UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA DIPARTIMENTO DI FISICA E SCIENZE DELLA TERRA “MACEDONIO MELLONI” Corso di laurea magistrale in Scienze per la Conservazione e il Restauro L’uso del natrun nell’imbalsamazione nell’Antico Egitto. Uno studio sperimentale sulla pelle del maiale (Sus Scrofa Domesticus) Relatore: Prof. Maria Grazia Bridelli Correlatori: Prof. Giancarlo Salviati Prof. Danilo Bersani Tesi di Laurea di: Elena Ginevra Foresti Anno Accademico 2012-2013 Indice Introduzione …………………………………………………………………………………………………………………… 6 Capitolo 1: L’arte della mummificazione 1.1 Terminologia “confusa”……………………………………………………………………………………... 10 1.2 Post mortem …………………………………………………………………………………………………………. 11 1.3 Le condizioni ambientali ………………………………………………………………………………….. 13 1.4 Nascita ed evoluzione della tecnica ………………………………………………………………. 14 1.5 Le fonti antiche ………………………………………………………………………………………………….. 19 1.6 I procedimenti d’imbalsamazione ……………………………………………………………….... 21 1.7 Rituali, amuleti e credenze …………………………………………………………………………….. 24 1.8 Gli imbalsamanti ………………………………………………………………………………………………. 26 Capitolo 2: Il natrun 2.1 Fonti dirette ………………………………………………………………………………………………………… 29 2.2 I molteplici impieghi ………………………………………………………………………………………… 30 2.3 In natura ………………………………………………………………………………………………………………. 31 2.4 Tesi contrapposte sulla sua modalità d’impiego nell’imbalsamazione.. 34 Capitolo 3: Anatomia comparata 3.1 Caratteristiche generali della cute ………………………………………………………………… 36 3.2 Tegumento esterno del maiale ……………………………………………………………………… 37 3.3 Anatomia della cute umana ……………………………………………………………………………. 41 3.4 In sintesi, affinità e differenze …………………………………………………………………….… 47 Capitolo 4: Le macromolecole costituenti della pelle 4.1 Le proteine ………………………………………………………………………………………………………….. 49 4.2 Il collagene ……………………………………………………………………………………..………………….. 54 4.3 I lipidi ………………………………………………………………………………………………………………….. 58 Capitolo 5: Le tecniche analitiche 5.1 Spettroscopia infrarossa (FT-IR) in trasmissione ed in riflessione ……… 60 5.2 Identificazione delle bande IR delle proteine …………………………………………… 68 5.3 Determinazione della struttura secondaria di una proteina da uno spettro IR …………………………………………………………………………………………………………… 70 5.4 Identificazione delle bande IR dei lipidi …………………………………………………….. 72 5.5 Strumentazione impiegata per le analisi FT-IR in trasmissione ed in riflessione ……………………………………………………………………………………………………………. 73 5.6 Microscopia elettronica a scansione (SEM) ………………………………………………. 73 5.7 Strumentazione usata per le analisi SEM ………………………………………………….. 80 5.8 Microspettroscopia Raman ……………………………………………………………………………. 80 5.9 Strumentazione usata per le analisi Raman ………………………………………..…… 84 Capitolo 6: Archeologia sperimentale 6.1 Produzione del natrun e sua analisi …..………………………………………………………… 85 6.2 Preparazione dei campioni di pelle di maiale per il trattamento con il natrun ………………………………………………………………………………………………………………..… 93 6.3 Procedura seguita post trattamento …………………………………………………………… 95 6.4 Preparazione dei campioni per le analisi ………………………………………………….. 97 6.5 Le mummie della Collezione Marro …………………………………………………………… 99 Capitolo 7: Risultati e discussione Analisi FT-IR 7.1 Confronto tra la pelle umana e la pelle suina …………………………………………… 101 7.2 Analisi generale degli spettri a confronto ………………………………………………… 107 7.3 Analisi della regione della banda OH stretching …………………………………….. 114 7.4 Analisi della regione della banda Amide A ………………..……………………………. 123 7.5 Analisi delle bande Amide I e II ………………………………………………………………….. 127 7.6 Considerazioni su i lipidi ………………………………………………………………………………. 133 7.7 Le tracce lasciate dal natrun nei campioni di pelle suina …………………… 135 Analisi SEM 7.8 Immagini in catodoluminescenza e in secondari …………………………………… 138 7.9 Analisi semi-quantitativa del sale nel tessuto cutaneo suino ………………. 141 Analisi Raman 7.10 Ricerca del natrun all’interno del tessuto cutaneo suino …………………… 144 Le mummie egizie 7.11 La presenza del sale nel tessuto mummificato ………………………………………. 148 7.12 Natrun secco o in soluzione? Valutazione circa la metodologia d’imbalsamazione ……………………………………………………………………………………………………. 154 Conclusioni …………………………………………………………………………………………………………………. 156 Appendice 1 ………………………………………………………………………………………………………………… 158 Appendice 2 ……………………………………………………………………………………………………………….. 160 Appendice 3 ……………………………………………………………………………………………………………….. 162 Appendice 4 ……………………………………………………………………………………………………………….. 163 Bibliografia ………………………………………………………………………………………………………………….. 165 Ringraziamenti ”Il sangue ti appartiene, Iside; gli incantesimi ti appartengono, Iside; la magia ti appartiene, Iside: essi sono l’amuleto che protegge questo Grande, respingendo chi vorrebbe nuocergli.” Libro dei Morti, formula 156 Introduzione I resti umani antichi rappresentano una ricchezza insostituibile per la conoscenza paleoetnoantropologica e scientifica degli studi concernenti l’Uomo. Sono in effetti un archivio di dati biologici in grado di fornire informazioni sulle caratteristiche genetiche delle popolazioni del passato, sulle loro condizioni di salute, sui meccanismi di adattamento alle condizioni ambientali, sulle loro abitudini alimentari e, più in generale, sul loro stile di vita. Per queste ragioni, il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio ha considerato e reso, a tutti gli effetti, le collezioni di interesse etnoantropologico, “Beni Culturali”. Il documento contiene indicazioni specifiche su temi di legislazione, gestione, ricerca, fruizione e salvaguardia delle raccolte e costituisce, quindi, un autorevole strumento atto alla tutela e alla valorizzazione dei reperti antropologici, nell'ambito delle attività di gestione dell'archivio antropologico e delle attività volte alla conservazione. Tra le collezioni antropologiche, quelle di mummie si distinguono per la peculiarità delle informazioni che si possono ricavare. Con il termine mummia si intende un corpo, umano o animale, che conserva i tessuti molli e gli organi interni per centinaia o migliaia di anni dopo la morte, grazie a processi spontanei oppure indotti, volti ad arrestare il processo di decomposizione. I procedimenti attuati dagli Antichi Egizi per questa pratica non sono ancora del tutto noti. Essi sono da ricollegare alla sfera religiosa e al culto dei morti: infatti, convinti dell’immortalità dell’anima, gli Antichi Egizi credevano che non si potesse vivere serenamente nell’oltretomba se il corpo non si fosse mantenuto integro. Per questa ragione le complesse tecniche d’imbalsamazione assumo un’importanza fondamentale nella cultura Egizia. Numerosi gli scienziati e gli umanisti che hanno dedicato la vita a studiare questa serie di complessi e meticolosi passaggi che preservano i corpi. Questo progetto di tesi si inserisce all’interno di un contesto di ricerca più ampio e tuttora in corso che prevede la collaborazione tra l’Ateneo di Parma, l’Università di York e l’Università degli Studi di Torino. Questo lavoro si propone di indagare le prime e decisive fasi della tecnica d’imbalsamazione dei corpi praticata dagli Antichi Egizi, attraverso l’utilizzo delle medesime sostanze naturali da loro adoperate. Lo studio si è articolato secondo successivi punti. Dapprima, attraverso le fonti, ci siamo documentati circa la natura delle sostanze impiegate nel processo d’imbalsamazione e abbiamo così riprodotto in laboratorio 6 l’elemento fondamentale che consentiva la disidratazione del corpo, cioè il natrun, una miscela polifasica di sali di sodio. Successivamente, seguendo le diverse scuole di pensiero, abbiamo trattato con suddetto materiale i campioni ricavati da pelle suina, dopo aver verificato la compatibilità tra i tessuti umano ed animale. L’esperimento ha previsto l’applicazione di due metodologie differenti di trattamento: la prima, che consiste nella ricopertura del tessuto con sale secco, è da sempre considerata dagli egittologi come l’unico metodo possibile di trattamento del corpo di cui si avvalevano gli Antichi Egizi; la seconda, secondo la quale il tessuto è stato immerso in soluzione salina satura, è basata sull’ipotesi formulata dai collaboratori di York, secondo i quali, all’epoca del massimo splendore tecnologico della tecnica di imbalsamazione (XVIII dinastia), la disidratazione dei corpi doveva essere eseguita secondo questa procedura, immergendo i corpi in apposite vasche contenenti la soluzione satura di natrun. Sono seguite le analisi con le strumentazioni per individuare e studiare le alterazioni subite dalle macromolecole costituenti la pelle. In ultimo, si è proceduto con il confronto tra alcuni campioni di pelle di mummie Egizie (Collezione Marro, Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università degli Studi di Torino), ed i nostri campioni, al fine di individuare sia la presenza del sale, sia valutare le due ipotesi di trattamento considerate, in base alle modificazioni strutturali dei tessuti cutanei. Per affrontare questo studio sperimentale abbiamo optato per l’utilizzo di tre diverse tecniche d’indagine che potessero integrarsi l’una l’altra. Le tecnica principale è stata la spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier, le altre, a completare la ricerca, sono state la microscopia elettronica a scansione e la spettroscopia Raman. La presente tesi è stata organizzata in sette capitoli, ultimando con le conclusioni. Il capitolo 1, “L’arte della mummificazione nell’Antico Egitto”, vuole essere una ricerca nelle fonti, antiche ed attuali, della tecnica impiegata per la pratica d’imbalsamazione. Il capitolo 2, “Il natrun”, considera la principale sostanza naturale sfruttata dagli Antichi Egizi per la disidratazione dei corpi. Il capitolo 3, “Anatomia comparata”, mette a confronto le caratteristiche morfologiche e strutturali dei tessuti cutanei umano e suino, al fine di giustificare la validità della scelta dei campioni utilizzati per condurre l’esperimento. 7 Il capitolo 4, “Le macromolecole costituenti della pelle”, è una rassegna delle proprietà strutturali delle macromolecole proprie del tessuto cutaneo. Il capitolo 5, “Le tecniche analitiche”, descrive le tecniche diagnostiche utilizzate per le analisi. Il capitolo 6, “Archeologia sperimentale”, illustra le fasi di preparazione dei materiali che sono state seguite durante il lavoro: la produzione del natrun, il trattamento cui sono stati sottoposti i campioni di pelle suina, la preparazione dei campioni per procedere con le analisi e la descrizione dei campioni di pelle di mummia esaminati. Il capitolo 7, “Risultati e discussione” presenta i risultati ottenuti con le diverse tecniche e la loro presentazione. Conclusioni. Comprendere pienamente l’importanza di quali modificazioni subiscono le macromolecole presenti nel corpo umano, sottoposto ad un trattamento volto alla sua conservazione, permette di ricostruire parte della tecnica e delle conoscenze appartenute ad un popolo che, da sempre, ha suscitato un particolare fascino. Lo studio, attraverso le analisi scientifiche effettuate, delle tracce lasciate dalle sostanze naturali impiegate e la decifrazione dell’alterazione delle proteine, che rispetto al DNA si degradano molto meno rapidamente, dà modo alla scienza di dare un contributo significativo alle discipline archeologiche ed umanistiche che si propongono di perpetuare la conoscenza storica. 8 “La tua Anima è in Cielo, il tuo corpo, sotterrato, giace inerte e che il tuo corpo, imbalsamato e intatto, rimanga preservato per l’Eternità” Libro dei Morti, capitolo 169 Capitolo 1: L’arte della mummificazione nell’Antico Egitto Pensando alle mummie, la prima immagine che viene in mente è quella di una mummia reale egizia. In realtà si hanno numerose testimonianze che attestano che diversi popoli, come gli Inca per nominarne uno, erano soliti conservare il corpo dei propri antenati; questo processo avveniva per lo più grazie alle favorevoli condizioni ambientali (ad esempio le temperature rigide sulle Ande oppure il caldo estremamente secco nelle zone desertiche), ma solamente per la cultura Egizia si può parlare di “Arte della mummificazione” poiché essa veniva effettuata con metodi artificiali che hanno raggiunto un livello di perfezione assoluto che rende ancora oggi possibile ammirare le fattezze e i lineamenti dei volti di questi individui giunti a noi da un passato remoto. 1.1 Terminologia “confusa” È necessaria una precisazione a livello terminologico, distinguendo tra le parole mummificazione ed imbalsamazione. La parola mummificazione ha origine dal persiano mum che passò poi al greco bizantino, al romano e al latino medievale mumia e all’arabo mumiyya. Il vocabolo mum, il cui significato è cera, indicava un tipo di bitume estratto in Persia (attuale Iran) e precisamente dalla “Mummy Mountain”, una montagna nota per le sue colate di materiale nero bituminoso che si credeva avesse proprietà medicinali; furono alcuni viaggiatori greci, arrivati in Egitto in epoca tarda, che definirono i corpi mummificati degli Antichi Egizi “mummie” in virtù della somiglianza del colore con il catrame proveniente da quel luogo e che, per questo, si pensò essere impiegato nella pratica d’incorruttibilità dei cadaveri [1, 2]. La mummificazione è però un fenomeno naturale che impedisce al corpo di decomporsi. Il termine imbalsamazione proviene dal greco bàlsamom, balsamo, ma è di origine semitica da interpretare con l’ebraico vanal-sciam-in, olio profumato [a]. Con questo termine si indicano i processi chimici e l’impiego di composti che impediscono la putrefazione di un corpo. L’imbalsamazione ha dunque le stesse finalità della mummificazione, ma è ottenuta attraverso la manipolazione del cadavere con l’impiego di sostanze chimiche ed una procedura ben definita. Il termine mummia è pertanto usato impropriamente ed indistintamente per indicare sia corpi mummificati sia corpi imbalsamati, ma questa differenza era ben nota agli Antichi 10 Egizi. Nell’antica lingua egizia abbiamo una distinzione linguistica nella definizione di corpo morto che era chiamato Khat ed il cadavere imbalsamato e bendato, detto Ui [1]. Il culto della morte, per gli Egizi, era molto importante. Ogni persona dentro di sé pensava di racchiudere tre aspetti spirituali: il ka era la “forza vitale” dell’individuo che veniva rappresentata, sulle pareti della tomba o nel sarcofago, come la copia esatta dell’uomo che gli si affiancava nelle immagini; esso si realizzava solo dopo la morte garantendo la vita eterna, ma perché ciò avvenisse era indispensabile l’integrità del corpo. Il ba rappresentava una forza totalmente legata all’individuo (era l’insieme di energie fisiche e psichiche); veniva rappresentata come un piccolo uccello con la testa umana che non sopravviveva senza la presenza del corpo del defunto. L’akh era un principio solare, l’energia divina proveniente dalla creazione e infusa nell’uomo; garantiva la stabilità di tutto ciò che era stato creato. Alla morte, saliva in cielo andando a far parte degli akhu, i “luminosi”, i defunti meritevoli che avevano raggiunto questo stato tramite la trasfigurazione all’interno della tomba [6]. Irrinunciabile era anche il nome del defunto che veniva scritto sulle pareti della tomba, sulla fornitura funeraria e sulla stele all’interno della cappella di culto. La distruzione del corpo e/o la cancellazione del nome compromettevano irreparabilmente la sopravvivenza del defunto nell’oltretomba. Pesatura del cuore svolta in presenza del defunto sotto il controllo del dio Thot e delle due dee della giustizia, Louvre, Parigi. 