vita a un ciclo economico internazionale. Di conseguenza, tutti i paesi risentono di norma di problemi e preoccupazioni comuni; talvolta le difficoltà possono giungere dalle pressioni inflazionistiche globali, talvolta da una recessione mondiale. Al fine di evitare l’attuazione di politiche che danneggino altri paesi, è più indicato cercare soluzioni comuni a questi problemi condivisi, ovvero rimedi che abbiano una formulazione e un respiro internazionale anziché essere basati sull’interesse nazionale. Per esempio, durante una recessione mondiale, molti paesi potrebbero subire un aumento della disoccupazione. Le politiche che sfociano in un deprezzamento del tasso di cambio (come una riduzione dei tassi di interesse) contribuiscono a stimolare la domanda rendendo le esportazioni più convenienti e le importazioni più care; ma ciò non fa che peggiorare il saldo commerciale di altre nazioni, la cui domanda aggregata pertanto diminuisce. Un paese che tenti di risolvere il problema della disoccupazione interna con una politica di questo tipo arreca un danno ad altri paesi, causando un aumento del loro tasso di disoccupazione. CF 12 p353 Tuttavia, se è possibile convincere altri paesi (anch’essi gravati da una disoccupazione crescente) ad attuare un intervento coordinato, si può realizzare una politica economica internazionale espansiva a vantaggio di tutti. Oltre a incrementare le proprie importazioni, tutte le nazioni beneficerebbero di un aumento delle esportazioni. Anche laddove non vi è uno stretto coordinamento delle politiche nazionali, un confronto internazionale sulla natura e l’entità dei problemi comuni può contribuire a migliorare il processo di formulazione delle politiche economiche. Necessità di un coordinamento politico internazionale L’interdipendenza economica globale e il ciclo economico internazionale possono favorire il processo di cooperazione tra i diversi paesi. Per esempio, a seguito della crisi finanziaria scoppiata alla fine degli anni 2000, i leader mondiali nutrivano forti timori che il mondo intero sarebbe precipitato in recessione. Era necessaria dunque una risposta politica concertata da parte dei governi e delle banche centrali; e questa risposta arrivò nell’ottobre del 2008, quando le autorità di Regno Unito, Europa, Nord America e altre nazioni assicurarono alle banche circa 2000 miliardi di dollari di nuovo capitale. Da diversi anni i maggiori paesi del mondo si riuniscono periodicamente in diversi consessi per discutere i problemi economici e finanziari, e coordinare le soluzioni politiche. Nel 1975 nacque il G-6, che vedeva la partecipazione dei Ministri delle Finanze e dei capi di Stato di Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Nel 1976, con l’adesione del Canada, il G-6 divenne il G-7; nel 1998, con l’ingresso della Russia, il gruppo divenne noto come G-8. Nel settembre del 2009 si è deciso di ampliare ulteriormente il G-8 estendendo la partecipazione a una più vasta compagine di paesi. Il nuovo gruppo, denominato G-20, è oggi il principale forum economico mondiale. Il G-20 rappresenta 19 paesi più l’Unione europea e comprende tutti i membri del G-8 nonché le principali economie emergenti. Il nuovo consesso venne costituito inizialmente nel 1999, per far fronte alla crisi finanziaria asiatica e contribuire a stabilizzare i mercati finanziari globali. In effetti, l’emergere del G-20 quale principale forum mondiale è il punto di arrivo di due importanti sviluppi. In primo luogo, negli ultimi anni si è registrata una crescita ragguardevole in economie emergenti come Brasile, India, Cina e Sud Africa, che, unitamente alla Russia, vengono spesso indicate con l’acronimo BRICS. In secondo luogo, la crescente interdipendenza econo- Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 85 mica generata dai commerci e dalla finanza richiede di norma una risposta coordinata da parte di una più ampia rappresentanza della comunità internazionale. L’interdipendenza globale solleva inoltre una serie di interrogativi sul ruolo che dovrebbero svolgere organizzazioni internazionali come la World Trade Organization (WTO) e il Fondo monetario internazionale (FMI). Come spiegato nel Paragrafo 23.2, il compito della WTO è incoraggiare la liberalizzazione degli scambi internazionali. L’FMI, invece, ha il mandato di promuovere la crescita e la stabilità a livello globale, di assistere i paesi in difficoltà economiche e di aiutare le nazioni in via di sviluppo a conseguire la stabilità macroeconomica e a ridurre la povertà. In risposta alla crisi economica e finanziaria globale della fine degli anni 2000, il bilancio dell’FMI è stato sostanzialmente incrementato e l’organizzazione ha iniziato a interloquire più attivamente con quelle che un tempo erano definite “economie forti” (vedi Box 25.2). renti della bilancia dei pagamenti. La Tabella 25.1 mostra le variazioni dei livelli di tali indicatori in un campione di sette paesi. Tali divergenze si sono nettamente ridotte rispetto all’inizio degli anni Novanta, ma restano comunque significative. Un importante argomento trattato durante le riunioni del G-8 e del G-20 riguarda la maniera di stimolare la crescita economica mondiale senza provocare ampie fluttuazioni dei tassi di cambio. Per conseguire questo obiettivo è importante pervenire a un’armonizzazione delle politiche economiche tra le nazioni. In altre parole, è essenziale che tutti i maggiori paesi perseguano politiche compatibili con obiettivi internazionali comuni. Ma come si può attuare un’armonizzazione delle politiche economiche? Fintanto che persistono differenze significative tra le maggiori economie nazionali, è più probabile che vi siano conflitti anziché armonia. Per esempio, un paese preoccupato per l’entità del suo disavanzo di bilancio potrebbe non essere disposto ad acconPAROLE CHIAVE Armonizzazione internazionale delle politiche economiche Le quattro cause principali alla base delle fluttuazioni dei tassi di cambio sono le divergenze tra i tassi di interesse, i tassi di crescita, i tassi di inflazione e i saldi cor- Armonizzazione internazionale delle politiche economiche Processo attraverso il quale i paesi tentano di coordinare le rispettive politiche macroeconomiche per conseguire obiettivi comuni. Tabella 25.1 Indicatori macroeconomici internazionali. Indice del tasso di cambio nominale (tasso di apprezzamento (+) o deprezzamento (–) medio annuo, %) Tasso di interesse nominale a breve termine (3 mesi) (%) Tasso di crescita economica (variazione % del PIL reale) Inflazione dei prezzi al consumo (variazione % dell’IPC) Saldo del conto corrente (% del PIL) 1991-1995 1996-2000 2001-2005 Australia 0,6 −0,5 3,5 Cina –11,0 4,0 −1,2 Francia 1,6 −2,1 1,7 Germania 2,2 −2,3 2,1 Giappone 13,1 1,4 −1,8 Regno Unito Stati Uniti 3,9 −3,3 4,7 4,4 −1,7 −0,2 2006-2010 2,4 2,7 0,3 0,2 3,6 −4,3 −1,6 1991-1995 1996-2000 2001-2005 2006-2010 1991-1995 1996-2000 2001-2005 2006-2010 1991-1995 1996-2000 2001-2005 2006-2010 1991-1995 1996-2000 2001-2005 2006-2010 7,0 5,7 5,1 5,5 2,8 4,2 3,4 2,7 2,5 1,9 3,0 3,0 −3,9 −4,0 −4,5 −4,6 9,0 5,7 2,4 2,9 12,3 8,6 9,8 11,2 13,1 1,8 1,4 2,9 0,8 2,2 3,4 8,0 8,2 3,7 2,8 2,8 1,2 2,8 1,7 0,8 2,2 1,2 1,9 1,5 0,3 2,2 0,8 −1,5 7,2 3,5 2,8 2,8 2,2 2,0 0,6 1,2 3,5 1,3 1,5 1,6 −1,1 −0,9 2,7 6,2 2,4 0,5 0,1 0,6 1,4 1,0 1,3 0,2 1,4 0,3 –0,4 –0,1 2,6 2,4 3,1 3,7 7,9 6,3 4,4 3,6 1,7 3,4 2,5 0,4 3,4 2,7 2,4 3,1 −1,6 −1,3 −2,0 −2,3 4,6 5,7 2,3 Fonti: OECD Stats Extracts e IMF Principal Global Indicators. Nota: i tassi di interesse a breve termine di Cina e Giappone per il 1991–2000 sono i tassi ufficiali delle rispettive banche centrali. 2,9 2,5 4,3 2,4 1,0 3,1 2,5 2,6 2,2 −1,1 −2,6 −4,8 −4,3 86 Parte G – L’economia mondiale BOX 25.2 Analisi di casi e applicazioni Un’epidemia globale: soluzioni globali a problemi globali? Non serve guardare molto lontano per comprendere l’impatto dell’interdipendenza economica e finanziaria sulle nostre vite quotidiane. Basta fare una passeggiata per il quartiere per accorgersi che molte delle auto in transito sono di fabbricazione straniera oppure sono state prodotte nel nostro paese da case automobilistiche estere. Basta alzare lo sguardo per scorgere gli aerei che traportano passeggeri diretti in ogni angolo del mondo per viaggi di lavoro o di piacere. Basta entrare al supermercato per vedere scaffali pieni di prodotti provenienti da ogni parte del pianeta. È evidente che l’interdipendenza generata dagli scambi commerciali crea forti collegamenti tra le economie di diversi paesi. L’ultima crisi finanziaria ha contribuito a dimostrare quanto siano diventati interdipendenti le istituzioni e i sistemi finanziari. I prodotti finanziari sono liberi di viaggiare e si spostano senza esitazioni in lungo e in largo. I tassi di crescita delle diverse economie mondiali hanno evidenziato una tendenza a convergere, soprattutto alla fine degli anni 2000. Questa dinamica è coerente con l’idea di un ciclo economico internazionale, nel quale i paesi condividono problemi e preoccupazioni comuni. A causa della crescente interdipendenza economica e finanziaria, i problemi di una parte del mondo possono propagarsi rapidamente in altre regioni, come dimostrano gli eventi seguiti al crollo del mercato dei mutui sub-prime degli Stati Uniti: la malattia statunitense si è trasformata in un’influenza che ha contagiato tutto il mondo. Ma a chi spetta somministrare la medicina? Quanto possono essere efficaci i rimedi dei governi nazionali, se questi agiscono in isolamento? Vi è spazio per un coordinamento delle politiche fiscali e monetarie, e in che misura questo richiede un rafforzamento delle istituzioni internazionali preposte alla risoluzione dei problemi mondiali? Il raffreddore dell’Islanda Nel 2009 l’Islanda ha subito una brusca contrazione della produzione nazionale, che si è ridotta di quasi il 7%. Il paese era stato colpito molto duramente dalla crisi finanziaria internazionale. Un’aggressiva strategia di espansione del credito aveva provocato un aumento delle passività delle tre maggiori banche