VIII Seminario Nazionale di EDUCAZIONE INTERCULTURALE “Verso un nuovo umanesimo attraverso la revisione dei curricoli scolastici europei” 5 / 6 / 7 Settembre 2014 SENIGALLIA Andrea Fumagalli (Università di Pavia) IL LINGUAGGIO ECONOMICO E LA CRISI DI OGGI 1. Le parole dell’Economia Politica Ogni epoca economica porta con sé alcune parole guida che segnano il senso, predeterminano il linguaggio e influenzano il pensiero economico. a. Nel pensiero economico classico (1770-1870) le parole che predominano sono essenzialmente le seguenti: surplus, manifattura, lavoro (lavoro salariato e divisione del lavoro), crisi analisi critica del nuovo paradigma di accumulazione nascita e sviluppo del sistema capitalistico di produzione distribuzione, rendita, profitto, salario analisi critica della distribuzione del surplus b. Nel pensiero economico marginalista-neoclassico (1870-1930), le parole guida sono invece le seguenti: scambio di mercato, utilità, individuo, benessere, equilibrio, risparmio. c. Nel pensiero economico keynesiano e della sintesi neoclassica di Keynes (1930-1975), le parole più ricorrenti sono: moneta, settore pubblico, welfare, politica economico, investimento, crescita economica, disoccupazione, domanda aggregata, Pil. d. Nel pensiero economico neoliberista (1975-??), invece, troviamo: individualismo, libero scambio, concorrenza, privatizzazione, politiche anti-inflazione, austerity, merito, capitale umano, efficienza 2. I nodi teorici Due sono i principali approcci allo studio dell’economia politica, fra loro alternativi e non compatibili, che hanno caratterizzato il dibattito economico contemporaneo, a partire alla nascita dell’Economia Politica con Adam Smith. Il primo è l’approccio definito dell’Equilibrio Economico Generale (EEG) o individualistico , che a partire dalla fine del XIX secolo è divenuto dominante e controlla il meccanismo di cooptazione nella ricerca e nelle università, soprattutto anglosassoni. A tale approccio si contrappone quello che fa riferimento all’idea di economia politica come scienza sociale non riducibile ad un analisi individualistica, detto anche approccio eterodosso o storico, che ha le sue radici nel pensiero classico del XIX secolo, all’origine della stessa scienza economica. ***** La teoria individualista dell’EEG ricostruisce il funzionamento dell’economia come risultato di una miriade di decisioni individuali, decisioni che ogni attore economico prende in modo indipendente e seguendo il proprie autonomo interesse. Essa ritiene che la società sia composta da individui i quali, pur svolgendo funzioni economiche diverse (esistono, imprenditori, lavoratori, consumatori, risparmiatori, e via dicendo), hanno tutti accesso al mercato su un piano di parità. Il processo economico che viene decritto non é altro che la risultante (tramite semplice sommatoria) dei comportamenti individuali. Esso rappresenta la descrizione di una società “atomistica”. Il problema economico si riduce quindi allo studio delle condizioni di allocazione ottimale individuale (tra fini alternativi) di risorse naturali scarse date a priori. Questa famosa definizione di economia politica, che risale a Leonel Robbins (1898-1984) e che oggi è diventata la “definizione” per eccellenza della scienza economica contiene in nuce, di fatto, i principali fundamentals dell’approccio dell’EEG. E’ di fatto una definizione che già presuppone l’orientamento metodologico e analitico della scienza economica: è dunque una definizione “di parte”. Ogni termine utilizzato, infatti, è l’esito di una scelta di metodo e di un’opzione teorica. Il termine allocazione implica che il processo economico è riducibile solo ad attività di scambio: è lo scambio – ovvero, il consumo – che prevale sulla produzione, sull’investimento, sul finanziamento. Siamo in presenza di un economia di scambio. Gli attributi ottimale e individuale indicano che lo scambio è l’esito di scelte razionali massimizzanti (teoria utilitaristica) fatte a livello esclusivamente individuale, senza tener conto dei possibili effetti collaterali (mutua indifferenza). La locuzione risorse naturali date ci ricorda che tutti i beni che stanno alla base del benessere individuale derivano da risorse date in natura, la cui quantità è indipendente all’agire discrezionale dell’uomo. Di conseguenza, poiché la terrà (e la natura) è finita, si tratta di risorse per definizione scarse. Il periodo di maggiore diffusione e sviluppo dell’approccio dell’EEG è tra il 1870 e il 