1.2 Post mortem Pochi minuti dopo il decesso inizia una serie di eventi legati alle modificazioni enzimatiche che occorrono all’interno delle cellule stesse. Si possono identificare le seguenti fasi: 11 Algor mortis: la temperatura corporea diminuisce progressivamente fino al raggiungimento della temperatura ambiente. Nelle prime 3-4 ore la temperatura si abbassa di 0,5°C/ora poiché prosegue la produzione di calore derivata dall’attività cellulare residua. Nelle successive 10 ore si abbassa di 1°C/ora. Oltre questo tempo l’abbassamento si riduce progressivamente a 0,75°C/ora, 0,5°C/ora e 0,33°C/ora per 12 ore fino alla temperatura ambiente. L’algor mortis risente dell’età del soggetto, della sua massa grassa e della sua vestizione, oltre alla temperatura, all’umidità e alla ventilazione dell’ambiente; Livor mortis: è una fase caratterizzata dal ristagno e dall’accumulo di sangue nei vasi periferici (ipòstasi) a causa della cessazione della circolazione sanguigna. Inizia dopo 2 ore dal decesso e perdura fino a 8-12 ore; Rigor mortis: fase in cui il cadavere appare via via sempre più irrigidito a causa dell’arresto post mortem della produzione di ATP, composto che fornisce l’energia per la contrazione muscolare. La sua scomparsa favorisce l’ingresso di calcio nelle cellule favorendone la contrazione. Il rigor mortis interessa prima la mandibola (23 ore dopo la morte), si estende ai muscoli superiori e poi a quelli degli arti inferiori, completandosi in circa 12 ore. L’irrigidimento si mantiene per 36-48 ore e successivamente, con la comparsa dei primi fenomeni autolitici, riprende la flaccidità del cadavere e anche le articolazioni ritornano mobili. Così il corpo inizia a decomporsi. Dapprima si ha l’autolisi che consiste nell’autodistruzione dei tessuti molli ad opera sia di batteri ed enzimi provenienti dall’ambiente circostante (funghi e/o microrganismi), sia di batteri ed enzimi proteolitici intracellulari che si liberano dopo la morte delle cellule stesse che degradano le proteine, i grassi e i carboidrati costituenti i tessuti. Nel 1951 Van Harren dà un’indicazione della composizione approssimativa del nostro corpo, che risulta essere formato da: 64% acqua, 20% proteine, 10% grassi, 1% carboidrati e 5% minerali. Il processo autolitico, che è condizionato dalla temperatura, inizia generalmente 48-72 ore dopo la morte. Successivamente si ha l’autodigestione che avviene ad opera di fermenti proteolitici dei succhi gastrici (gastrico, pancreatico e duodenale). I microrganismi presenti nell’intestino (flora batterica gastrointestinale, ad esempio Clostridium) e nel tratto respiratorio (di origine esogena) invadono i tessuti corporei. Gli organismi aerobi esauriscono l’ossigeno disponibile nei tessuti, favorendo lo sviluppo dei batteri anaerobi. Ovviamente un ambiente ricco di ossigeno favorisce la decomposizione. I batteri interni si diffondono in 12 tutto il corpo provocando la formazione di gas (acido solfidrico, metano, ammoniaca, anidride carbonica, ecc.) che rigonfiano il cadavere e che vengono rilasciati in un secondo momento per via rettale. Talvolta possono portare alla distruzione dei visceri e alla lacerazione della pelle. Da 4 a 10 giorni dopo la morte, le componenti aminoacidiche delle fibre muscolari vengono attaccate dai batteri e trasformate in composti diaminici tipici della decomposizione: la putrescina e la cadaverina. La velocità del processo dipende dalla temperatura. A seguito della putrefazione, il processo di decomposizione continua con la liquefazione e la disintegrazione, lasciando i resti scheletrici articolati ai legamenti. La scheletrizzazione continua con l’alterazione dei tessuti più resistenti, quali cartilagini, ossa e denti, fino a quando rimane solo la componente inorganica. Focalizzeremo successivamente la nostra attenzione sui componenti costituenti il tessuto che interessano maggiormente lo studio [3, 4]. 1.3. Le condizioni ambientali La temperatura gioca un ruolo determinante nel processo di mummificazione: in condizioni di gelo o, al contrario, di temperature torride si verifica l’arresto del processo di putrescenza e l’inizio della mummificazione del corpo. Nella prima condizione si ha mummificazione per congelamento, nella seconda, dove abbiamo un clima secco, privo d’umidità, ventilato ed alte temperature, si ha la disidratazione del corpo che, provocando la perdita dell’acqua, ne impedisce la putrefazione. La disidratazione deve avvenire in tempi rapidi. La mummificazione naturale si realizza a partire dal 10° al 30° giorno del decesso ed impiega da 2 a 18 mesi per l’essiccamento completo. Il cadavere perde tutta l’acqua ed il suo peso si riduce da un minimo di metà ad un massimo di tre quarti; il corpo s’irrigidisce e la pelle assume l’aspetto del cuoio. Ci sono poi altri ambienti naturali molto particolari che possono provocare la mummificazione dei corpi, ad esempio le paludi della Florida dove i bod bodies risalgono a 7000 anni fa, oppure le torbiere dell’Europa centro-settentrionale con corpi risalenti a 3000-2000 anni fa [3], ma queste tipologie di mummia non verranno considerate in questa sede. Considereremo invece le mummie egizie del periodo predinastico e dinastico. Il deserto egiziano ha un clima caldo e secco. Le temperature in estate raggiungono molto facilmente i 43-45°C, con punte oltre 50°C; le precipitazioni sono molto scarse per non dire assenti, soprattutto nella zona interna sahariana [b]. 13 1.4 Nascita ed evoluzione della tecnica Le popolazioni preistoriche della Valle del Nilo seppellivano i propri morti in fosse ovali poco profonde, scavate nella sabbia. Il cadavere veniva steso rannicchiato sul fianco sinistro, con la testa rivolta verso sud ed il volto verso ovest, in direzione del sole calante. Sul corpo nudo erano disposte pelli di animali o stuoie ed il corredo funerario era perlopiù costituito da vasellame da mensa e da armi per la caccia. La fossa, alle volte, era segnalata da un tumulo o da una fila di pietre. Il diretto contatto con la sabbia rovente provocava istantaneamente un fenomeno di disidratazione dando luogo alla mummificazione del corpo. Fu casuale, probabilmente, il ritrovamento di questi corpi da parte degli Egizi dell’età Tinita (I e II dinastia, 3150 – 2925 a.C.) [1]. Le informazioni riguardanti le abitudini quotidiane degli Egizi scarseggiano e le informazioni più cospicue sono fornite dagli studi sulle necropoli delle comunità predinastiche collegate agli insediamenti. Le “città dei morti” erano collocate lontano dagli abitati al limitare delle aree desertiche: le ipotesi a tal proposito formulate più accreditate affermano che si optasse per luoghi lontani dai terreni fertili adibiti alle coltivazioni e che fossero lì ubicate per preservarle dalle frequenti esondazioni del Nilo. Mummia di epoca predinastica con corredo funebre, British Museum, Londra. Il modello di inumazione prevalente per tutto il periodo predinastico prevedeva fosse ovali, alcune delle quali ricoperte con stuoie sostenute da pioli; le pareti venivano rinforzate con mattoni crudi se il terreno non era abbastanza solido. Le sepolture di ElAmrah e Gebelein del periodo di Naqada, che va dal 3900 al 3100 a.C., hanno rivelato una prima possibile manipolazione del cadavere che veniva inizialmente deposto nella sabbia fino al termine del ciclo naturale di mummificazione, estratto da questa, privato degli 14 eventuali residui organici, disarticolato e poi inumato definitivamente. La disarticolazione e la seguente risepoltura viene citata nei Testi delle Piramidi e nel Libro dei Morti ed è da ricondurre all’espressione “mettere insieme le ossa”, che si rifà probabilmente al mito di Osiride a cui si fa risalire la nascita del rituale [1]. È Plutarco, nel De Iside et Osiride, a fornirci distesamente il mito per svelare la sostanziale concordanza tra la dottrina sacra delle divinità venerate dagli Egizi e il mito degli Dei che dimorano nell’Olimpo: Osiride, dio dei morti, fu ucciso a tradimento da fratello Seth ed il suo corpo fu smembrato in 14 pezzi che vennero sparsi in tutto l’Egitto. Iside, sua sposa e sorella, trovò i pezzi eccetto il membro, li ricompose e ne diede sepoltura a File o ad Abido. Così Osiride resuscitò, comparve ad Horo, suo figlio, per addestrarlo alla lotta contro Seth, il quale fu vinto dal giovane Dio. Osiride, Iside ed Horo formano la triade sacra, in cui Osiride è l’origine, il principio generativo, Iside l’elemento ricettivo in grado di generare la vita ed Horo il prodotto della loro unione [5]. La speranza di vita ultraterrena e il miglior modo possibile di accedervi dettero inizio all’elaborazione delle pratiche funerarie a partire dagli inizi del periodo storico. I primi tentativi vedevano l’avvolgimento della salma in bende di lino, la testa coperta da un cesto affinché la sabbia non entrasse dagli orifizi e, sotto di essa, la disposizione di un cuscino. Per il sovrano e i dignitari si costruivano delle cappelle chiamate mastaba (nella figura di seguito riportata), a più camere su due livelli: nelle stanze più in superficie venivano deposti vasellame, mobilio funerario e varie offerte e nella camera in profondità, in un pozzo, giaceva il corpo del defunto [7]. Rappresentazione schematica di una mastaba Le tombe più modeste, invece, erano costituite da casse in legno e le fosse venivano scavate in profondità nel suolo [6]. 15 La tipologia delle sepolture iniziava quindi a diversificarsi a seconda dello status sociale del defunto, ma il cadavere, che non era più a contatto diretto con la sabbia, si decomponeva. Si dovette ricorrere a sistemi artificiali per garantire l’integrità dei corpi, dunque si procedette con l’eviscerazione e la disidratazione dei tessuti. Inizialmente le tecniche erano rudimentali e certamente non furono pochi gli insuccessi. Le prime tracce certe d’imbalsamazione sono state rinvenute nel 1925 a Giza da G. A. Reisner nella tomba della regina Hetepheres, madre del re Cheope. Era una sepoltura reale della IV dinastia (2625 - 2510 a.C.): un sarcofago in pietra, sigillato, con all’interno quattro vasi canopi contenenti i visceri imbalsamati immersi in una soluzione di natrun (si veda paragrafo 3.2). Questa fu la prima attestazione dell’utilizzo del natrun in soluzione [7, 8]. Nell’epoca Tinita (I e II dinastia, 3150 – 2925 a.C.) e nell’Antico Regno (dalla III alla VI dinastia, 2700 – 2181 a.C.) l’imbalsamazione era riservata al sovrano e alla sua famiglia, per gli altri si procedeva con la fasciatura in bende di lino ricoperte da uno strato di gesso sul quale si dipingeva l’immagine del defunto con particolare attenzione al viso ed agli organi genitali. Il colore più frequente era il verde che simboleggiava rigenerazione, rinascita. I sarcofagi in legno e di forma quadrata comparvero nella seconda dinastia. La postura rannicchiata venne abbandonata nel corso della III dinastia, ad eccezione delle classi più povere, a favore della posizione distesa con gli arti bendati separatamente: le braccia lungo i fianchi ed il corpo adagiato sul fianco sinistro con il capo rivolto ad oriente, verso il sole nascente. Il sarcofago assumeva dunque forma rettangolare; il ceto più ricco disponeva di materiali resistenti, quali il calcare ed il granito. In assenza dell’eviscerazione, però, il processo di decomposizione non si arrestava. Nel Medio Regno (2060 – 1786 a.C.) è attestata in tutti i casi la rimozione degli organi interni con loro deposizione all’interno di quattro vasi canopi, i “Figli di Horo”, identici tra loro e chiusi da un coperchio a forma di testa umana. Nelle figure alcuni esempi di vasi con coperchio antropomorfo conservati al Museo del Cairo, Egitto. 16 All’interno dei sarcofagi rettangolari si iscrivevano testi funerari. A partire da quest’epoca la testa e le spalle del defunto venivano protette da una maschera (realizzata in oro per i sovrani) che ne riproduceva le fattezze. Il materiale tradizionale era il cartonnage, un materiale composto da strati di lino o di papiro pressati e rinforzati con gesso o resina. Nel Secondo Periodo Intermedio (dalla XIII alla XVII dinastia, 1786 – 1552 a.C.) si diffuse un sarcofago particolare detto rishi in cui il corpo del defunto era decorato con piume. I dignitari e i componenti della famiglia reale venivano chiusi in una serie di sarcofagi, uno dentro l’altro, come una matriosca. Fu un periodo caratterizzato dall’invasione hyksos (termine derivato dall’egiziano heqa kasut, “principi dei territori stranieri”), popoli presumibilmente di origine asiatica, che rappresentò la più grave occupazione del territorio egiziano e che provocò un generale impoverimento economico che si rifletté sulla tecnica dell’imbalsamazione, la quale subì un arresto [7]. Con l’ultimo re tebano della XVII dinastia, Amosis, e fondatore della XVIII dinastia, ci fu continuità tra le due dinastie e si ebbe un progressivo rafforzamento della casata regnante. È di questo periodo la nascita dei sarcofagi antropomorfi (neb-ankh ovvero “Signore della Vita”) che avevano l’intento di comparare il defunto ad Osiride. I sovrani venivano sepolti in tre bare (di cui la più interna in oro massiccio), chiuse in un grande sarcofago di pietra; a sua volta esso era chiuso in quattro o cinque sacrari in legno dorato, ricoperti da immagini e testi sacri. Con il Nuovo Regno (1552 – 1069 a.C.) l’arte dell’imbalsamazione raggiunse un altissimo livello di raffinatezza. Venne introdotta l’ablazione del cervello ed i visceri imbalsamati (polmoni, stomaco, fegato ed intestino) erano posti nei vasi canopi che subirono un mutamento estetico in funzione del loro concetto teologico: il vaso con coperchio antropomorfo, rappresentante Imseti, custodiva il fegato; Hapi, il babbuino, conteneva i polmoni; Qebehsenuf, il falco, racchiudeva l’intestino; Duamutef, lo sciacallo, proteggeva lo stomaco. Il cuore veniva lasciato al proprio posto in quanto sede del pensiero e delle emozioni. Il bendaggio della salma era estremamente puntuale, fasciando tutte le parti singolarmente (dita incluse). Nel Terzo Periodo Intermedio, dalla XXI dinastia (1069 – 656 a.C.), le iscrizioni sui sarcofagi lasciarono spazio alle immagini, dando luogo a bare policrome. La pietra scomparve e si tornò all’uso del legno; anche l’uso dei vasi fu abbandonato e le interiora venivano riposte all’interno del corpo (i vasi continuarono a far parte del corredo). Fu l’apice: il lavoro minuzioso includeva il posizionamento nelle cavità oculari di occhi 17 artificiali ottenuti da involti di stoffa dipinti o tramite piccole pietre bianche nelle quali venivano incastonate pietre più piccole nere. A sinistra un sarcofago di Butehamon in legno decorato con immagini e testi sacri appartenente alla XXI dinastia, terzo periodo intermedio (990-970 a.C.), proveniente da Tebe, TT291, in seguito Collezione Drovetti, 1824, ora alla Fondazione delle Antichità Egizie di Torino. A destra i vasi canopi delle collezione della Fobdazione delle Antichità Egizie di Torino. Sotto sono riportate due fotografie con le dita delle mani e dei piedi del re Ramesse II, mummia conservata al Museo Egizio del Cairo. Verso la fine del Terzo Periodo Intermedio e durante la Bassa Epoca (672 – 332 a.C.), che corrispondono all’inizio del declino della civiltà egizia, ricomparvero sia i sarcofagi in pietra sia l’utilizzo dei vasi canopi; sul coperchio della bara veniva raffigurato il defunto con la testa sproporzionatamente grande rispetto al resto del corpo; erano questi molteplici tentativi d’impreziosire l’artificio, ma la tecnica dell’imbalsamazione, in realtà, si era impoverita molto. Durante il Periodo Tolemaico (332- 30 a.C.) i corpi venivano spalmati con una sostanza nera bituminosa che irrigidiva e appesantiva le salme di cui, sotto le bende, rimaneva solamente lo scheletro. 18 Con l’avvento del Cristianesimo i Copti abbandonarono definitivamente la pratica d’imbalsamazione, anche se i più tradizionalisti perpetuarono la tecnica fino a quando l’imperatore Teodosio la vietò, nel 392 d.C. [1]. 1.5 Le fonti antiche Fonti egizie che riportino esattamente le diverse operazioni condotte nel processo d’imbalsamazione non esistono. Per la ricostruzione di questa lunga e laboriosa procedura ci si basa sia sui testi greci e latini realizzati secoli dopo, sia sulle iscrizioni lasciate dagli Antichi Egizi sui sarcofagi, sulle pareti degli edifici sepolcrali e nei papiri. Lo storico greco Erodoto di Alicarnasso (Alicarnasso, 484 a.C. – Thurii, 425 a.C.) nel Libro II delle sue Storie descrive, con una certa precisione, le tre tipologie d’imbalsamazione utilizzate a seconda delle disponibilità economiche della famiglia del defunto, delineando tutti i passaggi. “IL COMPIANTO FUNEBRE Ecco come compiono i lamenti funebri e le sepolture. Se muore loro un qualche familiare di riguardo, tutte le donne della casa si ricoprono di fango la testa o anche il viso; quindi, lasciato il morto in casa, si percuotono andando e venendo per la città con vesti succinte e mostrano le mammelle, e vanno con loro tutte le donne del parentado. Gli uomini si percuotono da un’altra parte, anch’essi con vesti succinte. Dopo aver fatto ciò, portano il corpo alla mummificazione.” [85. 1, 2] “LA MUMMIFICAZIONE CANONICA Ci sono persone che attendono proprio a quest’opera e possiedono quest’arte. quando si porta loro un cadavere, mostrano a quelli che l’hanno portato modelli in legno di cadaveri, dipinti al naturale; dicono che la forma d’imbalsamazione più accurata è quella di colui che in siffatta circostanza non è lecito nominare: quindi ne mostrano una seconda inferiore e più modesta, poi una terza modestissima; detto ciò, domandano loro come vogliono che sia preparato il cadavere. Gli altri, accordatisi sul prezzo, se ne vanno. Quelli che restano nei laboratori procedono in tal modo alla mummificazione più accurata: in primo luogo con un ferro ricurvo estraggono il cervello attraverso le narici; parte lo estraggono così, parte versandovi farmaci. Quindi, tagliando lungo l’addome con una pietra etiopica appuntita, ne tirano fuori tutti i visceri; li purificano e li puliscono con vino di palma; li puliscono di nuovo con aromi tritati. Poi, riempito il ventre di mirra pura tritata, di cassia e di latri aromi, escluso l’incenso, lo ricuciono. Fatto questo, lo mettono a mummificare in un bagno di nitro, lasciandolo per settanta giorni: farlo mummificare più di tanto non è possibile. Quando sono trascorsi i settanta giorni, lavano il cadavere e avvolgono tutto il corpo con bende tagliate in un lenzuolo di bisso, spalmandole di gomma, che gli egizi usano per lo più al posto della colla. I parenti allora lo ritirano, fanno fare un’immagine in legno a forma di uomo e, fattala fare, vi rinchiudono il cadavere: dopo averlo chiuso così, lo custodiscono in una camera sepolcrale, collocandolo dritto contro un muro.” [86. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7] “MUMMIFICAZIONI PIU’ MODESTE Così’ preparano i cadaveri nella maniera più suntuosa: invece, per quanti desiderano la via di mezzo e rifuggono dal grande dispendio, li preparano come sugue: dopo aver riempito i clisteri con olio ricavato dal ginepro, ne riempiono il ventre del 19 cadavere, senza tagliarlo e senza togliere i visceri ma, introducendo l’olio dal sedere e impedendo che il flusso torni indietro, mettono a mummificare il corpo per i giorni prescritti; l’ultimo giorno fanno uscire dal ventre l’olio di ginepro che prima vi avevano introdotto. Quest’olio ha una tale forza da portare fuori con sé i visceri e le interiora dissolte: il nitro a sua volta dissolve le carni, e del cadavere lascia solo la pelle e le ossa; dopo aver fatto tutto ciò, il cadavere lo consegnano così, e non se ne hanno più cura.” [87. 1, 2, 3] “Il terzo tipo di mummificazione è il seguente, e con essa si preparano i meno abbienti. Puliti i visceri con del rafano, tengono il cadavere a mummificare per i settanta giorni: quindi lo danno da portar via” [88.] “ACCORGIMENTI NECESSARI Le donne e gli uomini eminenti, quando muoiono, non le danno subito a mummificare, e neppure le donne che siano molto belle e di maggior conto; esse invece sono consegnate ai mummificanti il terzo o il quarto giorno dalla morte. Fanno così per questo motivo: affinché i mummificatori non si congiungano con le donne. Dicono infatti che uno fu preso mentre si congiungeva con un cadavere di donna ancora fresco, e che a denunciarlo fu il suo compagno di lavoro.” [89. 1, 2] [9]. Diodoro Siculo (Agyrion, 90 a.C – 27 a.C.), nella sua Bibliotecha Historica, parla anch’egli di tre tipologie d’imbalsamazione, descrivendo solo la più costosa, ma riportando il prezzo di tutte e tre. In aggiunta al precedente scritto afferma che il mestiere dell’imbalsamatore veniva tramandato di padre in figlio e precisa che la linea d’incisione per l’estrazione dei visceri era tracciata da uno scriba. “Ma se alcuno ode le loro cerimonie intorno ai morti, non avrà meno ad ammirarne la singolarità. Ove avvenga che presso loro alcuno muoia, tutti i parenti e gli amici, coi capelli sparsi di polvere, mettonsi a vagare per la città, altamente piagnendo sino a tanto che il cadavere non sia stato seppellito. E in questo intervallo di tempo si astengono dal bagno, dal vino, e da ogni più lauto cibo; né mettonsi vesti alcun poco eleganti. Tre sorta di funerali usansi: vi sono i suntuosissimi, i mediocri, gl’infimi. Ne’ i primi si spende un talento d’argento; ne’ i secondi venti mine; e gli ultimi non costano che pochissimo. Coloro, che hanno la cura del funerale, esercitano l’arte come fu loro tramandata da’ maggiori. Incominciano dal domandare a’ domestici del morto, nell’atto che loro lo consegnano, come vogliano che gli si celebrino le esequie; e tosto che si sono intorno a ciò ben intesi, danno il cadavere a’ ministri destinati a fare quanto secondo l’uso occorre. Il primo di questi, che chiamano scriba, steso il cadavere in terra, segna quanto si debba tagliare intorno al fianco destro del lato. Allora l’incisore viene, e con una pietra etiopica tagliato quanta carne la legge prescrive, subito si mette a fuggire, e tutti quelli, che erano presenti, lo inseguono gittandogli dietro sassi, e dicendogli improperj, come addosso a lui intendano di rovesciare la colpa di un misfatto; essendo persuasione degli Egizj, che sia degno d’olio a qualunque di un corpo della natura del proprio faccia violenza, o lo ferisca o in qualsivoglia modo gli faccia del male. Al contrario trattano con ogni onore e rispetto colore che imbalsamano i cadaveri; vivendo costoro famigliarmente co’ sacerdoti, e liberamente entrando nel sacrario, essendo essi medesimi persone sacre. Tosto poi che questi imbalsamatori vengano all’opera, alla quale sono chiamati, uno di essi introdotta pel foro già fatto fino ai precordj la mano, ne trae fuori gli intestini tutti, eccetto il cuore, e i reni; e un altro nettato l’avo e, tutte le viscere, lava le 20 une e le altre con vino di palma, e con acque aromatiche. Quindi per più di trenta giorni lo tengono lavato e concio, prima con l’olio di cedro, e con le altre cose simili; poi con mirra e cinamomo, ed altre materie proprie non solo a conservarlo lunghissimamente, ma eziandio a tenerlo fragrantissimo; e così imbalsamato lo restituiscono ai parenti con tanta integrità di tutte le membra, che si veggono perfino i peli delle palpebre e de’ i sopraccigli; e così resta senza mutazione veruna tutta la fisionomia, che perfettamente vi si riconosce l’effigie della forma primiera. E quindi molti degli Egizj nelle magnifiche cappelle di famiglia conservano i cadaveri de’ loro maggiori, e sì espressamente vere dopo molti secoli, dacché furono al mondo, ne veggono le fattezze, che mirando il complesso della persona, e i lineamenti della faccia, provano lo stesso piacere che avrebbero, se quelli ancora vivessero con esso loro. […]” [10]. È Plutarco (Choronea, 46/48 d.C. – Delfi, 125-127 d.C.) ad informare che le interiora, estratte dal corpo, venivano portate all’esterno ed esposte al sole a cui veniva recitata una preghiera che invocasse la rettitudine del defunto (le cattive azioni commesse in vita erano da imputare alle viscere e non al defunto) e successivamente gettate nel Nilo. Erano sede dei pensieri malvagi in contrapposizione al cuore e ai reni, lasciati, come detto in precedenza, all’interno del corpo poiché lì dimoravano i sentimenti nobili e i ricordi [1]. Certamente le conoscenze in merito a quest’arte erano segrete e trasmesse oralmente, cosa che ha fatto sì che gli storici delle epoche successive ricostruissero con inevitabile imprecisione le tecniche, gli strumenti e le diverse sostanze impiegate. 1.6 I procedimenti d’imbalsamazione Come già esplicitato sopra, le tecniche d’imbalsamazione erano di tre tipologie a seconda delle risorse economiche della famiglia del defunto. Le operazioni previste per l’imbalsamazione più curata e costosa erano: 1. Ablazione del cervello: il corpo veniva innanzitutto lavato con una soluzione di natrun per ripulire la pelle da ogni impurità. L’imbalsamatore procedeva con la rimozione del cervello inserendo un uncino in bronzo, lungo da 27 a 34 cm e terminante con una spirale, in una delle narici; spingendo verso il cranio, sfondava l’osso etmoide e, con movimenti ripetuti, estraeva la massa cerebrale in pezzi. Un’alternativa era di estrarlo dalle orbite dopo aver rimosso gli occhi. Alle volte si optava per la decapitazione del cadavere e dunque la rimozione avveniva attraverso il foro occipitale; la testa veniva poi infilata su un bastone e ricollocata sul tronco con l’ausilio di bende (procedura impiegata per il fondatore della XVII dinastia, il sovrano Ahmose). L’ablazione del cervello era effettuata solo per persone di rango elevato, negli altri casi veniva lasciato al proprio posto; 21 2. Eviscerazione: uno scriba tracciava sul fianco sinistro (le fonti sono imprecise, alcune affermano che sia il fianco destro) la linea lungo la quale veniva effettuata l’incisione di circa dieci centimetri. Era praticata verticalmente o obliquamente o, ancora, orizzontalmente a seconda del periodo storico. Attraverso essa venivano estratti, introducendo una mano, gli organi interni nell’ordine: intestino, stomaco, fegato, milza e, alle volte, i reni. La vescica rimaneva al proprio posto. Si sfondava poi il diaframma per asportare la trachea e l’esofago, per poter estrarre i polmoni. Il cuore permaneva nella sua collocazione originaria. Un altro modo di procedere, meno frequente e per persone meno abbienti, era l’introduzione di oli nell’ano affinché producessero il parziale dissolvimento degli organi; 3. Primo lavaggio del corpo: il cadavere veniva lavato esternamente ed internamente con acqua e vino di palma per eliminare ogni residuo. Poteva essere depilato con pinzette in bronzo al fine di restituirgli la giovinezza; 4. Trattamento dei visceri: l’intestino tenue, lo stomaco con l’intestino crasso, il fegato ed i polmoni venivano lavati e coperti di natrun che ne provocava l’essicazione. Erano poi cosparsi di resina calda e avvolti in bende e deposti nei quattro vasi canopi (o all’interno del corpo per il periodo della XXI dinastia); 5. Disidratazione del corpo: veniva utilizzato il natrun che ha la capacità di eliminare l’acqua e di sciogliere i grassi. La fase di salatura è talmente importante che Erodoto per definire la procedura di imbalsamazione usa il verbo (taricheuo) che, in altri contesti, serviva per indicare la conservazione sotto sale degli alimenti. È ancora aperta la questione sull’ipotesi che non sia stato utilizzato natrun secco, ma una soluzione di acqua e natrun. Molti studiosi sono inclini a pensare che fosse natrun secco; gli archeologi non hanno mai rinvenuto vasche, ma un gran quantitativo di tavoli anatomici (in pietra, con le due fiancate scolpite in forma di leone dal corpo allungato, le teste del felino ad un capo del tavolo dove veniva appoggiata la testa del defunto e le gambe in foggia di zampe. Il tavolo, leggermente inclinato per favorire lo scolo dei liquidi, aveva nella parte terminale un bacino semicircolare che raccoglieva i liquidi corporei). Si pensa quindi che il cadavere, deposto su questi tavoli, venisse ricoperto da uno spesso strato di natrun per una durata minima di 40 giorni. All’interno del corpo erano deposti dei sacchetti contenenti la stessa sostanza che dovevano favorire l’essiccamento dall’interno e impedivano l’afflosciamento della parete addominale. 22 Il natrun disidratava i tessuti e nello stesso tempo veniva a contatto con l’acqua prodotta dagli stessi, dando luogo ad una soluzione alcalina altamente concentrata, che provocava lo scioglimento dei grassi. Erodoto scrive di un “bagno nel natron” per un tempo di 70 giorni: si pensa sia un’imprecisione dovuta alla sua scarsa conoscenza della lingua egizia; per quanto riguarda la durata, si crede che egli intendesse il procedimento completo; 6. Secondo lavaggio del corpo: una volta completata la disseccazione, il corpo veniva deposto entro giare nelle quali veniva lavato dentro e fuori con grandi quantità d’acqua. Si procedeva poi con l’asciugatura; 7. Riempimento delle cavità: si riempiva la cavità cranica colando la resina calda attraverso l’orifizio del naso; l’addome e il torace venivano riempiti con licheni secchi, segatura, resina e tamponi di lino che ricostituivano la forma originale; 8. Trattamento di unghie, occhi e genitali: le unghie, prima del trattamento con il natrun, venivano legate con un filo affinché non si staccassero; esso poteva essere eventualmente rimosso e le unghie tinte con l’henné. Gli occhi, che si scioglievano a causa del natrun, venivano sostituiti da involti di stoffa dipinta o da pietre bianche e nere. Degli organi genitali femminili venivano asportate le parti interne e quelle esterne venivano chiuse con tamponi di lino o spalmate di resina. Gli organi genitali maschili erano lasciati al loro posto ed il pene bendato e posto in una statuetta cava rappresentate il dio Osiride (rifacendosi al mito); 9. Unzione e massaggio del corpo: al termine dell’essiccamento la pelle era dura ed aveva l’aspetto del cuoio. Si procedeva con un massaggio con olio di olibano (ricavato dall’incenso) iniziando dalla testa e procedendo lungo il corpo; 10. Trattamento del corpo con la resina: l’imbalsamatore poneva degli involti di tela nella bocca, rimodellava il naso e ne chiudeva le narici con cera o grani di pepe. In epoca tarda veniva apposta sulla lingua una placca d’oro. Il corpo era dipinto di rosso per gli uomini e di giallo per le donne. Si procedeva a versare all’interno del corpo della resina con cui si cospargeva anche l’esterno (dopo il punto 11) che causava un notevole infragilimento della mummia. Dalla XXI dinastia venivano inseriti, nello strato sottocutaneo, cera, sabbia, segatura o involti di lino per restituire le rotondità dei fianchi, del seno, delle natiche e delle guance. Il Papiro Magico di Rhind elenca una serie di diciassette incisioni per tale operazioni; 23 11. Apposizione della placca di metallo sull’incisione del fianco: alle volte era ricucita grossolanamente, altre sigillata con cera calda o, nel caso dei sovrani, si apponeva una placca in bronzo o in oro che poteva essere incisa con l’occhio di Horo, udjat; 12. Bendaggio: esistevano tre tipologie di stoffe, tutte realizzate in lino: i sudari, le bende e gli involti destinati a riempire i vuoti. Prima che iniziasse il bendaggio il corpo era lasciato riposare qualche giorno (solo così si spiega la presenza di uova e pupe di insetti necrofagi). Le bende mostrano iscrizioni: preghiere, il nome, ecc. L’imbalsamatore procedeva dal capo, fasciava separatamente ogni dito di mani e piedi, le braccia messe in posizione e fasciate separatamente, poi il torace, l’addome ed infine le gambe, distribuendo lungo il corpo una serie di amuleti. Si avevano più strati di bende impregnate di resina di modo che aderissero meglio agli strati sottostanti. In punti del corpo predeterminati, tra gli strati, si ponevano gli amuleti. La mummia era deposta in un grande sudario giallo di 4,5 x 1,2 metri, tenuto in posizione da alcuni giri di bende. Questa operazione durava circa quindici giorni. Terminato il bendaggio si apponeva una maschera riproducente i caratteri fisionomici del defunto. La seconda tipologia, più modesta, prevedeva il lavaggio del corpo, il riempimento attraverso l’orifizio anale con olio di cedro che, avendo grande potere fermentante, permetteva lo scioglimento degli organi interni e la chiusura dell’ano con un tampone. Si procedeva disidratando con l’utilizzo del natrun. Prima di procedere alla fasciatura, meno accurata rispetto alla tecnica precedentemente descritta, si toglieva il tampone di modo che le viscere liquefatte fossero espulse grazie all’effetto dei gas di fermentazione dell’olio. La terza pratica d’imbalsamazione, la più economica, prevedeva il semplice disseccamento del corpo con il natrun e un bendaggio grossolano [1]. 1.7 Rituali, amuleti e credenze Dopo 3-4 giorni dal decesso, il corpo veniva traghettato sul Nilo verso la riva occidentale, dove si trovava la necropoli. L’equipaggio della barca era composto da otto persone: tre uomini ai comandi, un sacerdote, due imbalsamatori e due prefiche, ovvero donne assoldate per piangere il defunto nei cortei funebri. Si giungeva così alla tenda, chiamata ibu, “Tenda della Purificazione”, dove avveniva il lavaggio del corpo. Veniva poi trasferito nella uabet, “Luogo della Purificazione”, dove si procedeva all’estrazione dei visceri e al trattamento con il natrun. Il gruppo degli addetti all’imbalsamazione era 24 capeggiato dal “Superiore dei Misteri” che indossava una maschera raffigurante Anubi, un assistente, il “Portatore del sigillo del dio” ed alcuni sacerdoti di rango inferiore chiamati utu. Gli imbalsamatori custodivano i loro strumenti in cofanetti, detti hen (contenti anche oro, incenso, natrun e bende) che erano posti sotto la tutela di Anubi, capo degli imbalsamatori e custode della necropoli. Fatto ciò, il corpo veniva trasferito nella per- nefer, “Casa della Perfezione”, dove avvenivano l’imbottitura, il bendaggio, l’applicazione degli oli sacri e il posizionamento della maschera. Pronta la mummia, veniva organizzato un corteo con in testa un carro trainato da buoi che trasportava il sarcofago, seguiva un altro carro che trasportava i vasi canopi e dietro, i sacerdoti, le prefiche e la famiglia con i conoscenti. Davanti alla tomba veniva costruita una struttura temporanea, la sekh, nella quale veniva svolto l’ultimo rito; infine si procedeva con il pasto funebre ed i resti dello stesso venivano stoccati in giare. La processione dello scriba regale e intendente dei possedimenti di Horemheb e di Amon nella tomba TT255 Affinché la protezione del corpo imbalsamato fosse garantita, venivano inseriti tra le bende numerosi amuleti. Maggiore era il rango sociale del defunto e più alta era la qualità e la quantità degli amuleti. La loro collocazione prevedeva la lettura di formule speciali da parte di un sacerdote, come riporta il Libro dei Morti. Gli Egizi credevano che lo scarabeo si generasse dal nulla; veniva appoggiato sul cuore per impedire che questo testimoniasse contro il defunto al cospetto di Osiride; aveva dimensioni variabili da pochi millimetri a più di 10 cm ed erano realizzati in pietra (lapislazzuli, feldspato verde, cornalina, faïence), alle volte con una montatura in oro. L’occhio udjat era spesso portato come ciondolo al collo (anche in vita) poiché si riteneva che, oltre ad avere un forte potere protettivo, donasse salute e vitalità dato che simboleggiava l’occhio sinistro di Horo, strappatogli da Seth durante la lotta e successivamente risanato magicamente: era in pietra o faïence, di dimensioni variabili e generalmente collocato sulla placca cerosa o metallica dell’incisione. Il pilastro djed era in corrispondenza del petto o dell’addome ed indicava la colonna vertebrale di Osiride, con valenza di stabilità e d’incorruttibilità. Il tjt, detto “Nodo di Iside”, evocava la cintura della dea; aveva colore rosso ad imitazione del sangue, da 25 collegare al parto e posto fra le spalle e il ventre. La croce ankh era il simbolo della vita per eccellenza in feldspato, cornalina, lapislazzuli o faïence. La peses-kef, una lama in basalto, ossidiana, steatite o serpentino, garantiva l’uso di tutte le capacità dell’individuo nell’Aldilà. Il papiro wadj simboleggiava la fertilità e la rigenerazione ed era di colore verde. Un amuleto a forma di poggiatesta, ures, in ematite, era posto sotto il capo per impedirne la caduta o il furto [1]. 