islandesi, che erano salite dal 100% del PIL nel 2004 al 923% del PIL nel 2007. I fondi per questa espansione provenivano in parte dal mercato interbancario e in parte dai depositi esteri presso le filiali di queste tre banche nei paesi nordici e nel Regno Unito. Con l’inizio della rarefazione del credito, questi tre istituti incontrarono sempre maggiori difficoltà a rinnovare i prestiti sul mercato interbancario. Inoltre, data l’immensa espansione dei loro bilanci, era praticamente impossibile per la banca centrale islandese garantire il rimborso di questi prestiti. Di conseguenza, quattro delle maggiori banche del paese sono state nazionalizzate e poste sotto la gestione dell’Autorità di vigilanza finanziaria islandese. Nel novembre del 2008 il comitato esecutivo del Fondo monetario internazionale ha approvato un prestito da 2,1 miliardi di dollari per sostenere il programma di ripresa economica dell’Islanda. Il FMI ha erogato un primo pagamento da 827 milioni di dollari, riservandosi di distribuire nel tempo la parte restante dei fondi stanziati, subordinatamente agli esiti di una revisione trimestrale del programma di risanamento. Una tragedia greca La Grecia è alle prese da anni con il fardello di un enorme disavanzo di bilancio, che ha registrato un’impennata dopo la crisi creditizia del 2008. In quell’anno il deficit ammontava al 9,4% del PIL; nel 2009 era salito al 15,4%, superando in termini percentuali quello degli altri paesi dell’Unione europea e di cinque volte il limite fissato dalle regole dell’UE. Il servizio del debito costava ogni anno alla Grecia circa il 12% del PIL. All’inizio del 2010 il governo greco aveva stimato di dover richiedere un prestito da € 53 miliardi per far fronte al disavanzo. La Grecia, come molti altri paesi, era afflitta inoltre da una disoccupazione crescente. Nel 2010 il tasso di disoccupazione si attestava al 12,5%, in rialzo dal 7,7% del 2008. Le misure di austerity contemplate dal pacchetto di salvataggio predisposto dal FMI e dall’UE miravano a ridurre questo disavanzo a meno del 3% del PIL entro il 2014, attraverso una serie di tagli alla spesa pubblica e di aumenti delle imposte; è questo il prezzo che la Grecia dovrà pagare per beneficiare di un pacchetto di aiuti da € 110 miliardi. Tuttavia, il rigore fiscale ha comportato notevoli costi in termini di reddito disponibile e disoccupazione, tanto da scatenare un’ondata di scioperi da parte dei dipendenti pubblici. Gli eventi successivi hanno dimostrato che la crisi del debito non era confinata alla Grecia. Per esempio, nel novembre del 2010 l’Irlanda ha pattuito con il FMI e gli Stati membri dell’UE un pacchetto di salvataggio da € 100 miliardi. Nel 2010 il disavanzo delle amministrazioni pubbliche irlandesi era stimato al 32% del PIL, in aumento dal 14% nel 2009. L’obiettivo era ridurre questa cifra al 3% del PIL entro il 2015. Il ruolo del FMI nei salvataggi Abbiamo visto che il FMI ha svolto un ruolo di primo piano nel finanziamento dei pacchetti di salvataggio per paesi come l’Islanda, l’Irlanda e la Grecia. Ma cosa è e cosa fa il Fondo monetario internazionale? Il FMI è un’“agenzia specializzata” delle Nazioni Unite, finanziata dai suoi 187 paesi membri (al 2011). Il suo compito è assicurare la stabilità Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 87 macroeconomica – come nei casi sopra descritti – e favorire la crescita mondiale. Il FMI lavora anche con i paesi in via di sviluppo per alleviare la povertà e promuovere la stabilità economica, prevalentemente attraverso l’erogazione di prestiti. Le modalità operative del FMI hanno suscitato nel tempo notevoli controversie. Le condizioni associate ai finanziamenti sono spesso eccessivamente rigorose, soprattutto per alcuni dei paesi in via di sviluppo più fortemente indebitati. La crisi economica e finanziaria globale ha posto il FMI di fronte a un dilemma: quali paesi assistere con un bilancio limitato? Di conseguenza, si è assistito a un aumento degli aiuti erogati dal FMI alle economie sviluppate. Dopo un vertice di emergenza con i Ministri delle Finanze europei, il Fondo ha acconsentito a destinare 250 miliardi di euro al sostegno dell’eurozona. Questi fondi sono confluiti nel Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria, che ha una dotazione complessiva di 750 miliardi di euro. La maggioranza dei finanziamenti (440 miliardi di euro ) è giunta sentire alle richieste internazionali di una politica di stimolo della domanda aggregata, mirata a far uscire l’economia mondiale da una recessione. Inoltre, le attività degli speculatori potrebbero accentuare le differenze tra le economie nazionali, provocando ampie fluttuazioni dei tassi di cambio. I paesi del G-8 si sono pertanto adoperati per favorire una maggiore convergenza delle rispettive economie. Ma tale obiettivo politico, per quanto auspicabile, si è dimostrato piuttosto difficile da realizzare. A causa della mancata convergenza, l’armonizzazione delle politiche internazionali si scontra con notevoli difficoltà. • I disavanzi di bilancio e il debito pubblico espressi in percentuale del reddito nazionale possono differire notevolmente da un paese all’altro. Si generano pertanto pressioni molto diverse sui tassi di interesse necessari al servizio del debito pubblico. Nel 2010 il disavanzo delle amministrazioni pubbliche del Regno Unito si attestava al 10,4%, a fronte del 32,3% dell’Irlanda, dell’11,3% degli Stati Uniti, del 7,8% della Francia, del 6,5% del Giappone e del 3,7% della Germania. • Per armonizzare i tassi di crescita dell’offerta di moneta o gli obiettivi di inflazione, bisognerebbe lasciare i tassi di interesse liberi di fluttuare in linea con la domanda di moneta. Senza una convergenza di quest’ultima, le oscillazioni dei tassi di interesse potrebbero essere molto pronunciate. • Per armonizzare i tassi di interesse bisognerebbe abbandonare gli obiettivi di crescita monetaria, di dai paesi dell’area dell’euro, mentre altri 60 miliardi sono provenuti dai fondi europei, raccolti con il contributo di tutti e 27 i membri dell’UE per sostenere i paesi dell’eurozona che si trovano in difficoltà. Rafforzare il FMI I leader mondiali che hanno partecipato al vertice del G-20 di Londra nell’aprile del 2009 hanno sottolineato la necessità di rafforzare le istituzioni finanziarie globali. In particolare, hanno acconsentito a incrementare le risorse a disposizione del FMI, triplicandole a 750 miliardi di dollari; inoltre, hanno stabilito che il Fondo monetario internazionale avrebbe preso parte a un nuovo Financial Stability Board (FSB), composto fra gli altri anche dai paesi del G-20 e dalla Commissione europea, che avrà il compito di individuare potenziali rischi economici e finanziari. In altre parole, le nazioni del G-20 erano alla ricerca di un “sistema di preallarme” più efficace per far fronte alle sfide poste da un mondo sempre più interdipendente. inflazione e del tasso di cambio (a meno che per “armonizzazione” non si intenda semplicemente modificare i tassi di interesse al fine di rispettare i target monetari o di inflazione o sostenere un tasso di cambio fisso). • Ogni paese è caratterizzato da diverse relazioni strutturali interne. In questo caso, la mancanza di convergenza costringe le nazioni con un’inflazione da costi strutturalmente più elevata ad accettare tassi di interesse e di disoccupazione più elevati al fine di armonizzare i tassi di inflazione, o tassi di inflazione più alti per armonizzare i tassi di interesse. • Ciascun paese presenta inoltre diversi tassi di crescita della produttività, di sviluppo dei prodotti, di investimento e di penetrazione di mercato. In questo caso, la mancanza di convergenza si traduce in diversi tassi di espansione delle esportazioni (rispetto alle importazioni) per un dato livello di inflazione o di crescita economica. • Infine, un paese potrebbe non essere affatto disposto a modificare le proprie politiche interne per allinearle a quelle di altri paesi, e pretendere invece che siano gli altri governi ad adeguarsi alle sue politiche nazionali. PAROLE CHIAVE Convergenza economica Situazione in cui i paesi pervengono a livelli simili di crescita e inflazione, e a condizioni simili in termini di disavanzo di bilancio in percentuale del PIL, bilancia dei pagamenti e così via. 88 Parte G – L’economia mondiale In altre parole, se si riuscisse a realizzare un’armonizzazione internazionale di uno dei quattro indicatori macroeconomici – tassi di interesse, tassi di crescita, tassi di inflazione o saldo corrente della bilancia dei pagamenti – sarebbe molto difficile riuscire ad armonizzare gli altri tre. Potrebbe non essere possibile, dunque, pervenire a una piena convergenza e dunque a un’armonizzazione totale. Nondimeno, i governi sono perlopiù favorevoli a compiere qualche passo in quella direzione. Per realizzare questo obiettivo, è necessaria la cooperazione. Nonostante questo, le relazioni economiche internazionali sono spesso dominate dalla discordia, perché di solito i governi hanno a cuore gli interessi economici di altre nazioni solo se coincidono con quelli del proprio paese. Questo atteggiamento, tuttavia, può sfociare in un problema di dilemma del prigioniero. Se ciascun paese persegue unicamente i propri interessi, l’economia mondiale ne risente e tutti sono penalizzati. IC 22 p199 25.2 L’unione economica e monetaria europea (UEM) La maniera più radicale di conseguire una maggiore stabilità valutaria all’interno di un gruppo di paesi è l’adozione di una moneta unica e, di conseguenza, di una banca centrale comune e di una singola politica monetaria, attraverso la formazione di una unione economica e monetaria (UEM). Ciò è quanto accaduto nell’Unione europea, dove un gruppo di paesi ha adottato l’euro quale moneta comune. L’euro è stato introdotto nel 1999, e le banconote e le monete metalliche sono entrate in circolazione nel 2002. Inizialmente l’area dell’euro era costituita da 11 paesi, che nel 2012 erano saliti a 17. Il meccanismo dei tassi di cambio europeo (ERM) Il precursore