Interdipendenza globale e regionale

Capitolo
25
Sommario del capitolo
25.1 La globalizzazione
e il problema dell’instabilità
25.2 L’unione economica
e monetaria europea (UEM)
25.3 Conseguire una maggiore
stabilità valutaria
Interdipendenza
globale e regionale
Le fluttuazioni valutarie sono ascrivibili, tra gli altri fattori, alle condizioni molto diverse vigenti nei vari paesi e alle differenze tra le politiche
economiche perseguite. Per esempio, una politica fiscale espansiva, abbinata a una politica monetaria restrittiva, può causare un marcato
apprezzamento del tasso di cambio se altri paesi non adottano provvedimenti analoghi. Ciò è quanto è accaduto al dollaro nel 1983 e nel
1984. Per contro, un persistente disavanzo del conto corrente della
bilancia dei pagamenti, unitamente a una politica di riduzione dei tassi di
interesse volta a stimolare l’economia, può provocare un deprezzamento di notevole entità, come accaduto alla sterlina britannica dopo
l’uscita del Regno Unito dall’ERM nel 1992, al dollaro nel 2007 e ancora
alla valuta britannica nel 2008.
Le fluttuazioni dei tassi di cambio sono spesso amplificate dalla speculazione, un problema che diventa ogni giorno più grave. Come
abbiamo visto, per i mercati dei cambi transitano quotidianamente circa
4000 miliardi di dollari. Data l’entità di questi flussi finanziari, è pressoché impossibile per un singolo paese contrastare un’ondata speculativa
su grande scala; in alcune circostanze, neppure l’azione concertata di un
gruppo di paesi riesce a mantenere la stabilità dei tassi di cambio.
Nel primo paragrafo esploreremo la natura dell’interdipendenza tra
le diverse economie e le ragioni per cui i paesi sono così vulnerabili alle
fluttuazioni internazionali. Esamineremo quindi le possibili misure per
favorire un maggiore coordinamento delle politiche economiche internazionali, nonché il ruolo svolto in questo processo dai paesi del G-8 e
del G-20.
La soluzione estrema al problema dell’instabilità valutaria è l’adozione di una moneta comune. Nel Paragrafo 25.2 ci soffermeremo
sull’euro e sul funzionamento dell’Unione economica e monetaria
europea (UEM). Il capitolo si chiude con una disamina di alcuni suggerimenti alternativi per ridurre le fluttuazioni valutarie.
80 Parte G – L’economia mondiale
25.1 La globalizzazione e il problema dell’instabilità
Viviamo in un mondo globalmente interconnesso: tutti i
paesi risentono delle condizioni economiche di altre
nazioni e delle politiche dei loro governi. I problemi in
una parte del pianeta possono diffondersi come un contagio in altre regioni, tanto che nessun paese, probabilmente, può considerarsi immune.
Due sono i canali attraverso i quali questo processo
di “globalizzazione” si ripercuote sui singoli paesi: il
primo è costituito dagli scambi internazionali, il secondo
dai mercati finanziari.
L’interdipendenza attraverso gli scambi
Nella misura in cui le nazioni intrattengono rapporti di scambio fra loro, i provvedimenti di politica economica interna adottati da un paese producono
conseguenze per i suoi partner commerciali. Per esempio, se l’amministrazione statunitense ritiene che l’economia nazionale sta crescendo troppo rapidamente, può
adottare diverse misure restrittive, come un innalzamento dei tassi di interesse o delle aliquote fiscali. Tali
provvedimenti, oltre a ridurre la spesa per l’acquisto di
beni di produzione interna, tendono anche a deprimere il
consumo di prodotti importati. Ma le importazioni degli
Stati Uniti sono le esportazioni di altri paesi; pertanto, il
calo della domanda di importazioni negli Stati Uniti
innesca un effetto moltiplicatore nelle nazioni che esportano verso gli USA, dove la produzione e l’occupazione
quindi diminuiscono.
Le variazioni della domanda aggregata in un paese si
propagano dunque all’intera economia mondiale. Il processo mediante il quale una variazione delle importazioni verso un paese (o delle esportazioni da un paese) si
ripercuote sul reddito nazionale di altri Stati è detto moltiplicatore del commercio internazionale.
Quanto più un’economia è aperta, tanto più è vulnerabile all’andamento dell’attività economica nel resto
del mondo. Questo problema risulta particolarmente
acuto se una nazione è fortemente dipendente dal commercio con un altro paese (come il Canada nei confronti
degli Stati Uniti) o un’altra regione (come la Svizzera
nei confronti dell’Unione europea).
Da parecchi anni il commercio internazionale cresce
più rapidamente del reddito nazionale di molti paesi.
Questa tendenza è illustrata nella Figura 25.1, che
mostra la crescita delle esportazioni reali e del PIL reale
a livello mondiale. Come si può osservare, l’espansione
delle esportazioni ha superato nettamente quella del
PIL: dal 1951 al 2011 la crescita media annua della proCF 14
p448
duzione mondiale si è attestata al 4,1%, quella delle
esportazioni mondiali al 6,1%.
Siccome la maggior parte dei paesi è impegnata a
promuovere la liberalizzazione degli scambi e a smantellare le barriere commerciali sotto la supervisione della
World Trade Organization (WTO), il commercio internazionale continuerà verosimilmente a crescere in rapporto al PIL mondiale. Ma ciò non farà che accentuare
l’interdipendenza delle nazioni e la loro vulnerabilità
alle fluttuazioni del commercio internazionale, come
accaduto durante la recessione mondiale della fine degli
2000. Nel 2009 la produzione mondiale è diminuita
dello 0,5% e le esportazioni mondiali hanno segnato una
flessione del 12%. Si è trattato della maggiore contrazione degli scambi internazionali globali registrata dalla
Seconda guerra mondiale.
Interdipendenza finanziaria
Il commercio internazionale ha registrato una
rapida crescita negli ultimi trenta anni, ma comunque inferiore a quella dei flussi finanziari internazionali.
Ogni giorno nei mercati dei cambi vengono effettuate
negoziazioni per un valore complessivo di circa 4000
miliardi di dollari. Gran parte delle operazioni dà luogo a
flussi finanziari a breve termine, che si riversano nelle
piazze dove i tassi di interesse sono più favorevoli o nelle
valute il cui tasso di cambio potrebbe apprezzarsi. Il risultato è che le istituzioni finanziarie non preposte alla raccolta dei depositi, come i fondi pensione, le compagnie di
assicurazione e i fondi comuni di investimento, sono
diventate importanti operatori nei mercati dei cambi.
Nel Capitolo 17 abbiamo esaminato una varietà di
strumenti finanziari. A causa della natura globalmente
interconnessa dei sistemi finanziari, tali strumenti varcano molto facilmente i confini nazionali; di conseguenza, le istituzioni finanziarie operanti in un paese
tendono ad avere passività nei confronti di investitori
esteri (individui e istituzioni). Nel Box 25.1 esaminiamo
l’importanza degli acquisti esteri dei titoli del debito
pubblico statunitense.
Un esempio eloquente di interdipendenza finanziaria
globale è stato il crollo dei mercati dei mutui sub-prime
IC 32
p338
PAROLE CHIAVE
Moltiplicatore del commercio internazionale
Effetto sul reddito nazionale del paese B di una variazione
delle esportazioni (o delle importazioni) del paese A.
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 81
Figura 25.1 Crescita annua del PIL mondiale reale e del volume delle esportazioni mondiali di merci, 1951–2012.
14
12
10
8
6
4
%
2
0
-2
-4
-6
-8
Esportazioni
Crescita media delle esportazioni
-10
-12
-14
1951
1956
1961
1966
1971
1976
1981
PIL
Crescita media del PIL
1986
1991
1996
2001
2006
2011
Nota: dati relativi al 2011 e al 2012 basati su previsioni.
Fonte: basata sui dati tratti da International Trade Statistics, 2010 (World Trade Organization) e World Economic Outlook, svariate edizioni
(International Monetary Fund).
negli Stati Uniti alla fine degli anni 2000, che si è esteso
come un contagio fino a causare una recessione mondiale. Il debito delle famiglie in molti paesi avanzati,
compresi il Regno Unito e gli Stati Uniti, era cresciuto
sensibilmente rispetto al reddito disponibile. Tra il 2000
e il 2008 lo stock di debito dei nuclei familiari del Regno
Unito è aumentato dal 110 al 170% del reddito disponibile annuo. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, il
debito dei nuclei familiari è salito dal 97 al 130% del
reddito disponibile annuo.
Come discusso nel Paragrafo 17.2, l’espansione del
credito a livello nazionale è stata facilitata sia dalla deregolamentazione del sistema finanziario, che si è concretizzata anche nella rimozione dei controlli sui capitali,
sia dal ricorso sempre più massiccio al finanziamento
all’ingrosso da parte delle istituzioni finanziarie. Il processo di cartolarizzazione, per esempio, ha consentito a
queste ultime di raccogliere capitali dagli investitori di
tutto il mondo, in modo da poter erogare alle famiglie
mutui ipotecari e prestiti a breve termine. In altre parole,
l’espansione vertiginosa dei bilanci delle banche nazionali è stata finanziata dai flussi di capitali internazionali.
La deregolamentazione e l’innovazione finanziaria
hanno creato dunque una complessa catena di interdipendenza tra le istituzioni finanziarie, i sistemi finanziari
e le economie nazionali. Ma la resistenza di questa
catena dipende dalla capacità di tenuta del suo anello più
debole. Durante la crisi finanziaria della fine degli anni
2000, le prassi creditizie troppo aggressive delle banche
di alcuni paesi hanno avuto conseguenze negative per gli
investitori di tutto il mondo. A seguito dell’aumento dei
tassi di interesse statunitensi, registrato tra il 2004 e il
2007, i flussi di pagamenti dai nuclei familiari statunitensi alle banche hanno iniziato a prosciugarsi, perché le
famiglie hanno tardato a rimborsare i prestiti o peggio si
sono rese insolventi. Ma questi flussi di pagamenti erano
la fonte di rendimento per gli investitori finanziari globali che avevano acquistato le collateralized debt obligations (CDO: vedi Paragrafo 17.2). Pertanto, a causa
del nuovo ordine finanziario internazionale il contagio si
è esteso a tutto il mondo.
In ragione dell’interdipendenza finanziaria mondiale,
inoltre, le variazioni dei tassi di interesse in un paese possono ripercuotersi su altre economie nazionali. Ipotizziamo che la Federal Reserve Bank degli Stati Uniti, nel
timore di un aumento dell’inflazione, decida di innalzare
i tassi di interesse. Questo provvedimento esplica tre
effetti principali sui partner commerciali degli USA.
• Se la domanda aggregata statunitense diminuisce, la
domanda di beni di importazione subisce una contrazione, andando a colpire direttamente le imprese che
esportano verso gli Stati Uniti. Il calo delle esportazioni provoca una contrazione della domanda aggregata in questi altri paesi.
82 Parte G – L’economia mondiale
BOX 25.1
Analisi di casi e applicazioni
La globalizzazione e lo squilibrio commerciale degli Stati Uniti
Il mondo sta pagando le conseguenze dell’eccesso
di spesa statunitense?
Nel 2010 gli Stati Uniti avevano un disavanzo di conto corrente pari a 470 miliardi di dollari, equivalente al 3,2% del
PIL (vedi grafico). Dal 2000 il disavanzo corrente medio
statunitense si attesta al 4,5%, con un picco del 6% nel
2006.
Tale disavanzo di conto corrente è esattamente controbilanciato dall’avanzo del conto capitale e del conto finanziario,
gran parte del quale è alimentato dall’acquisto di titoli di
Stato e buoni del Tesoro degli Stati Uniti. Questi enormi
afflussi finanziari verso gli USA, che rappresentano circa
l’80% del risparmio che il resto del mondo investe all’estero, hanno favorito l’ampliamento del disavanzo corrente.
Nonostante questo, per la maggior parte degli anni 2000 i
tassi di interesse statunitensi sono rimasti a livelli storicamente bassi. Tra la metà del 2003 e la metà del 2004 i tassi
nominali sono stati mantenuti all’1% (vedi grafico nel Box
13.4), mentre i tassi reali hanno segnato addirittura un
–1,3%. Analogamente, durante la crisi finanziaria della fine
degli anni Duemila, la Fed ha tenuto i tassi di interesse a
livelli nettamente più bassi rispetto ad altri paesi. Come è
possibile, dunque, che con tassi di interesse così contenuti
gli Stati Uniti abbiano registrato un avanzo tanto ampio del
conto finanziario?
valore artificialmente depresso delle valute asiatiche ha
contribuito a mantenere bassi i tassi di interesse statunitensi
e dunque ad alimentare la spesa per le esportazioni dall’Asia verso gli Stati Uniti.
Nel 2005 il governo cinese, cedendo alle forti pressioni internazionali, acconsentì a rivalutare lo yuan e ad ancorarlo
a un paniere di valute, con la prospettiva di ulteriori rivalutazioni. Tra il luglio del 2005 e il luglio del 2008 lo yuan si
apprezzò del 17,5% percento rispetto al dollaro, mentre l’indice del tasso di cambio salì del 21%.