1930, quando lo scoppio della crisi del 1929-32 segnò la disconferma dell’approccio in termini di equilibrio economico generale (scambio di mercato, utilità, individuo, benessere, equilibrio, risparmio). Al giorno d'oggi, l'analisi individualista dell’EEG ha ripreso nuovo vigore con le scuole dei nuovi classici e in parte con la scuola dei neokeynesiani (questi ultimi si dichiarano seguaci del pensiero di J.M. Keynes, ma insistono nel costruire la teoria macroeconomica partendo da fondamenti rigorosamente microeconomici). Nel corso del secondo dopoguerra ebbe la preminenza accademica l’approccio definito della sintesi neoclassica di Keynes (J. Hicks, 19041989, P.A. Samuelson, nato nel 1915, e F. Modigliani, 1918-2003 ne furono i principali interpreti), teso a costruire un sistema di equilibrio economico generale (il modello IS-LM a prezzi costanti, di breve periodo, e il modello AS-AD a prezzi flessibili, di medio e lungo periodo) in grado di giustificare l’esistenza di un possibile equilibrio di sottoccupazione. La sintesi neoclassica di Keynes ha rappresentato il pensiero economico dominante nel periodo di egemonia del paradigma socio-economico fordista , nel quale l’intervento keynesiano di welfare favoriva il processo di accumulazione fondato sulla produzione e lo scambio di beni privati. (moneta, settore pubblico, welfare, politica economico, investimento, crescita economica, disoccupazione, domanda aggregata, Pil) Con la crisi del fordismo, nella prima metà degli anni Settanta, ritornano in auge le teorie dell’EEG più schierate a favore del libero mercato e contrarie al ruolo di intervento discrezionale dello Stato. E’ a partire dagli anni ’80 sino ad oggi che l’approccio individualista ha ripreso il suo pieno vigore grazie alle scuole monetariste (il cui capostipite è stato Milton Friedman, 1912-2006 con gli epigoni della cd. “Scuola di Chicago”) e delle aspettative razionale (i cui maggiori esponenti sono R. Lucas, nato nel 1937 e T. Sargent, nato nel 1943, che si sforzano di dimostrare come sia possibile raggiungere un equilibrio ottimale grazie alle sole forze del libero scambio di mercato (individualismo, libero scambio, concorrenza, privatizzazione, politiche anti-inflazione, austerity, merito, capitale umano, efficienza). L’attuale crisi economico-finanziaria, dopo anni di politiche di deregulation in nome del libero e ottimale funzionamento degli scambi di mercato, ha messo in crisi le posizioni più liberiste a vantaggio di quelle di derivazione più keynesiana. Tuttavia, i fundamentals della teoria dell’EEG, pur rielaborati in presenza di mercati non concorrenziali e in condizioni di informazione incompleta e asimmetrica, non sono stati sottoposti a una critica profonda. Ciò di cui si discute è piuttosto la necessità di introdurre regole più o meno istituzionali. L’impostazione alternativa (e originaria) dell’economia politica deriva dagli economisti classici (Adam Smith, 1723-1790, David Ricardo 1772-1823, Thomas R. Malthus, 1766-1834), nel pensiero di Marx (1818-1883), e in una serie di autori successivi, da Knut Wicksell (1851-1926), a Joseph Schumpeter (1883-1950) a John Maynard Keynes (1883-1946). Tutti costoro hanno in comune l'idea che l’economia politica debba studiare non già il comportamento del singolo individuo, ma quello dei gruppi che compongono la società e ne determinano la struttura. Per comprendere il funzionamento del sistema economico, dobbiamo chiederci quali sono le condizioni necessarie affinché la sua struttura si perpetui nel tempo, senza degenerare ed estinguersi. Una volta accertate queste condizioni di riproduzione, possiamo dedurne il comportamento che devono tenere i singoli (lavoratori, consumatori, imprese), affinché la struttura considerata continui ad esistere. L’approccio eterodosso presenta una visione della scienza economica che è diametralmente opposta e inconciliabile con l’approccio individualistica dell’EEG. Secondo l’approccio eterodosso, la società è formata da gruppi distinti e contrapposti, ciascuno dei quali occupa una posizione diversa e svolge ruoli distinti. Il processo economico è costituito da diverse funzioni economiche, ciascuna delle quali presuppone un ruolo sociale ben definito: la fase del finanziamento (che consente l’avvio della produzione) viene svolta dal sistema creditizio e dai rentier, quella della produzione è ad appannaggio della classe degli imprenditori, l’attività di consumo è prevalentemente svolta dalle classi lavoratrici. Nella