dell’UEM era il meccanismo dei tassi di cambio europeo (exchange rate mechanism, ERM). Si trattava di un sistema di parità mobili, nel quale le valute dei paesi membri erano ancorate le une alle altre e fluttuavano congiuntamente rispetto alle altre divise. Questo sistema incoraggiava gli scambi commerciali tra gli Stati aderenti; inoltre, i paesi membri potevano attingere di concerto alle proprie riserve valutarie per impedire fluttuazioni eccesive delle loro valute rispetto al resto del mondo. All’interno dell’ERM, ciascuna valuta era ancorata a tutte le altre secondo una griglia di parità centrali, ma poteva fluttuare all’interno di una banda specificata, di norma non più ampia del ±2,25%. Le parità centrali venivamo modificate di volta in volta di comune accordo. Se una valuta si approssimava al limite superiore o inferiore di una qualsiasi banda di oscillazione, le banche centrali intervenivano per impedire che ne fuoriuscisse, vendendo la divisa forte e acquistando la divisa debole; inoltre, i paesi con una valuta debole potevano innalzare i tassi di interesse, e quelli con una valuta forte ridurli. L’ERM nella pratica L’ERM venne istituito nel marzo del 1979 e vide subito l’adesione della maggior parte dei paesi membri dell’Unione europea, seguiti dalla Spagna nel 1989, dal Regno Unito nel 1990 e dal Portogallo nell’aprile del 1992. Ad esempio, la sterlina entrò nell’ERM a una parità centrale di £1 = DM 2,95, con una banda di fluttuazione del ±6% rispetto a tutte le altre valute nel sistema. Questa parità si rivelò presto insostenibile. La Germania aveva innalzato i tassi di interesse per attenuare le pressioni inflazionistiche alimentate in parte dall’ingente spesa pubblica sostenuta in seguito alla riunificazione. I tassi di interesse statunitensi invece erano in calo, per contribuire a stimolare la crescita economica a fronte di una recessione. Di conseguenza, si generò un ampio deflusso di capitali dagli Stati Uniti, gran parte dei quali si riversò in Germania, spingendo al rialzo il valore del marco tedesco. Pertanto, valute come la sterlina e la lira italiana si ritrovarono ripetutamente prossime al limite inferiore della banda di fluttuazione rispetto al marco, nonostante i tassi di interesse elevati ed in aumento. Nel settembre del 1992 la situazione raggiunse un punto di crisi. Il 16 settembre – poi passato alla storia PAROLE CHIAVE Unione economica e monetaria (UEM) Adozione, da parte di un gruppo di paesi, di una moneta unica con una banca centrale comune e una singola politica monetaria. Nell’Unione europea il termine si applica ai paesi che hanno adottato l’euro. Meccanismo dei tassi di cambio europeo (exchange rate mechanism, ERM) Sistema di tassi di cambio semifissi utilizzato dalla maggior parte dei paesi dell’Unione europea prima dell’adozione dell’euro. Le valute degli Stati membri potevano fluttuare le une rispetto alle altre all’interno di bande di oscillazione prestabilite. Collettivamente erano libere di fluttuare rispetto a tutte le altre divise. Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 89 come il “mercoledì nero” – il Regno Unito e l’Italia furono costretti a sospendere la propria adesione all’ERM. Entrambe le valute furono lasciate fluttuare e si deprezzarono sensibilmente. Le turbolenze tornarono nell’estate del 1993, quando a finire sotto pressione fu il franco francese. Per tutta risposta, i Ministri delle Finanze dell’UE decisero di adottare bande di fluttuazione molto ampie, del ±15%, anche se in tal modo il sistema sembrava perdere il suo carattere di regime di cambi semi-fissi. Ma nel volgere di pochi mesi la crisi passò, e le fluttuazioni dei tassi di cambio iniziarono a mantenersi all’interno di un intervallo molto ristretto, il più delle volte non superiore al ±2,25%. L’Italia tornò ad aderire all’ERM nel novembre del 1996 nell’ambito del percorso che l’avrebbe portata all’adozione della moneta unica. L’Austria entrò nel 1995, la Finlandia nel 1996 e la Grecia nel 1998. Quando l’ERM venne sostituito dalla moneta unica nel 1999, restavano fuori solo la Svezia e il Regno Unito. Il Trattato di Maastricht e il percorso verso la moneta unica L’ERM era stato concepito come una tappa intermedia lungo il percorso verso il completamento dell’Unione economica e monetaria (UEM) degli Stati membri. I requisiti per la creazione dell’UEM furono definitivamente stabiliti nel Trattato di Maastricht, sottoscritto nel febbraio del 1992. La tabella di marcia per l’UEM prevedeva l’adozione di una moneta unica al più tardi entro il 1999. Uno dei primi passi fu la creazione dell’Istituto monetario europeo (IME), che aveva il ruolo di coordinare la politica monetaria e incoraggiare una maggiore cooperazione tra le banche centrali dell’UE. Oltre a sovrintendere al funzionamento dell’ERM, l’IME preparò il terreno alla creazione di una banca centrale europea in tempo per l’introduzione della moneta unica. Prima di poter aderire all’UEM, gli Stati membri erano obbligati a realizzare una convergenza delle rispettive economie. In particolare, ciascun paese doveva soddisfare cinque criteri di convergenza. • Inflazione: il tasso di crescita dei prezzi non poteva superare di 1,5 punti percentuali il tasso di inflazione medio dei tre paesi dell’UE con l’inflazione più bassa. • Tassi di interesse: il tasso di interesse sui titoli di Stato a lungo termine non poteva superare di 2 punti percentuali la media dei tre paesi con i tassi di inflazione più bassi. • Disavanzo di bilancio: il disavanzo non poteva superare il 3% del PIL ai prezzi di mercato. • Debito pubblico: il debito pubblico non poteva superare il 60% del PIL ai prezzi di mercato. • Tassi di cambio: la valuta doveva restare per almeno due anni all’interno delle normali bande di oscillazione dell’ERM, senza riallineamenti o interventi eccessivi. Prima del lancio della moneta unica, il Consiglio dei Ministri doveva decidere quali paesi avessero soddisfatto i criteri di convergenza e fossero dunque autorizzati a formare una unione valutaria ancorando permanentemente le proprie valute all’euro. Dopo l’adesione all’UEM, le monete nazionali sarebbero di fatto scomparse. Al contempo, era prevista la creazione del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), costituito dalla Banca centrale europea (BCE) e dalle banche centrali degli Stati membri. La BCE sarebbe stata indipendente dai governi e dalle istituzioni politiche dell’UE, e avrebbe gestito la politica monetaria per conto dei paesi che avevano adottato la moneta unica. La nascita dell’euro Nel marzo del 1998 la Commissione europea stabilì che 11 Stati membri su 15 presentavano i requisiti per aderire all’UEM nel gennaio del 1999. Il Regno Unito e la Danimarca avevano rinunciato ad adottare la moneta unica, mentre la Svezia e la Grecia non avevano soddisfatto almeno uno dei criteri di convergenza (la Grecia aderì poi all’UEM del 2001). Tutti gli 11 paesi rispettavano chiaramente i requisiti in materia di inflazione e tassi di interesse, ma molti “euroscettici” espressero dubbi sul fatto che gli altri tre criteri fossero stati realmente soddisfatti. • Tassi di cambio. Né la Finlandia né l’Italia facevano parte dell’ERM da almeno due anni, mentre il punt irlandese era stato rivalutato del 3% il 16 marzo 1998. Tuttavia, la Commissione riteneva che questi tre paesi fossero sufficientemente in linea con i valori di riferimento. • Disavanzi di bilancio. Tutti gli 11 paesi soddisfacevano questo criterio, ma alcuni erano riusciti a ridurre il disavanzo a non oltre il 3% del PIL solo con provPAROLE CHIAVE Unione valutaria (o monetaria) Gruppo di paesi (o regioni) che adottano una moneta comune. 90 Parte G – L’economia mondiale vedimenti una tantum, come un’imposta straordinaria in Italia e la contabilizzazione dei proventi delle privatizzazioni in Germania. Tuttavia, secondo il Patto di stabilità e crescita, i membri dell’UEM sarebbero stati tenuti a mantenere i propri disavanzi entro il limite del 3% (vedi Box 8.4). Molti temevano che gli Stati che avevano soddisfatto a malapena questo criterio al momento dell’adesione avrebbero avuto difficoltà a rispettare il limite nei periodi di recessione o di crescita lenta, come poi effettivamente accadde con Francia e Germania dal 2002 al 2005. • Debito pubblico. Solo quattro paesi (Francia, Finlandia, Lussemburgo e Regno Unito) avevano un debito non superiore al 60% del PIL. Tuttavia, il Trattato di Maastricht permetteva ai paesi di superare tale limite a condizione che il debito si stesse riducendo in misura sufficiente e si avvicinasse al valore di riferimento con ritmo adeguato. Secondo molti critici, questa frase era stata interpretata in maniera troppo permissiva. L’euro entrò in vigore il 1° gennaio 1999, ma le banconote e le monete metalliche denominate in euro furono introdotte solo tre anni dopo. Nel frattempo, le valute nazionali continuarono a coesistere con la moneta unica, ma ancorate a quest’ultima ad un tasso di cambio irrevocabilmente fisso. Le banconote e le monete metalliche nazionali furono ritirate dalla circolazione poche settimane dopo l’introduzione di quelle in euro. Dieci nuovi membri hanno aderito all’Unione europea nel maggio del 2004, e altri due nel gennaio del 2007. Secondo il dettato del Trattato di Maastricht, tutti i paesi di nuova adesione dovrebbero prepararsi ad adottare all’euro creando i presupposti per soddisfare i criteri di convergenza. Estonia, Lituania e Slovenia sono stati i primi tre paesi ad aderire all’ERM2 nel 2004, seguiti nel 2005 da Lettonia, Cipro, Malta e Slovacchia; tutti hanno optato per una banda di fluttuazione del ±15% rispetto alla moneta unica. La Slovenia ha adottato l’euro nel 2007, Malta e Cipro nel 2008, la Slovacchia nel 2009 e l’Estonia nel 2011, portando a 17 il totale dei membri dell’UEM. Vantaggi della moneta unica L’UEM presenta diversi importanti vantaggi. Eliminazione dei costi di conversione delle valute. Finché ciascun paese dell’UE aveva una sua moneta nazionale, la conversione di una valuta in un’altra comportava