Tuttavia, dinnanzi alle ripercussioni della recessione economica mondiale del 2008 e ai timori per un rallentamento
della crescita delle esportazioni cinesi, Beijing in effetti ha
fissato nuovamente il tasso di cambio dello yuan.
La situazione è rimasta invariata fino al giugno del 2010,
quando lo yuan è stato rivalutato ancora una volta. Da allora
e fino all’aprile del 2011 la divisa cinese ha registrato un
ulteriore apprezzamento del 4,5% rispetto al dollaro, pur
deprezzandosi nella stessa misura rispetto a un paniere di
valute ponderato per l’interscambio. Pertanto, tra il luglio
del 2005 e l’aprile del 2011 lo yuan si è rafforzato del 22%
rispetto al biglietto verde; ma questo apprezzamento si è rivelato insufficiente per rispristinare la parità dei poteri di
acquisto; la valuta cinese, infatti, resta sottovalutata del
40% rispetto al dollaro in termini di PPA.
Una risposta in Asia
Avendo ancorato le proprie valute, fra cui lo yuan cinese (o
“renminbi”), al dollaro statunitense, molti paesi asiatici,
compresa la Cina, presentavano ampi avanzi di conto corrente. Per esempio, dal 2000 l’avanzo corrente cinese si attestava in media al 5,5% del PIL (vedi grafico). Invece di
lasciare che le proprie valute si apprezzassero rispetto al
biglietto verde, le banche centrali asiatiche utilizzavano i
surplus per acquistare dollari.
Tali paesi vedevano in questo sistema un triplo vantaggio.
Innanzitutto, l’ancoraggio della valuta consentiva di accumulare riserve e dunque di potenziare la capacità di resistere agli attacchi speculativi. Si stima che dal 2000 le riserve
valutarie delle economie emergenti dell’Asia siano cresciute
di oltre il 20% all’anno. Le sole riserve cinesi (escluso l’oro)
sono aumentate da 166 miliardi di dollari nel 2000 a 3000
miliardi nel 2011, segnando uno sbalorditivo incremento
dell’811%. Questo processo ha alimentato un’enorme espansione della liquidità e dunque dell’offerta di moneta a livello
globale.
In secondo luogo, cosa ancora più importante, l’ancoraggio
delle valute ha permesso alle economie asiatiche di tenere
bassi i rispettivi tassi di cambio e dunque di difendere la
competitività delle proprie esportazioni, con l’effetto di sostenere i loro rapidi tassi di crescita economica. Infine, il
Conseguenze dello squilibrio
Bisogna chiedersi, a questo punto, se gli Stati Uniti possano
continuare a mantenere un enorme disavanzo di conto corrente, finanziato dall’acquisto di una quantità altrettanto
ingente di dollari da parte del resto del mondo (soprattutto
l’Asia), oppure se tale squilibrio vada in qualche modo corretto.
Un deprezzamento del dollaro. A partire dalla metà del
2004 i tassi di interesse statunitensi hanno iniziato ad aumentare, ma non abbastanza rapidamente da scongiurare un
indebolimento del dollaro. Dal 2004 al 2008 il tasso di cambio effettivo del dollaro si è deprezzato del 20%. Inizialmente il disavanzo corrente si è ampliato (vedi grafico),
coerentemente con l’effetto della curva a J (vedi Paragrafo
24.4), poi ha segnato un lieve miglioramento prima di registrare un nuovo modesto deterioramento nel 2010.
Secondo molti analisti, tuttavia, sarebbe necessario un deprezzamento molto più pronunciato per ridurre il disavanzo
statunitense a un livello sostenibile senza un’eccessiva immissione di liquidità nell’economia mondiale. Ma un forte
indebolimento del dollaro – che potrebbe scendere, poniamo, a $1,80 sull’euro e a $2,30 sulla sterlina – avrebbe effetti devastanti sulle esportazioni europee, rendendo molto più
difficoltosa una ripresa economica sostenuta nel Vecchio
continente.
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 83
A causa dei timori per l’impatto inflazionistico esercitato
dall’aumento dell’offerta di moneta, le autorità cinesi hanno
innalzato ripetutamente i tassi di interesse tra il 2004 e il
2008, contribuendo a così a sterilizzare in parte il surplus
del flusso di valuta. Dopo un calo alla fine del 2008, i tassi
sono tornati ad aumentare alla fine del 2010. La Cina, tuttavia, si è ben guardata dall’alzare i tassi troppo rapidamente,
non solo per via del potenziale impatto sulla crescita economica, ma anche per il rischio di attrarre capitali speculativi
che avrebbero accelerato l’apprezzamento dello yuan. Un
altro metodo impiegato per frenare la l’espansione del credito è stato l’innalzamento dei coefficienti di riserva obbligatoria delle banche, che ai primi del 2011 erano saliti a un
livello record del 20%.
Una bolla in Cina. In Cina e nelle altre economie asiatiche
vi è il pericolo concreto che la produzione reale non aumenti in misura sufficiente a eguagliare l’espansione dell’offerta
di moneta. In tal caso si generebbe una spinta inflazionistica, ulteriormente alimentata dal rincaro delle materie prime.
Nel 2008 l’inflazione ha raggiunto un picco dell’8,7%, il
massimo da 12 anni, dopo essere rimasta in media all’1,2%
fra il 2000 e il 2006. La recessione economica mondiale ha
contribuito a raffreddare notevolmente la crescita dei prezzi,
con tassi di deflazione annui del 2% nel 2009. Al contempo,
è interessante rilevare come il tasso di crescita cinese, che
aveva toccato un massimo del 14% nel 2007, sia rimasto
compreso tra il 9 e il 10% nel periodo compreso tra il 2008 e
il 2011. Con la ripresa della crescita mondiale nel 2010, che
ha spinto nuovamente al rialzo i prezzi delle materie prime,
l’inflazione cinese ha superato nuovamente il 5%.
Un importante fattore di preoccupazione per la stabilità
economica è l’espansione del credito nell’economia cinese.
I bilanci delle banche del colosso asiatico sono cresciuti in
media del 17% all’anno dal 2000 al 2010, e addirittura del
30% nel 2009. Un sintomo della crescita del credito è l’aumento dei prezzi degli immobili, su cui si riversano gli investitori alla ricerca di rendimento. L’inflazione annua dei
prezzi delle abitazioni ha superato il 40% nel 2008.
Potenziale volatilità delle valute. Nel lungo periodo, il pericolo maggiore posto dall’aumento vertiginoso della liquidità internazionale potrebbe essere una vendita generalizzata di dollari, con il conseguente allontanamento del tasso di
cambio dal livello di equilibrio di lungo periodo. Tra il 2009
e il 2010 l’indice del tasso di cambio del dollaro si è sensibilmente ridotto. I timori per le dimensioni del disavanzo di
bilancio statunitense non hanno fatto che aggravare il pericolo di una significativa iperreazione del tasso di cambio.
Conto corrente della bilancia dei pagamenti di Cina e Stati Uniti (% del PIL).
12
Cina
USA
10
8
Conto corrente in % del PIL
6
4
2
0
-2
-4
-6
-8
1990
1992
1994
1996
1998
2000
2002
2004
2006
Nota: dati relativi al 2011 e 2012 basati su previsioni.
Fonte: basato sui dati tratti dal World Economic Outlook Database (International Monetary Fund).
2008
2010
2012
84 Parte G – L’economia mondiale
• L’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti tende
a spingere al rialzo i tassi di altre nazioni, con un
effetto negativo sull’investimento. Ancora una volta,
la domanda aggregata di questi paesi diminuisce.
• All’aumentare dei tassi di interesse statunitensi, si
genera un afflusso di fondi da altri paesi verso gli
Stati Uniti; di conseguenza, il dollaro si apprezza
rispetto ad altre valute. Il rafforzamento del biglietto
verde rende le importazioni verso gli Stati Uniti più
competitive e le esportazioni dagli Stati Uniti relativamente più costose. Il risultato è un miglioramento
del saldo di conto corrente dei partner commerciali
degli Stati Uniti, i quali vedono aumentare le esportazioni e diminuire le importazioni. Pertanto, in questi paesi si registra un’espansione della domanda
aggregata, un effetto di segno opposto rispetto ai
primi due.
Il ciclo economico internazionale
Recita un vecchio adagio: “Se gli Stati Uniti starnutiscono, il resto del mondo prende un raffreddore”. L’economia mondiale viene continuamente contagiata da virus di questa natura. La rarefazione del
credito del 2007–2008, causata dalle insolvenze sui
mutui sub-prime negli Stati Uniti, ne fu un drammatico
esempio. A causa dell’interdipendenza generata dai
commerci e dalle operazioni finanziarie, l’economia
mondiale – come quella di un singolo paese – tende a
registrare fluttuazioni periodiche dell’attività economica, che danno vita a un ciclo economico internazionale. Di conseguenza, tutti i paesi risentono di norma di
problemi e preoccupazioni comuni; talvolta le difficoltà
possono giungere dalle pressioni inflazionistiche globali, talvolta da una recessione mondiale.
Al fine di evitare l’attuazione di politiche che danneggino altri paesi, è più indicato cercare soluzioni
comuni a questi problemi condivisi, ovvero rimedi che
abbiano una formulazione e un respiro internazionale
anziché essere basati sull’interesse nazionale. Per esempio, durante una recessione mondiale, molti paesi
potrebbero subire un aumento della disoccupazione. Le
politiche che sfociano in un deprezzamento del tasso di
cambio (come una riduzione dei tassi di interesse) contribuiscono a stimolare la domanda rendendo le esportazioni più convenienti e le importazioni più care; ma ciò
non fa che peggiorare il saldo commerciale di altre
nazioni, la cui domanda aggregata pertanto diminuisce.
Un paese che tenti di risolvere il problema della disoccupazione interna con una politica di questo tipo arreca un
danno ad altri paesi, causando un aumento del loro tasso
di disoccupazione.
CF 12
p353
Tuttavia, se è possibile convincere altri paesi
(anch’essi gravati da una disoccupazione crescente) ad
attuare un intervento coordinato, si può realizzare una
politica economica internazionale espansiva a vantaggio
di tutti. Oltre a incrementare le proprie importazioni,
tutte le nazioni beneficerebbero di un aumento delle
esportazioni.
Anche laddove non vi è uno stretto coordinamento
delle politiche nazionali, un confronto internazionale
sulla natura e l’entità dei problemi comuni può contribuire a migliorare il processo di formulazione delle politiche economiche.
Necessità di un coordinamento politico
internazionale
L’interdipendenza economica globale e il ciclo economico internazionale possono favorire il processo di cooperazione tra i diversi paesi. Per esempio, a seguito della
crisi finanziaria scoppiata alla fine degli anni 2000, i leader mondiali nutrivano forti timori che il mondo intero
sarebbe precipitato in recessione. Era necessaria dunque
una risposta politica concertata da parte dei governi e
delle banche centrali; e questa risposta arrivò nell’ottobre del 2008, quando le autorità di Regno Unito, Europa,
Nord America e altre nazioni assicurarono alle banche
circa 2000 miliardi di dollari di nuovo capitale.
Da diversi anni i maggiori paesi del mondo si riuniscono periodicamente in diversi consessi per discutere i
problemi economici e finanziari, e coordinare le soluzioni politiche. Nel 1975 nacque il G-6, che vedeva la
partecipazione dei Ministri delle Finanze e dei capi di
Stato di Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno
Unito e Stati Uniti. Nel 1976, con l’adesione del Canada,
il G-6 divenne il G-7; nel 1998, con l’ingresso della Russia, il gruppo divenne noto come G-8. Nel settembre del
2009 si è deciso di ampliare ulteriormente il G-8 estendendo la partecipazione a una più vasta compagine di
paesi. Il nuovo gruppo, denominato G-20, è oggi il principale forum economico mondiale.
Il G-20 rappresenta 19 paesi più l’Unione europea e
comprende tutti i membri del G-8 nonché le principali
economie emergenti. Il nuovo consesso venne costituito
inizialmente nel 1999, per far fronte alla crisi finanziaria
asiatica e contribuire a stabilizzare i mercati finanziari
globali. In effetti, l’emergere del G-20 quale principale
forum mondiale è il punto di arrivo di due importanti
sviluppi. In primo luogo, negli ultimi anni si è registrata
una crescita ragguardevole in economie emergenti come
Brasile, India, Cina e Sud Africa, che, unitamente alla
Russia, vengono spesso indicate con l’acronimo BRICS.
In secondo luogo, la crescente interdipendenza econo-
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 85
mica generata dai commerci e dalla finanza richiede di
norma una risposta coordinata da parte di una più ampia
rappresentanza della comunità internazionale.
L’interdipendenza globale solleva inoltre una serie di
interrogativi sul ruolo che dovrebbero svolgere organizzazioni internazionali come la World Trade Organization (WTO) e il Fondo monetario internazionale (FMI).