visione degli economisti classici, i proprietari terrieri si contrappongono agli imprenditori-capitalisti, i quali possiedono i mezzi di produzione e sono in grado di gestire un'attività produttiva, nonché ai lavoratori, i quali altro non possono fare che vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Nella macroeconomia moderna, la classe dei proprietari terrieri scompare e i gruppi di operatori presi in considerazione sono banche, imprese e lavoratori. In questa teoria, l'analisi del comportamento dei gruppi sociali prende il posto dell'analisi individuale: soltanto dopo aver stabilito i confini tra le classi e gli obiettivi e le regole di azione di ciascuna classe è possibile ricostruire il funzionamento dell'intero processo economico. Tale strutturazione sociale è l’esito dell’evoluzione storica. Occorre quindi sempre prendere in considerazione il momento storico e le caratteristiche geografico-spaziali. L’evoluzione storica definisce i limiti della teoria economica. La storia dell'umanità ha conosciuto diverse strutture economiche, dall'economia schiavistica all'economia feudale, all’economia capitalistica di mercato, all'economia socialista. Ognuna di queste forme storiche esige una teoria economica diversa: non esiste quindi una teoria che sia in grado di spiegare il funzionamento di tutti i sistemi economici e che possieda validità universale. Il contesto economico attuale nei paesi occidentali, a seguito della rivoluzione industriale inglese e della rivoluzione francese di fine secolo XVIII, è caratterizzato dalla preminenza del sistema capitalistico di produzione. Ciò significa che la teoria economica ha come ragione d’essere lo studio e l’analisi del capitalismo. Il sistema capitalistico si svolge sulla base di un processo economico costituito da alcune fasi sequenziali e unidirezionali: finanziamento, accumulazione (produzione), realizzazione (consumo). Gli imprenditori, come si è detto, sono mossi dall’intento di accrescere la propria ricchezza. Poiché essi gestiscono le attività produttive, questa diventa anche la finalità dell'intero processo economico. L’imprenditore acquista lavoro allo scopo di ottenere un prodotto, venderlo e realizzare un profitto. Lo scopo della produzione è la realizzazione del profitto, non già il benessere dei consumatori. Il consumo ha la sola funzione di tenere in vita il lavoratore, che per il capitalista è una risorsa produttiva come le altre. L’attività economica si configura come un processo circolare: dalla produzione di merci, al consumo (che serve alla riproduzione dei lavoratori), al conseguimento di profitti, all'acquisto di nuove risorse, produzione di nuove merci, e così via in un ciclo continuo, in grado di sviluppare attività di accumulazione. Infine, la teoria eterodossa parte dalla constatazione che l'economia moderna è un'economia monetaria. Ciò comporta che tutti gli scambi vengono regolati in moneta e pone immediatamente il problema di stabilire come la moneta venga creata e introdotta nel sistema economico. Nelle economie moderne la moneta viene creata dal sistema bancario e messa a disposizione degli operatori attraverso la concessione di crediti. Poiché soltanto chi dispone di moneta può accedere al mercato, le decisioni con cui le banche concedono credito ad alcuni soggetti e non ad altri e la misura in cui il credito viene concesso diventano decisive per la configurazione finale del sistema economico. La creazione di moneta contribuisce quindi a determinare le quantità prodotte e la distribuzione del reddito nazionale. Di conseguenza, la moneta non può essere neutrale. ***** Le differenza principale tra le due impostazione si può ridurre al fatto che l’approccio dell’EEG descrive i funzionamento di un’economia di scambio: merce-denaro-merce, ovvero di un processo economico il cui scopo è l’allocazione di merci e servizi tramite la logica della domanda e dell’offerta (scambio), mentre l’approccio eterodosso descrive il funzionamento di un’economia monetaria di produzione: denaro-merce-denaro, il cui scopo e la generazione di un sovrappiù, espresso in termini monetari (profitto monetario) tramite un processo di accumulazione che ha origine nell’attività di investimento e quindi di produzione. Nel caso di un’economia di scambio, sono le condizioni di scambio a determinare le modalità di produzione, mentre nel caso di un’economia monetaria di produzione sono le condizione di investimento e di accumulazione (via produzione) a definire le modalità dello scambio. 