un costo. L’eliminazione di questi costi, tuttavia, ha rappresentato probabilmente il beneficio meno rilevante della moneta unica. Secondo le stime della Commissione europea, i risparmi di costo hanno avuto l’effetto di accrescere in media il PIL di ciascun paese di appena lo 0,4%. Aumento della concorrenza e dell’efficienza. Nonostante l’avvento del mercato unico, permangono notevoli differenze tra i prezzi vigenti negli Stati Membri. La moneta unica, oltre a eliminare la necessità di convertire una valuta in un’altra (un ostacolo alla concorrenza), favorisce una maggiore trasparenza dei prezzi e pone una pressione al ribasso sui prezzi delle imprese e dei paesi che presentano costi elevati. Eliminazione dell’incertezza sui tassi di cambio (tra i membri dell’UEM). L’eliminazione dell’incertezza sui tassi di cambio ha contribuito ad incoraggiare gli scambi commerciali tra gli Stati membri dell’area dell’euro, ma soprattutto ha incentivato gli investimenti delle imprese che effettuano operazioni commerciali all’interno dell’UEM, grazie alla maggiore certezza nel calcolo dei costi e i ricavi associati a queste transazioni. Nei periodi di incertezza economica, come la crisi creditizia del 2008, la volatilità dei tassi di cambio può essere molto pronunciata. IC 11 p66 Aumento dell’investimento dall’estero. L’area dell’euro, con una popolazione di circa 326 milioni abitanti, funge da magnete per l’investimento dal resto del mondo, anche in virtù dell’assenza di fluttuazioni valutarie interne. Ad esempio, un paese quale il Regno Unitoè stato penalizzato dalla decisione di non aderire all’UEM, perché gli investimenti dall’estero di cui prima beneficiava sono stati in gran parte dirottati verso i paesi dell’eurozona. Tassi di inflazione e di interesse più contenuti. Una politica monetaria comune determina una convergenza dei tassi di inflazione nazionali (proprio come avviene tra diverse regioni all’interno di un paese). In virtù della sua indipendenza dalle manipolazioni politiche di breve periodo, la BCE riesce a mantenere il tasso di inflazione a livelli mediamente bassi nei paesi dell’eurozona. La crescita moderata dei prezzi, a sua volta, contribuisce a convincere i mercati del vigore dell’euro rispetto alle altre valute, con il risultato che tassi di interesse a lungo termine tendono a ridursi. Questo, a sua volta, incoraggia ulteriormente l’investimento nei paesi dell’area dell’euro, da parte sia di altri Stati membri che del resto del mondo. Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 91 Opposizione all’UEM L’Unione economica e monetaria europea, tuttavia, ha attirato su di sé molte critiche. Alcuni gruppi – che vanno sotto il nome di “euroscettici” – si oppongono alla moneta unica per principio, poiché la considerano una rinuncia alla sovranità economica e politica nazionale. Altri, compresi gli economisti che vedono con maggior favore l’idea di una unione monetaria, hanno sollevato timori sulla struttura dei sistemi fiscali e monetari che governano il funzionamento dell’unione, una struttura che teoricamente potrebbe essere modificata. Opposizione di principio all’UEM Quanti si oppongono all’unione monetaria per principio mettono l’accento su tre problemi significativi: la perdita delle valute nazionali, un tasso di interesse uguale per tutti e l’impatto asimmetrico sulle economie nazionali di shock quali la crisi finanziaria. Perdita delle valute nazionali. Questo può essere un grave problema se un’economia non ha un andamento in linea con il resto dell’Unione. Per esempio, se paesi come l’Italia e la Spagna presentano tassi di inflazione più elevati (poniamo a causa di maggiori pressioni dal lato dei costi), come possono rendere i loro beni competitivi con quelli di altri membri dell’UEM? Se avessero ciascuno una propria valuta, questi paesi potrebbero lasciare deprezzare il tasso di cambio; con una moneta unica, invece, potrebbero diventare regioni “depresse” dell’Europa, afflitte da una crescente disoccupazione e da tutti gli altri problemi che caratterizzano le regioni depresse di un paese. I fautori dell’UEM, invece, sostengono che è meglio contrastare le spinte inflazionistiche in questi paesi attraverso la disciplina imposta dalla concorrenza proveniente da altri paesi dell’UE, anziché alimentare l’inflazione acconsentendo a svalutazioni ripetute o ad un deprezzamento, con tutta l’incertezza che questo comporta. In aggiunta, i paesi con un’elevata inflazione sono anche tendenzialmente più poveri, con livelli di salari più bassi (anche se con una crescita salariale più sostenuta). Il completamento del mercato unico, favorendo una sempre maggiore mobilità del lavoro e del capitale, potrebbe dirottare risorse verso questi paesi, contribuendo a ridurre il divario tra gli Stati membri più ricchi e più poveri. I critici dell’UEM controbattono che il lavoro in realtà è relativamente immobile, a causa delle barriere culturali e linguistiche; pertanto, un disoccupato di Dublino non può facilmente andare a cercare un impiego a Torino o a Helsinki. Questi euroscettici di fatto afferCF 14 p448 mano che l’UE non è un’area valutaria ottimale (vedi Box 25.3). Rinuncia alla politica monetaria nazionale. Il secondo problema individuato dagli euroscettici è che in tutti i paesi dell’eurozona si applica lo stesso tasso di interesse determinato dalla banca centrale: in altre parole, la politica monetaria è uguale per tutti. Questo pone un inconveniente: infatti, alcuni paesi potrebbero aver bisogno di un tasso di interesse più basso per scongiurare una recessione, e altri di un tasso più elevato per raffreddare l’inflazione. Per esempio, nel 2010–2011 molti politici dell’Unione europea temevano la creazione di un’“Europa a due velocità”, poiché i paesi in recessione come Portogallo, Irlanda e Grecia premevano sulla BCE affinché mantenesse i tassi a un minimo storico dell’1%, mentre molte nazioni in rapida crescita, come Germania, Finlandia e Austria, chiedevano a gran voce un innalzamento dei tassi di interesse per impedire un’accelerazione dell’inflazione. Tale problema è tanto maggiore quanto minore è il grado di convergenza. Adattamento agli shock. Il terzo problema per i membri di un’area monetaria, strettamente collegato ai precedenti, riguarda l’adattamento a uno shock asimmetrico, che si ripercuote sui diversi paesi in misura differente. Il problema è tanto più pronunciato quanto minore è la mobilità internazionale dei fattori all’interno dell’UEM e quanto minore è la flessibilità dei prezzi all’interno dei paesi membri. Anche quando gli shock si ripercuotono uniformemente su tutti gli Stati membri, le politiche macroeconomiche adottate centralmente potrebbero avere un impatto differente in ciascun paese, perché i meccanismi di trasmissione delle politiche economiche – ossia il modo in cui le politiche agiscono sulle variabili economiche come la crescita e l’inflazione – variano da un paese all’altro. PAROLE CHIAVE Area valutaria ottimale Dimensione ottimale di un’area valutaria è quella che massimizza i benefici dell’adottare una moneta unica in relazione ai costi. Se la dimensione dell’area aumentasse o diminuisse, i costi in relazione ai benefici aumenterebbero. Shock asimmetrico Shock (come un aumento dei prezzi del petrolio o una recessione in un’altra parte del mondo) che produce effetti di entità differenti su settori, regioni o paesi diversi. 92 Parte G – L’economia mondiale BOX 25.3 Esplorare l’economia Aree valutarie ottimali: ovvero, quando pagare nella stessa valuta conviene Immaginate che cosa accadrebbe se ogni città, piccola o grande, usasse una propria valuta. Pensate a quanto sarebbe scomodo dover convertire una valuta in un’altra, e quanto sarebbe difficile calcolare il valore relativo di beni e servizi nelle diverse parti del paese. Evidentemente l’utilizzo di una valuta comporta molti vantaggi, non solo all’interno di un paese ma anche di un gruppo di paesi: tra questi, una maggiore trasparenza dei prezzi, una concorrenza più aperta, una minore incertezza per gli investitori e il risparmio sulle commissioni che si pagano nel convertire una valuta in un’altra. C’è poi il vantaggio di una politica monetaria comune, nella misura in cui viene attuata in maniera più coerente ed efficace di quanto non facciano i singoli paesi. Perché allora non adottare una singola valuta in tutto il mondo? Perché al crescere delle dimensioni dell’area valutaria, aumentano probabilmente le differenze tra le condizioni vigenti nelle diverse regioni. Alcune potrebbero presentare una disoccupazione elevata e richiedere pertanto politiche espansive; altre potrebbero essere caratterizzate da una disoccupazione contenuta e da pressioni inflazionistiche, e richiedere dunque politiche restrittive. Inoltre, le economie dei diversi membri dell’area valutaria potrebbero essere colpite da shock differenti, provenienti sia dall’esterno dell’unione (per esempio, un calo dei prezzi di un importante bene di esportazione) sia dall’interno (per esempio, uno sciopero prolungato). Questi “shock asimmetrici” costringerebbero le diverse regioni dell’area valutaria ad adottare politiche differenti; ma con una singola politica monetaria e dunque tassi di interesse comuni, e senza la possibilità di svalutare o rivalutare le divise dei singoli membri, la possibilità di attuare politiche distinte viene a ridursi notevolmente. I costi degli shock asimmetrici (e dunque di un’area valutaria) sono tanto maggiori quanto minore è la mobilità del lavoro e del capitale, quanto minore è la flessibilità di prezzi Critiche dell’attuale struttura dell’UEM Altri soggetti, che criticano l’attuale struttura dell’UEM, sostengono che i problemi descritti potrebbero essere notevolmente mitigati con cambiamenti adeguati. Politica monetaria. Nel caso della politica monetaria, la BCE non ha affrontato la recessione seguita alla crisi finanziaria con la stessa determinazione delle altre banche centrali; la Fed e la Banca d’Inghilterra, in particolare, hanno adottato vasti programmi di quantitative