1.8 Gli imbalsamanti I materiali necessari all’imbalsamazione non erano sostanze qualsiasi. Dietro ognuna di esse troviamo un significato che è stato teorizzato nei culti egizi. I liquidi, che sono gli stessi per gli dei e per gli uomini, hanno poteri particolari se appartengono al Dio. In linea di massima tutto ciò che emana dal corpo divino e tocca terra è produttivo. Derchain nel suo Papyrus Salt scrive che la morte di Osiride provocò uno choc affettivo: “Horo pianse. L’acqua si versò dall’occhio a terra e germinò; così si produsse l’olibano secco. Geb stette male a causa di ciò; del sangue gli colò dal naso a terra, germinò e spuntarono dei pini. Così si produsse la resina di terebinto. Ra pianse di nuovo e l’acqua del suo occhio cadde a terra. Si mutò in ape. Appena creata l’ape cominciò la sua opera nei fiori di tutti gli alberi. Così si produsse la cera mentre il miele veniva dalla sua acqua. Ra si sentì stanco; il sudore del suo corpo cadde a terra, germinò e si trasformò in lino; così fu prodotta la tela … Egli sputò e vomitò; così fu creato il bitume” [11]. Il diffuso utilizzo di oli estratti da piante e di altre sostanze naturali indicano che gli imbalsamatori erano consci delle loro speciali proprietà che potevano essere sfruttate per le pratiche d’imbalsamazione. Venivano utilizzati materiali diversi, che sono stati identificati grazie alle analisi effettuate sui corpi e sugli oggetti prelevati dai luoghi di sepoltura; l’uso di tali materiali trova conferma anche nelle fonti scritte. Di seguito, brevemente, un elenco di quelle maggiormente impiegate: resine di conifere: specificatamente si trattava di alberi di pino, ginepro e cedro. L’olio di pino venne impiegato nel Terzo periodo Intermedio e nel periodo Romano; i suoi costituenti principali (monoterpeni, acidi isopimarico, abietico e deidroabietico) e gli oli essenziali presenti, esercitano la loro azione contro i batteri gram-positivi e gram-negativi, oltre all’azione antifungina. Il ginepro veniva usato nel Primo Periodo Intermedio; è un forte antimicrobico, inibente dei batteri gram-positivi e gram-negativi grazie ai suoi componenti (resine, pinene, borneolo, inositolo, limonene, terpinene e cimene) ed ai suoi oli essenziali, usati anche come 26 pesticidi. L’olio di cedro veniva iniettato nel corpo (usato per il trattamento di imbalsamazione più economico), ma era ideale anche per il trattamento delle cavità corporee dopo lavaggio con olio di palma; contiene oli essenziali e alcuni ingredienti (monoterpeni, sesquiterpeni ed atlantolo) che combattono l’azione distruttiva di funghi, batteri ed alcuni insetti, come pulci e zecche; gomma mastice: usata nei periodi del Nuovo Regno, nel Terzo Periodo Intermedio e nel Periodo Tolemaico, è una resina naturale, giallognola e semitrasparente che essuda dai tronchi di alberi di Pistacia lentiscus, ogni anno, nel periodo compreso tra luglio ed ottobre. Alcuni ingredienti (triterpeni, oleani ed eufani) hanno proprietà antisettiche ed effetti antimicrobici; mirra: usata nel Nuovo Regno per uccidere e tener lontano gi insetti, è un ottimo repellente per artropodi ed ha proprietà antisettiche, grazie componenti quali α– pinene, idrocarburi sesquiterpenici (C15H24) ed acidi formico ed acetico; cera d’api: impiegata dall’Antico Regno al periodo Romano serviva per suturare gli orifizi di naso, orecchie, bocca, genitali femminili ed incisione addominale. Ha colorazione da gialla a bruna ed è composta da: 47% esteri, 14% idrocarburi, 12% acidi, 1% alcoli liberi e 6% altro. Resiste agli acidi e agli enzimi; bitume: è una miscela complessa di idrocarburi alifatici ad alto peso molecolare. Potevano essere utilizzati in miscela con cera d’api (per le imbalsamazioni più economiche) o con resine, ma questo solo a partire dall’epoca Tolemaica fino al periodo Romano. Alcuni studi hanno però messo in evidenza la presenza di bitume anche in una mummia risalente alla prima dominazione persiana; cassia: usata verso il 2600 d.C., contiene alcuni composti (canfora, dipentene, limonene, pinene, steroli di-, tri- e sesqui-terpenoidi) che hanno proprietà antimicrobiche, antisettiche e antifungine, oltre a tener lontano gli insetti; cipolla: è un antimicrobico ed un antiossidante contro agenti patogeni e raggi UV. Un papiro medico egizio riporta diverse formule terapeutiche a base di cipolla anche per problemi di vermi intestinali. Fu ampiamente utilizzata dal Nuovo Regno fino al Terzo Periodo Intermedio; hennè: usato nel Nuovo Regno, alcuni dei suoi composti hanno effetti antibatterici; licheni: usati nel Nuovo Regno come antibatterici e antifungini. L’acido usnico provoca significativi effetti tossici agli insetti e alle larve di questi ultimi, perciò risultano essere ottimi antiproliferativi verso diversi sistemi biologici [15]. 27 Resine, cere, oli, spezie, ecc., sebbene importanti dal punto di vista rituale, hanno giocato un ruolo certamente inferiore rispetto al natrun nel processo di preservazione del corpo [15]. 28 Capitolo 2: Il natrun Il passaggio fondamentale nella procedura d’imbalsamazione era la disidratazione del corpo. Gli Egizi erano soliti utilizzare un sale, il natrun, disponibile in situ e di grande efficacia per il loro scopo. 2.1 Fonti dirette Il natrun (nell’antica lingua egizia hsmn o ntryt, “divino”) è citato in diversi scritti antichi. Lo nomina Erodoto quando descrive il processo d’imbalsamazione: “[…] Fatto questo, lo immergono in un bagno di nitro e ve lo tengono per settanta giorni: farlo mummificare più di tanto non è possibile. […] il nitro a sua volta dissolve le carni, e del cadavere lascia solo la pelle e le ossa; […]”. [9] Diodoro Siculo accenna alla durata del trattamento e alle sostanze impiegate, senza però specificare il suo utilizzo: “[…] Quindi per più di trenta giorni lo tengono lavato e concio, prima con l’olio di cedro, e con le altre cose simili; poi con mirra e cinamomo, ed altre materie proprie non solo a conservarlo lunghissimamente, ma eziandio a tenerlo fragrantissimo; e così imbalsamato lo restituiscono ai parenti con tanta integrità di tutte le membra, che si veggono perfino i peli delle palpebre e de’ i sopraccigli; e così resta senza mutazione veruna tutta la fisionomia, che perfettamente vi si riconosce l’effigie della forma primiera […]”. [10] Indicazioni concernenti l’impiego del sale e la formazione del natrun sono riportate nel Libro XXXI del Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (Como, 23 d.C. – Stabia, 79 d.C.): “[81] […] L’Africa forma mucchi di sale a forma di colli, che quando induriscono col sole e la luna, non si sciolgono con nessun liquido e a stento sono tagliati anche con il ferro. […] intorno all’Egitto col mare stesso che penetra nel suolo, come credo, impregnato dal Nilo. […] [86] Ci sono anche differenze nel colore. Rosseggia a Menfi […] [90] L’Egitto lo scoprì, e si vede essere trasportato dal Nilo. […] [98] La natura del sale è di per sé ignea e nemica per i fuochi, sfuggendoli, corrode tutto, astringendo, seccando, comprimendo, preservando anche i defunti dalla decomposizione dell’imputridirsi, affinché essi durino per secoli, corrodendo poi nel curare, causticando, purificando, assottigliando, eliminando, dannoso solo allo stomaco, tranne per suscitare l’appetito. […] [106] Non è da differenziare anche la natura del salnitro, che non differisce molto dal sale e da trattare più accuratamente […] [109] E questo certo nasce, in Egitto invece si produce, di molto più abbondante, ma peggiore, infatti è scuro e sassoso. Si ottiene quasi nello stesso modo del sale, se non che deviano il mare nelle saline, il Nilo nelle nitriere in autunno. Queste sono irrigate mentre il Nilo si ritrae, bagnando con un liquido di salnitro che cola per 40 giorni continui, non fissi come 29 in Macedonia. Se ci furono anche le piogge, aggiungono meno al fiume, e subito viene tolto appena ha cominciato a condensarsi, affinché non si sciolga nelle nitriere. [110] Lo stesso poi dura nelle formazioni a mucchi.[…] [111] Le nitriere d’Egitto solevano essere solo intorno a Naucrati e Menfi*, più scadenti intorno a Menfi. […] Qui ci sono nitriere, in cui spunta anche rosso dal colore della terra. […] [114] La prova del salnitro, cosicché sia molto sottile e quanto più spugnoso e poroso. In Egitto viene adulterato con la calce, è rivelata col gusto. Infatti puro si scioglie subito, adulterato pizzica per la calce e bagnato produce fortemente odore. Viene bruciato coperto in un recipiente, affinché non salti. Del resto il salnitro non salta sul fuoco, e non genera niente o alimenta, mentre nelle saline sono generate erbe e nel mare tanti animali, tante alghe.” [c] * Si ritiene che le zone di Naucrati e Menfi corrispondano al piccolo lago nei pressi di al-Barnuj e Wadi Natrun [12]. Anche Strabone (Amasea, circa 60 a.C. – Amasea, 23 d.C.), geografo greco, nel libro XVII del Gheographikà fa menzione dei depositi di natrun in Egitto: “Above Momemphis are two nitre mines, which furnish nitre in large quantities, and the Nitriote Nome. […] On the left hand in the Delta, upon the river, is Naucratis.” [d] Il primo ritrovamento di natrun solido in un sito archeologico risale al 1937 da parte di Brunton a Mostaggedda, un sito del Badariano (5500 – 4000 a.C.), mentre nel 1925 a Giza, come già precedentemente affermato, è stato trovato in soluzione nei vasi canopi. Questi rari reperti sono stati ritrovati nella maggior parte dei casi in giare, vasi e pacchetti in tombe della XVIII dinastia, sepolti in fosse con altri reperti derivanti dagli scarti delle sostanze imbalsamanti in sepolture delle XI, XII e XVIII dinastie, oppure come incrostazioni sui tavoli anatomici lignei dell’XI dinastia, o, ancora, nei corpi di alcune mummie del Medio Regno e delle XII, XVIII, XX, XXI e XXII dinastie [8, 13]. 2.2 I molteplici impieghi Il natrun fu utilizzato per gli usi più diversi. Le fonti informano che veniva utilizzato per purificare e pulire grazie alla sua capacità di rimuovere sostanze grasse ed oleose. Era impiegato nella produzione dei tessuti come sbiancante, come detergente per lavare gli abiti e per la pulizia personale in assenza di sapone. Largo uso se ne faceva per la conservazione del cibo (carne e pesce secchi); veniva addizionato al cibo degli ovini nell’allevamento per produrre latte e formaggi più saporiti. Fu utilizzato anche come rimedio medico usato da solo o addizionato ad altre sostanze naturali (erbe, oli, miele, …) contro ulcere, dolori della bocca, delle orecchie e degli occhi (veniva aggiunto ai colliri), per eliminare pustole, vesciche, verruche, foruncoli e persino usato su soggetti affetti da 30 lebbra, da tenie, da psoriasi, da asma o da tonsillite; come calmante contro il prurito e i dolori dei nervi (anche per la paralisi); bevuto mescolato con acqua ed aceto, serviva per provocare il vomito in caso d’intossicazione da funghi; garze di lino imbibite con soluzioni di sale servivano per disinfettare le ferite ed i morsi di animali che venivano anche causticati direttamente con il sale secco. Era merce di scambio e si ritrova nel gergo militare (da qui il termine salario) come retribuzione per le milizie. Dal sale della zona di Wadi Natrun, che aveva colorazione rossastra, si ricavava un colorante dai toni variabili tra il giallo zafferano ed il rosso che veniva adoperato sia per produrre ceramiche colorate sia per la tintura delle vesti. Veniva sfruttato anche nella produzione di materiali vetrosi. Infine, ma non ultima per importanza, per la pratica dell’imbalsamazione. Le fonti mettevano in guardia dal potere corrosivo verso i metalli e dal capacità di spegnere il fuoco [c]. 2.3 In natura La depressione di Wadi Natrun (o Wâdi El Nâtrun, in arabo “Valle del Natrun”; la parola araba natrun indica sostanze salate _ il sale comune è chiamato atrun [12]) è una località egiziana di notevole interesse mineralogico. È geograficamente situata a circa 64 km a nord-ovest del Cairo. L’asse principale della depressione si estende per circa 50 km con un’ampiezza massima di 10 km; ha profondità media di 24 m sotto il livello del mare, ma aumenta considerevolmente verso sud-ovest raggiungendo gli 80-90 m, con i massimi in corrispondenza di Gebel Hadid (185 m) e di Gebel Qantara (198 m) [13]. Mappa rappresentante i laghi di Wadi Natrun. Le linee verticali rappresentano l’estensione massima possibile raggiunta dai depositi evaporitici. 31 Una serie di laghi evaporitici (appartenenti alla categoria dei laghi evaporitici non marini), di dimensioni variabili a seconda della stagione e della loro posizione, sono in parte effimeri poiché alimentati da corsi d’acqua temporanei e dalle piogge occasionali. La precipitazione dei sali nei laghi è stagionale e soggetta alle significative variazioni connesse alla variabilità del clima. I depositi più abbondanti sono carbonati, solfati e cloruri di sodio. Numerosi studi sono stati condotti su questi sali ed i campioni raccolti ed analizzati con tecniche analitiche diverse, indicano che la composizione varia da campione a campione, in base al luogo del prelievo. In ogni caso il termine natron che si trova negli antichi scritti e che ha provocato una generale confusione, non corrisponde al minerale natron (Na2CO3 ∙ 10H2O) poiché esso è molto raro se non assente nella zona di Wadi Natrun a causa della sua immediata solubilità in acqua e del rapido assorbimento dell’umidità che ne compromette la stabilità; è inoltre un minerale che si conserva difficilmente e tende alla disidratazione a temperature superiori ai 20°C. Ciò implica che la sostanza utilizzata durante il processo d’imbalsamazione non sia il natron propriamente detto, ma sia da ricondurre ad una miscela polifasica di sali di sodio. Ciò trova conferma negli studi effettuati sui campioni prelevati dalla zona di Wadi Natrun e dagli studi avviati nel primo cinquantennio del ‘800 sui reperti di sale ritrovati nelle tombe. I campioni studiati da M. Marchesini e A. Barresi del Politecnico di Torino tra il 2004 e il 2007 sono costituiti per lo più da alite o salgemma (NaCl) e nella restante parte da trona (Na3(CO3)(HCO3)∙2H2O), thenardite (Na2SO4) e, in qualche caso, da burkeite (Na6(CO3)(SO4)2) e mirabilite (Na2SO4∙10H2O), generalmente granulari. Nell’articolo da loro proposto viene citato un lavoro effettuato da Haidinger nel 1825, il quale riteneva che il minerale di Wadi Natrun fosse una miscela di trona e alite [12]. A. Lucas afferma, in uno studio del 1912, che un campione di natrun proveniente da una tomba antica mostra quantità uguali di cloruro, solfato e carbonato di sodio. In questo lavoro egli fa una classificazione in tre tipologie di natrun: “Sultani natrun” sarebbero i cristalli duri provenienti dai fondali lacustri, dai quali proviene anche il “Kortai natrun” che appare in masse tenere e spugnose e, il “Korkef natrun”, identificato come una incrostazione che si trova sulle sponde dei laghi. Nel 2004 A. J. Shortland, per l’Università di Oxford, analizza la composizione dei minerali presenti nei singoli laghi e rende noto che il minerale più abbondante era 32 certamente il carbonato di sodio presente come trona, quasi mai pura poiché associata alla pirssonite (Na2Ca(CO3)2∙2H2O); inoltre, erano presenti significative quantità di solfati e cloruri, in particolare alite, thenardite e burkeite [13]. A sinistra cumuli di sale esposti al sole per l’asciugatura. Le salamoie, ricche di organismo alofili, mostrano colorazioni vivaci rosa e rosse. Foto M. Marchesini [12]. A destra il campione di natrun naturale studiato da Edwards et al. [14]. H. G. M. Edwards et. al., per conto dell’Università di Manchester nel 2005, pubblicano un articolo nel quale si afferma che i campioni, di colorazione rosa più o meno intensa, provenienti dai depositi di Wadi Natrun presso il delta del Nilo, analizzati con spettroscopia Raman, sono costituiti da una miscela polifasica di carbonato di sodio anidro, carbonato di sodio decaidrato, bicarbonato di sodio, solfato di sodio anidro, solfato di sodio eptaidrato e sesquicarbonato di sodio. Informa anche che la colorazione rossastra è data dalla presenza di cianobatteri, batteri alofili, batteri solfato-riducenti ed alghe. La tecnica ha evidenziato la presenza carotenoidi (decapreno-betacarotene e dodecaprenobetacarotene, con funzione di protezione della clorofilla), scitonemina (pigmento anti-UV) e clorofilla [14], il che ha permesso di confermare la presenza di specie identificate in uova di Artemia sp. e pupe di Ephydra sp. che formano striature rosa ed arancioni sui depositi presenti sulle sponde dei laghi [12]. Spettro Raman dell’area rosa nel campione (laser a 514 nm) Edward et al.; lo spettro mostra un’ampia banda centrata a 1320 cm-1 assegnata alla clorofilla e altri tre picchi a 1504, 1152 e 1006 cm-1 propri dei carotenoidi [14]. 