3. La crisi economica di oggi e le sue interpretazioni L’interpretazione dell’attuale crisi economica dipende dal tipo di approccio economico considerato. Per i teorici dell’EEG, non esiste il concetto di “crisi”. Esiste il concetto di “disequilibrio”, ovvero quella situazione in cui non è possibile definire nella congiuntura di breve periodo un equilibrio tra domanda e offerta. E ciò avviene, allora ne consegue un instabilità dei prezzi che genera incertezza, informazioni asimmetriche e imperfette e quindi può generare comportamenti non perfettamente razionali. La condizione di equilibrio come uguaglianza tra domanda e offerta implica l’esistenza di un prezzo di equilibrio stabile e se le scelte economiche in termini di domanda e offerta degli individui sono libere e non soggette a qualche forma di rigidità o costrizione, qualunque situazione di disequilibrio, in presenza di piena flessibilità dei prezzi, è destinata a perdurare poco tempo perché le forze del libero scambio ricreeranno una nuova situazione di equilibrio in modo endogeno. Ciò vale per qualunque scambio, dal mercato del lavoro ai conti pubblici. Ne consegue che l’esistenza di disoccupazione dipende dal disequilibrio che si registra sul mercato al lavoro (a prescindere da come l’attività di produzione delle imprese – che domandano lavoro – viene organizzata). In particolare, da un eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda. Per raggiungere l’equilibrio è così indispensabile diminuire il prezzo del lavoro (salario) perché si possa ristabilire l’equilibrio. Da qui nasce il senso comune che la disoccupazione è figlia di un eccesso di rigidità sul mercato del lavoro che impedendo la riduzione dei salari non consente il raggiungimento della piena occupazione. Non è un caso che negli ultimi trent’anni sono stati prese più volte – anche con l’avvallo di sindacati compiacenti – decisioni in materia di controllo delle dinamiche salariali o di incremento della precarietà (vedi l’ultimo Job Act con la totale liberalizzazione del CTD e dell’apprendistato) sempre con la giustificazione di ridurre la disoccupazione. Lo stesso approccio vale anche per l’analisi dei conti pubblici. Nell’ambito del settore pubblico, l’esistenza di deficit annuali strutturali che si traducono in un aumento costante del debito pubblico è a sua volta indice di un disequilibrio. L’equilibrio macroeconomico, infatti, non è solo definito dall’uguaglianza tra domanda e offerta ma anche dall’equilibrio contabile relativo ai conti dello Stato e ai conti con l’Estero. L’equilibrio di bilancio pubblico e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti sono infatti condizioni necessarie (anche se non sufficienti) per raggiunger un equilibrio macroeconomico e garantire stabilità ed efficienza ad un paese. E’ sulla base di queste premesse, che si delineano i suggerimenti di politica economica che stanno alla base del credo liberista: 1. Eliminare tutto ciò che impedisce la piena flessibilità dei prezzi di qualunque merce e servizio (lavoro compreso); 2. Eliminare quindi le rigidità che impediscono la piena libertà di scambio e la piena concorrenza tra gli attori economici: strutture organizzative e istituzionali come i sindacati nel caso del mercato del lavoro, cartelli, alleanze oligopolistiche, rendite di posizioni nel mercato della produzione grazie all’operato dell’Antitrust; 3. Ridurre al minimo il ruolo dello Stato se non come operatore di ultima istanza sia nel decidere le “regole del gioco” che nell’intervenire in condizione di “sussidiarietà” laddove l’iniziativa privata non è in grado o non ha interesse ad intervenire. 4. Adottare politiche economiche che hanno come obiettivo, sul piano fiscale, di mantenere l’equilibrio del bilancio pubblico (sul modello del Fiscal Compact) sino a inserire nelle Costituzioni nazionali l’obbligo di pareggio di bilancio, sul piano monetario, di fissare e garantire “credibilmente e autorevolmente” l’emissione di una data quantità di moneta tale da rendere stabili i prezzi e sul piano valutario garantire la piena flessibilità dei tassi di cambio come uno unico strumento per raggiungere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. I punti sopracitati rappresentano il quadro di riferimento economico adottato dalle autorità economiche per risolvere la crisi. Inizialmente nel primo periodo della crisi, iniziata con lo scoppio della bolla dei subprime, l’indicazione dominante nell’oligarchia Usa è