easing, mentre la BCE è stata molto più prudente. e salari, e quanto minori sono le politiche economiche alternative cui si può fare ricorso (per esempio, le politiche fiscali e regionali). Molti economisti esprimono forti dubbi sul fatto che l’eurozona sia un’area valutaria ottimale, per una serie di ragioni. • Il lavoro è relativamente immobile. • Sussistono differenze strutturali tra gli Stati membri. • I meccanismi di trasmissione delle variazioni dei tassi di interesse differiscono da un paese all’altro, dato che ciascuno di essi presenta una diversa percentuale di prestiti a tasso variabile sul totale e un diverso rapporto tra spesa per consumi e PIL. • Le esportazioni verso i paesi esterni all’area dell’euro rappresentano una diversa quota del PIL degli Stati membri, e pertanto le loro economie sono influenzate in maniera differente da una variazione del tasso di cambio dell’euro rispetto alle altre valute. • I salari reali sono relativamente rigidi. • Secondo le regole del Patto di stabilità e crescita (vedi Box 8.4), la possibilità di ricorrere a una politica fiscale discrezionale è molto ridotta. Questo però non significa necessariamente che i costi di una singola valuta europea siano superiori ai benefici; inoltre, i problemi appena delineati dovrebbero diminuire nel tempo, con lo sviluppo del mercato unico; infine, il problema degli shock asimmetrici potrebbe essere stato sopravvalutato. Le economie europee sono fortemente diversificate; spesso le differenze interne sono più pronunciate di quelle internazionali. È più probabile dunque che gli shock colpiscano in maniera asimmetrica diversi settori produttivi o località, anziché interi paesi. Difficilmente una modifica del tasso di cambio, se mai fosse possibile, sarebbe una risposta politica appropriata in queste circostanze. I disavanzi di bilancio dei paesi membri dell’eurozona non sono finanziati dall’emissione di eurobond, bensì con i titoli di Stato nazionali, denominati però nella moneta comune. Qualsiasi detentore, poniamo, di obbligazioni greche, può trasferire molto facilmente i propri fondi in titoli più sicuri, come quelli tedeschi o danesi. Così, per convincere gli investitori ad acquistare le nuove obbligazioni di paesi considerati a rischio di insolvenza, gli emittenti devono offrire tassi di interesse molto elevati, che rendono estremamente oneroso il servizio del debito. Nel 2010–2011, a causa dei crescenti timori per un possibile default di Grecia, IC 11 p66 Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 93 Irlanda e Spagna e poi dell’Italia, i tassi sui titoli decennali di questi paesi hanno superato il 7%, raggiungendo in alcuni casi livelli ben più elevati. A quel tempo, le obbligazioni tedesche offrivano un tasso di interesse di circa lo 0,25%. La BCE ha acquistato nel mercato secondario le obbligazioni esistenti dei paesi a rischio di insolvenza, ma questo programma di quantitative easing è stato più moderato di quello di Stati Uniti e Regno Unito. In particolare, la BCE si è rifiutata di erogare direttamente finanziamenti a questi governi sottoscrivendo l’emissione di nuovi titoli. I critici pertanto continuano a evidenziare la debolezza intrinseca di una moneta unica che coesiste con l’emissione di titoli di Stato nazionali. Quanto maggiore è la divergenza tra le economie dell’eurozona, in termini di inflazione, disavanzi, debito e percentuale di titoli di Stato a breve scadenza, tanto più grave il problema diventa. Politica fiscale. Secondo il Patto di stabilità e crescita, i membri dell’UEM erano tenuti a mantenere il disavanzo e il debito pubblico, rispettivamente, sotto la soglia del 3% e del 60% del PIL (vedi Box 8.2). Tuttavia, il Patto non è mai stato applicato con rigore. Inoltre, le regole consentivano agli Stati membri di superare tali limiti nei periodi di recessione, consentendo il ricorso ad una politica fiscale discrezionale. Di conseguenza, dopo la recessione del 2008-2009 si è registrato un aumento dei disavanzi e del livello del debito pubblico, soprattutto nelle economie più deboli: per esempio, il disavanzo delle amministrazioni pubbliche greche è salito dal 6,5% del PIL nel 2007 al 15,8% nel 2009. Sempre nel 2007, la Spagna vantava un avanzo di bilancio pari all’1,9%, che già nel 2009 si era tramutato in un disavanzo dell’11,9%; l’Irlanda, che nel 2007 aveva un avanzo dello 0,1% del PIL, nel 2010 si è ritrovata addirittura con un disavanzo del 31,3%. Al fine di assicurare ai paesi la flessibilità di utilizzare politiche fiscali discrezionali nei periodi di recessione senza provocare o esacerbare una crisi, occorre applicare regole più rigorose nell’arco dell’intero ciclo economico, magari imponendo un disavanzo medio pari a zero. La crisi del 2011 nell’area dell’euro La crisi del debito sovrano che ha colpito l’area dell’euro nel 2010–2011, a seguito della crisi finanziaria e della recessione economica mondiale del 2008–2009, ha ulteriormente alimentato il dibattito sui benefici dell’unione monetaria. Prima la Grecia e quindi l’Irlanda e il Portogallo hanno dovuto chiedere finanziamenti d’emergenza all’UE e all’FMI per riuscire a rimborsare i loro debiti crescenti; in cambio, hanno accettato di attuare significative riduzioni della spesa pubblica, di alzare le tasse e di introdurre riforme dal lato dell’offerta, il tutto sotto la supervisione dell’FMI. Per sostenere il processo di salvataggio, nel giugno del 2010 è stato creato il Meccanismo europeo di stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility, EFSF), che può emettere obbligazioni per raccogliere capitali. Questi fondi possono essere quindi impiegati per erogare prestiti ai paesi dell’eurozona in difficoltà, per acquistare le loro obbligazioni o ricapitalizzare le banche esposte al loro debito. Le prime obbligazioni dell’EFSF sono state emesse nel 2011 come parte di un pacchetto di assistenza finanziaria all’Irlanda approntato dall’UE e dall’FMI. Un altro pacchetto di aiuti è stato successivamente erogato al Portogallo, mentre la Grecia ha beneficiato della seconda tranche prevista dal suo piano di salvataggio. Nell’ottobre del 2010 l’EFSF aveva impiegato già oltre 250 miliardi di euro su un fondo complessivo di 400 miliardi di euro. Durante una riunione nel novembre del 2011, i Ministri delle Finanze dell’eurozona hanno deliberato di portare la dotazione dell’EFSF a 1000 miliardi di euro. I nuovi fondi, tuttavia, non sarebbero giunti da nuova moneta creata dalla BCE; si sperava invece che la Cina e altri paesi del G-20 avrebbero contribuito a finanziare l’EFSF, in cambio di una parziale garanzia contro l’insolvenza dei paesi dell’eurozona beneficiari degli interventi di salvataggio. La crisi ha evidenziato tre problematiche cruciali. In primo luogo, ci si è chiesto se le condizioni dei salvataggi non fossero talmente rigorose da spingere i paesi in depressione, con il conseguente crollo delle entrate fiscali ed un ulteriore peggioramento dei disavanzi. I piani di austerity si sono già dimostrati estremamente impopolari nei paesi interessati, dove si sono registrate molte proteste per la perdita di posti di lavoro ed il calo del tenore di vita. In secondo luogo, vi era il rischio che i mercati non si sarebbero convinti dell’efficacia dei provvedimenti. In tal caso, i tassi di interesse sui titoli di Stato sarebbero aumentati, rendendo ancora più oneroso il servizio del debito e imponendo ulteriori salvataggi nonché la cancellazione di ampie quote del debito. Data la situazione al tempo, nell’ottobre del 2011 i leader dell’eurozona hanno deciso che le banche avrebbero dovuto accettare una perdita del 50% nel convertire i titoli di Stato greci esistenti in obbligazioni di nuova emissione. In terzo luogo, si temeva che la turbolenza avrebbe condotto alla disgregazione dell’eurozona, con la fuoriuscita di paesi come la Grecia, costretti in tal caso a reintrodurre la moneta nazionale. In un simile scenario, i paesi uscenti subirebbero un ampio deprezzamento della 94 Parte G – L’economia mondiale propria valuta, un aumento dei prezzi e un ulteriore calo del tenore di vita. I leader dell’area dell’euro hanno voluto sottolineare con determinazione che la disgregazione dell’eurozona non era in discussione. La soluzione propugnata dai capi di Stato e di governo dell’UEM va nella direzione di una più stretta integrazione, di regole fiscali più rigorose con uno stretto monitoraggio e sanzioni automatiche per i paesi che superano i limiti fissati al disavanzo, e di un rafforzamento del quadro monetario con un incremento delle riserve valutarie e la ricapitalizzazione delle banche. Altri, compresi alcuni sostenitori dell’unione monetaria, sostengono invece che un problema fondamentale risiede nella debolezza del quadro fiscale dell’eurozona. A loro avviso, le regole fiscali alla base del Patto di stabilità e crescita (vedi Box 8.2) negli anni Duemila non sono state efficacemente applicate; di conseguenza, essendo considerate scarsamente credibili, hanno incoraggiato una scarsa disciplina fiscale. Altri osservatori si spingono oltre, affermando che la piena attuazione dei benefici dell’unione monetaria richiederebbe una maggiore armonizzazione fiscale. In altre parole, il problema non è l’unione monetaria in sé, ma un’integrazione non ancora completa. Ironia della sorte, sia gli euroscettici che gli eurofili hanno visto nella crisi del debito sovrano una dimostrazione della validità delle loro diversissime posizioni. 