33 2.4 Tesi contrapposte sulla modalità d’impiego del natrun nell’imbalsamazione Dalla scoperta delle mummie egizie fino ad oggi numerosi sono stati gli specialisti che hanno sperimentato la tecnica base del processo di mummificazione dell’Antico Egitto per poter affermare con sicurezza quali fossero le fasi del procedimento, data la discordanza delle teorie formulate. I metodi impiegati, tuttora a confronto, sono l’impiego di natrun secco oppure l’utilizzo di una soluzione di natrun ed acqua. Le ipotesi formulate nel primo decennio del ‘900 sull’impiego esclusivo di ossidi di calcio o salgemma sono ritenute all’unanimità insostenibili [8]. Le diverse traduzioni degli antichi testi lasciano aperti dubbi anche per quanto riguarda la durata del trattamento con il sale; infatti Erodoto riporta 70 giorni e così le traduzioni del suo scritto nelle quali non si fa alcun riferimento al fatto che possa interpretarsi, come poi proposto ed accolto, come durata dell’intero processo: dall’essiccazione all’inumazione. La quantità di sale utilizzato durante il processo d’imbalsamazione, in condizioni ideali, doveva essere in volume dieci volte superiore al volume del corpo [16]. I criteri di scelta adottati per quanto concerne l’uso del natrun sono sostanzialmente due: alcuni gruppi di studio hanno optato per il reperimento del sale naturale dalla zona di Wadi Natrun (cosa che oggi risulta impossibile fare per motivi di sicurezza militare e che comunque non darebbe la certezza del reperimento di un sale con la stessa composizione di quello usato nell’antichità, durante il corso dei millenni nei quali la pratica è stata impiegata dagli Antichi Egizi), altri hanno deciso di produrlo in laboratorio miscelando i diversi sali. A. T. Sandison, per conto dell’Università di Glasgow, sostiene che il natrun sia stato usato nella sua forma solida e la sua tesi è supportata da una serie di esperimenti condotti sia in solido sia in soluzioni a diversa concentrazione. La pubblicazione riporta i risultati degli esperimenti effettuati da A. Lucas su carcasse di polli e piccioni, che rivelano che l’immersione nel natrun liquido provoca l’ammorbidimento e l’infragilimento della pelle tanto da impedire la fasciatura con le bende; questa affermazione è stata però smentita dagli studi istologici su pelle di mummia effettuati da M. A. Ruffer che nega la formazione di una massa morbida nello strato sottocutaneo. Entrambi scrivono che il metodo provoca in tutti i casi fetore, ma anche putrefazione nel caso in cui la soluzione sia troppo poco concentrata. Lucas ha eseguito altri esperimenti con natrun secco su piccioni notando che non si manifestano cattivi odori poiché esso neutralizza sia i prodotti di decomposizione del corpo sia gli acidi grassi. Queste premesse, avvalorate da 34 dieci prove effettuate su campioni di tessuti umani provenienti da amputazioni, dal fatto che gli archeologi non abbiano mai trovato vasche, dalla somiglianza nell’aspetto esteriore della pelle dei campioni a secco con quella delle mummie ed infine le confutazioni della tesi sostenuta da chi pensa sia natrun liquido (perdita dell’epidermide, dei capelli e/o dei peli e delle unghie), hanno fatto propendere per l’ipotesi della procedura a secco. Sandison propone la ricetta per ottenere il natrun, che è stata utilizzata per i suoi esperimenti: sei parti di carbonato decaidrato di sodio, tre parti di cloruro di sodio e l’ultima parte costituita da bicarbonato di sodio e solfato di sodio in egual quantità [8]. Questa ricetta è stata successivamente supportata da indagini condotte a posteriori da altri studiosi. Perlustrando la letteratura emerge che gli studi effettuati da Iskander e Shahee nel 1973 riportano la composizione di tre campioni di sale provenienti da due scavi datati al 1960, in particolare uno trovato in una giara in ceramica nello scavo di Tura El-Asmant e gli altri due rinvenuti nello scavo di Qurna: chimicamente era costituito dagli stessi componenti individuati da Sandison. Nel 2001 Abdel-Maksound usa una ricetta equivalente a quella di Sandison sperimentando la tecnica di mummificazione su ratti, notando che i componenti utilizzati producevano un’efficace disseccazione dei corpi di questi animali. Ikram e Doson nel 1998 precisano che la composizione del natrun varia ampiamente in dipendenza all’area del prelievo. Cosmacini e Piacentini nel 2008 affermano che la miscela naturale di carbonato e bicarbonato di sodio, conosciuta come natron, era usata come agente disseccante nel sofisticato metodo di mummificazione artificiale nel periodo dell’Antico Egitto [16]. Recentemente S. Buckley archeologo dell’Università di York in collaborazione con l’antropologa M. Fletcher, sostiene che ci sia stata un’evoluzione nei secoli della tecnica d’imbalsamazione e che l’apice fosse stato raggiunto durante la XVIII dinastia con il trattamento del cadavere in soluzione. Egli ha condotto degli studi sulle mummie reali appartenenti alla tomba KV35 nella Valle dei Re con tecnica radiografica individuando cristalli di sale all’interno dei tessuti, risultato che imputerebbe alla metodologia con la quale è stato imbalsamato il corpo. Sostiene che solo un trattamento con natrun in soluzione avrebbe potuto far penetrare il sale così in profondità nei tessuti permettendone la ricristallizzazione sottocutanea [17]. 35 Capitolo 3: Anatomia comparata La pelle del maiale è simile a quella umana. In virtù di ciò si è scelto di procedere per la conduzione dell’esperimento impiegando i tessuti tegumentari del Sus scrofa domesticus. 3.1 Caratteristiche generali della cute La pelle o cute è una struttura anatomica appiattita ed estesa che ricopre tutta la superficie esterna del corpo e si continua con le mucose in corrispondenza degli orifizi delle cavità che si aprono all’esterno. È un rivestimento esterno che costituisce una protezione dell’organismo dall’ambiente circostante e dai suoi fattori potenzialmente nocivi che possono essere di tipo meccanico, fisico, chimico o di penetrazione da parte di parassiti, batteri e virus. Assicura il controllo costante del livello sieroelettrico e svolge una funzione di organo regolatore della pressione sanguigna. La cute è impermeabile all’acqua e parzialmente permeabile ai grassi organici; anche alcune sostanze chimiche possono attraversare la cute poiché hanno proprietà liposolubili. Se indenne, impedisce la penetrazione di sostanze anche allo stato gassoso ed offre protezione contro la disidratazione del corpo, regolando anche l’escrezione di elettroliti tramite la sudorazione. La pelle è provvista di una serie di organi sensoriali quali i recettori della temperatura, della pressione, del tatto e del dolore che sono direttamente collegati al sistema nervoso centrale: per questa ragione la cute può essere considerata come un “organo di senso”. Per mantenere costante la temperatura corporea degli organismi omeotermi, la cute è fornita di peli, ghiandole sebacee, ghiandole sudoripare e vasi sanguigni che provvedono sia alla nutrizione sia alla regolazione della temperatura corporea. Il tessuto adiposo sottocutaneo impedisce la conduzione del calore. Diversi annessi cutanei possono fungere da strumento di difesa od offesa. Inoltre, essendo sia un serbatoio di lipidi ed acqua, sia consentendo la sintesi di alcune sostanze necessarie (come la vitamina D), ha funzione di riserva e di sintesi. Generalmente possiamo distinguere tre strati. Più in superficie troviamo il tessuto epiteliale, detto epidermide ed in profondità il tessuto connettivo detto derma o corion che insieme costituiscono la cute vera e propria. Ad essi fa seguito un tessuto connettivo sottocutaneo, ricco di grasso, che giunge fino alle fasce che coprono i muscoli o le ossa (a seconda delle sedi corporee), chiamato tela sottocutanea, che consente alla cute una certa mobilità, garantendo l’isolamento termico tra l’interno del corpo e la pelle, in modo da 36 impedire la dispersione di calore per irraggiamento e per conduzione, e rappresenta la maggior riserva di grasso dell’organismo. Lo spessore della cute varia a seconda della specie, della razza, della regione corporea e della predisposizione individuale dell’animale. Hanno influenza anche il tipo di alimentazione e le condizioni climatiche. La pelle presenta una propria colorazione data dalla presenza di pigmenti endogeni, prodotti dalla cellula, come le melanine, contenenti indolo e le lipofuscine, contenenti lipidi che si accumulano soprattutto in età avanzata. La pelle, dunque, rappresenta un potente tramite di comunicazione tra l’individuo e l’esterno. Essa permette il riconoscimento personale, fini interazioni tra esseri appartenenti alla stessa specie e ad altre grazie al suo colore, al profilo superficiale osservabile e palpabile, all’odore, alla presenza di segni identificativi propri del soggetto e alla presenza di malattie sia del tegumento, sia degli organi interni, oltre a permettere la ricezione dei numerosi stimoli provenienti dall’esterno (tattili, vibrazionali e termici). Infine, la cute ha le caratteristiche di essere distendibile ed elastica e rappresenta una frazione cospicua del peso corporeo, intorno al 5-6% [19]. 3.2 Tegumento esterno del maiale La pelle del maiale è formata da due strati maggiori, l’epidermide ed il derma. L’ipoderma è lo strato più o meno spesso appartenente al tessuto adiposo sottostante il derma. Di regola la cute suina non è pigmentata. Il suo spessore è variabile e presenta il suo massimo sviluppo nella regione della nuca, del garrese e del dorso. La cute della testa, della regione toracica laterale e della superficie esterna degli arti è invece di medio spessore. Sottile in corrispondenza del ventre e del prospetto interno degli arti. Una particolare formazione della cute del suino è lo “scudo”, un notevole ispessimento nella zona del collo, della spalla e della regione laterale del torace dei maschi sessualmente maturi che ovviamente non è presente se l’animale è castrato. Osservazioni microscopiche rivelano che l’epidermide del maiale è piuttosto ruvida e caratterizzata da spessore variabile a seconda della zona del corpo dell’animale: è poco sviluppata in corrispondenza del dorso, molto più a livello di superficie esterna degli arti. L’epidermide è costituita da un epitelio pavimentoso pluristratificato, superficialmente corneificato. Lo strato corneo è più spesso sul margine dorsale del naso e nello spazio interdigitale. Lo spessore e il grado di corneificazione variano molto nella loro estensione e suggeriscono un veloce tasso di cheratinizzazione soprattutto nelle zone di maggiore 37 sfregamento. Nel suino misura 70-140 μm (nell’uomo 50-120 μm). L’epidermide è un derivato dell’ectoderma e già allo stato embrionale vi si distinguono il pelo, la ghiandola sebacea e la ghiandola sudoripara che si addentrano in misura differente nel corion. L’epidermide è un succedersi di strati: lo strato corneo, è quello superficiale e cheratinizzato costituito da cellule appiattite, prive di nucleo e delimitate da una membrana plasmatica molto ispessita; lo strato lucido, una struttura lucida e quasi trasparente, generata dalla trasformazione della cheratoialina propria dello strato sottostante in eleidina, una lipoproteina acidofila ricca di lipidi e zolfo; lo strato granuloso è costituito da granuli di cheratoialina, nei quali si trasferiscono, previa fosforilazione, polimeri sintetizzati nello strato spinoso, ed in questi granuli si aggregano ulteriormente grazie alla transglutaminasi per entrare a far parte dell’involucro corneo; lo strato germinativo è responsabile del rimpiazzo delle cellule epiteliali cornee invecchiate e può essere diviso in uno strato superiore con cellule poligonali, ricche di citoplasma formanti lo strato spinoso e, in uno strato basale, costituito da cellule prismatiche alte, connesse al corion con pedicelli e contenenti, nei distretti cutanei pigmentati, granuli di melanina. Sono tutti strati pieni di granuli basofili. Le cellule in direzione della superficie perdono progressivamente il loro contorno e sembrano fondersi in un’unica massa. Ci sono due tipi di cellule: le cellule epiteliali normali, i cheratinociti, e cellule molto ramificate, le cellule dendritiche (che sintetizzano i melanociti e li cedono per mezzo delle ramificazioni alle vicine cellule epidermiche). Nell’epitelio pavimentoso pluristratificato ci sono inoltre cellule dendritiche aspecifiche e cellule di Langerhans (cellule molto attive coinvolte nel metabolismo dell’epidermide). La formazione della sostanza cornea è regolata dall’azione della vitamina A. L’epidermide è organizzata in un grande numero di pieghe risultanti dalla formazione delle papille del derma e dai ganci interpapillari; è priva di vasi sanguigni; la sua nutrizione avviene per osmosi e diffusione attraverso le fessure intercellulari. Questa architettura epidermica è molto simile a quella umana [19, 20]. Il derma o corion mostra notevoli differenze nel suo sviluppo a livello individuale. Deriva dai mesoblasti parietali. Dall’entità del suo sviluppo viene determinato lo spessore 38 della cute che dipende dall’età dell’animale e dalla regione corporea: è spesso nella regione del capo, particolarmente a livello del naso, della nuca e ventralmente al collo. Esso è formato da due strati mescolati assieme che non mostrano chiara demarcazione. Immediatamente sotto l’epidermide abbiamo lo strato papillare, ben sviluppato. Successivamente si trova uno strato di tessuto connettivo denso, meno vascolarizzato, costituente lo strato reticolare che si continua direttamente nel sottocute. A sinistra vediamo una rappresentazione schematica degli strati della pelle suina. A. Strato corneo, B. Strato lucido, C. Strato granuloso, D. strato spinoso, E. Strato basale, F. strato papillare del derma, G. Vaso sanguigno, H. Canale di una ghiandola odorifera, G. Spirale secretrice della ghiandola odorifera, J. Ghiandola sebacea, K. Muscolo erettore del pelo, L. bulbo pilifero, M. Asse del pelo, N. Epidermide, O, derma, P. Ipoderma. A destra la sezione istologica. Il derma è costituito perlopiù da irregolare tessuto connettivo denso. In contrasto con l’epidermide, le cui cellule sono serrate strettamente, il suo tessuto connettivo è largamente separato da fibre. Il corion consiste principalmente in fibre di collagene grezze orientate sia parallelamente sia perpendicolarmente alla superficie. Fibre elastiche pervadono l’intero spessore (anche se sono più abbondanti nello strato papillare rispetto allo strato reticolare) e si concentrano vicino ai follicoli piliferi. Lo strato papillare, direttamente a contatto con l’epidermide, costituisce lo strato lasso ricco di papille che, con le loro anse e le loro terminazioni nervose, si spingono nell’epidermide formando i corpi papillari connettivali che permettono l’ancoraggio e la nutrizione dell’epidermide. Al limite con l’epidermide lo strato papillare forma una membrana basale che contiene fibre reticolari. Lo strato reticolare sottostante consiste in sottili fasci di fibre collagene che si riuniscono in fasci più ampi che vanno a formare maglie che si estendono in varie direzioni. In mezzo e attorno ad essi, ci sono reti di fibre elastiche che ristabiliscono la forma originaria dopo eventuali deformazioni. Il corion dunque, possiede strutture orientate: le fibre collagene corrono parallele e diagonali, incrociandosi ognuna alle altre formando una 39 rete intrecciata estesa secondo precise esigenze funzionali, secondo determinate linee di trazione. Le fibre elastiche sono molto più sottili rispetto alle fibre collagene. Esse si ramificano nel derma e si concentrano attorno ai follicoli piliferi nella parte superiore dello strato reticolare e sotto lo strato papillare. La loro orientazione è perlopiù perpendicolare alla superficie della pelle [19, 20]. L’ipoderma, tela sottocutanea o sottocute consiste in uno spesso ed adiposo strato di tessuto, formante il lardo o pannicolo adiposo. È costituito da fasci irregolari di tessuto connettivo collagene che insieme a fasci di fibre elastiche formano delle ampie maglie lasse, disposte generalmente parallelamente alla superficie della pelle. La disposizione del connettivo sottocutaneo varia a seconda della specie animale: in alcune razze suine è nettamente separato dal corion. Lo spessore del lardo nel maiale domestico può raggiungere e superare 20 mm. Nella zona del singolo follicolo pilifero il tessuto adiposo si estende oltre il derma formando una struttura tipo cupola attorno alla radice del pelo. Si ha un certo accumulo di cellule adipose, i lipociti. I depositi di grasso rivestono grande importanza nel metabolismo corporeo quali organi di deposito adiposo. Nel maiale l’accumulo di grasso è collegato ad una deposizione di grasso sotto il foglietto più esterno della fascia superficiale del tronco. Il grasso sottocutaneo del suino è di colore biancogrigiastro, è apparentemente molto resistente, con medio punto di fusione. Nel sottocute vi sono molti vasi sanguigni, particolari plessi venosi e grossolane reti nervose. I muscoli cutanei veri e propri sono posti nella lamina superficiale della fascia esterna che si continua generalmente nella tela sottocutanea. Nel connettivo lasso sottocutaneo si trovano notevoli quantità di liquidi tissutali, in comunicazione con la rete linfatica della cute e perciò assume grande importanza nella capacità di assorbimento. La densità e il tipo di pelo dipendono dal grado di addomesticamento. In generale i peli del maiale sono bianchi, tranne nelle zone corporee pigmentate dove sono neri. I peli di copertura sono setole rigide, dritte e relativamente lunghe, di diverso spessore con apice più volte suddiviso. La setola presenta sezione trasversale rotonda. La diposizione dei peli è a tre unità, cioè essi crescono a gruppi di tre nel medesimo follicolo pilifero. I tipi di ghiandole trovate nella pelle del maiale sono le ghiandole sudoripare e le ghiandole sebacee. Le prime sono distribuite su tutta la superficie corporea e relativamente sviluppate. Il loro numero complessivo è di 0,5 milioni e la loro distribuzione dipende dall’età dell’animale (550-1000 per cm2 nel neonato, 10-25 per cm2 nella scrofa di 40 2-3 anni). Sono semplici, tabulari e di tipo apocrino in estate e merocrino d’inverno; sono ubicate al limite fra corion e sottocute o ancora più in profondità e, nel loro tratto terminale, sono fortemente raggomitolate. Le ghiandole sebacee sono più piccole e meno numerose se confrontate con gli altri animali domestici, ma hanno la stessa morfologia. Sono disposte a rosetta o a gruppi di due attorno al follicolo pilifero. Hanno forma semisferica o colonnare allungata [19, 20]. 