Come spiegato nel Paragrafo 23.2, il compito della WTO
è incoraggiare la liberalizzazione degli scambi internazionali. L’FMI, invece, ha il mandato di promuovere la
crescita e la stabilità a livello globale, di assistere i paesi
in difficoltà economiche e di aiutare le nazioni in via di
sviluppo a conseguire la stabilità macroeconomica e a
ridurre la povertà. In risposta alla crisi economica e
finanziaria globale della fine degli anni 2000, il bilancio
dell’FMI è stato sostanzialmente incrementato e l’organizzazione ha iniziato a interloquire più attivamente con
quelle che un tempo erano definite “economie forti”
(vedi Box 25.2).
renti della bilancia dei pagamenti. La Tabella 25.1
mostra le variazioni dei livelli di tali indicatori in un
campione di sette paesi. Tali divergenze si sono nettamente ridotte rispetto all’inizio degli anni Novanta, ma
restano comunque significative.
Un importante argomento trattato durante le riunioni
del G-8 e del G-20 riguarda la maniera di stimolare la
crescita economica mondiale senza provocare ampie
fluttuazioni dei tassi di cambio. Per conseguire questo
obiettivo è importante pervenire a un’armonizzazione
delle politiche economiche tra le nazioni. In altre parole,
è essenziale che tutti i maggiori paesi perseguano politiche compatibili con obiettivi internazionali comuni.
Ma come si può attuare un’armonizzazione delle
politiche economiche? Fintanto che persistono differenze significative tra le maggiori economie nazionali, è
più probabile che vi siano conflitti anziché armonia. Per
esempio, un paese preoccupato per l’entità del suo disavanzo di bilancio potrebbe non essere disposto ad acconPAROLE CHIAVE
Armonizzazione internazionale
delle politiche economiche
Le quattro cause principali alla base delle fluttuazioni
dei tassi di cambio sono le divergenze tra i tassi di interesse, i tassi di crescita, i tassi di inflazione e i saldi cor-
Armonizzazione internazionale delle politiche
economiche Processo attraverso il quale i paesi tentano
di coordinare le rispettive politiche macroeconomiche per
conseguire obiettivi comuni.
Tabella 25.1 Indicatori macroeconomici internazionali.
Indice del tasso
di cambio nominale
(tasso di apprezzamento (+)
o deprezzamento (–)
medio annuo, %)
Tasso di interesse nominale
a breve termine (3 mesi)
(%)
Tasso di crescita economica
(variazione % del PIL reale)
Inflazione dei prezzi
al consumo
(variazione % dell’IPC)
Saldo del conto corrente
(% del PIL)
1991-1995
1996-2000
2001-2005
Australia
0,6
−0,5
3,5
Cina
–11,0
4,0
−1,2
Francia
1,6
−2,1
1,7
Germania
2,2
−2,3
2,1
Giappone
13,1
1,4
−1,8
Regno Unito Stati Uniti
3,9
−3,3
4,7
4,4
−1,7
−0,2
2006-2010
2,4
2,7
0,3
0,2
3,6
−4,3
−1,6
1991-1995
1996-2000
2001-2005
2006-2010
1991-1995
1996-2000
2001-2005
2006-2010
1991-1995
1996-2000
2001-2005
2006-2010
1991-1995
1996-2000
2001-2005
2006-2010
7,0
5,7
5,1
5,5
2,8
4,2
3,4
2,7
2,5
1,9
3,0
3,0
−3,9
−4,0
−4,5
−4,6
9,0
5,7
2,4
2,9
12,3
8,6
9,8
11,2
13,1
1,8
1,4
2,9
0,8
2,2
3,4
8,0
8,2
3,7
2,8
2,8
1,2
2,8
1,7
0,8
2,2
1,2
1,9
1,5
0,3
2,2
0,8
−1,5
7,2
3,5
2,8
2,8
2,2
2,0
0,6
1,2
3,5
1,3
1,5
1,6
−1,1
−0,9
2,7
6,2
2,4
0,5
0,1
0,6
1,4
1,0
1,3
0,2
1,4
0,3
–0,4
–0,1
2,6
2,4
3,1
3,7
7,9
6,3
4,4
3,6
1,7
3,4
2,5
0,4
3,4
2,7
2,4
3,1
−1,6
−1,3
−2,0
−2,3
4,6
5,7
2,3
Fonti: OECD Stats Extracts e IMF Principal Global Indicators.
Nota: i tassi di interesse a breve termine di Cina e Giappone per il 1991–2000 sono i tassi ufficiali delle rispettive banche centrali.
2,9
2,5
4,3
2,4
1,0
3,1
2,5
2,6
2,2
−1,1
−2,6
−4,8
−4,3
86 Parte G – L’economia mondiale
BOX 25.2
Analisi di casi e applicazioni
Un’epidemia globale: soluzioni globali a problemi globali?
Non serve guardare molto lontano per comprendere l’impatto dell’interdipendenza economica e finanziaria sulle
nostre vite quotidiane. Basta fare una passeggiata per il
quartiere per accorgersi che molte delle auto in transito
sono di fabbricazione straniera oppure sono state prodotte
nel nostro paese da case automobilistiche estere. Basta alzare lo sguardo per scorgere gli aerei che traportano passeggeri diretti in ogni angolo del mondo per viaggi di lavoro o di
piacere. Basta entrare al supermercato per vedere scaffali
pieni di prodotti provenienti da ogni parte del pianeta.
È evidente che l’interdipendenza generata dagli scambi
commerciali crea forti collegamenti tra le economie di diversi paesi. L’ultima crisi finanziaria ha contribuito a dimostrare quanto siano diventati interdipendenti le istituzioni e
i sistemi finanziari. I prodotti finanziari sono liberi di viaggiare e si spostano senza esitazioni in lungo e in largo.
I tassi di crescita delle diverse economie mondiali hanno
evidenziato una tendenza a convergere, soprattutto alla fine
degli anni 2000. Questa dinamica è coerente con l’idea di
un ciclo economico internazionale, nel quale i paesi condividono problemi e preoccupazioni comuni. A causa della
crescente interdipendenza economica e finanziaria, i problemi di una parte del mondo possono propagarsi rapidamente in altre regioni, come dimostrano gli eventi seguiti al
crollo del mercato dei mutui sub-prime degli Stati Uniti: la
malattia statunitense si è trasformata in un’influenza che ha
contagiato tutto il mondo.
Ma a chi spetta somministrare la medicina? Quanto possono essere efficaci i rimedi dei governi nazionali, se questi
agiscono in isolamento? Vi è spazio per un coordinamento
delle politiche fiscali e monetarie, e in che misura questo
richiede un rafforzamento delle istituzioni internazionali
preposte alla risoluzione dei problemi mondiali?
Il raffreddore dell’Islanda
Nel 2009 l’Islanda ha subito una brusca contrazione della
produzione nazionale, che si è ridotta di quasi il 7%. Il paese era stato colpito molto duramente dalla crisi finanziaria
internazionale.
Un’aggressiva strategia di espansione del credito aveva provocato un aumento delle passività delle tre maggiori banche
islandesi, che erano salite dal 100% del PIL nel 2004 al
923% del PIL nel 2007. I fondi per questa espansione provenivano in parte dal mercato interbancario e in parte dai depositi esteri presso le filiali di queste tre banche nei paesi
nordici e nel Regno Unito. Con l’inizio della rarefazione del
credito, questi tre istituti incontrarono sempre maggiori difficoltà a rinnovare i prestiti sul mercato interbancario. Inoltre, data l’immensa espansione dei loro bilanci, era praticamente impossibile per la banca centrale islandese garantire
il rimborso di questi prestiti.
Di conseguenza, quattro delle maggiori banche del paese
sono state nazionalizzate e poste sotto la gestione dell’Autorità di vigilanza finanziaria islandese.
Nel novembre del 2008 il comitato esecutivo del Fondo monetario internazionale ha approvato un prestito da 2,1 miliardi di dollari per sostenere il programma di ripresa economica dell’Islanda. Il FMI ha erogato un primo pagamento
da 827 milioni di dollari, riservandosi di distribuire nel
tempo la parte restante dei fondi stanziati, subordinatamente agli esiti di una revisione trimestrale del programma di
risanamento.
Una tragedia greca
La Grecia è alle prese da anni con il fardello di un enorme
disavanzo di bilancio, che ha registrato un’impennata dopo
la crisi creditizia del 2008. In quell’anno il deficit ammontava al 9,4% del PIL; nel 2009 era salito al 15,4%, superando in termini percentuali quello degli altri paesi dell’Unione europea e di cinque volte il limite fissato dalle regole
dell’UE. Il servizio del debito costava ogni anno alla Grecia
circa il 12% del PIL.
All’inizio del 2010 il governo greco aveva stimato di dover
richiedere un prestito da € 53 miliardi per far fronte al disavanzo. La Grecia, come molti altri paesi, era afflitta inoltre
da una disoccupazione crescente. Nel 2010 il tasso di disoccupazione si attestava al 12,5%, in rialzo dal 7,7% del 2008.
Le misure di austerity contemplate dal pacchetto di salvataggio predisposto dal FMI e dall’UE miravano a ridurre
questo disavanzo a meno del 3% del PIL entro il 2014, attraverso una serie di tagli alla spesa pubblica e di aumenti delle imposte; è questo il prezzo che la Grecia dovrà pagare per
beneficiare di un pacchetto di aiuti da € 110 miliardi. Tuttavia, il rigore fiscale ha comportato notevoli costi in termini
di reddito disponibile e disoccupazione, tanto da scatenare
un’ondata di scioperi da parte dei dipendenti pubblici.
Gli eventi successivi hanno dimostrato che la crisi del debito non era confinata alla Grecia. Per esempio, nel novembre
del 2010 l’Irlanda ha pattuito con il FMI e gli Stati membri
dell’UE un pacchetto di salvataggio da € 100 miliardi. Nel
2010 il disavanzo delle amministrazioni pubbliche irlandesi
era stimato al 32% del PIL, in aumento dal 14% nel 2009.
L’obiettivo era ridurre questa cifra al 3% del PIL entro il
2015.
Il ruolo del FMI nei salvataggi
Abbiamo visto che il FMI ha svolto un ruolo di primo piano
nel finanziamento dei pacchetti di salvataggio per paesi
come l’Islanda, l’Irlanda e la Grecia. Ma cosa è e cosa fa il
Fondo monetario internazionale? Il FMI è un’“agenzia specializzata” delle Nazioni Unite, finanziata dai suoi 187 paesi membri (al 2011). Il suo compito è assicurare la stabilità
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 87
macroeconomica – come nei casi sopra descritti – e favorire
la crescita mondiale. Il FMI lavora anche con i paesi in via
di sviluppo per alleviare la povertà e promuovere la stabilità
economica, prevalentemente attraverso l’erogazione di prestiti.
Le modalità operative del FMI hanno suscitato nel tempo
notevoli controversie. Le condizioni associate ai finanziamenti sono spesso eccessivamente rigorose, soprattutto per
alcuni dei paesi in via di sviluppo più fortemente indebitati.
La crisi economica e finanziaria globale ha posto il FMI di
fronte a un dilemma: quali paesi assistere con un bilancio
limitato? Di conseguenza, si è assistito a un aumento degli
aiuti erogati dal FMI alle economie sviluppate. Dopo un
vertice di emergenza con i Ministri delle Finanze europei, il
Fondo ha acconsentito a destinare 250 miliardi di euro al
sostegno dell’eurozona. Questi fondi sono confluiti nel
Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria, che ha
una dotazione complessiva di 750 miliardi di euro. La maggioranza dei finanziamenti (440 miliardi di euro ) è giunta
sentire alle richieste internazionali di una politica di stimolo della domanda aggregata, mirata a far uscire
l’economia mondiale da una recessione. Inoltre, le attività degli speculatori potrebbero accentuare le differenze tra le economie nazionali, provocando ampie fluttuazioni dei tassi di cambio. I paesi del G-8 si sono
pertanto adoperati per favorire una maggiore convergenza delle rispettive economie. Ma tale obiettivo politico, per quanto auspicabile, si è dimostrato piuttosto
difficile da realizzare.
A causa della mancata convergenza, l’armonizzazione delle politiche internazionali si scontra con notevoli difficoltà.
• I disavanzi di bilancio e il debito pubblico espressi in
percentuale del reddito nazionale possono differire
notevolmente da un paese all’altro. Si generano pertanto pressioni molto diverse sui tassi di interesse
necessari al servizio del debito pubblico. Nel 2010 il
disavanzo delle amministrazioni pubbliche del
Regno Unito si attestava al 10,4%, a fronte del 32,3%
dell’Irlanda, dell’11,3% degli Stati Uniti, del 7,8%
della Francia, del 6,5% del Giappone e del 3,7%
della Germania.
• Per armonizzare i tassi di crescita dell’offerta di
moneta o gli obiettivi di inflazione, bisognerebbe
lasciare i tassi di interesse liberi di fluttuare in linea
con la domanda di moneta. Senza una convergenza
di quest’ultima, le oscillazioni dei tassi di interesse
potrebbero essere molto pronunciate.
• Per armonizzare i tassi di interesse bisognerebbe
abbandonare gli obiettivi di crescita monetaria, di
dai paesi dell’area dell’euro, mentre altri 60 miliardi sono
provenuti dai fondi europei, raccolti con il contributo di tutti e 27 i membri dell’UE per sostenere i paesi dell’eurozona
che si trovano in difficoltà.