25.3 Conseguire una maggiore stabilità valutaria Un importante insegnamento tratto dagli eventi degli ultimi anni è che gli attacchi speculativi concertati sono diventati pressoché inarrestabili, come è apparso evidente a seguito dell’espulsione del Regno Unito e dell’Italia dall’ERM nel 1992, dal crollo di diverse valute del Sud-Est asiatico e del rublo russo nel 1997–1998, dalla crisi del peso argentino all’inizio del 2002, dal calo della sterlina nel 2008 e dal massiccio deprezzamento dell’euro nel 2012. A confronto con gli ingenti flussi di capitali a breve termine che transitano ogni giorno attraverso i mercati dei cambi, le riserve delle banche centrali appaiono insignificanti. Se i mercati si convincono che una valuta è destinata a deprezzarsi, le autorità possono fare ben poco per scongiurarlo. Per esempio, se vi è una probabilità del 50% che la prossima settimana una valuta si deprezzi del 10%, la vendita immediata di quella valuta frutterebbe un rendimento “atteso” poco superiore al 5% in una settimana (ovvero il 50% del 10%), un guadagno equivalente al 1200% all’anno. Per questa ragione, molti analisti affermano che solo due tipi di sistemi dei tassi di cambio sono sostenibili nel lungo periodo. Il primo è un regime di cambi a corso completamente libero, nel quale la banca centrale non fa alcun tentativo di sostenere il tasso di cambio; senza intervento, infatti, non si pone un problema di carenza delle riserve. Il secondo consiste nell’adesione ad un’area valutaria comune, come l’eurozona: i paesi aderenti adottano una stessa valuta che viene lasciata fluttuare liberamente rispetto a tutte le altre. Gli Stati membri rinunciano a perseguire una politica monetaria indipendente, ma quanto meno all’interno dell’area monetaria si risolve il problema dell’instabilità dei tassi di cambio. Un’alternaIC 10 p61 tiva simile consiste nell’adottare la valuta di un altro paese, come il dollaro statunitense e l’euro. Molti paesi piccoli hanno optato per questa soluzione: per esempio, il Kosovo e il Montenegro hanno adottato prima il marco tedesco e poi l’euro, mentre l’Ecuador ha scelto come propria valuta il dollaro statunitense. Un paese che tenti di adottare un sistema di cambi fissi può andare incontro a due spiacevoli conseguenze: cadere vittima di un attacco speculativo oppure trovarsi costretto a dedicare totalmente la politica monetaria alla difesa del tasso di cambio. Esiste dunque un modo di “battere gli speculatori” e perseguire una politica di maggiore stabilità del tasso di cambio? Oppure i paesi non appartenenti ad un’area valutaria sono necessariamente costretti ad accettare un regime di cambi liberamente fluttuanti, con tutta l’incertezza che questo comporta per gli operatori commerciali? CF 6 In quest’ultimo paragrafo esaminiamo due possip45 bili soluzioni: la prima consiste nel ridurre la mobilità internazionale dei capitali, introducendo diversi tipi di restrizioni sulle operazioni in valuta estera; la seconda si concretizza nell’adozione di un nuovo regime dei tassi di cambio, che offre i benefici di un certo grado di stabilità, senza essere suscettibile ad attacchi speculativi su grande scala. Controllare le operazioni in valuta Fino all’inizio degli anni Novanta in molti paesi vigevano restrizioni su diversi tipi di flussi finanziari. In virtù di tali restrizioni, le operazioni speculative su possibili variazioni dei tassi di cambio erano più onerose. Non è vero, come sostengono alcuni analisti, che è impossibile Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 95 reintrodurre questo genere di controlli; lo fece la Malaysia nel 1998, quando il ringgit fu vittima di un attacco speculativo. Molti paesi in via di sviluppo mantengono ancora una serie di controlli, e gli ultimi membri dell’ERM a smantellarli lo fecero solo nel 1991. È vero che la complessità dei moderni mercati finanziari offre agli speculatori abbondanti opportunità di evadere i controlli, ma questi hanno comunque l’effetto di placare la speculazione. Nel settembre del 1998 l’FMI affermò che i controlli sui flussi di capitali in entrata possono rivelarsi uno strumento utile, specie per i paesi più vulnerabili ad un attacco speculativo. Nella sua relazione annuale del 1999, il Fondo monetario internazionale dichiarò che la crisi asiatica del 1997–1998 fu il risultato non solo della debolezza dei sistemi bancari, ma anche della perfetta mobilità dei capitali, che favorì un ingente deflusso di fondi. L’obiettivo dei controlli finanziari non è impedire i flussi di capitali internazionali, i quali, dopo tutto, sono un’importante fonte di finanziamento per gli investimenti. Inoltre, se i fondi si spostano dai paesi con una bassa produttività marginale del capitale verso quelli dove la produttività è più elevata, tale processo favorisce un’allocazione efficiente del risparmio mondiale. I controlli finanziari devono essere dunque mirati ad ostacolare i flussi speculativi basati unicamente su voci di corridoio o comportamenti imitativi, anziché sui fondamentali economici. Tipi di controlli Esistono diversi modi di controllare i movimenti di capitali a breve termine, ciascuno con i suoi punti di forza e di debolezza. Controlli quantitativi. In questo caso le autorità limitano il volume delle operazioni in valuta estera che possono essere effettuate, stabilendo, per esempio, che le istituzioni finanziarie possono convertire solo una data percentuale delle loro attività. Tuttavia, i paesi sviluppati e la maggior parte dei paesi in via di sviluppo si sono rifiutati di adottare questo approccio, poiché lo considerano profondamente contrario al principio del libero mercato. Fa eccezione il ricorso a speciali misure di emergenza per limitare i movimenti di capitali nell’eventualità di una crisi valutaria. Secondo l’articolo 57 del Trattato di Amsterdam, il Consiglio dei Ministri dell’Unione europea può “adottare misure concernenti i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti”; l’articolo 59 ammette la possibilità di introdurre “misure di salvaguardia” qualora “in circostanze eccezionali, i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti causino [...] difficoltà gravi per il funzionamento dell’Unione economica e monetaria”; infine, l’articolo 60 consente agli stati membri di “adottare misure unilaterali nei confronti di un paese terzo per quanto concerne i movimenti di capitali e i pagamenti”. Una Tobin tax. Questo provvedimento prende il nome dall’economista James Tobin, che nel 1978 propose di introdurre una minuscola imposta compresa tra lo 0,1 e lo 0,5% su tutte le operazioni in valuta estera, oppure solo su quelle relative al conto finanziario.1 Una Tobin tax avrebbe l’effetto di scoraggiare la speculazione destabilizzante (rendendola più onerosa) e dunque di introdurre una certa “frizione” nei mercati dei cambi, riducendo la volatilità. Gli appelli a favore della Tobin tax sono diventati sempre più frequenti negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria della fine degli anni 2000. Nel novembre del 2001 l’Assemblea nazionale francese è stata il primo parlamento nazionale ad introdurre per legge una Tobin tax non superiore allo 0,1%, seguita dal Belgio nel 2002. I Ministri delle Finanze dell’UE hanno incaricato la Commissione europea di condurre uno studio di fattibilità su questa imposta2. Alla fine del 2001, l’organizzazione benefica War on Want ha dichiarato il 13 marzo 2002 “giornata internazionale della Tobin tax”. Ironia ha voluto che James Tobin morisse due giorni prima. Una tale imposta pone però alcuni problemi: innanzitutto, penalizzerebbe le transazioni effettuate per normali finalità commerciali o di investimento, oltre che quelle di carattere speculativo; in secondo luogo, per scoraggiare la speculazione nei periodi di incertezza, la Tobin tax dovrebbe essere piuttosto elevata, con riper1 Tobin J., “A proposal for international monetary reform”, Eastern Economic Journal, 4(3-4), pp. 153-159, 1978. 2 Nell’ottobre del 2012 la Commissione europea ha dato il via libera all’adozione di un’imposta sulle transazioni finanziarie nell’ambito di un quadro di cooperazione rafforzata, che al momento della stampa di questo libro vede l’adesione di 10 paesi, tra cui l’Italia. [N.d.T.] PAROLE CHIAVE Teoria della politica commerciale strategica Teoria secondo la quale la protezione e/o il sostegno mettono determinati settori produttivi in condizione di competere più efficacemente con concorrenti monopolistici di maggiori dimensioni all’estero. La protezione rafforza la concorrenza nel lungo periodo e può consentire alle imprese protette di sfruttare un vantaggio comparato di cui altrimenti non potrebbero beneficiare. 96 Parte G – L’economia mondiale cussioni negative per gli scambi commerciali o gli investimenti. Per risolvere quest’ultimo problema, l’imposta potrebbe essere prelevata solo nei periodi di turbolenza sui mercati dei cambi, oppure applicata con un’aliquota più elevata. Se non altro un’imposta è molto meno distorsiva dei controlli quantitativi. Il Box 25.4 esamina in maniera più approfondita le argomentazioni favorevoli e contrarie alla Tobin tax nonché le crescenti pressioni, soprattutto in Europa, per l’introduzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie effettuate dalle banche. Depositi infruttiferi. In questo caso una determinata percentuale dei flussi di capitali verrebbe conferita in depositi infruttiferi presso la banca centrale per un periodo di tempo prestabilito. Negli anni Novanta questo sistema venne adottato dal Cile, che introdusse l’obbligo di depositare il 30% dei tutti i capitali in entrata presso la propria banca centrale per un anno. Tale provvedimento, equivalente in effetti ad un’imposta considerevole (per via della perdita di interessi), ebbe l’effetto di scoraggiare i flussi speculativi a breve termine. Il problema, BOX 25.4 ovviamente, è che il Cile dovette offrire tassi di interesse più elevati per attrarre fondi. Un’obiezione mossa a tutti questi provvedimenti è che il loro unico effetto potrebbe essere quello di raffreddare la speculazione, senza eliminarla del tutto. Se gli speculatori ritengono che il mercato dei cambi è caratterizzato da gravi squilibri e che un riallineamento è inevitabile, non esistono imposte sui movimenti di capitali o controlli artificiali in grado di arginare la marea speculativa. A questa obiezione si può rispondere in due modi. In primo luogo, se è vero che le valute sono fortemente disallineate, ben vengano le variazioni dei tassi di cambio. In secondo luogo, un semplice raffreddamento della speculazione è probabilmente quanto di più indicato. La