4.2 Anatomia della cute umana La cute è l’unità pluritessutale complessa che riveste la superficie esterna del corpo. Mostra due componenti comuni: l’epidermide, superficiale, sottesa dalla membrana basale, e il derma, profondo. Ospita in entrambi gli strati recettori sensitivi e minute unità pluritessutali dette produzioni cutanee, insieme alle quali e con l’ipoderma sottostante, forma l’apparato tegumentale. Origina dall’ectoderma di rivestimento, dal mesenchima cefalico e dal mesenchima somatico. L’epidermide è un tessuto epiteliale composto e cheratinizzato che in superficie può essere liscio, appena solcato o profondamente inciso; in profondità è sempre sollevato in molteplici creste, dette creste epidermiche. Ha spessore che varia notevolmente da 5 mm (schiena) a meno di 1 mm (palpebre). Comprende quattro citotipi diversi: i cheratinociti (che rappresentano il principale contingente cellulare), i melanociti, le cellule di Langerhans e le cellule di Merkel (complessivamente rappresentanti il 10-15% delle cellule epidermiche). È colonizzata da due tipi di terminazioni sensitive: terminazioni sensitive libere e terminazioni sensitive vincolate alle cellule di Merkel. È priva sia di vasi sanguigni sia di vasi linfotiferi. I cheratinociti sono cellule di origine ectodermica che proliferano per tutta la vita. Diventano cellule cornee desquamanti man mano che raggiungono passivamente la superficie con modalità che conferiscono all’epidermide un aspetto stratificato. Lungo il loro cammino, producono e accumulano filamenti di cheratina nel citoplasma e si rivestono di materiale impermeabilizzante, motivo per il quale muoiono e desquamano. Il processo ha una durata complessiva di 20-30 giorni. Vediamo il succedersi degli strati: lo strato germinativo o basale è il più profondo, poggiante sopra una membrana basale che forma un’interfaccia irregolare tra epidermide e derma; corrisponde al compartimento proliferativo; è costituito da un unico strato di cellule di forma 41 cuboidale con citoplasma leggermente basofilo povero di cheratina (tonofilamenti) e un grosso nucleo, collegate tra loro e alle cellule dello strato spinoso per mezzo di desmosomi e, alla membrana basale grazie agli emidesmosomi; lo strato spinoso, anch’esso proprio del compartimento proliferativo, è formato da 4-8 strati di cellule basofile poliedriche che tendono ad appiattirsi man mano che ci si avvicina allo strato superiore; le cellule di questo strato presentano numerose estroflessioni, detti ponti citoplasmatici o spine, che conferiscono l’aspetto spinoso. Estroflessioni di cellule adiacenti si connettono tramite desmosomi. Le cellule dello strato spinoso contengono, oltre ad abbondanti tonofibrille (costituite da citocheratine), anche granuli citoplasmatici detti corpi lamellari o cheratinosomi (diametro tra 0,1 e 0,4 μm). Questi granuli contengono sostanze lipidiche che vengono rilasciate nello spazio intercellulare nel successivo strato granuloso, costituendo una barriera impermeabile. Si osservano inoltre organelli ellissoidali scuri, di circa 0,3 x 0,7 μm, forniti di una membrana plasmatica e con una caratteristica organizzazione interna a fitte lamelle concentriche che sono chiamati melanosomi. Raggiunta la maturazione, le lamelle divengono difficilmente distinguibili poiché sono piene di melanina; lo strato granuloso, che corrisponde al compartimento maturativo, è formato da 35 strati di cheratinociti appiattiti; è lo strato più superficiale dell’epidermide, formato da cellule non ancora nucleate. Queste, oltre ai corpi lamellari, contengono granuli basofili detti granuli di cheratoialina. Questi granuli sono privi di membrana e contengono proteine che interagiscono con i filamenti di cheratina provocandone l’aggregazione; lo strato lucido, proprio del compartimento differenziato, è uno strato chiaro, omogeneo e presente solo nei massimi spessori della pelle (palmo della mano e pianta del piede). È formato da 3-5 strati di cellule prive di nucleo, ricche di filamenti di cheratina fittamente addensati e orientati parallelamente alla superficie della pelle ed eleidina, una forma intermedia di cheratina; lo strato corneo, sempre corrispondente al compartimento differenziato, varia da pochi a centinaia di strati. È in assoluto lo strato più superficiale. È costituito da elementi morti, privi di nucleo e di organuli, appiattiti, completamente cheratinizzati e contenenti una bassissima percentuale di acqua, chiamati corneociti. Lo spazio intercellulare è occupato da lipidi provenienti dai 42 cheratinosomi, rappresentati prevalentemente dalle ceramidi, circa la metà in peso, legate covalentemente all’involucro corneificato dei cheratinociti, un quarto da colesterolo, il 10-15% da acidi grassi liberi, il resto da altre tipologie di lipidi, il più importante dei quali è il colesterolo solfato. Ha funzione idrorepellente; le cellule più profonde presentano desmosomi, mentre ne sono prive quelle più superficiali, dette squame o cornee, che tendono a staccarsi per desquamazione. I melanociti sono cellule stellate che derivano dai melanoblasti, a loro volta originati dalle cellule dalle creste neurali. Poste nello strato germinativo, producono la melanina che poi riversano nei cheratinociti i quali l’assumono, trascinandola negli strati superficiali, perché svolga una funzione protettiva nei confronti dei raggi UV. Contengono infatti i melanosomi che sono vescicole distaccate del Golgi, contenenti melanina, che vengono esocitati all’estremità dei prolungamenti cellulari e vengono fagocitati dai cheratinociti. L’attività dei melanociti e la persistenza o meno della melanina nei cheratinociti determina il colore della pelle. I melanociti sono cellule dotate di numerosi prolungamenti che si insinuano negli spazi intercellulari dallo strato basale allo strato spinoso. Le cellule di Langerhans sono cellule APC (= Antigen Presentig Cells), dendritiche o stellate; provengono dal midollo osseo e sono sparse in tutta l’epidermide, anche se si concentrano soprattutto nello strato spinoso. Attivano sia i linfociti T residenti, sia i linfociti T presenti nei linfonodi, dove sembra siano in grado di migrare dopo aver fagocitato ed esposto l’antigene. Sono dotate di prolungamenti che si insinuano tra i cheratinociti, similmente ai melanociti, dai quali però si differenziano sia per la presenza dei granuli di Birbeck, discoidali e dalla funzione ancora oscura, sia dall’assenza di melanosomi. Le cellule di Merkel sono di origine neuroectodermica. Sono elementi ricchi di grossolane espansioni citoplasmatiche, congiunte da desmosomi ai cheratinociti, e di vescicole, il cui contenuto è rappresentato da un neurotrasmettitore. Sono numerose in prossimità di una terminazione nervosa appiattita detta “disco tattile”, con la quale formano un “corpuscolo tattile” che si suppone essere un meccanocettore. Sono sparse tra i cheratinociti dello strato basale dell’epidermide; hanno forma rotondeggiante e colorazione chiara con un nucleo anch’esso chiaro. Il loro citoplasma contiene filamenti del citoscheletro e granuli osmiofili che contengono una varietà di neuropeptidi, cosa che suggerisce una loro funzione neuroendocrina. 43 A sinistra una rappresentazione della cute umana con indicati i componenti che si trovano al suo interno. A destra la fotografia di una sezione istologica di cute umana: E. epidermide; K. Cheratine; D. derma; I. ipoderma; GE. ghiandole sudoripare eccrine; DE. dotti delle GE. Il derma è una robusta lamina di tessuto connettivo di spessore variabile (da 0,6 mm nelle palpebre a 3 mm nel palmo delle mani o nella pianta dei piedi) organizzata in due strati: lo strato papillare, più superficiale, molto vascolarizzato e organizzato in fasci di fibre fini e a maglie strette, che deve il nome ai numerosi rilievi, le papille per l’appunto, che interdigitano le creste epidermiche in modo da formare la giunzione dermoepidermica e che gli conferiscono perciò aspetto irregolare; lo strato reticolare, più profondo e più abbondante formato da fasci grossolani e maglie relativamente larghe. Entrambi sono occupati da cellule sudoripare, da complessi pilo-sebacei e da recettori sensitivi. Il derma contiene abbondante matrice extracellulare, consistente sia di fibre sia di una matrice amorfa. Le fibre sono di diversi tipi: quelle predominanti sono le fibre collagene di tipo I (possono eventualmente essere presenti tracce di altri tipi di collagene), a decorso leggermente sinuoso e disposte in varie direzioni. Le fibre collagene, una volta secrete dalle cellule, si organizzano in fibrille spesse alcune decine di nanometri, con una caratteristica striatura trasversale; diverse fibrille insieme formano una fibra cementata da una matrice amorfa cosiddetta “intrafibra”. Le fibrille collagene appena formate vengono stabilizzate nel giro di alcune settimane da legami covalenti tra le molecole costituenti, diventando così insolubili. Esse sono inestensibili e molto resistenti alla tensione. Le seconde per abbondanza sono le fibre elastiche, costituite da un’impalcatura di microfibrille tubolari e da una matrice amorfa che è la parte predominante. Le microfibrille tubolari sono costituite da una glicoproteina, la fibrillina, e sono inestensibili; la matrice 44 amorfa è costituita da un’altra proteina, l’elastina, che è responsabile del comportamento elastico: si lascia facilmente distendere e recupera la forma e le dimensioni originarie al cessare della forza applicata. La sostanza fondamentale amorfa è costituita in larga prevalenza da acqua in cui sono sospese molecole di glicoproteine e proteoglicani. Le glicoproteine presentano un asse proteico al quale sono unite brevi catene glucidiche, talvolta ramificate; i proteiglicani sono catene glucidiche lunghe, rettilinee, costituite da una successione ripetuta molte volte di un dimero diverso a seconda del glicosaminoglicano, contenenti gruppi acidi sia carbossilici sia solfonici. I proteoglicani a loro volta si legano con un’estremità della catena proteica ad un altro, lunghissimo glicosaminoglicano non solfatato, l’acido ialuronico. Parte della sostanza amorfa si trova all’interno delle fibre collagene per la loro cementazione, parte si trova tra le fibre ed è responsabile del turgore del derma e della sua resistenza ed elasticità alla compressione. L’ancoraggio all’epidermide è garantito dalla membrana basale: si trovano qui fibre reticolari, fibre ancoranti e fibre dette ossitalaniche, ma anche speciali giunzioni dette emidesmosomi. Le fibre reticolari sono simili alle fibre collagene, ma differiscono da queste sia per le sottili dimensioni sia perché costituite da collagene di tipo III. Le fibre ancoranti sono proprie unicamente della membrana basale e costituite da collagene di tipo VII. Le fibre ossalaniche sono fascette di microfibrille tubulari, senza componente elastinica. Il derma contiene numerose cellule quali i fibroblasti, i miofibroblasti, i macrofagi e i mastociti. I capillari consentono la termoregolazione e il nutrimento delle cellule dell’epidermide, prive di vascolarizzazione. Presenta una serie di meccanocettori come i corpuscoli di Messner e i bulbi terminali di Krause, recettori rispettivamente delle deformazioni tattili e del freddo. Le ghiandole sudoripare, le ghiandole sebacee e i follicoli piliferi invadono il derma e l’ipoderma durante lo sviluppo embrionale nelle regioni della pelle dotate di peli o capelli. In particolari regioni del corpo, quali il viso, la parte anteriore del collo e il cuoio capelluto, sono presenti gruppetti di cellule muscolari striate (muscoli della mimica facciale) che originano dalla fascia superficiale dell’ipoderma e si inseriscono nel derma. Nel derma si trovano due tipi di recettori: i corpuscoli del Pacini che captano le vibrazioni e le pressioni, e i corpuscoli di Ruffini che percepiscono le forze di tensione. L’ipoderma è lo strato più profondo della pelle. È una lamina di tessuto connettivo lasso che in alcune sue parti è così ricco di adipociti da assumere le caratteristiche del tessuto adiposo bianco che prende così il nome di pannicolo adiposo. In queste zone ha uno spessore rilevante e mostra un’organizzazione in tre strati: uno strato superficiale in 45 continuità con il derma; uno strato profondo confinante con la fascia comune; uno strato intermedio con presenza di setti, retinacoli, che delimitano compartimenti di varia forma prima di confluire centralmente in una sottile fascia di tessuto connettivo denso, la fascia superficialis (assente nella testa e negli arti). L’ipoderma contiene le parti inferiori delle radici dei follicoli piliferi, le ghiandole sudoripare apocrine ed eccrine. In alcune zone del viso, contiene anche lamine di muscolo scheletrico (muscoli mimici). I recettori sensitivi si distinguono in liberi e corpuscolati. I primi sono semplicemente terminazioni nervose appuntite presenti perlopiù nell’epidermide. Si comportano come termorecettori e come nocirecettori. I recettori corpuscolati, invece, sono meccanocettori del “tatto”. Si differenziano in: corpuscoli di Messner, che raccolgono gli stimoli pressori nelle papille dendritiche della pianta del piede e del palmo della mano e sono costituiti da terminazioni nervose appiattite e da cellule di sostegno satelliti di modo da formare una struttura assimilabile, per forma, ad una pila di monete; gomitoli di Krause, contenuti principalmente nei genitali esterni e nel capezzolo dove raccolgono gli stimoli presso-tensivi e hanno forma ad alberello; corpuscoli del Pacini, si trovano nella parete dei visceri, nella capsula delle articolazioni, nei tendini, nel perimisio, nel periostio e nei polpastrelli delle dita dove raccolgono stimoli pressori; hanno la forma del seme di miglio e sono costituiti da tre parti (la clava, interna, corrispondente al tratto terminale della terminazione sensitiva; la capsula lamellare, un guscio di cellule estremamente piatte e rivestite da una membrana basale; l’involucro fibroso, un comune mantello di tessuto connettivo); corpuscoli di Ruffini, presenti nelle dita delle mani, dei piedi e nella capsula delle articolazioni dove raccolgono stimoli tensori; si presentano come piccoli corpi fusiformi ad andamento orizzontale, formati dalla suola, costituita da un addensamento di fibre collagene e di fibre elastiche che continuano nel corpo formato da una fibra sensitiva. La cute spessa è la cute della faccia palmare della mano e della faccia plantare del piede. Ha quattro caratteristiche che la distingue dalla cute sottile, vale a dire che le creste e i solchi della superficie sono raccolti nei dermatoglifi (impronte digitali), lo spessore dell’epidermide è rilevante (soprattutto lo strato corneo), le ghiandole sudoripare eccrine 46 sono molto numerose ed, infine, i peli e le ghiandole sebacee sono assenti. La cute sottile è la cute più rappresentata: non ha dermatoglifi, ha un’epidermide relativamente poco spessa, ha poche ghiandole sudoripare e ha peli e ghiandole sebacee. I peli sono formazioni filiformi, con sezione rotondeggiante, sottili e trasparenti o grossi e pigmentati, che emergono dalla superficie cutanea obliquamente, tutti eccetto le ciglia. La porzione che fuoriesce dalla superficie è detta stelo, la porzione che rimane nascosta nella cute è la radice avvolta nel follicolo pilifero, posizionato nel derma. Il maggior componente del pelo è rappresentato da residui cellulari cheratinizzati e la colorazione dipende dai pigmenti in essi contenuti. Ciclicamente ogni pelo si distacca e viene sostituito: la vita media dei capelli varia dai 2 ai 4 anni, quella delle ciglia è di soli 3-5 mesi. Associate ad ogni pelo si trovano una o più ghiandole sebacee e fasci di muscolatura liscia (muscoli erettori del pelo) [21, 22, e]. 