Rafforzare il FMI
I leader mondiali che hanno partecipato al vertice del G-20
di Londra nell’aprile del 2009 hanno sottolineato la necessità di rafforzare le istituzioni finanziarie globali. In particolare, hanno acconsentito a incrementare le risorse a disposizione del FMI, triplicandole a 750 miliardi di dollari;
inoltre, hanno stabilito che il Fondo monetario internazionale avrebbe preso parte a un nuovo Financial Stability Board (FSB), composto fra gli altri anche dai paesi del G-20 e
dalla Commissione europea, che avrà il compito di individuare potenziali rischi economici e finanziari. In altre parole, le nazioni del G-20 erano alla ricerca di un “sistema di
preallarme” più efficace per far fronte alle sfide poste da un
mondo sempre più interdipendente.
inflazione e del tasso di cambio (a meno che per
“armonizzazione” non si intenda semplicemente
modificare i tassi di interesse al fine di rispettare i
target monetari o di inflazione o sostenere un tasso di
cambio fisso).
• Ogni paese è caratterizzato da diverse relazioni strutturali interne. In questo caso, la mancanza di convergenza costringe le nazioni con un’inflazione da costi
strutturalmente più elevata ad accettare tassi di interesse e di disoccupazione più elevati al fine di armonizzare i tassi di inflazione, o tassi di inflazione più
alti per armonizzare i tassi di interesse.
• Ciascun paese presenta inoltre diversi tassi di crescita della produttività, di sviluppo dei prodotti, di
investimento e di penetrazione di mercato. In questo
caso, la mancanza di convergenza si traduce in
diversi tassi di espansione delle esportazioni (rispetto
alle importazioni) per un dato livello di inflazione o
di crescita economica.
• Infine, un paese potrebbe non essere affatto disposto
a modificare le proprie politiche interne per allinearle a quelle di altri paesi, e pretendere invece che
siano gli altri governi ad adeguarsi alle sue politiche
nazionali.
PAROLE CHIAVE
Convergenza economica Situazione in cui i paesi
pervengono a livelli simili di crescita e inflazione, e a
condizioni simili in termini di disavanzo di bilancio in
percentuale del PIL, bilancia dei pagamenti e così via.
88 Parte G – L’economia mondiale
In altre parole, se si riuscisse a realizzare un’armonizzazione internazionale di uno dei quattro indicatori macroeconomici – tassi di interesse, tassi di crescita, tassi di inflazione o saldo corrente della bilancia dei pagamenti – sarebbe
molto difficile riuscire ad armonizzare gli altri tre.
Potrebbe non essere possibile, dunque, pervenire a
una piena convergenza e dunque a un’armonizzazione
totale. Nondimeno, i governi sono perlopiù favorevoli a
compiere qualche passo in quella direzione. Per realizzare questo obiettivo, è necessaria la cooperazione.
Nonostante questo, le relazioni economiche internazionali sono spesso dominate dalla discordia,
perché di solito i governi hanno a cuore gli interessi economici di altre nazioni solo se coincidono con quelli del
proprio paese.
Questo atteggiamento, tuttavia, può sfociare in un
problema di dilemma del prigioniero. Se ciascun paese
persegue unicamente i propri interessi, l’economia mondiale ne risente e tutti sono penalizzati.
IC 22
p199
25.2 L’unione economica e monetaria europea (UEM)
La maniera più radicale di conseguire una maggiore stabilità valutaria all’interno di un gruppo di paesi è l’adozione di una moneta unica e, di conseguenza, di una
banca centrale comune e di una singola politica monetaria, attraverso la formazione di una unione economica e
monetaria (UEM). Ciò è quanto accaduto nell’Unione
europea, dove un gruppo di paesi ha adottato l’euro
quale moneta comune.
L’euro è stato introdotto nel 1999, e le banconote e le
monete metalliche sono entrate in circolazione nel 2002.
Inizialmente l’area dell’euro era costituita da 11 paesi,
che nel 2012 erano saliti a 17.
Il meccanismo dei tassi di cambio
europeo (ERM)
Il precursore dell’UEM era il meccanismo dei tassi di
cambio europeo (exchange rate mechanism, ERM). Si
trattava di un sistema di parità mobili, nel quale le valute
dei paesi membri erano ancorate le une alle altre e fluttuavano congiuntamente rispetto alle altre divise. Questo
sistema incoraggiava gli scambi commerciali tra gli Stati
aderenti; inoltre, i paesi membri potevano attingere di
concerto alle proprie riserve valutarie per impedire fluttuazioni eccesive delle loro valute rispetto al resto del
mondo.
All’interno dell’ERM, ciascuna valuta era ancorata a
tutte le altre secondo una griglia di parità centrali, ma
poteva fluttuare all’interno di una banda specificata, di
norma non più ampia del ±2,25%. Le parità centrali
venivamo modificate di volta in volta di comune accordo.
Se una valuta si approssimava al limite superiore o inferiore di una qualsiasi banda di oscillazione, le banche
centrali intervenivano per impedire che ne fuoriuscisse,
vendendo la divisa forte e acquistando la divisa debole;
inoltre, i paesi con una valuta debole potevano innalzare
i tassi di interesse, e quelli con una valuta forte ridurli.
L’ERM nella pratica
L’ERM venne istituito nel marzo del 1979 e vide subito
l’adesione della maggior parte dei paesi membri dell’Unione europea, seguiti dalla Spagna nel 1989, dal Regno
Unito nel 1990 e dal Portogallo nell’aprile del 1992.
Ad esempio, la sterlina entrò nell’ERM a una parità
centrale di £1 = DM 2,95, con una banda di fluttuazione
del ±6% rispetto a tutte le altre valute nel sistema. Questa parità si rivelò presto insostenibile. La Germania
aveva innalzato i tassi di interesse per attenuare le pressioni inflazionistiche alimentate in parte dall’ingente
spesa pubblica sostenuta in seguito alla riunificazione. I
tassi di interesse statunitensi invece erano in calo, per
contribuire a stimolare la crescita economica a fronte di
una recessione. Di conseguenza, si generò un ampio
deflusso di capitali dagli Stati Uniti, gran parte dei quali
si riversò in Germania, spingendo al rialzo il valore del
marco tedesco. Pertanto, valute come la sterlina e la lira
italiana si ritrovarono ripetutamente prossime al limite
inferiore della banda di fluttuazione rispetto al marco,
nonostante i tassi di interesse elevati ed in aumento.
Nel settembre del 1992 la situazione raggiunse un
punto di crisi. Il 16 settembre – poi passato alla storia
PAROLE CHIAVE
Unione economica e monetaria (UEM) Adozione,
da parte di un gruppo di paesi, di una moneta unica con
una banca centrale comune e una singola politica
monetaria. Nell’Unione europea il termine si applica ai
paesi che hanno adottato l’euro.
Meccanismo dei tassi di cambio europeo (exchange
rate mechanism, ERM) Sistema di tassi di cambio semifissi utilizzato dalla maggior parte dei paesi dell’Unione
europea prima dell’adozione dell’euro. Le valute degli Stati
membri potevano fluttuare le une rispetto alle altre
all’interno di bande di oscillazione prestabilite.
Collettivamente erano libere di fluttuare rispetto a tutte
le altre divise.
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 89
come il “mercoledì nero” – il Regno Unito e l’Italia
furono costretti a sospendere la propria adesione
all’ERM. Entrambe le valute furono lasciate fluttuare e
si deprezzarono sensibilmente.
Le turbolenze tornarono nell’estate del 1993, quando
a finire sotto pressione fu il franco francese. Per tutta
risposta, i Ministri delle Finanze dell’UE decisero di
adottare bande di fluttuazione molto ampie, del ±15%,
anche se in tal modo il sistema sembrava perdere il suo
carattere di regime di cambi semi-fissi. Ma nel volgere
di pochi mesi la crisi passò, e le fluttuazioni dei tassi di
cambio iniziarono a mantenersi all’interno di un intervallo molto ristretto, il più delle volte non superiore al
±2,25%.
L’Italia tornò ad aderire all’ERM nel novembre del
1996 nell’ambito del percorso che l’avrebbe portata
all’adozione della moneta unica. L’Austria entrò nel
1995, la Finlandia nel 1996 e la Grecia nel 1998. Quando
l’ERM venne sostituito dalla moneta unica nel 1999,
restavano fuori solo la Svezia e il Regno Unito.
Il Trattato di Maastricht
e il percorso verso la moneta unica
L’ERM era stato concepito come una tappa intermedia
lungo il percorso verso il completamento dell’Unione
economica e monetaria (UEM) degli Stati membri. I
requisiti per la creazione dell’UEM furono definitivamente stabiliti nel Trattato di Maastricht, sottoscritto nel
febbraio del 1992. La tabella di marcia per l’UEM prevedeva l’adozione di una moneta unica al più tardi entro
il 1999.
Uno dei primi passi fu la creazione dell’Istituto
monetario europeo (IME), che aveva il ruolo di coordinare la politica monetaria e incoraggiare una maggiore
cooperazione tra le banche centrali dell’UE. Oltre a
sovrintendere al funzionamento dell’ERM, l’IME preparò il terreno alla creazione di una banca centrale europea in tempo per l’introduzione della moneta unica.
Prima di poter aderire all’UEM, gli Stati membri
erano obbligati a realizzare una convergenza delle rispettive economie. In particolare, ciascun paese doveva soddisfare cinque criteri di convergenza.
• Inflazione: il tasso di crescita dei prezzi non poteva
superare di 1,5 punti percentuali il tasso di inflazione
medio dei tre paesi dell’UE con l’inflazione più
bassa.
• Tassi di interesse: il tasso di interesse sui titoli di
Stato a lungo termine non poteva superare di 2 punti
percentuali la media dei tre paesi con i tassi di inflazione più bassi.
• Disavanzo di bilancio: il disavanzo non poteva superare il 3% del PIL ai prezzi di mercato.
• Debito pubblico: il debito pubblico non poteva superare il 60% del PIL ai prezzi di mercato.
• Tassi di cambio: la valuta doveva restare per almeno
due anni all’interno delle normali bande di oscillazione dell’ERM, senza riallineamenti o interventi
eccessivi.
Prima del lancio della moneta unica, il Consiglio dei
Ministri doveva decidere quali paesi avessero soddisfatto i criteri di convergenza e fossero dunque autorizzati a formare una unione valutaria ancorando permanentemente le proprie valute all’euro. Dopo l’adesione
all’UEM, le monete nazionali sarebbero di fatto scomparse.
Al contempo, era prevista la creazione del Sistema
europeo delle banche centrali (SEBC), costituito dalla
Banca centrale europea (BCE) e dalle banche centrali
degli Stati membri. La BCE sarebbe stata indipendente
dai governi e dalle istituzioni politiche dell’UE, e
avrebbe gestito la politica monetaria per conto dei paesi
che avevano adottato la moneta unica.
La nascita dell’euro
Nel marzo del 1998 la Commissione europea stabilì che
11 Stati membri su 15 presentavano i requisiti per aderire all’UEM nel gennaio del 1999. Il Regno Unito e la
Danimarca avevano rinunciato ad adottare la moneta
unica, mentre la Svezia e la Grecia non avevano soddisfatto almeno uno dei criteri di convergenza (la Grecia
aderì poi all’UEM del 2001).
Tutti gli 11 paesi rispettavano chiaramente i requisiti
in materia di inflazione e tassi di interesse, ma molti
“euroscettici” espressero dubbi sul fatto che gli altri tre
criteri fossero stati realmente soddisfatti.
• Tassi di cambio. Né la Finlandia né l’Italia facevano
parte dell’ERM da almeno due anni, mentre il punt
irlandese era stato rivalutato del 3% il 16 marzo
1998. Tuttavia, la Commissione riteneva che questi
tre paesi fossero sufficientemente in linea con i valori
di riferimento.
• Disavanzi di bilancio. Tutti gli 11 paesi soddisfacevano questo criterio, ma alcuni erano riusciti a ridurre
il disavanzo a non oltre il 3% del PIL solo con provPAROLE CHIAVE
Unione valutaria (o monetaria) Gruppo di paesi (o
regioni) che adottano una moneta comune.
90 Parte G – L’economia mondiale
vedimenti una tantum, come un’imposta straordinaria in Italia e la contabilizzazione dei proventi delle
privatizzazioni in Germania. Tuttavia, secondo il
Patto di stabilità e crescita, i membri dell’UEM
sarebbero stati tenuti a mantenere i propri disavanzi
entro il limite del 3% (vedi Box 8.4). Molti temevano
che gli Stati che avevano soddisfatto a malapena questo criterio al momento dell’adesione avrebbero
avuto difficoltà a rispettare il limite nei periodi di
recessione o di crescita lenta, come poi effettivamente accadde con Francia e Germania dal 2002 al
2005.
• Debito pubblico. Solo quattro paesi (Francia, Finlandia, Lussemburgo e Regno Unito) avevano un debito
non superiore al 60% del PIL. Tuttavia, il Trattato di
Maastricht permetteva ai paesi di superare tale limite a
condizione che il debito si stesse riducendo in misura
sufficiente e si avvicinasse al valore di riferimento con
ritmo adeguato. Secondo molti critici, questa frase era
stata interpretata in maniera troppo permissiva.