stata quella di non contrastare i processi di selezioni degli istituti finanziari che erano maggiormente esposti. Ma dopo il fallimento di Lehmann Brothers e il rischio che si sviluppasse un contagio tale da far collassare l’intero mercato del credito e dei titoli finanziari su scala se non globale sicuramente anglosassone, si è cambiata rapidamente opinione. A fronte della crescente incertezza che minava sempre più una delle ipotesi base della teoria dell’EEG, vale adire la presunta razionalità strumentale dell’homo oeconomicus, e con la scusa del “too big to fail” (“troppo grande per fallire”), si è provveduto a iniettare tanta liquidità monetaria (tramite un intervento concertato della Federal Reserve, Baca Centrale del Giappone, della Gran Bretagna, e dell’Australia, con il beneplacito della BCE) quanta era stata distrutta dal crollo dei titoli subprime. Tale intervento ha avuto come effetto quello di tamponare l’emorragia della crisi ma ha aperto il destro a ciò che il giornalismo economico mainstream ha chiamato il rischio (e poi emergenza) “default” di alcuni paesi, soprattutto euro-mediterranei. Da qui la necessità di instaurare politiche di austerity e di controllo dei bilanci pubblici soprattutto in Europa per allontanare tale spettro e tranquillizzare, secondo le parole degli stessi sostenitori, i mercati finanziari (intesi come entità oggettiva, quasi metafisica). Scarsa è stata al riguardo l’analisi dei mercati finanziari, il più delle volte rappresentati come perfettamente concorrenziali come dimostrato dall’elevata volatilità dei prezzi dei titoli, segnale che nessuna posizione dominante, secondo la teoria dell’EEG, poteva operare ma solo la legge della domanda e dell’offerta. I risultati sono stati una profonda recessione economica, che ha colpito particolarmente l’Italia, già affetta da problemi strutturali derivanti dagli anni passati. ***** L’interpretazione della crisi attuale da parte dell’approccio in termini di economia monetaria di produzione è molto diverso, se non opposto. La crisi è stata causata dalla crisi della governance dei mercati finanziari, che hanno assunto negli ultimi decenni un ruolo centrale e pervasivo, in grado di condizionare tutto il processo economico, dalla fase di finanziamento degli investimenti sino alla distribuzione del reddito e all’erogazione di servizi di pubblica utilità e di welfare, ora del tutto privatizzati. In un contesto di economia finanziaria di produzione, dove poche multinazionali della finanza sono in grado di controllare e indirizzare i trend borsistici (altro che perfetta concorrenza!) e di creare liquidità tramite le plusvalenze, fuori dal controllo delle Banche Centrali (anzi, in grado di condizionare e indirizzare le scelte di quest’ultime), l’instabilità diventa strutturale. Due sono i motivi fondamentali: 1. Gli effetti distributivi dei mercati finanziari e la stagnazione dei redditi da lavoro accentua la polarizzazione dei redditi e ha effetti recessivi sui consumi e sulla domanda aggregata. Fintanto che l’effetto ricchezza (generato dalle plusvalenze finanziarie) sui redditi più alti è in grado di compensare la riduzione del potere d’acquisto dei redditi più bassi, la governance economica imposta ad uso e consumo degli interessi dei mercati e della speculazione finanziaria regge. Ma ciò non può continuare all’infinito e quindi con intervalli di tempo sempre più brevi le crisi tendono a susseguirsi sempre più velocemente e si possono superare solo con la definizione di una nuova convenzione finanziaria: negli anni ’90 era la internet economy, negli anni 2000, era l’effetto traino sul commercio internazionale della Cina dopo l’ingresso nel Wto e il boom del real estate e della casa negli Usa, oggi potrebbe essere la green economy o chissa! 2. In un’economia monetaria di produzione, l’accumulazione si realizza grazie all’attività di investimento, che necessita di essere finanziata. Ciò significa che è tramite un atto di indebitamento che si realizza la produzione. Senza debito non c’è creazione di ricchezza, né produzione, né crescita economica. Nel capitalismo contemporaneo, in cui la finanzia ha sostituito il credito (parliamo infatti di economia finanziaria di produzione), l’attività di investimento finanziata solo dalle plusvalenze è investimento di tipo speculativo, di breve periodo, che non ha effetti rilevanti sull’economia reale. E’ necessario quindi creare un secondo canale di finanziamento (ovvero di debito) in grado di sostenere