speculazione può svolgere un ruolo importante, portando più rapidamente i tassi di cambio verso il livello di equilibrio di lungo periodo. Difficilmente i controlli possono impedire questo aspetto della speculazione, ovvero un adeguamento in linea con i fondamentali economici; se però contribuiscono ad attenuare le forme più sfrenate di disoccupazione destabilizzante, tanto meglio. Esplorare l’economia La Tobin tax: una cura per tutti i mali? A metà degli anni Ottanta il volume quotidiano delle operazioni effettuate nei mercati dei cambi mondiali era pari a circa 150 miliardi di dollari; nel 2008 aveva assunto proporzioni gigantesche, portandosi a 4000 miliardi. Tuttavia, solo il 5% di queste operazioni era finalizzato allo scambio di beni e servizi. Non -è da stupirsi che la crescita vertiginosa dei flussi speculativi possa causare una notevole instabilità valutaria e crisi finanziarie nei periodi di incertezza economica. I mercati finanziari globali hanno svolto spesso un ruolo decisivo nell’innescare e intensificare le crisi economiche. Le crisi dell’ERM nel 1992, del peso messicano nel 1994, del SudEst asiatico nel 1997, del rublo russo nel 1998, del peso argentino nel 2001–2002, nonché l’instabilità valutaria del 2008–2009 seguita alla rarefazione del credito non sono che i casi più eclatanti di una lunga lista. Il problema fondamentale risiede nella volatilità dei tassi di cambio. Se i mercati valutari reagissero unicamente ai cambiamenti dei fondamentali economici, la volatilità delle valute non sarebbe così pronunciata. Tuttavia, volumi sempre più ingenti di denaro si spostano da una parte all’altra del globo per ragioni puramente speculative, spesso sulla scorta di comportamenti imitativi. Invariabilmente, data la portata dei flussi speculativi, i tassi di cambio spesso si allontanano sensibilmente dal loro equilibrio naturale, esacerbando le distorsioni create. Questi movimenti speculativi hanno un forte impatto destabilizzante, non solo sulle economie nazionali ma anche su quella mondiale. Cosa si può fare per ridurre la speculazione destabilizzante? Un suggerimento è introdurre una Tobin tax. La Tobin tax In un articolo del 1978 James Tobin propose un sistema per ridurre la volatilità dei tassi di cambio senza interferire profondamente con le operazioni dei mercati. Tobin suggerì di introdurre un’imposta internazionale dello 0,1–0,5% su tutte le operazioni di cambio a pronti o in contante. A suo avviso, l’imposta avrebbe reso le transazioni valutarie più costose, riducendo quindi il volume dei flussi finanziari a breve termine e favorendo inevitabilmente una maggiore stabilità dei tassi di cambio. Secondo la proposta originaria di Tobin, l’aliquota dell’imposta dovrebbe essere molto bassa, in modo da non ostacolare la “normale conduzione degli affari”. Ma anche con un prelievo molto contenuto, gli speculatori che operano su margini molto risicati sarebbero dissuasi dall’effettuare regolari movimenti di denaro, poiché dovrebbero versare un’imposta su ogni singola transazione. Per esempio, con un’aliquota dello 0,2%, gli speculatori che effettuano una transazione al giorno totalizzerebbero un debito di imposta Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 97 di circa il 50% all’anno, quelli che operano settimanalmente pagherebbero il 10% all’anno e quelli che effettuano una transazione al mese verserebbero il 2,4% all’anno. Dato che il 40% delle operazioni in valuta ha un orizzonte temporale di appena due giorni e l’80% un orizzonte inferiore a una settimana, un’imposta del genere avrebbe chiaramente l’effetto di mitigare i movimenti speculativi di valuta. Una Tobin tax potrebbe anche generare entrate consistenti, comprese secondo le stime tra i 150 e i 300 miliardi di dollari all’anno. Molti dei principali gruppi di pressione mondiali, come War on Want e Stamp out Poverty, hanno affermato che i proventi di una tale imposta internazionale potrebbero essere impiegati per risolvere una serie di problemi mondiali, come la povertà e il degrado ambientale. La Banca mondiale stima che per eliminare le forme più gravi di povertà al mondo servirebbero 225 miliardi di dollari. Le entrate generate da una Tobin tax potrebbero facilmente superare quell’importo in un periodo di tempo relativamente breve. Persino un’imposta mondiale dello 0,005% (l’aliquota raccomandata da Stamp out Poverty) potrebbe consentire di raccogliere circa 50 miliardi di dollari all’anno. Problemi della Tobin tax Fino a che punto un’imposta sulle operazioni in valuta riuscirebbe a frenare i movimenti speculativi di denaro? La risposta risiede nel rendimento che gli speculatori possono ottenere dalle transazioni. Se una valuta si deprezzasse del 3-4%, una Tobin tax dello 0,2% potrebbe fare ben poco per scoraggiare un’operazione speculativa basata su un potenziale rendimento di questa entità. Considerando le svalutazioni del 50% effettuate da Thailandia e Indonesia dopo il crollo del 1997 e l’apprezzamento dell’80% registrato dall’euro rispetto al dollaro tra il 2002 e il 2008, per non parlare di altre marcate fluttuazioni breve termine, una variazione del 3-4% sembra piuttosto modesta. Innalzare l’aliquota della Tobin tax non sarebbe una soluzione, perché questo interferirebbe con la “normale conduzione degli affari”. Una soluzione a questo problema è stata proposta da un economista tedesco, Paul Bernd Spahn, che ha suggerito di utilizzare un sistema a due velocità. In tempi normali tutte le transazioni finanziarie sarebbero soggette a un’imposta minima come quella originariamente prevista da Tobin; nei periodi di forte volatilità dei tassi di cambio, invece, si applicherebbe una sovrattassa a un’aliquota nettamente più elevata, che entrerebbe in vigore solo qualora una determinata valuta fuoriuscisse da una banda di fluttuazione prestabilita. Un ulteriore problema associato alla Tobin tax riguarda i costi della sua amministrazione. Tuttavia, grazie alle reti informatiche e alla progressiva centralizzazione dei mercati dei cambi – in termini di piazze finanziarie, operatori e valute – un’efficace amministrazione diventa ogni giorno più facile. La maggior parte dei mercati dei cambi viene già adeguatamente monitorata e non dovrebbe essere troppo difficile estendere tale monitoraggio alla riscossione dell’imposta. Un altro problema ancora è rappresentato dall’elusione fiscale. La Tobin tax, essendo un’imposta che grava sulle operazioni valutarie a pronti, potrebbe incoraggiare gli investitori a utilizzare maggiormente i contratti a termine e futures. Questi prodotti sono strumenti finanziari “derivati” che consentono agli operatori di acquistare o vendere valute a una data futura e a un prezzo prestabilito. Monitorare e dunque tassare queste transazioni è molto più difficile, poiché al momento del perfezionamento del contratto non avviene alcuno scambio di valuta. Una possibile soluzione è prelevare un’imposta sul valore nozionale del contratto derivato. Tuttavia, i derivati sono un importante strumento di copertura contri i rischi futuri, e tassandoli si rischia di inficiare la loro utilità per le imprese e di danneggiare il mercato dei derivati nel suo complesso, rendendo l’attività di impresa più rischiosa. Nonostante l’elusione fiscale, i sostenitori della Tobix tax sostengono comunque che l’imposta potrebbe rivelarsi efficace. Il problema fondamentale è in realtà la mancanza di volontà politica. Una Tobin tax sulle transazioni finanziarie? Nel 2009 Adair Turner, l’allora presidente della Financial Services Authority (l’autorità di vigilanza del settore finanziario del Regno Unito fino al 2012) ha ventilato la possibilità di utilizzare un’imposta sulle transazioni finanziarie per porre un freno alle operazioni destabilizzanti. Durante il vertice del G-20 tenutosi a Cannes nel novembre del 2011, un’imposta sulle transazioni finanziarie è stata proposta dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy con il sostegno di molti altri leader, inclusi quelli di Germania e Sud Africa. Questa forma di Tobin tax ha riscosso anche l’approvazione di Warren Buffet, Bill Gates, Rowan Williams (l’Arcivescovo di Canterbury), del Vaticano e di diversi gruppi di pressione e organizzazioni benefiche, che hanno chiesto a gran voce l’introduzione di una “Robin Hood tax”, come viene talvolta chiamata. Resta da capire se i paesi favorevoli a tale imposta siano pronti ad adottarla unilateralmente, rischiando che le operazioni finanziarie vengano dirottate verso le nazioni che non la introdurranno. I suoi sostenitori, tuttavia, citano a esempio la Stamp Duty Reserve Tax del Regno Unito, prelevata fin dal 1986 in misura dello 0,5% sulla compravendita di azioni di società aventi sede o registrate nel Regno Unito. Poiché grava sulle transazioni relative a particolari titoli azionari, anziché sul mercato nel quale vengono negoziati, l’imposta non sembra aver scoraggiato gli investimenti nelle imprese britanniche. Nondimeno, il governo del Regno Unito è contrario a un’imposta sulle transazioni finanziarie che non venga adottata a livello globale, perché teme che il vasto settore finanziario del paese ne sarebbe penalizzato. 98 Parte G – L’economia mondiale Zone obiettivo dei tassi di cambio Un regime dei tassi di cambio che ha suscitato notevole dibattito in anni recenti è quello proposto da John Williamson, dell’Institute for International Economics di Washington.1 Williamson ha propugnato un sistema di parità mobili con ampie bande di fluttuazione dei tassi di cambio (vedi Figura 24.6). Il sistema avrebbe quattro caratteristiche fondamentali. • Bande di fluttuazione ampie, per esempio del ±10% rispetto alle parità centrali. • Parità centrali stabilite in termini reali in corrispondenza del “tasso di cambio di equilibrio fondamentale” (fundamental equilibrium exchange rate, FEER), ovvero un tasso compatibile con il pareggio della bilancia dei pagamenti nel lungo periodo. • Riallineamenti frequenti. Per restare il linea con il FEER, la parità centrale andrebbe rivista di frequente (per esempio, con cadenza mensile) per tener conto del tasso di inflazione di ciascun paese. Se la crescita annua dei prezzi fosse superiore di 2 punti percentuali all’inflazione media ponderata per l’interscambio di altri paesi, la parità centrale sarebbe svalutata dl 2% all’anno. I riallineamenti rispecchierebbero anche altri cambiamenti dei fondamentali, come le modifiche del grado di protezione, o importanti eventi politici, come la riunificazione tedesca. • “Cuscinetti soft”. I governi non sarebbero costretti ad intervenire in corrispondenza del limite del ±10% o di una sua frazione specificata; anzi, di volta in volta il tasso di cambio potrebbe fuoriuscire dalla banda di oscillazione. 