L’euro entrò in vigore il 1° gennaio 1999, ma le banconote e le monete metalliche denominate in euro furono
introdotte solo tre anni dopo. Nel frattempo, le valute
nazionali continuarono a coesistere con la moneta unica,
ma ancorate a quest’ultima ad un tasso di cambio irrevocabilmente fisso. Le banconote e le monete metalliche
nazionali furono ritirate dalla circolazione poche settimane dopo l’introduzione di quelle in euro.
Dieci nuovi membri hanno aderito all’Unione europea nel maggio del 2004, e altri due nel gennaio del
2007. Secondo il dettato del Trattato di Maastricht, tutti
i paesi di nuova adesione dovrebbero prepararsi ad adottare all’euro creando i presupposti per soddisfare i criteri
di convergenza. Estonia, Lituania e Slovenia sono stati i
primi tre paesi ad aderire all’ERM2 nel 2004, seguiti nel
2005 da Lettonia, Cipro, Malta e Slovacchia; tutti hanno
optato per una banda di fluttuazione del ±15% rispetto
alla moneta unica. La Slovenia ha adottato l’euro nel
2007, Malta e Cipro nel 2008, la Slovacchia nel 2009 e
l’Estonia nel 2011, portando a 17 il totale dei membri
dell’UEM.
Vantaggi della moneta unica
L’UEM presenta diversi importanti vantaggi.
Eliminazione dei costi di conversione delle
valute. Finché ciascun paese dell’UE aveva una sua
moneta nazionale, la conversione di una valuta in un’altra comportava un costo. L’eliminazione di questi costi,
tuttavia, ha rappresentato probabilmente il beneficio
meno rilevante della moneta unica. Secondo le stime
della Commissione europea, i risparmi di costo hanno
avuto l’effetto di accrescere in media il PIL di ciascun
paese di appena lo 0,4%.
Aumento della concorrenza e dell’efficienza.
Nonostante l’avvento del mercato unico, permangono
notevoli differenze tra i prezzi vigenti negli Stati Membri. La moneta unica, oltre a eliminare la necessità di
convertire una valuta in un’altra (un ostacolo alla concorrenza), favorisce una maggiore trasparenza dei prezzi
e pone una pressione al ribasso sui prezzi delle imprese
e dei paesi che presentano costi elevati.
Eliminazione dell’incertezza sui tassi di
cambio (tra i membri dell’UEM). L’eliminazione dell’incertezza sui tassi di cambio ha contribuito
ad incoraggiare gli scambi commerciali tra gli Stati
membri dell’area dell’euro, ma soprattutto ha incentivato gli investimenti delle imprese che effettuano operazioni commerciali all’interno dell’UEM, grazie alla
maggiore certezza nel calcolo dei costi e i ricavi associati a queste transazioni.
Nei periodi di incertezza economica, come la crisi
creditizia del 2008, la volatilità dei tassi di cambio può
essere molto pronunciata.
IC 11
p66
Aumento dell’investimento dall’estero. L’area
dell’euro, con una popolazione di circa 326 milioni abitanti, funge da magnete per l’investimento dal resto del
mondo, anche in virtù dell’assenza di fluttuazioni valutarie interne. Ad esempio, un paese quale il Regno Unitoè stato penalizzato dalla decisione di non aderire
all’UEM, perché gli investimenti dall’estero di cui prima
beneficiava sono stati in gran parte dirottati verso i paesi
dell’eurozona.
Tassi di inflazione e di interesse più contenuti.
Una politica monetaria comune determina una convergenza dei tassi di inflazione nazionali (proprio come
avviene tra diverse regioni all’interno di un paese). In
virtù della sua indipendenza dalle manipolazioni politiche di breve periodo, la BCE riesce a mantenere il tasso
di inflazione a livelli mediamente bassi nei paesi dell’eurozona. La crescita moderata dei prezzi, a sua volta, contribuisce a convincere i mercati del vigore dell’euro
rispetto alle altre valute, con il risultato che tassi di interesse a lungo termine tendono a ridursi. Questo, a sua
volta, incoraggia ulteriormente l’investimento nei paesi
dell’area dell’euro, da parte sia di altri Stati membri che
del resto del mondo.
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 91
Opposizione all’UEM
L’Unione economica e monetaria europea, tuttavia, ha
attirato su di sé molte critiche. Alcuni gruppi – che vanno
sotto il nome di “euroscettici” – si oppongono alla
moneta unica per principio, poiché la considerano una
rinuncia alla sovranità economica e politica nazionale.
Altri, compresi gli economisti che vedono con maggior
favore l’idea di una unione monetaria, hanno sollevato
timori sulla struttura dei sistemi fiscali e monetari che
governano il funzionamento dell’unione, una struttura
che teoricamente potrebbe essere modificata.
Opposizione di principio all’UEM
Quanti si oppongono all’unione monetaria per principio
mettono l’accento su tre problemi significativi: la perdita
delle valute nazionali, un tasso di interesse uguale per
tutti e l’impatto asimmetrico sulle economie nazionali di
shock quali la crisi finanziaria.
Perdita delle valute nazionali. Questo può
essere un grave problema se un’economia non ha
un andamento in linea con il resto dell’Unione. Per
esempio, se paesi come l’Italia e la Spagna presentano
tassi di inflazione più elevati (poniamo a causa di maggiori pressioni dal lato dei costi), come possono rendere
i loro beni competitivi con quelli di altri membri
dell’UEM? Se avessero ciascuno una propria valuta,
questi paesi potrebbero lasciare deprezzare il tasso di
cambio; con una moneta unica, invece, potrebbero
diventare regioni “depresse” dell’Europa, afflitte da una
crescente disoccupazione e da tutti gli altri problemi che
caratterizzano le regioni depresse di un paese.
I fautori dell’UEM, invece, sostengono che è meglio
contrastare le spinte inflazionistiche in questi paesi attraverso la disciplina imposta dalla concorrenza proveniente da altri paesi dell’UE, anziché alimentare l’inflazione acconsentendo a svalutazioni ripetute o ad un
deprezzamento, con tutta l’incertezza che questo comporta. In aggiunta, i paesi con un’elevata inflazione sono
anche tendenzialmente più poveri, con livelli di salari
più bassi (anche se con una crescita salariale più sostenuta). Il completamento del mercato unico, favorendo
una sempre maggiore mobilità del lavoro e del capitale,
potrebbe dirottare risorse verso questi paesi, contribuendo a ridurre il divario tra gli Stati membri più ricchi
e più poveri.
I critici dell’UEM controbattono che il lavoro in
realtà è relativamente immobile, a causa delle barriere
culturali e linguistiche; pertanto, un disoccupato di
Dublino non può facilmente andare a cercare un impiego
a Torino o a Helsinki. Questi euroscettici di fatto afferCF 14
p448
mano che l’UE non è un’area valutaria ottimale (vedi
Box 25.3).
Rinuncia alla politica monetaria nazionale. Il
secondo problema individuato dagli euroscettici è che in
tutti i paesi dell’eurozona si applica lo stesso tasso di
interesse determinato dalla banca centrale: in altre
parole, la politica monetaria è uguale per tutti. Questo
pone un inconveniente: infatti, alcuni paesi potrebbero
aver bisogno di un tasso di interesse più basso per scongiurare una recessione, e altri di un tasso più elevato per
raffreddare l’inflazione.
Per esempio, nel 2010–2011 molti politici dell’Unione europea temevano la creazione di un’“Europa a
due velocità”, poiché i paesi in recessione come Portogallo, Irlanda e Grecia premevano sulla BCE affinché
mantenesse i tassi a un minimo storico dell’1%, mentre
molte nazioni in rapida crescita, come Germania, Finlandia e Austria, chiedevano a gran voce un innalzamento dei tassi di interesse per impedire un’accelerazione dell’inflazione. Tale problema è tanto maggiore
quanto minore è il grado di convergenza.
Adattamento agli shock. Il terzo problema per i
membri di un’area monetaria, strettamente collegato ai
precedenti, riguarda l’adattamento a uno shock asimmetrico, che si ripercuote sui diversi paesi in misura differente. Il problema è tanto più pronunciato quanto minore
è la mobilità internazionale dei fattori all’interno
dell’UEM e quanto minore è la flessibilità dei prezzi
all’interno dei paesi membri.
Anche quando gli shock si ripercuotono uniformemente su tutti gli Stati membri, le politiche macroeconomiche adottate centralmente potrebbero avere un impatto
differente in ciascun paese, perché i meccanismi di trasmissione delle politiche economiche – ossia il modo in
cui le politiche agiscono sulle variabili economiche
come la crescita e l’inflazione – variano da un paese
all’altro.
PAROLE CHIAVE
Area valutaria ottimale Dimensione ottimale di
un’area valutaria è quella che massimizza i benefici
dell’adottare una moneta unica in relazione ai costi. Se la
dimensione dell’area aumentasse o diminuisse, i costi in
relazione ai benefici aumenterebbero.
Shock asimmetrico Shock (come un aumento dei
prezzi del petrolio o una recessione in un’altra parte del
mondo) che produce effetti di entità differenti su settori,
regioni o paesi diversi.
92 Parte G – L’economia mondiale
BOX 25.3
Esplorare l’economia
Aree valutarie ottimali: ovvero, quando pagare nella stessa valuta conviene
Immaginate che cosa accadrebbe se ogni città, piccola o
grande, usasse una propria valuta. Pensate a quanto sarebbe
scomodo dover convertire una valuta in un’altra, e quanto
sarebbe difficile calcolare il valore relativo di beni e servizi
nelle diverse parti del paese.
Evidentemente l’utilizzo di una valuta comporta molti vantaggi, non solo all’interno di un paese ma anche di un gruppo di paesi: tra questi, una maggiore trasparenza dei prezzi,
una concorrenza più aperta, una minore incertezza per gli
investitori e il risparmio sulle commissioni che si pagano
nel convertire una valuta in un’altra. C’è poi il vantaggio di
una politica monetaria comune, nella misura in cui viene
attuata in maniera più coerente ed efficace di quanto non
facciano i singoli paesi.
Perché allora non adottare una singola valuta in tutto il
mondo? Perché al crescere delle dimensioni dell’area valutaria, aumentano probabilmente le differenze tra le condizioni vigenti nelle diverse regioni. Alcune potrebbero presentare una disoccupazione elevata e richiedere pertanto
politiche espansive; altre potrebbero essere caratterizzate
da una disoccupazione contenuta e da pressioni inflazionistiche, e richiedere dunque politiche restrittive.
Inoltre, le economie dei diversi membri dell’area valutaria
potrebbero essere colpite da shock differenti, provenienti
sia dall’esterno dell’unione (per esempio, un calo dei prezzi
di un importante bene di esportazione) sia dall’interno (per
esempio, uno sciopero prolungato). Questi “shock asimmetrici” costringerebbero le diverse regioni dell’area valutaria
ad adottare politiche differenti; ma con una singola politica
monetaria e dunque tassi di interesse comuni, e senza la
possibilità di svalutare o rivalutare le divise dei singoli
membri, la possibilità di attuare politiche distinte viene a
ridursi notevolmente.
I costi degli shock asimmetrici (e dunque di un’area valutaria) sono tanto maggiori quanto minore è la mobilità del lavoro e del capitale, quanto minore è la flessibilità di prezzi
Critiche dell’attuale struttura dell’UEM
Altri soggetti, che criticano l’attuale struttura dell’UEM,
sostengono che i problemi descritti potrebbero essere
notevolmente mitigati con cambiamenti adeguati.
Politica monetaria. Nel caso della politica monetaria, la
BCE non ha affrontato la recessione seguita alla crisi
finanziaria con la stessa determinazione delle altre
banche centrali; la Fed e la Banca d’Inghilterra, in
particolare, hanno adottato vasti programmi di
quantitative easing, mentre la BCE è stata molto più
prudente.
e salari, e quanto minori sono le politiche economiche alternative cui si può fare ricorso (per esempio, le politiche fiscali e regionali).
Molti economisti esprimono forti dubbi sul fatto che l’eurozona sia un’area valutaria ottimale, per una serie di ragioni.
• Il lavoro è relativamente immobile.
• Sussistono differenze strutturali tra gli Stati membri.
• I meccanismi di trasmissione delle variazioni dei tassi
di interesse differiscono da un paese all’altro, dato che
ciascuno di essi presenta una diversa percentuale di prestiti a tasso variabile sul totale e un diverso rapporto tra
spesa per consumi e PIL.
• Le esportazioni verso i paesi esterni all’area dell’euro
rappresentano una diversa quota del PIL degli Stati
membri, e pertanto le loro economie sono influenzate in
maniera differente da una variazione del tasso di cambio dell’euro rispetto alle altre valute.
• I salari reali sono relativamente rigidi.
• Secondo le regole del Patto di stabilità e crescita (vedi
Box 8.4), la possibilità di ricorrere a una politica fiscale
discrezionale è molto ridotta.
Questo però non significa necessariamente che i costi di
una singola valuta europea siano superiori ai benefici; inoltre, i problemi appena delineati dovrebbero diminuire nel
tempo, con lo sviluppo del mercato unico; infine, il problema degli shock asimmetrici potrebbe essere stato sopravvalutato. Le economie europee sono fortemente diversificate;
spesso le differenze interne sono più pronunciate di quelle
internazionali. È più probabile dunque che gli shock colpiscano in maniera asimmetrica diversi settori produttivi o
località, anziché interi paesi.