4.4 In sintesi, affinità e differenze Come si evince dalle descrizioni sopra riportate, il tessuto tegumentale umano e quello suino sono similari. Sinteticamente, possiamo riassumere in punti le affinità e le differenze che esistono tra la nostra cute e la pelle suina. Pelle suina Pelle umana Caratteristiche simili: massa della pelle in rapporto alla superficie corporea; successione degli strati principali e secondari; disposizione e densità dei peli e dei loro follicoli piliferi (il numero dei follicoli piliferi per cm2 è per entrambe le specie di 11 ± 1); spessore dell’epidermide; 47 cinetica del ricambio cellulare; composizione lipidica e proprietà biofisiche dei lipidi. Differenze: la pelle suina ha un muscolo interfollicolare supplementare; il follicolo pilifero suino contiene peli a gruppi di tre; il maiale ha una notevole quantità di ghiandole sudoripare su tutta l’estensione del corpo [f]. 48 Capitolo 4: Macromolecole costituenti della pelle I costituenti del tegumento esterno umano e animale su cui si è focalizzata la nostra attenzione sono le proteine, in particolare il collagene che è quella presente in maggior quantità, ed i lipidi. Lo studio infatti si concentra sulle modificazioni che queste molecole hanno subito a causa del trattamento della pelle con il natrun. 4.1 Le proteine Le proteine sono i costituenti fondamentali di tutte le cellule animali e vegetali; sono una classe di macromolecole che presentano strutture complesse e differenziate e svolgono una gamma di vaste funzioni negli organismi, quali: supporto strutturale, catalisi (enzimi), trasporto, difesa, regolazione e movimento. Ogni proteina è costituita da una catena aminoacidica ripiegata in modo da assumere una specifica struttura tridimensionale necessaria per la funzione della proteina stessa. Le proteine sono costituite da solo 20 tipi di aminoacidi, ma differiscono le une dalle altre per la sequenza lineare in cui tali aminoacidi sono legati: la diversità del contenuto e della sequenza di questi aminoacidi rappresenta la base della diversità della struttura e della funzione delle varie proteine. Tutti gli aminoacidi contengono due importanti gruppi funzionali, un gruppo amminico ed un gruppo carbossilico, ma si distinguono per la presenza delle catene laterali, o gruppi R, che sono reattivi ed influenzano le proprietà chimiche della proteina stessa. Le catene laterali possono essere molto diverse: formate da un atomo d'idrogeno semplicemente, come nella glicina, o da strutture con anelli aromatici, come nella fenilalanina, o da gruppi polari o carichi, come l’acido glutammico. Le proprietà chimiche di un amminoacido sono proprio dovute alla tipologia della catena laterale (ingombro sterico, idrofilia o idrofobia, carica, ecc.) Nella polimerizzazione degli aminoacidi, il gruppo carbossilico di un amminoacido reagisce con il gruppo amminico di un altro in una reazione di condensazione che porta alla formazione di un legame peptidico. Si ha la formazione di una piccola catena di due residui aminoacidici chiamata dipeptide. Un polimero lineare costituito da amminoacidi collegati da legami peptidici è un polipeptide. Una proteina è costituita da una o più catene polipeptidiche. Anche se i termini “proteina” e “polipeptide” sono spesso considerati sinonimi, i polipeptidi hanno in genere masse molecolari inferiori a 10.000 Dalton, mentre le proteine hanno masse molecolari superiori. Ad una estremità di una catena 49 polipeptidica è presente un gruppo amminico libero, mentre all’estremità opposta si trova un gruppo carbossilico; esiste quindi una direzionalità. In figura i 20 amminoacidi presenti nelle proteine con le caratteristiche dei loro gruppi R. La diversità chimica che caratterizza gli amminoacidi consente alle cellule di sintetizzare un numero enorme di proteine distinte, dotate di proprietà biochimiche molto diverse per ciascuna sequenza amminoacidica. La varietà delle proteine è molto ampia, con sequenze limitate a pochi aminoacidi, come nel caso di alcuni peptidi, oppure estremamente lunghe in polimeri di elevata massa molecolare. 50 La struttura delle proteine può essere descritta in termini di quattro livelli successivi di complessità crescente: la struttura primaria è data dalla sequenza aminoacidica della catena polipeptidica. Lo scheletro peptidico è il risultato della successine di tre atomi (-N-C-C-) appartenenti al gruppo amminico, all’atomo di carbonio centrale e al gruppo carbossilico di ogni residuo. Tale livello di strutturazione è molto importante poiché determina il ripiegamento nello spazio della catena peptidica, determinando la specifica attività biologica di ciascuna proteina. I livelli superiori derivano tutti dalla struttura primaria; la struttura secondaria consiste in modalità di ripiegamento della catena polipeptidica regolare e ripetuto all’interno di regioni diverse della proteina stessa, come le α-elica e i β-foglietti. L' α-elica è una spirale e in questa struttura le catene laterali dei residui aminoacidici si proiettano all’esterno dello scheletro peptidico perpendicolarmente all’asse dell’elica. L’ α-elica è il risultato della conformazione secondaria probabilmente più "naturale" che una catena peptidica possa assumere e rappresenta pertanto l'elemento di struttura secondaria più comune nelle proteine. Questa struttura è stabilizzata dalla formazione di legami a idrogeno tra elementi dei legami pepticici. Essi si formano tra l’atomo di idrogeno debolmente positivo del gruppo N-H di un legame peptidico e l’atomo di ossigeno debolmente negativo del gruppo C=O di un altro legame peptidico. Tali legami conferiscono discreta flessibilità alla struttura. In un'α-elica, i legami ad idrogeno dello scheletro sono organizzati in modo che il C=O dell'ennesimo gruppo peptidico punti verso l’N-H del (n+4)mo gruppo peptidico. Ciò produce un forte ponte ad idrogeno che presenta una lunghezza N---O quasi ottimale di 2,8 Å. I residui aminoacidici (-R) sporgono esternamente al filamento spiralizzato (elica). La distanza tra spira e spira (passo) è di 5,44 Å, il raggio dell'elica è di 2,3 Å ed in ogni spira sono presenti 3,67 amminoacidi. L’α-elica ha dunque un passo che è caratteristico e si distingue dal passo caratterizzante la tripla elica. Nei foglietti β le catene polipeptidiche sono quasi completamente distese e si ripiegano periodicamente su loro stesse avanti e indietro. La catena risulta stabilizzata da legami a idrogeno che si formano tra gli elementi dei legami peptidici. Gli atomi di idrogeno risultano esposti verso l'esterno e ciò favorisce la formazione di nuovi legami idrogeno. 51 Nell’immagine a sinistra una rappresentazione di un’α-elica. Nell’immagine sopra la rappresentazione di un β-foglietto Oltre ai due elementi regolari di struttura secondaria appena descritti, nelle proteine sono presenti tratti di catena coinvolti in ripiegamenti "a gomito" che invertono la direzione della catena polipeptidica permettendole di ripiegarsi nella struttura terziaria. Questi tratti, definiti ripiegamenti ed anse, fanno da collegamento fra α-eliche o β-sheet ed hanno un ruolo molto importante nell’organizzazione 3D della catena peptidica. Nelle proteine in struttura terziaria queste configurazioni curvilinee arrivano a rappresentare circa un terzo delle strutture secondarie presenti. Molto comuni sono le brevi curve di 3-5 residui (β-turns) che collegano due filamenti β consecutivi, orientati in modo antiparallelo. In queste strutture secondarie curvilinee è quasi costante la presenza degli aminoacidi glicina e/o prolina. La glicina, presentando un idrogeno come gruppo R e quindi un limitato ingombro sterico, può assumere angoli non consentiti ad altri aminoacidi. Essa può così avere un ruolo importante nella struttura proteica, potendo far assumere alla catena angolazioni "insolite". La prolina è in realtà un iminoacido poiché al posto del gruppo amminico -NH2, presenta il gruppo iminico -NH-. Quando la prolina entra a far parte di una proteina il gruppo iminico perde il suo unico idrogeno nella formazione del legame peptidico. In questo modo non si forma un gruppo peptidico CONH, ma un gruppo CON. In tali condizioni non può dunque formarsi il legame idrogeno e le strutture secondarie regolari (eliche e foglietti) risultano instabili in corrispondenza dei punti in cui si trova la prolina; 52 la struttura terziaria è caratterizzata da una determinata conformazione tridimensionale. Dopo aver raggiunto un livello stabile di strutturazione secondaria, la catena polipeptidica continua a ripiegarsi tendendo a formare una molecola stabile. I legami tra le catene laterali possono essere sia legami idrogeno, sia ponti salini che si stabiliscono tra residui di acido aspartico, o glutammico, e lisina o arginina; la struttura quaternaria presenta un'ulteriore livello di organizzazione strutturale tridimensionale di più catene polipeptidiche, o subunità, distinte che possono essere identiche o diverse tra loro. Queste catene si associano mediante legami non covalenti o covalenti trasversali. Nelle proteine dotate di struttura quaternaria ogni polipeptide possiede struttura primaria, secondaria e terziaria. La perdita della corretta struttura terziaria di una proteina è detta denaturazione e si accompagna alla perdita parziale o totale della funzione biologica della proteina stessa. La denaturazione può essere causata da diversi fattori (calore, acidi, basi, ecc.) che distruggono il complesso dei legami a idrogeno cruciali per la stabilizzazione della proteina. È generalmente un processo irreversibile. Se non è così, il processo che ristabilisce la forma biologicamente attiva della proteina è chiamato rinaturazione. Considerando i diversi livelli strutturali, diventa utile classificare le proteine in due gruppi principali: le proteine fibrose, che hanno catene polipeptidiche disposte in lunghi fasci o in foglietti, e le proteine globulari, che hanno invece catene polipeptidiche ripiegate fino ad assumere forme globulari pseudo sferiche. Le proteine fibrose sono costituite da un unico tipo di struttura secondaria e, nei vertebrati, sono prettamente interessate a dare resistenza e forma alle cellule. Tutte le proteine fibrose sono molto stabili e sono utilizzate per scopi strutturali. Sono formate da lunghe catene e spesso contengono ripetizioni della stessa sequenza e legami crociati; tra 53 queste troviamo il collagene, le cheratine della lana e la miosina (proteine ad α-elica), le cheratine della seta, le proteine amiloidee (proteine a foglietto β). Le proteine globulari, diversamente, contengono più tipi di struttura secondaria e la loro funzione è quella di proteine regolatrici, di trasporto e con attività catalitica, come ad esempio gli enzimi o gli ormoni. Conoscere la struttura tridimensionale delle proteine è molto importante per comprendere la loro funzione. Le proteine sono molecole dinamiche, le cui funzioni in molti casi dipendono da interazioni con altre molecole, chiamate ligando. Le principali sono quelle legate a processi fisiologici importanti come il trasporto di ossigeno e le funzioni immunitarie [21, 27]. 4.2 Il collagene Circa un quarto di tutte le proteine del nostro corpo è rappresentato dal collagene. Esso è la più importante proteina strutturale fibrosa: forma cavi molecolari che rinforzano i tendini e fogli grandi ed elastici che sostengono la pelle e gli organi interni. Esistono circa 30 tipi differenti di collagene negli organismi animali. Nell’uomo se ne conoscono circa 19. Si differenziano fra di loro per conformazione, localizzazione e funzione. Possiamo classificarli in base alla tipologia in: collagene fibrillare: localizzato nello spazio extracellulare, i filamenti di cui si compone si allineano longitudinalmente con la testa dell’uno separata dalla coda dell’altro da un breve intervallo; questi si associano latero-lateralmente con legami crociati covalenti sovrapponendosi reciprocamente per circa un quarto della loro lunghezza in modo da formare sottilissime strutture filamentose dette micro fibrille. Queste si auto aggregano in unità filamentose dette fibrille; collagene associato a fibrille: fibre collagene non isolate che si associano al collagene fibrillare in vari modi. Possiamo avere questo tipo di collagene all'interno delle fibrille, oppure che forma legami tra le fibrille, o, ancora, che forma legami tra le fibrille ed altri componenti della matrice extracellulare; collagene reticolare: sono fibre che si organizzano in maglie reticolate, localizzate negli spazi pericellulari o nella membrana basale. Una seconda classificazione avviene in base alla localizzazione. I collageni fibrillari si differenziano e si trovano rispettivamente nei diversi distretti corporei: 54 Tipo I: nelle ossa, nella pelle, nei tendini, nei legamenti, nella cornea, negli organi; interni e nella dentina. Rappresenta circa il 90% del collagene totale nell’uomo; Tipo II: nelle cartilagini, nei dischi intervertebrali e nell'umor vitreo; Tipo III: nella pelle, nei muscoli, nella parete dei vasi sanguigni e organi interni; Tipo V: associato al collagene di tipo I; Tipo XI: associato al collagene di tipo II. I collageni associati a fibrille sono: Tipo IX: si associa al collagene di tipo II nella cartilagine; Tipo XII: si associa ai collageni di tipo I e III nel derma e nei tendini. I collageni reticolari: Tipo IV: costituisce gran parte della membrana basale; Tipo VII: forma fibrille di ancoraggio nelle giunzioni dermo-epidermiche; Tipo VIII: si associa agli endoteli; Tipo X: presente nelle cartilagini di coniugazione delle ossa. L'elica del collagene è una struttura secondaria diversa dall'α-elica. L'elica del collagene, oltre ad essere sinistrorsa, è infatti più "stirata" (ha un passo quasi doppio rispetto all' αelica) ed ha un diametro inferiore, avendo solo tre residui amminoacidici per ciascuna spira. Il collagene ha tre catene polipeptidiche separate, dette catene α, che sono superavvolte le une sulle altre a formare una tripla elica. L'avvolgimento nel collagene è destrorso, mentre come abbiamo precedentemente affermato, le singole catene α sono sinistrorse. Ogni molecola conta circa 1000 aminoacidi, è lunga circa 300 nm e ha un diametro di circa 1,5 nm. Ogni catena è caratterizzata da una sequenza aminoacidica ripetitiva di un'unità tripeptidica Gly-X-Pro oppure Gly-X-Hyp. Queste catene formano l'unità strutturale del collagene chiamata tropocollagene, una proteina con massa molecolare di 285 kiloDalton. I filamenti di tropocollagene sono tenuti insieme da legami idrogeno. Tali legami sono possibili grazie all'idrossilazione della lisina e della prolina ed alla presenza di glicina. Quest'ultima è fondamentale perché presenta un gruppo R costituito da un solo atomo d'idrogeno caratterizzato da ingombro sterico minimo che consente il compatto ripiegamento dell'elica del collagene. Solitamente per il collagene sono presenti due catene alfa: α(I) codificate dal gene COL1A1 e α(II) codificata dal gene COL1A2. Le due α(I) sono identiche fra loro e differiscono dall’α(II) per la loro sequenza amminoacidica; sono sintetizzate in rapporto 2:1. Questi 55 geni possono andare incontro a mutazioni. I sintomi associati a mutazioni del gene COL1A2 tendono ad essere meno gravi rispetto alle mutazioni del gene COL1A1 riflettendo, quindi, il diverso ruolo delle catene di alfa2 nell'integrità della matrice. I collageni I, IV, V e XI sono composti da 2 o 3 tipi differenti di catene α, mentre i tipi II, III, VII, e XII sono composti da un solo tipo di catena α. La sintesi del collagene avviene ad opera di diversi tipi cellulari a seconda del tessuto. Il processo si sviluppa in due fasi: Intracellulare, caratterizzata dalla produzione di procollagene per mezzo di un precursore che viene prima idrossilato, poi glicosilato, organizzato nella tripla elica e rilasciato all'esterno della cellula; Extracellulare, proteolisi alle estremità N e C terminale con trasformazione del procollagene in tropocollagene. Il tropocollagene si organizza in fibrille. È in questa fase che si generano i legami crociati tra le fibrille per formare le fibre di collagene. 