1 Vedi, per esempio, Williamson J. e Miller M., “Target and indicators: a blueprint for the international coordination of economic policy”, Policy Analyses in International Economics, 22, IIE, 1987. Il punto è che l’intervento sarebbe tanto maggiore quanto più il tasso di cambio si approssima ai limiti della banda di fluttuazione. Questo sistema presenta due vantaggi fondamentali. In primo luogo, il tasso di cambio resterebbe generalmente in linea con il livello di equilibrio, riducendo così la probabilità di svalutazioni o rivalutazioni pronunciate e con essa l’opportunità di ingenti guadagni speculativi. La ragione dietro al fallimento dell’ERM, con le due bande di fluttuazione ristrette, nel 1992 e 1993 fu che le parità centrali non erano fissate al livello di equilibrio. In secondo luogo, le bande più ampie lascerebbero ai paesi maggiore libertà di perseguire una politica monetaria indipendente, in grado dunque di rispondere alle esigenze sul fronte dell’economia interna. Il principale svantaggio del sistema è che potrebbe non assicurare le piena indipendenza nella conduzione della politica monetaria: per mantenere il tasso di cambio all’interno della banda di fluttuazione, talvolta bisogna destinare la politica monetaria a questo scopo anziché al controllo dell’inflazione. Ciò nonostante, le bande mobili sono state utilizzate con qualche successo da diversi paesi, come il Cile e Israele, per lunghi periodi di tempo. Peraltro, nel 1999 l’ex Ministro delle Finanze tedesco, Oskar Lafontaine, affermò che un tale sistema sarebbe stato appropriato per regolare le fluttuazioni dell’euro rispetto al dollaro statunitense e allo yen giapponese. Un mondo in cui le tre principali valute fluttuano moderatamente le une rispetto alle altre avrebbe sicuramente molti pregi. Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 99 I paragrafi in pillole Paragrafo 25.1 1. I cambiamenti della domanda aggregata di un paese si ripercuotono sulla quantità di importazioni acquistate e dunque sul volume dei beni di esportazione venduti da altri paesi, e quindi sul reddito nazionale di questi ultimi. Si genera quindi un effetto moltiplicatore associato al commercio internazionale. 2. Le variazioni dei tassi di interesse influiscono sui flussi di capitali da e verso altri paesi, e dunque sui tassi di cambio, i tassi di interesse e il reddito nazionale di questi ultimi. 3. Per impedire che i problemi di un paese si propaghino ad altre nazioni, e per stabilizzare il ciclo economico internazionale, è necessario che i governi coordinino le proprie politiche economiche. 4. È possibile attenuare le fluttuazioni valutarie attraverso un’armonizzazione delle politiche economiche nazionali; idealmente, questo comporterebbe il conseguimento di condizioni compatibili in termini di tassi di crescita, tassi di inflazione, tassi di interesse e bilancia dei pagamenti (in percentuale del PIL). La convergenza di uno di questi indicatori, tuttavia, potrebbe non essere compatibile con quella di altri. 5. I leader dei paesi del G-8 e del G-20 si riuniscono almeno una volta all’anno per discutere i modi di armonizzare le rispettive politiche economiche. Tuttavia, i capi di stato e di governo attribuiscono generalmente maggiore importanza alle problematiche nazionali che a quelle internazionali e spesso perseguono politiche che non sono nell’interesse di altri paesi. Paragrafo 25.2 1. Per conseguire una maggiore stabilità valutaria, un gruppo di paesi può adottare un sistema di tassi di cambio fissi o semi-fissi, lasciando fluttuare congiuntamente le proprie valute rispetto a tutte le altre. Un esempio di questo approccio era il meccanismo dei tassi di cambio europeo (ERM). Le valute dei paesi membri potevano fluttuare le une rispetto alle altre entro una banda, fissata al ±2,25% per la maggior parte dei paesi fino al 1993. 2. I riallineamenti parvero diventare meno necessari alla fine degli anni Ottanta, grazie alla sempre maggiore convergenza tra le economie dei paesi membri. Tuttavia, nei primi anni Novanta le crescenti tensioni nel sistema sfociarono in una crisi vera e propria, scoppiata nel settembre del 1992, quando il Regno Unito e l’Italia abbandonarono l’ERM. Nel 1993 le bande di fluttuazione furono ampliate al ±15%, anche se da allora al lancio dell’euro, avvenuto nel 1999, le fluttuazioni rimasero per la maggior parte del tempo comprese tra il ±2,25%. 3. L’ERM era considerato una prima tappa importante nel percorso che avrebbe condotto a un’unione economica e monetaria completa. 4. L’euro fu adottato il 1° gennaio 1999 da dodici paesi che avevano nominalmente soddisfatto i criteri di convergen- za di Maastricht. Le banconote e le monete metalliche in euro furono introdotte il 1° gennaio 2002, mentre quelle denominate nelle valute nazionali furono ritirate dalla circolazione poche settimane più tardi. 5. A detta di molti, l’UEM presenta numerosi vantaggi. Innanzitutto, elimina i costi di conversione delle valute e le incertezze associate alle fluttuazioni dei tassi di cambio all’interno dell’UE; questo, a sua volta, incoraggia l’investimento dall’estero nonché quello delle imprese dell’Unione. Inoltre, una banca centrale comune indipendente dai governi nazionali assicura un contesto monetario stabile, che favorisce la convergenza delle economie nazionali nonché gli investimenti e i commerci intra-UE. 6. Secondo i critici, invece, l’unione monetaria rende più difficile la risoluzione dei problemi economici interni. La rinuncia all’attuazione di politiche economiche indipendenti è considerata una problematica cruciale, non solo per la perdita di sovranità politica, ma anche perché gli obiettivi economici interni potrebbero essere discordanti con quelli dell’Unione nel suo complesso. In aggiunta, si afferma che una politica monetaria unica potrebbe non essere uno strumento adeguato per affrontare gli shock asimmetrici. Infine, i paesi e le regioni alla periferia dell’Unione potrebbero diventare depressi in assenza di una politica regionale efficace. Paragrafo 25.3 1. Considerati gli ingenti flussi di capitali a breve termine che transitano quotidianamente per i mercati dei cambi, molti economisti affermano che i governi sono costretti a scegliere tra due regimi dei tassi di cambio estremi: la fluttuazione libera o l’adesione a un’unione monetaria. 2. Ponendo un limite ai flussi finanziari, tuttavia, si potrebbe conseguire una maggiore stabilità dei tassi di cambio. 3. È possibile regolare i flussi finanziari introducendo controlli quantitativi, un’imposta sulle operazioni in valuta oppure l’obbligo di conferire una certa percentuale dei flussi di capitali in depositi infruttiferi presso la banca centrale. Tali controlli possono attenuare la speculazione, ma anche impedire al capitale di riversarsi negli impieghi che presentano una maggiore produttività marginale. 4. Un metodo alternativo per conseguire una maggiore stabilità valutaria consiste nel creare zone obiettivo dei tassi di cambio, nelle quali le valute potrebbero fluttuare all’interno di ampie bande attorno a una parità centrale, periodicamente ritoccata in direzione del tasso di equilibrio fondamentale. 5. Questo sistema avrebbe il vantaggio di frenare la speculazione destabilizzante, poiché manterrebbe il tasso di cambio generalmente in linea con il livello di equilibrio, lasciando tuttavia ai governi qualche margine di manovra per perseguire una politica monetaria indipendente. Tuttavia, di tanto in tanto potrebbe essere necessario utilizzare la politica monetaria per mantenere il tasso di cambio entro la banda di fluttuazione prestabilita. 100 Parte G – L’economia mondiale Domande di ripasso 1. In quali circostanze la crescita dei flussi di capitali riduce la stabilità dei tassi di cambio? 2. Ipotizziamo che i paesi dell’area dell’euro decidano di perseguire una politica fiscale deflazionistica. Quali effetti avrebbe questa decisione sull’economia del Regno Unito? 3. Spesso si afferma che la convergenza internazionale degli indicatori macroeconomici sia un obiettivo desiderabile. Questo significa forse che tutti i paesi dovrebbero mirare ad avere uguali tassi di crescita economica, di crescita monetaria o di interesse, e gli stessi disavanzi di bilancio in percentuale del PIL e così via.? 4. I problemi di gestione dei tassi di cambio con cui si sono scontrati i paesi membri dell’ERM rafforzano o indeboliscono le argomentazioni per proseguire verso una singola valuta europea? 5. Ipotizziamo che solo alcuni membri di un mercato comune come l’UE creino un’unione economica e monetaria completa, comprensiva di una moneta unica. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi per gli stati che aderiscono all’UEM e per quelli che ne restano fuori? 6. L’eurozona è un’area valutaria ottimale? Spiegate. 7. Come vengono affrontati gli shock asimmetrici all’interno di un paese? In che misura questo processo può essere replicato nell’area dell’euro? 8. Il mondo nel suo insieme trarrebbe beneficio dall’imposizione generalizzata di controlli sui movimenti internazionali di capitali? online Le soluzioni alle domande di ripasso e ulteriori supporti per la didattica e l’autoverifica dell’apprendimento (animazioni grafiche, flashcard e test interattivi a risposta multipla) sono presenti sul companion website del libro, raggiungibile dall’indirizzo http://hpe.pearson.it/sloman