Difficilmente una modifica del tasso di cambio, se mai fosse possibile, sarebbe una risposta politica appropriata in
queste circostanze.
I disavanzi di bilancio dei paesi membri dell’eurozona non sono finanziati dall’emissione di eurobond, bensì con i titoli di Stato nazionali, denominati
però nella moneta comune. Qualsiasi detentore,
poniamo, di obbligazioni greche, può trasferire molto
facilmente i propri fondi in titoli più sicuri, come quelli
tedeschi o danesi. Così, per convincere gli investitori ad
acquistare le nuove obbligazioni di paesi considerati a
rischio di insolvenza, gli emittenti devono offrire tassi di
interesse molto elevati, che rendono estremamente oneroso il servizio del debito. Nel 2010–2011, a causa dei
crescenti timori per un possibile default di Grecia,
IC 11
p66
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 93
Irlanda e Spagna e poi dell’Italia, i tassi sui titoli decennali di questi paesi hanno superato il 7%, raggiungendo
in alcuni casi livelli ben più elevati. A quel tempo, le
obbligazioni tedesche offrivano un tasso di interesse di
circa lo 0,25%. La BCE ha acquistato nel mercato secondario le obbligazioni esistenti dei paesi a rischio di insolvenza, ma questo programma di quantitative easing è
stato più moderato di quello di Stati Uniti e Regno Unito.
In particolare, la BCE si è rifiutata di erogare direttamente finanziamenti a questi governi sottoscrivendo l’emissione di nuovi titoli. I critici pertanto continuano a
evidenziare la debolezza intrinseca di una moneta unica
che coesiste con l’emissione di titoli di Stato nazionali.
Quanto maggiore è la divergenza tra le economie dell’eurozona, in termini di inflazione, disavanzi, debito e percentuale di titoli di Stato a breve scadenza, tanto più
grave il problema diventa.
Politica fiscale. Secondo il Patto di stabilità e crescita,
i membri dell’UEM erano tenuti a mantenere il disavanzo e il debito pubblico, rispettivamente, sotto la
soglia del 3% e del 60% del PIL (vedi Box 8.2). Tuttavia, il Patto non è mai stato applicato con rigore. Inoltre,
le regole consentivano agli Stati membri di superare tali
limiti nei periodi di recessione, consentendo il ricorso ad
una politica fiscale discrezionale. Di conseguenza, dopo
la recessione del 2008-2009 si è registrato un aumento
dei disavanzi e del livello del debito pubblico, soprattutto nelle economie più deboli: per esempio, il disavanzo delle amministrazioni pubbliche greche è salito
dal 6,5% del PIL nel 2007 al 15,8% nel 2009. Sempre
nel 2007, la Spagna vantava un avanzo di bilancio pari
all’1,9%, che già nel 2009 si era tramutato in un disavanzo dell’11,9%; l’Irlanda, che nel 2007 aveva un
avanzo dello 0,1% del PIL, nel 2010 si è ritrovata addirittura con un disavanzo del 31,3%.
Al fine di assicurare ai paesi la flessibilità di utilizzare politiche fiscali discrezionali nei periodi di recessione senza provocare o esacerbare una crisi, occorre
applicare regole più rigorose nell’arco dell’intero ciclo
economico, magari imponendo un disavanzo medio pari
a zero.
La crisi del 2011 nell’area dell’euro
La crisi del debito sovrano che ha colpito l’area dell’euro
nel 2010–2011, a seguito della crisi finanziaria e della
recessione economica mondiale del 2008–2009, ha ulteriormente alimentato il dibattito sui benefici dell’unione
monetaria. Prima la Grecia e quindi l’Irlanda e il Portogallo hanno dovuto chiedere finanziamenti d’emergenza
all’UE e all’FMI per riuscire a rimborsare i loro debiti
crescenti; in cambio, hanno accettato di attuare significative riduzioni della spesa pubblica, di alzare le tasse e
di introdurre riforme dal lato dell’offerta, il tutto sotto la
supervisione dell’FMI.
Per sostenere il processo di salvataggio, nel giugno
del 2010 è stato creato il Meccanismo europeo di stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility,
EFSF), che può emettere obbligazioni per raccogliere
capitali. Questi fondi possono essere quindi impiegati
per erogare prestiti ai paesi dell’eurozona in difficoltà,
per acquistare le loro obbligazioni o ricapitalizzare le
banche esposte al loro debito. Le prime obbligazioni
dell’EFSF sono state emesse nel 2011 come parte di un
pacchetto di assistenza finanziaria all’Irlanda approntato
dall’UE e dall’FMI. Un altro pacchetto di aiuti è stato
successivamente erogato al Portogallo, mentre la Grecia
ha beneficiato della seconda tranche prevista dal suo
piano di salvataggio. Nell’ottobre del 2010 l’EFSF aveva
impiegato già oltre 250 miliardi di euro su un fondo
complessivo di 400 miliardi di euro. Durante una riunione nel novembre del 2011, i Ministri delle Finanze
dell’eurozona hanno deliberato di portare la dotazione
dell’EFSF a 1000 miliardi di euro. I nuovi fondi, tuttavia, non sarebbero giunti da nuova moneta creata dalla
BCE; si sperava invece che la Cina e altri paesi del G-20
avrebbero contribuito a finanziare l’EFSF, in cambio di
una parziale garanzia contro l’insolvenza dei paesi
dell’eurozona beneficiari degli interventi di salvataggio.
La crisi ha evidenziato tre problematiche cruciali.
In primo luogo, ci si è chiesto se le condizioni dei
salvataggi non fossero talmente rigorose da spingere i
paesi in depressione, con il conseguente crollo delle
entrate fiscali ed un ulteriore peggioramento dei disavanzi. I piani di austerity si sono già dimostrati estremamente impopolari nei paesi interessati, dove si sono registrate molte proteste per la perdita di posti di lavoro ed il
calo del tenore di vita.
In secondo luogo, vi era il rischio che i mercati non
si sarebbero convinti dell’efficacia dei provvedimenti. In
tal caso, i tassi di interesse sui titoli di Stato sarebbero
aumentati, rendendo ancora più oneroso il servizio del
debito e imponendo ulteriori salvataggi nonché la cancellazione di ampie quote del debito. Data la situazione
al tempo, nell’ottobre del 2011 i leader dell’eurozona
hanno deciso che le banche avrebbero dovuto accettare
una perdita del 50% nel convertire i titoli di Stato greci
esistenti in obbligazioni di nuova emissione.
In terzo luogo, si temeva che la turbolenza avrebbe
condotto alla disgregazione dell’eurozona, con la fuoriuscita di paesi come la Grecia, costretti in tal caso a reintrodurre la moneta nazionale. In un simile scenario, i
paesi uscenti subirebbero un ampio deprezzamento della
94 Parte G – L’economia mondiale
propria valuta, un aumento dei prezzi e un ulteriore calo
del tenore di vita. I leader dell’area dell’euro hanno
voluto sottolineare con determinazione che la disgregazione dell’eurozona non era in discussione.
La soluzione propugnata dai capi di Stato e di
governo dell’UEM va nella direzione di una più stretta
integrazione, di regole fiscali più rigorose con uno stretto
monitoraggio e sanzioni automatiche per i paesi che
superano i limiti fissati al disavanzo, e di un rafforzamento del quadro monetario con un incremento delle
riserve valutarie e la ricapitalizzazione delle banche.
Altri, compresi alcuni sostenitori dell’unione monetaria, sostengono invece che un problema fondamentale
risiede nella debolezza del quadro fiscale dell’eurozona.
A loro avviso, le regole fiscali alla base del Patto di stabilità e crescita (vedi Box 8.2) negli anni Duemila non
sono state efficacemente applicate; di conseguenza,
essendo considerate scarsamente credibili, hanno incoraggiato una scarsa disciplina fiscale.
Altri osservatori si spingono oltre, affermando che la
piena attuazione dei benefici dell’unione monetaria
richiederebbe una maggiore armonizzazione fiscale. In
altre parole, il problema non è l’unione monetaria in sé,
ma un’integrazione non ancora completa.
Ironia della sorte, sia gli euroscettici che gli eurofili hanno visto nella crisi del debito sovrano una
dimostrazione della validità delle loro diversissime
posizioni.
25.3 Conseguire una maggiore stabilità valutaria
Un importante insegnamento tratto dagli eventi
degli ultimi anni è che gli attacchi speculativi concertati sono diventati pressoché inarrestabili, come è
apparso evidente a seguito dell’espulsione del Regno
Unito e dell’Italia dall’ERM nel 1992, dal crollo di
diverse valute del Sud-Est asiatico e del rublo russo nel
1997–1998, dalla crisi del peso argentino all’inizio del
2002, dal calo della sterlina nel 2008 e dal massiccio
deprezzamento dell’euro nel 2012. A confronto con gli
ingenti flussi di capitali a breve termine che transitano
ogni giorno attraverso i mercati dei cambi, le riserve
delle banche centrali appaiono insignificanti.
Se i mercati si convincono che una valuta è destinata
a deprezzarsi, le autorità possono fare ben poco per
scongiurarlo. Per esempio, se vi è una probabilità del
50% che la prossima settimana una valuta si deprezzi del
10%, la vendita immediata di quella valuta frutterebbe
un rendimento “atteso” poco superiore al 5% in una settimana (ovvero il 50% del 10%), un guadagno equivalente al 1200% all’anno.
Per questa ragione, molti analisti affermano che solo
due tipi di sistemi dei tassi di cambio sono sostenibili nel
lungo periodo. Il primo è un regime di cambi a corso
completamente libero, nel quale la banca centrale non fa
alcun tentativo di sostenere il tasso di cambio; senza
intervento, infatti, non si pone un problema di carenza
delle riserve.
Il secondo consiste nell’adesione ad un’area valutaria comune, come l’eurozona: i paesi aderenti adottano
una stessa valuta che viene lasciata fluttuare liberamente
rispetto a tutte le altre. Gli Stati membri rinunciano a
perseguire una politica monetaria indipendente, ma
quanto meno all’interno dell’area monetaria si risolve il
problema dell’instabilità dei tassi di cambio. Un’alternaIC 10
p61
tiva simile consiste nell’adottare la valuta di un altro
paese, come il dollaro statunitense e l’euro. Molti paesi
piccoli hanno optato per questa soluzione: per esempio,
il Kosovo e il Montenegro hanno adottato prima il marco
tedesco e poi l’euro, mentre l’Ecuador ha scelto come
propria valuta il dollaro statunitense.
Un paese che tenti di adottare un sistema di cambi
fissi può andare incontro a due spiacevoli conseguenze:
cadere vittima di un attacco speculativo oppure trovarsi
costretto a dedicare totalmente la politica monetaria alla
difesa del tasso di cambio.
Esiste dunque un modo di “battere gli speculatori” e
perseguire una politica di maggiore stabilità del tasso di
cambio? Oppure i paesi non appartenenti ad un’area
valutaria sono necessariamente costretti ad accettare un
regime di cambi liberamente fluttuanti, con tutta l’incertezza che questo comporta per gli operatori commerciali?
CF 6 In quest’ultimo paragrafo esaminiamo due possip45 bili soluzioni: la prima consiste nel ridurre la
mobilità internazionale dei capitali, introducendo diversi
tipi di restrizioni sulle operazioni in valuta estera; la
seconda si concretizza nell’adozione di un nuovo regime
dei tassi di cambio, che offre i benefici di un certo grado
di stabilità, senza essere suscettibile ad attacchi speculativi su grande scala.
Controllare le operazioni in valuta
Fino all’inizio degli anni Novanta in molti paesi vigevano restrizioni su diversi tipi di flussi finanziari. In virtù
di tali restrizioni, le operazioni speculative su possibili
variazioni dei tassi di cambio erano più onerose. Non è
vero, come sostengono alcuni analisti, che è impossibile
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 95
reintrodurre questo genere di controlli; lo fece la Malaysia nel 1998, quando il ringgit fu vittima di un attacco
speculativo. Molti paesi in via di sviluppo mantengono
ancora una serie di controlli, e gli ultimi membri
dell’ERM a smantellarli lo fecero solo nel 1991. È vero
che la complessità dei moderni mercati finanziari offre
agli speculatori abbondanti opportunità di evadere i controlli, ma questi hanno comunque l’effetto di placare la
speculazione.
Nel settembre del 1998 l’FMI affermò che i controlli
sui flussi di capitali in entrata possono rivelarsi uno strumento utile, specie per i paesi più vulnerabili ad un
attacco speculativo. Nella sua relazione annuale del
1999, il Fondo monetario internazionale dichiarò che la
crisi asiatica del 1997–1998 fu il risultato non solo della
debolezza dei sistemi bancari, ma anche della perfetta
mobilità dei capitali, che favorì un ingente deflusso di
fondi.
L’obiettivo dei controlli finanziari non è impedire i
flussi di capitali internazionali, i quali, dopo tutto, sono
un’importante fonte di finanziamento per gli investimenti. Inoltre, se i fondi si spostano dai paesi con una
bassa produttività marginale del capitale verso quelli
dove la produttività è più elevata, tale processo favorisce
un’allocazione efficiente del risparmio mondiale. I controlli finanziari devono essere dunque mirati ad ostacolare i flussi speculativi basati unicamente su voci di corridoio o comportamenti imitativi, anziché sui
fondamentali economici.