la domanda e compensare l’iniqua distribuzione del reddito, al fine di rendere sostenibile il sistema economico. E tale secondo canale di finanziamento dovrebbe essere rivolta a favorire lo sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di rete (learning and network economies) che oggi sono alla base della crescita della produttività e quindi della crescita economica. In ultima analisi si tratta di investire anche in welfare e nella qualificazione della forza lavoro, nonché nell’attività di ricerca & sviluppo. Partendo da queste presupposti, l’approccio eterodosso è fortemente critico contro i vincoli posti al bilancio pubblico nel nome del pareggio di bilancio. Anzi, condizione perché i rapporto debito/pil possa ridursi non è la riduzione del debito in valore assoluto (il numeratore) ma l’aumento del PIl (il denominatore). Non solo le politiche di austerity sono la prima causa della recessione economica (con tutti gli effetti sociali che ne conseguono) ma, anzi impediscono la riduzione del rapporto debito/pil. 4. I confronti con le crisi passate: 1929, 1975 Posizioni altrettanto divergenti all’interno del pensiero economico erano presenti soprattutto riguardo l’interpretazione della crisi degli anni ’30. A quel tempo, l’interpretazione che andava per la maggiore spiegava la persistenza della disoccupazione come l’esito di uno squilibrio del mercato del lavoro in seguito a salari troppo elevati. Tali salari eccessivi erano il risultato della conflittualità operaia che aveva preso piede a cavallo degli anni Venti del secolo scorso, quando le forze sindacali erano riuscite a ottenere il massimo potere contrattuale possibile a quel tempo. Non è un caso infatti che a partire dal 1922 e per gli anni seguenti, anche grazie alla neocostituita FBI di Hoover, si scatenò una pesante ondata repressiva che mise fuorilegge i sindacati e anniento lo sviluppo del primo sindacato dell’industria moderna, IWW (Industrial Workers of the World). Ciò portò a una drastica perdita di potere d’acquisto dei salari già a partire dalla metà degli anni Venti, ben prima quindi della crisi degli anni Trenta, al punto che, come racconta la “leggenda”, l’industria Ford aveva proposto un forte aumento dei salari per far fronte alla carenza di manodopera. A tale interpretazione della crisi si era opposto J.M.Keynes che invece imputava la crisi a ragioni diametralmente opposte, ovvero il livello troppo basso dei salari, che, impedendo un adeguato livello di consumo, impediva che la domanda aggregata fosse tale da consentire la vendita dei prodotti delle imprese e favorire la realizzazione di profitti. Il consumo, infatti, secondo Keynes, rappresentava (e rappresenta tuttora) la componente principale della domanda: inoltre i salari sono la fonte di reddito per la maggior parte delle famiglie meno ricche, che hanno perciò una propensione marginale al consumo più elevato (ovvero spendono quasi tutto il reddito percepito in misura relativamente superiore alle famiglie più ricche1). Ne consegue, secondo Keynes, che un aumento dei salari ha un effetto moltiplicatore della domanda molto più elevato e ciò favorisce, appunto, la vendita dei prodotti ed evita situazione di sovrapproduzione. Inoltre, nel caso di una domanda insufficiente, è sempre possibile un intervento della domanda pubblica, in grado di aumentare l’occupazione. L’interpretazione della crisi degli anni ’30 fornita da Keynes si è poi rivelata corretta. E’ infatti con il New Deal di Roosevelt e il programma di opere pubbliche (pensiamo ad esempio al Golden Gate Bridge sulla baia di San Francisco) che gli Stati Uniti cominciano a uscire dalla depressione. Sarà poi la II guerra Mondiale a stimolare ulteriormente la domanda pubblica e la domanda aggregata e a imbastire le politiche pubbliche europee a sostegno del welfare come motore della crescita occupazionale e del Pil. La crisi degli anni Settanta ha invece origine assai diverse e una differente natura. Se la crisi degli anni ’30 poteva essere considerata una crisi di crescita del nuovo modello di accumulazione che oggi chiamiamo Fordista che si fondava sull’automazione di fabbrica, la standardizzazione della produzione e il consumo di massa, la crisi degli anni Settanta può essere letta come la crisi del paradigma fordista. E quindi crisi di saturazione e non crisi di crescita. 1 Ciò non significa, ovviamente, che le famigliepiù povere consumano in termini assoluti più delle famiglie ricche ma solo che risparmiano di meno.