Tipi di controlli
Esistono diversi modi di controllare i movimenti di capitali a breve termine, ciascuno con i suoi punti di forza e
di debolezza.
Controlli quantitativi. In questo caso le autorità limitano il volume delle operazioni in valuta estera che possono essere effettuate, stabilendo, per esempio, che le
istituzioni finanziarie possono convertire solo una data
percentuale delle loro attività. Tuttavia, i paesi sviluppati
e la maggior parte dei paesi in via di sviluppo si sono
rifiutati di adottare questo approccio, poiché lo considerano profondamente contrario al principio del libero
mercato.
Fa eccezione il ricorso a speciali misure di emergenza per limitare i movimenti di capitali nell’eventualità di una crisi valutaria. Secondo l’articolo 57 del Trattato di Amsterdam, il Consiglio dei Ministri dell’Unione
europea può “adottare misure concernenti i movimenti
di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti”;
l’articolo 59 ammette la possibilità di introdurre “misure
di salvaguardia” qualora “in circostanze eccezionali, i
movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi
diretti causino [...] difficoltà gravi per il funzionamento
dell’Unione economica e monetaria”; infine, l’articolo
60 consente agli stati membri di “adottare misure unilaterali nei confronti di un paese terzo per quanto concerne
i movimenti di capitali e i pagamenti”.
Una Tobin tax. Questo provvedimento prende il nome
dall’economista James Tobin, che nel 1978 propose di
introdurre una minuscola imposta compresa tra lo 0,1 e
lo 0,5% su tutte le operazioni in valuta estera, oppure
solo su quelle relative al conto finanziario.1 Una Tobin
tax avrebbe l’effetto di scoraggiare la speculazione
destabilizzante (rendendola più onerosa) e dunque di
introdurre una certa “frizione” nei mercati dei cambi,
riducendo la volatilità.
Gli appelli a favore della Tobin tax sono diventati
sempre più frequenti negli ultimi anni, soprattutto dopo
la crisi finanziaria della fine degli anni 2000. Nel novembre del 2001 l’Assemblea nazionale francese è stata il
primo parlamento nazionale ad introdurre per legge una
Tobin tax non superiore allo 0,1%, seguita dal Belgio nel
2002. I Ministri delle Finanze dell’UE hanno incaricato
la Commissione europea di condurre uno studio di fattibilità su questa imposta2. Alla fine del 2001, l’organizzazione benefica War on Want ha dichiarato il 13 marzo
2002 “giornata internazionale della Tobin tax”. Ironia
ha voluto che James Tobin morisse due giorni prima.
Una tale imposta pone però alcuni problemi: innanzitutto, penalizzerebbe le transazioni effettuate per normali finalità commerciali o di investimento, oltre che
quelle di carattere speculativo; in secondo luogo, per
scoraggiare la speculazione nei periodi di incertezza, la
Tobin tax dovrebbe essere piuttosto elevata, con riper1 Tobin J., “A proposal for international monetary reform”,
Eastern Economic Journal, 4(3-4), pp. 153-159, 1978.
2 Nell’ottobre del 2012 la Commissione europea ha dato il via
libera all’adozione di un’imposta sulle transazioni finanziarie
nell’ambito di un quadro di cooperazione rafforzata, che al
momento della stampa di questo libro vede l’adesione di 10
paesi, tra cui l’Italia. [N.d.T.]
PAROLE CHIAVE
Teoria della politica commerciale strategica Teoria
secondo la quale la protezione e/o il sostegno mettono
determinati settori produttivi in condizione di competere
più efficacemente con concorrenti monopolistici di
maggiori dimensioni all’estero. La protezione rafforza la
concorrenza nel lungo periodo e può consentire alle
imprese protette di sfruttare un vantaggio comparato di
cui altrimenti non potrebbero beneficiare.
96 Parte G – L’economia mondiale
cussioni negative per gli scambi commerciali o gli investimenti. Per risolvere quest’ultimo problema, l’imposta
potrebbe essere prelevata solo nei periodi di turbolenza
sui mercati dei cambi, oppure applicata con un’aliquota
più elevata. Se non altro un’imposta è molto meno
distorsiva dei controlli quantitativi.
Il Box 25.4 esamina in maniera più approfondita le
argomentazioni favorevoli e contrarie alla Tobin tax
nonché le crescenti pressioni, soprattutto in Europa, per
l’introduzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie effettuate dalle banche.
Depositi infruttiferi. In questo caso una determinata
percentuale dei flussi di capitali verrebbe conferita in
depositi infruttiferi presso la banca centrale per un
periodo di tempo prestabilito. Negli anni Novanta questo
sistema venne adottato dal Cile, che introdusse l’obbligo
di depositare il 30% dei tutti i capitali in entrata presso la
propria banca centrale per un anno. Tale provvedimento,
equivalente in effetti ad un’imposta considerevole (per
via della perdita di interessi), ebbe l’effetto di scoraggiare i flussi speculativi a breve termine. Il problema,
BOX 25.4
ovviamente, è che il Cile dovette offrire tassi di interesse
più elevati per attrarre fondi.
Un’obiezione mossa a tutti questi provvedimenti è che il
loro unico effetto potrebbe essere quello di raffreddare la
speculazione, senza eliminarla del tutto. Se gli speculatori ritengono che il mercato dei cambi è caratterizzato
da gravi squilibri e che un riallineamento è inevitabile,
non esistono imposte sui movimenti di capitali o controlli artificiali in grado di arginare la marea speculativa.
A questa obiezione si può rispondere in due modi. In
primo luogo, se è vero che le valute sono fortemente
disallineate, ben vengano le variazioni dei tassi di cambio. In secondo luogo, un semplice raffreddamento della
speculazione è probabilmente quanto di più indicato. La
speculazione può svolgere un ruolo importante, portando più rapidamente i tassi di cambio verso il livello di
equilibrio di lungo periodo. Difficilmente i controlli possono impedire questo aspetto della speculazione, ovvero
un adeguamento in linea con i fondamentali economici;
se però contribuiscono ad attenuare le forme più sfrenate
di disoccupazione destabilizzante, tanto meglio.
Esplorare l’economia
La Tobin tax: una cura per tutti i mali?
A metà degli anni Ottanta il volume quotidiano delle operazioni effettuate nei mercati dei cambi mondiali era pari a
circa 150 miliardi di dollari; nel 2008 aveva assunto proporzioni gigantesche, portandosi a 4000 miliardi. Tuttavia,
solo il 5% di queste operazioni era finalizzato allo scambio
di beni e servizi.
Non -è da stupirsi che la crescita vertiginosa dei flussi speculativi possa causare una notevole instabilità valutaria e
crisi finanziarie nei periodi di incertezza economica. I mercati finanziari globali hanno svolto spesso un ruolo decisivo
nell’innescare e intensificare le crisi economiche. Le crisi
dell’ERM nel 1992, del peso messicano nel 1994, del SudEst asiatico nel 1997, del rublo russo nel 1998, del peso argentino nel 2001–2002, nonché l’instabilità valutaria del
2008–2009 seguita alla rarefazione del credito non sono
che i casi più eclatanti di una lunga lista.
Il problema fondamentale risiede nella volatilità dei tassi di
cambio. Se i mercati valutari reagissero unicamente ai cambiamenti dei fondamentali economici, la volatilità delle valute non sarebbe così pronunciata. Tuttavia, volumi sempre
più ingenti di denaro si spostano da una parte all’altra del
globo per ragioni puramente speculative, spesso sulla scorta
di comportamenti imitativi. Invariabilmente, data la portata
dei flussi speculativi, i tassi di cambio spesso si allontanano
sensibilmente dal loro equilibrio naturale, esacerbando le
distorsioni create. Questi movimenti speculativi hanno un
forte impatto destabilizzante, non solo sulle economie nazionali ma anche su quella mondiale.
Cosa si può fare per ridurre la speculazione destabilizzante?
Un suggerimento è introdurre una Tobin tax.
La Tobin tax
In un articolo del 1978 James Tobin propose un sistema per
ridurre la volatilità dei tassi di cambio senza interferire profondamente con le operazioni dei mercati. Tobin suggerì di
introdurre un’imposta internazionale dello 0,1–0,5% su tutte le operazioni di cambio a pronti o in contante. A suo avviso, l’imposta avrebbe reso le transazioni valutarie più costose, riducendo quindi il volume dei flussi finanziari a
breve termine e favorendo inevitabilmente una maggiore
stabilità dei tassi di cambio.
Secondo la proposta originaria di Tobin, l’aliquota dell’imposta dovrebbe essere molto bassa, in modo da non ostacolare la “normale conduzione degli affari”. Ma anche con un
prelievo molto contenuto, gli speculatori che operano su
margini molto risicati sarebbero dissuasi dall’effettuare regolari movimenti di denaro, poiché dovrebbero versare
un’imposta su ogni singola transazione. Per esempio, con
un’aliquota dello 0,2%, gli speculatori che effettuano una
transazione al giorno totalizzerebbero un debito di imposta
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 97
di circa il 50% all’anno, quelli che operano settimanalmente pagherebbero il 10% all’anno e quelli che effettuano una
transazione al mese verserebbero il 2,4% all’anno. Dato che
il 40% delle operazioni in valuta ha un orizzonte temporale
di appena due giorni e l’80% un orizzonte inferiore a una
settimana, un’imposta del genere avrebbe chiaramente l’effetto di mitigare i movimenti speculativi di valuta.
Una Tobin tax potrebbe anche generare entrate consistenti,
comprese secondo le stime tra i 150 e i 300 miliardi di dollari all’anno. Molti dei principali gruppi di pressione mondiali, come War on Want e Stamp out Poverty, hanno affermato che i proventi di una tale imposta internazionale
potrebbero essere impiegati per risolvere una serie di problemi mondiali, come la povertà e il degrado ambientale. La
Banca mondiale stima che per eliminare le forme più gravi
di povertà al mondo servirebbero 225 miliardi di dollari. Le
entrate generate da una Tobin tax potrebbero facilmente superare quell’importo in un periodo di tempo relativamente
breve. Persino un’imposta mondiale dello 0,005% (l’aliquota raccomandata da Stamp out Poverty) potrebbe consentire
di raccogliere circa 50 miliardi di dollari all’anno.
Problemi della Tobin tax
Fino a che punto un’imposta sulle operazioni in valuta riuscirebbe a frenare i movimenti speculativi di denaro? La
risposta risiede nel rendimento che gli speculatori possono
ottenere dalle transazioni. Se una valuta si deprezzasse del
3-4%, una Tobin tax dello 0,2% potrebbe fare ben poco per
scoraggiare un’operazione speculativa basata su un potenziale rendimento di questa entità. Considerando le svalutazioni del 50% effettuate da Thailandia e Indonesia dopo il
crollo del 1997 e l’apprezzamento dell’80% registrato
dall’euro rispetto al dollaro tra il 2002 e il 2008, per non
parlare di altre marcate fluttuazioni breve termine, una variazione del 3-4% sembra piuttosto modesta. Innalzare l’aliquota della Tobin tax non sarebbe una soluzione, perché
questo interferirebbe con la “normale conduzione degli
affari”.
Una soluzione a questo problema è stata proposta da un
economista tedesco, Paul Bernd Spahn, che ha suggerito di
utilizzare un sistema a due velocità. In tempi normali tutte
le transazioni finanziarie sarebbero soggette a un’imposta
minima come quella originariamente prevista da Tobin; nei
periodi di forte volatilità dei tassi di cambio, invece, si applicherebbe una sovrattassa a un’aliquota nettamente più
elevata, che entrerebbe in vigore solo qualora una determinata valuta fuoriuscisse da una banda di fluttuazione prestabilita.
Un ulteriore problema associato alla Tobin tax riguarda i
costi della sua amministrazione. Tuttavia, grazie alle reti
informatiche e alla progressiva centralizzazione dei mercati
dei cambi – in termini di piazze finanziarie, operatori e valute – un’efficace amministrazione diventa ogni giorno più
facile. La maggior parte dei mercati dei cambi viene già
adeguatamente monitorata e non dovrebbe essere troppo
difficile estendere tale monitoraggio alla riscossione
dell’imposta.
Un altro problema ancora è rappresentato dall’elusione fiscale. La Tobin tax, essendo un’imposta che grava sulle
operazioni valutarie a pronti, potrebbe incoraggiare gli investitori a utilizzare maggiormente i contratti a termine e
futures. Questi prodotti sono strumenti finanziari “derivati”
che consentono agli operatori di acquistare o vendere valute
a una data futura e a un prezzo prestabilito. Monitorare e
dunque tassare queste transazioni è molto più difficile, poiché al momento del perfezionamento del contratto non avviene alcuno scambio di valuta. Una possibile soluzione è
prelevare un’imposta sul valore nozionale del contratto derivato. Tuttavia, i derivati sono un importante strumento di
copertura contri i rischi futuri, e tassandoli si rischia di inficiare la loro utilità per le imprese e di danneggiare il mercato dei derivati nel suo complesso, rendendo l’attività di
impresa più rischiosa.
Nonostante l’elusione fiscale, i sostenitori della Tobix tax
sostengono comunque che l’imposta potrebbe rivelarsi efficace. Il problema fondamentale è in realtà la mancanza di
volontà politica.
Una Tobin tax sulle transazioni finanziarie?
Nel 2009 Adair Turner, l’allora presidente della Financial
Services Authority (l’autorità di vigilanza del settore finanziario del Regno Unito fino al 2012) ha ventilato la possibilità di utilizzare un’imposta sulle transazioni finanziarie
per porre un freno alle operazioni destabilizzanti.
Durante il vertice del G-20 tenutosi a Cannes nel novembre
del 2011, un’imposta sulle transazioni finanziarie è stata
proposta dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy
con il sostegno di molti altri leader, inclusi quelli di Germania e Sud Africa. Questa forma di Tobin tax ha riscosso
anche l’approvazione di Warren Buffet, Bill Gates, Rowan
Williams (l’Arcivescovo di Canterbury), del Vaticano e di
diversi gruppi di pressione e organizzazioni benefiche, che
hanno chiesto a gran voce l’introduzione di una “Robin
Hood tax”, come viene talvolta chiamata.
Resta da capire se i paesi favorevoli a tale imposta siano
pronti ad adottarla unilateralmente, rischiando che le operazioni finanziarie vengano dirottate verso le nazioni che non
la introdurranno. I suoi sostenitori, tuttavia, citano a esempio la Stamp Duty Reserve Tax del Regno Unito, prelevata
fin dal 1986 in misura dello 0,5% sulla compravendita di
azioni di società aventi sede o registrate nel Regno Unito.
Poiché grava sulle transazioni relative a particolari titoli
azionari, anziché sul mercato nel quale vengono negoziati,
l’imposta non sembra aver scoraggiato gli investimenti nelle
imprese britanniche. Nondimeno, il governo del Regno Unito è contrario a un’imposta sulle transazioni finanziarie che
non venga adottata a livello globale, perché teme che il vasto settore finanziario del paese ne sarebbe penalizzato.
98 Parte G – L’economia mondiale
Zone obiettivo dei tassi di cambio
Un regime dei tassi di cambio che ha suscitato notevole
dibattito in anni recenti è quello proposto da John Williamson, dell’Institute for International Economics di
Washington.1 Williamson ha propugnato un sistema di
parità mobili con ampie bande di fluttuazione dei tassi di
cambio (vedi Figura 24.6). Il sistema avrebbe quattro
caratteristiche fondamentali.
• Bande di fluttuazione ampie, per esempio del ±10%
rispetto alle parità centrali.
• Parità centrali stabilite in termini reali in corrispondenza del “tasso di cambio di equilibrio fondamentale” (fundamental equilibrium exchange rate, FEER),
ovvero un tasso compatibile con il pareggio della
bilancia dei pagamenti nel lungo periodo.
• Riallineamenti frequenti. Per restare il linea con il
FEER, la parità centrale andrebbe rivista di frequente
(per esempio, con cadenza mensile) per tener conto
del tasso di inflazione di ciascun paese. Se la crescita
annua dei prezzi fosse superiore di 2 punti percentuali all’inflazione media ponderata per l’interscambio di altri paesi, la parità centrale sarebbe svalutata
dl 2% all’anno. I riallineamenti rispecchierebbero
anche altri cambiamenti dei fondamentali, come le
modifiche del grado di protezione, o importanti
eventi politici, come la riunificazione tedesca.
• “Cuscinetti soft”. I governi non sarebbero costretti
ad intervenire in corrispondenza del limite del ±10%
o di una sua frazione specificata; anzi, di volta in
volta il tasso di cambio potrebbe fuoriuscire dalla
banda di oscillazione.
1 Vedi, per esempio, Williamson J. e Miller M., “Target and indicators: a blueprint for the international coordination of economic policy”, Policy Analyses in International Economics,
22, IIE, 1987.
Il punto è che l’intervento sarebbe tanto maggiore
quanto più il tasso di cambio si approssima ai limiti
della banda di fluttuazione.
Questo sistema presenta due vantaggi fondamentali. In
primo luogo, il tasso di cambio resterebbe generalmente in linea con il livello di equilibrio, riducendo
così la probabilità di svalutazioni o rivalutazioni pronunciate e con essa l’opportunità di ingenti guadagni
speculativi. La ragione dietro al fallimento dell’ERM,
con le due bande di fluttuazione ristrette, nel 1992 e
1993 fu che le parità centrali non erano fissate al
livello di equilibrio.
In secondo luogo, le bande più ampie lascerebbero ai
paesi maggiore libertà di perseguire una politica monetaria indipendente, in grado dunque di rispondere alle
esigenze sul fronte dell’economia interna.
Il principale svantaggio del sistema è che potrebbe
non assicurare le piena indipendenza nella conduzione
della politica monetaria: per mantenere il tasso di cambio all’interno della banda di fluttuazione, talvolta bisogna destinare la politica monetaria a questo scopo anziché al controllo dell’inflazione.
Ciò nonostante, le bande mobili sono state utilizzate
con qualche successo da diversi paesi, come il Cile e
Israele, per lunghi periodi di tempo. Peraltro, nel 1999
l’ex Ministro delle Finanze tedesco, Oskar Lafontaine,
affermò che un tale sistema sarebbe stato appropriato
per regolare le fluttuazioni dell’euro rispetto al dollaro
statunitense e allo yen giapponese.
Un mondo in cui le tre principali valute fluttuano
moderatamente le une rispetto alle altre avrebbe sicuramente molti pregi.
Capitolo 25 – Interdipendenza globale e regionale 99
I paragrafi in pillole
Paragrafo 25.1
1. I cambiamenti della domanda aggregata di un paese si
ripercuotono sulla quantità di importazioni acquistate e
dunque sul volume dei beni di esportazione venduti da
altri paesi, e quindi sul reddito nazionale di questi ultimi.
Si genera quindi un effetto moltiplicatore associato al
commercio internazionale.
2. Le variazioni dei tassi di interesse influiscono sui flussi di
capitali da e verso altri paesi, e dunque sui tassi di cambio,
i tassi di interesse e il reddito nazionale di questi ultimi.
3. Per impedire che i problemi di un paese si propaghino
ad altre nazioni, e per stabilizzare il ciclo economico
internazionale, è necessario che i governi coordinino le
proprie politiche economiche.
4. È possibile attenuare le fluttuazioni valutarie attraverso
un’armonizzazione delle politiche economiche nazionali; idealmente, questo comporterebbe il conseguimento
di condizioni compatibili in termini di tassi di crescita,
tassi di inflazione, tassi di interesse e bilancia dei pagamenti (in percentuale del PIL). La convergenza di uno di
questi indicatori, tuttavia, potrebbe non essere compatibile con quella di altri.
5. I leader dei paesi del G-8 e del G-20 si riuniscono almeno una volta all’anno per discutere i modi di armonizzare
le rispettive politiche economiche. Tuttavia, i capi di
stato e di governo attribuiscono generalmente maggiore
importanza alle problematiche nazionali che a quelle
internazionali e spesso perseguono politiche che non
sono nell’interesse di altri paesi.
Paragrafo 25.2
1. Per conseguire una maggiore stabilità valutaria, un gruppo di paesi può adottare un sistema di tassi di cambio
fissi o semi-fissi, lasciando fluttuare congiuntamente
le proprie valute rispetto a tutte le altre. Un esempio di
questo approccio era il meccanismo dei tassi di cambio
europeo (ERM). Le valute dei paesi membri potevano
fluttuare le une rispetto alle altre entro una banda, fissata
al ±2,25% per la maggior parte dei paesi fino al 1993.
2. I riallineamenti parvero diventare meno necessari alla
fine degli anni Ottanta, grazie alla sempre maggiore
convergenza tra le economie dei paesi membri. Tuttavia,
nei primi anni Novanta le crescenti tensioni nel sistema
sfociarono in una crisi vera e propria, scoppiata nel
settembre del 1992, quando il Regno Unito e l’Italia
abbandonarono l’ERM. Nel 1993 le bande di fluttuazione furono ampliate al ±15%, anche se da allora al lancio
dell’euro, avvenuto nel 1999, le fluttuazioni rimasero per
la maggior parte del tempo comprese tra il ±2,25%.
3. L’ERM era considerato una prima tappa importante nel
percorso che avrebbe condotto a un’unione economica e
monetaria completa.
4. L’euro fu adottato il 1° gennaio 1999 da dodici paesi che
avevano nominalmente soddisfatto i criteri di convergen-
za di Maastricht. Le banconote e le monete metalliche in
euro furono introdotte il 1° gennaio 2002, mentre quelle
denominate nelle valute nazionali furono ritirate dalla
circolazione poche settimane più tardi.
5. A detta di molti, l’UEM presenta numerosi vantaggi.
Innanzitutto, elimina i costi di conversione delle valute e
le incertezze associate alle fluttuazioni dei tassi di cambio all’interno dell’UE; questo, a sua volta, incoraggia
l’investimento dall’estero nonché quello delle imprese
dell’Unione. Inoltre, una banca centrale comune indipendente dai governi nazionali assicura un contesto monetario stabile, che favorisce la convergenza delle economie
nazionali nonché gli investimenti e i commerci intra-UE.
6. Secondo i critici, invece, l’unione monetaria rende più
difficile la risoluzione dei problemi economici interni. La rinuncia all’attuazione di politiche economiche
indipendenti è considerata una problematica cruciale,
non solo per la perdita di sovranità politica, ma anche
perché gli obiettivi economici interni potrebbero essere
discordanti con quelli dell’Unione nel suo complesso.
In aggiunta, si afferma che una politica monetaria unica
potrebbe non essere uno strumento adeguato per affrontare gli shock asimmetrici. Infine, i paesi e le regioni alla
periferia dell’Unione potrebbero diventare depressi in
assenza di una politica regionale efficace.
Paragrafo 25.3
1. Considerati gli ingenti flussi di capitali a breve termine
che transitano quotidianamente per i mercati dei cambi,
molti economisti affermano che i governi sono costretti
a scegliere tra due regimi dei tassi di cambio estremi: la
fluttuazione libera o l’adesione a un’unione monetaria.
2. Ponendo un limite ai flussi finanziari, tuttavia, si potrebbe conseguire una maggiore stabilità dei tassi di cambio.
3. È possibile regolare i flussi finanziari introducendo controlli quantitativi, un’imposta sulle operazioni in valuta
oppure l’obbligo di conferire una certa percentuale dei
flussi di capitali in depositi infruttiferi presso la banca
centrale. Tali controlli possono attenuare la speculazione,
ma anche impedire al capitale di riversarsi negli impieghi
che presentano una maggiore produttività marginale.
4. Un metodo alternativo per conseguire una maggiore
stabilità valutaria consiste nel creare zone obiettivo dei
tassi di cambio, nelle quali le valute potrebbero fluttuare
all’interno di ampie bande attorno a una parità centrale,
periodicamente ritoccata in direzione del tasso di equilibrio fondamentale.
5. Questo sistema avrebbe il vantaggio di frenare la speculazione destabilizzante, poiché manterrebbe il tasso di
cambio generalmente in linea con il livello di equilibrio,
lasciando tuttavia ai governi qualche margine di manovra per perseguire una politica monetaria indipendente.
Tuttavia, di tanto in tanto potrebbe essere necessario
utilizzare la politica monetaria per mantenere il tasso di
cambio entro la banda di fluttuazione prestabilita.
100 Parte G – L’economia mondiale
Domande di ripasso
1. In quali circostanze la crescita dei flussi di capitali riduce
la stabilità dei tassi di cambio?
2. Ipotizziamo che i paesi dell’area dell’euro decidano
di perseguire una politica fiscale deflazionistica. Quali
effetti avrebbe questa decisione sull’economia del Regno
Unito?
3. Spesso si afferma che la convergenza internazionale
degli indicatori macroeconomici sia un obiettivo desiderabile. Questo significa forse che tutti i paesi dovrebbero
mirare ad avere uguali tassi di crescita economica, di
crescita monetaria o di interesse, e gli stessi disavanzi di
bilancio in percentuale del PIL e così via.?
4. I problemi di gestione dei tassi di cambio con cui si sono
scontrati i paesi membri dell’ERM rafforzano o indeboliscono le argomentazioni per proseguire verso una
singola valuta europea?
5. Ipotizziamo che solo alcuni membri di un mercato comune come l’UE creino un’unione economica e monetaria
completa, comprensiva di una moneta unica. Quali sono
i vantaggi e gli svantaggi per gli stati che aderiscono
all’UEM e per quelli che ne restano fuori?
6. L’eurozona è un’area valutaria ottimale? Spiegate.
7. Come vengono affrontati gli shock asimmetrici all’interno di un paese? In che misura questo processo può essere
replicato nell’area dell’euro?
8. Il mondo nel suo insieme trarrebbe beneficio dall’imposizione generalizzata di controlli sui movimenti internazionali di capitali?
online
Le soluzioni alle domande di ripasso e ulteriori supporti per la didattica e l’autoverifica
dell’apprendimento (animazioni grafiche, flashcard e test interattivi a risposta multipla) sono presenti
sul companion website del libro, raggiungibile dall’indirizzo http://hpe.pearson.it/sloman