56 La sequenza ripetitiva è Gly–X–Y dove la glicina è sempre presente ogni terzo residuo e X e Y possono essere un qualunque aminoacido, ma sono spesso prolina e lisina. Le glicine si trovano al centro dell’elica a causa della loro ridotta dimensione e sono legate tra loro da legami di Van der Waals. Tutti i residui X e Y si trovano all’esterno. La sequenza più frequente dunque vede Gly–Pro–Hyp. Inoltre prolina e lisina spesso vengono idrossilate a causa di modificazioni posttraslazionali in idrossiprolina ed idrossilisina. L’idrossiprolina permette anche la formazione di legami fra i gruppi carbonilici non impegnati in altri legami ed una serie di molecole di acqua che possono disporsi intorno alle eliche di collagene in due modi: legandosi strettamente in siti specifici lungo le catene di collagene oppure andando a riempire gli spazi vuoti tra le molecole. Le molecole di acqua si legano intorno alle triple eliche di collagene seguendo l’andamento dell’elica e vanno a formare un vero e proprio cilindro di idratazione. Questo permette un’ulteriore stabilizzazione delle eliche di collagene [29, 30, 32, 35]. Rappresentazione della progressiva idratazione del peptide GlyAla. Partendo da sinistra la tripla elica nuda (i tre colori indicano le tre catene peptidiche) e, in crescendo, i vari gusci d’idratazione [30]. A fianco la densità della struttura dell’acqua sulle tre eliche [32]. 57 Il comportamento dell’acqua è complesso ed è causato da diversi tipi di ponti d’acqua coinvolti nell’aggregazione e nella stabilizzazione della molecola di collagene. Molteplici i tipi di ponti d’acqua che sono stati identificati in studi precedentemente condotti: α: ponti intracatena tra i gruppi C=O Hyp(Y) e i gruppi C=O Gly [30]; β: ponti intercatena tra i gruppi C=O Hyp(Y) e i gruppi C=O Gly [30]; γ: ponti intracatena tra i gruppi O-H Hyp(Y) e i gruppi C=O Hyp(Y) [30]; κ: ponti intercatena tra i gruppi O-H Hyp(X) e i gruppi C=O Gly [32]; λ: ponti intracatena tra i gruppi O-H Hyp(X) e i gruppi O-H Hyp(Y) [32]; Un esempio dei vari tipi di ponti d’acqua. In A un ponte di tipo κ; in μ: ponti intercatena tra i gruppi O-H Hyp(X) e i gruppi O-H Hyp(Y) [32]. B un ponte di tipo λ; in C un ponte di tipo μ [32]. 4.3 I lipidi I lipidi sono un composto eterogeneo di composti idrocarburici che hanno la proprietà di essere insolubili in acqua a causa della presenza di gruppi covalenti apolari. Le molecole apolari possono associarsi tra loro formando aggregati di grandi dimensioni e quindi possono essere considerate macromolecole. Quando sono sufficientemente vicine, risentono delle forze attrattive deboli di Van der Waals e della forza di London che risultano essere d’intensità sufficiente a tenerle insieme. I lipidi sono solubili in altri lipidi oppure in solventi apolari. Le funzioni sono diverse a seconda della loro ubicazione. I grassi vengono definiti acidi grassi saturi se ci sono esclusivamente legami singoli tra gli atomi di carbonio nella catena idrocarburica; se ci sono, invece, uno o più legami doppi o tripli, si parla di acidi grassi insaturi. I grassi e gli oli sono lipidi semplici, anche noti come 58 trigliceridi. Se sono solidi a temperatura ambiente sono definiti grassi, se liquidi, oli. I trigliceridi sono formati da acidi grassi e glicerolo: il glicerolo è una piccola molecola che presenta tre gruppi ossidrile (-OH); gli acidi grassi sono acidi carbossilici (-COOH) forniti di lunghe catene idrocarburiche. Nel tessuto adiposo del corpo umano, essi sono contenuti in percentuali variabili tra il 60 e l’85% (contro l’acqua al 5-30% e le proteine al 2-3%) e il 90-99% di essi è costituito da trigliceridi. I lipidi giocano un ruolo fondamentale nella funzione e nel mantenimento della barriera della pelle; lo strato corneo consiste perlopiù di ceramidi, acidi grassi liberi e colesterolo, più o meno nelle stesse concentrazioni [4, 21, 33, 34, 40]. Essi sono organizzati in strutture lamellari con un doppio strato nel quale le catene lipidiche sono altamente ordinate [40]. Sopra abbiamo lo schema che rappresenta i trigliceridi, sotto lo schema delle ceramidi 2 e 5. 59 Capitolo 5: Tecniche analitiche 5.1 Spettroscopia infrarossa La spettroscopia infrarossa è tra i metodi d’indagine più accurati ed utilizzati per investigare la struttura della materia biologica; spesso è applicata nel campo dei beni culturali. Si inserisce tra le tecniche che sfruttano l’interazione tra radiazione elettromagnetica e materia e riguarda i fenomeni di assorbimento dell’energia elettromagnetica in termini di transizioni tra livelli quantizzati vibrazionali e rotazionali in atomi o molecole. Tali interazioni vengono provocate e registrate in maniera controllata negli spettrofotometri, muniti di specifiche sorgenti di radiazione nell’infrarosso. Gli spettri che si ottengono permettono lo studio delle lunghezze d’onda e delle intensità delle radiazioni assorbite dal campione in esame. Gli spettri infrarossi presentano picchi caratteristici dei vari tipi di vibrazioni molecolari; questi, quindi, risultano utili per l’identificazione dei gruppi funzionali delle molecole presenti nel campione e conseguentemente delle molecole stesse, consentendo la caratterizzazione chimica del campione analizzato. In particolare la spettroscopia di assorbimento infrarosso è preziosa per lo studio delle sostanze organiche poiché i legami chimici dei gruppi funzionali assorbono radiazioni infrarosse ad energie differenti e caratteristiche. La tecnica IR presenta notevoli vantaggi, quali: Versatilità: può dare informazioni strutturali su un ampio range di materiali (organici ed inorganici, cristallini ed amorfi, monomerici e polimerici); Rapidità d’esecuzione; Accuratezza e precisione; Discreta sensibilità; Costi relativamente economici. Lo spettro elettromagnetico può essere diviso in diverse regioni: i raggi γ, i raggi X, l’ultravioletto, il visibile, l’infrarosso, le microonde e le onde radio. Accanto alla lunghezza d’onda (λ) e alla frequenza (ν), parametri solitamente impiegati nel _ campo della spettroscopia, si utilizza nell’IR il numero d’onda (ν) la cui unità di misura è in cm-1 e corrisponde al reciproco della lunghezza d’onda: _ _ ν = 1/λ 60 La radiazione elettromagnetica infrarossa comprende un vasto range di energie che va dai 10000 cm-1 ai 100 cm-1. La porzione IR dello spettro che concerne la radiazione infrarossa può essere divisa in tre regioni: il lontano infrarosso (ν < 400 cm-1), il medio infrarosso (400 cm-1 < ν < 4000 cm-1) ed il vicino infrarosso (4000 cm-1 < ν < 15000 cm-1). La radiazione infrarossa è in grado di promuovere transizioni energetiche dei livelli vibrazionali e rotazionali delle molecole. Le prime sono dovute al fatto che gli atomi non occupano posizioni rigidamente fisse le une rispetto alle altre, ma vibrano con frequenze ben determinate intorno alla loro posizione media di equilibrio; le seconde sono dovute ai possibili modi di rotazione della molecola attorno ai tre assi di rotazione perpendicolari tra loro, considerando la molecola stessa come un insieme rigido, oppure, solo a due assi, se la molecola è lineare. Affinché una radiazione elettromagnetica possa trasferire energia ad una molecola, facendola passare da uno stato vibrazionale ad un altro, è indispensabile che la molecola possegga un momento di dipolo variabile che cambia con il variare delle distanze interatomiche: in tal caso il valore del momento di dipolo oscilla con la frequenza di vibrazione della molecola e, se questa frequenza coincide con la frequenza a cui oscilla il campo elettrico della radiazione, quest’ultima è in grado di trasferire energia alla molecola, per risonanza. Le molecole biatomiche mononucleari (ad esempio H2, Cl2 e N2) non possono dar luogo ad assorbimenti nell’infrarosso in quanto presentano momento 61 dipolare nullo, essendo molecole simmetriche. Tutte quelle molecole che presentano variazione del momento dipolare, sono visibili all’IR. Ci sono due tipi fondamentali di vibrazioni molecolari: lo stretching ed il bending. Lo stretching è un movimento ritmico lungo l’asse di legame con conseguente aumento e diminuzione della distanza interatomica. Può essere simmetrico se entrambi i legami si accorciano o si allungano contemporaneamente, oppure asimmetrico, se un legame si accorcia e l’altro si allunga. La vibrazione di bending, invece, è dovuta ad una variazione dell’angolo nei legami con un atomo in comune, oppure ad un movimento di un gruppo di atomi rispetto al resto della molecola senza che si muovano gli atomi nel gruppo, uno rispetto all’altro. Quattro sono i tipi di bending: due avvengono nel piano che contiene i tre atomi (rocking e scissoring); gli altri due, invece, avvengono fuori dal piano contente gli atomi (twisting e wagging). 62 Approssimando il legame chimico ad un oscillatore armonico, rappresentato da due masse legate da una molla, la frequenza di oscillazione del legame può essere calcolata teoricamente mediante la relazione: νvibr = dove νvibr è la frequenza di vibrazione, c la velocità della luce, k la costante di forza espressa in N/m e μ = la massa ridotta espressa in kg. Tale relazione discende dalla legge di Hooke. Immaginando di mettere in moto il sistema, potremmo osservare che sfere di piccola massa saranno più facili da muovere rispetto a sfere dotate di grande massa e quindi la frequenza alla quale esse oscillano sarà maggiore; inoltre, più rigida è la molla e maggiore sarà la frequenza di oscillazione. Ciò significa che, in una molecola, oscillatori costituiti da atomi con masse piccole oscillano a frequenze più alte e atomi uniti da legame singolo vibrano a frequenze più basse rispetto a quelli uniti da legami doppi o tripli. Utilizzando un gran numero di campioni modello e di semplici molecole è stato possibile associare ad ogni gruppo o frammento molecolare la frequenza o il numero d’onda caratteristico, nonché l’intensità della banda e la sua ampiezza a metà altezza. Tutti i dati sono stati raccolti in tabelle, dette tabelle di correlazione. Di seguito viene riportato un esempio, molto semplificato, di una di queste tabelle, costruita per identificare le frequenze di vibrazione dei gruppi molecolari caratteristici delle proteine. 63 La spettroscopia IR a trasformata di Fourier (FT-IR), detta anche interferometria, si basa sul principio di funzionamento dell’interferometro messo a punto da Michelson nel 1880. Questa tecnica viene anche detta non dispersiva, in quanto le diverse frequenze del fascio incidente non sono separate a monte del campione in esame, ma lo raggiungono tutte contemporaneamente dopo aver attraversato l’interferometro stesso (multiplex). Questo offre indubbiamente il vantaggio della rapidità delle analisi, oltre all’alta risoluzione, anche per campioni di dimensioni limitate e piuttosto assorbenti. Negli ultimi anni, la spettroscopia infrarossa si è imposta quale strumento d’indagine potente nello studio di molecole complesse, in particolare in seguito allo sviluppo ed alle disponibilità di spettrofotometri operanti in trasformata di Fourier, nonché ai progressi raggiunti nella costruzione di più sensibili sistemi di rivelazione. Sono inoltre attualmente sul mercato strumenti FT-IR portatili che consentono di effettuare analisi in situ con buone prestazioni. Lo spettro IR di un campione può essere acquisito in trasmittanza oppure in riflettanza. Gli spettri infrarossi vengono spesso rappresentati riportando la trasmittanza percentuale T=( 100) Dove I e I0 rappresentano rispettivamente l’intensità della luce che raggiunge il rivelatore in presenza ed in assenza del campione, contro il numero d’onda espresso in cm-1. È possibile utilizzare anche l’assorbanza A A = (Log 64 ) come misura delle proprietà assorbenti del campione e, per come sono espresse, è evidente che assorbanza e trasmittanza sono legate dalla relazione: A = Log Misure in trasmittanza: si procede con questo metodo se il campione è sufficientemente trasparente alla radiazione IR, dunque si lavora in trasmittanza o in assorbimento. In questo caso l’analisi si effettua su un’aliquota di campione miscelata al KBr per formare una pastiglia che si sottopone all’analisi. Misure in riflettanza: si opta per questa scelta quando il campione non è trasparente e quindi è necessario lavorare in riflettanza, registrando cioè lo spettro delle radiazioni IR riflesse dalla superficie del campione. Si può misurare la riflettanza speculare, cioè le radiazioni riflesse con identica angolazione, oppure la riflettanza diffusa, cioè le radiazioni riflesse ad angoli differenti. Mentre le misure in trasmittanza richiedono quasi sempre il prelievo di un’aliquota di campione, quelle in riflettanza si prestano ottimamente ad essere effettuate sulla superficie del campione e quindi non richiedono il trattamento dello stesso, oltre ad essere anche applicabili in situ. Una modalità particolare è quella cosiddetta Attenuated Total Reflection o ATR: in questo caso si impiega una sonda con un cristallo di diamante o di altri materiali che viene posta a contatto con la superficie del campione in un’area di circa 1 mm di diametro. Ciò permette di raccogliere lo spettro in riflettanza di uno spessore di 2-3 μm del campione. Ad ogni riflessione infatti, il raggio penetra per alcuni micron nel materiale, venendone in piccola parte assorbito (o attenuato). Dopo alcune riflessioni la diminuzione dell’intensità del raggio è sufficiente per essere rilevata dallo spettrofotometro dando uno spettro IR in riflettanza attenuata (ATR). Per estendere poi le possibilità di analisi in situ è possibile sfruttare vantaggiosamente le fibre ottiche per le misure FT-IR in riflettanza e, in misura minore, in trasmittanza. Attraverso l’impiego di sonde è possibile irradiare il campione e raccogliere la radiazione diffusa. Il grande vantaggio dell’impiego delle fibre ottiche consiste nella possibilità di effettuare analisi totalmente non distruttive e senza toccare il campione; inoltre non ci sono vincoli dovuti alla forma del campione. Gli unici inconvenienti dell’impiego di fibre ottiche sono legati al costo notevole poiché sono assemblate a partire dai materiali aventi purezza elevatissima e al fatto che esse non sono sensibili a tutto lo spettro IR: si perde una parte dell’informazione, a differenza di quanto possono fare gli strumenti da banco. 65 Gli spettri di riflettanza sono simili agli spettri in trasmissione: in generale si osservano le stesse bande, ma le loro intensità relative sono diverse; inoltre sebbene le assorbanze varino con l’angolo d’incidenza, esse sono indipendenti dallo spessore del campione in quanto la radiazione penetra nel campione solo per pochi micrometri. Spettrofotometro IR a trasformata di Fuorier Nella figura sotto riportata vediamo uno schema del funzionamento di uno spettrofotometro che lavora in trasformata di Fourier. Una sorgente emette un raggio infrarosso che viene indirizzato ad un beamsplitter che lo divide in due raggi di intensità uguale, indirizzati uno ad uno specchio fisso e l’altro ad uno specchio mobile che si muove avanti e indietro di moto rettilineo uniforme a velocità nota su un percorso fisso. I due raggi vengono perciò riflessi dai due specchi e la loro combinazione viene inviata ad un rivelatore. Si interpone sul tragitto del raggio uscente inviato al detector il campione che verrà quindi analizzato. Anche se i due raggi arrivano al detector insieme, essi hanno compiuto un diverso cammino ottico, producendo fenomeni di interferenza costruttiva e distruttiva, che creano un segnale al rivelatore dipendente dalla differenza di cammino ottico dei due raggi e quindi alla posizione dello specchio mobile in quell’istante. In base al movimento dello specchio, tutte le radiazioni monocromatiche contenute nella luce emessa dalla sorgente danno luogo ad un segnale complessivo di interferenza, l’interferogramma, che contiene in sé le informazioni riguardanti le frequenze della luce emessa. L’operazione matematica della trasformata di 66 Fourier permette di passare dal dominio delle distanze al dominio delle frequenze convertendo l’interferogramma in uno spettro vibrazionale. Indicando con la x la variabile di scansione dell’interferometro (espressa in unità di spazio-tempo) con la ν la frequenza delle radiazioni emesse dalla sorgente, con S(ν) la funzione “spettro” e con T(x) la funzione “interferogramma”, la trasformata di Fourier è data dalla relazione: S(ν) = dx Il passaggio inverso, dall’interferogramma allo spettro, si ottiene invece mediante la funzione detta “antitrasformata di Fourier” ed è espressa dalla relazione: T(x) = dν L’interferometro dà quindi la possibilità di cogliere contemporaneamente tutte le frequenze dello spettro IR nel rivelatore; ciò è possibile grazie alla trasformazione della luce policromatica emessa dalla sorgente in un interferogramma dove l’assorbimento non è più in funzione della frequenza, ma del tempo. L’interferogramma viene così trasformato dal calcolatore collegato allo strumento in un tradizionale spettro IR mediante, appunto, la Trasformata di Fourier che permette la trasformazione del grafico dello spazio o del tempo in uno spettro che rappresenta la variazione dell’intensità del segnale in funzione del numero d’onda della radiazione S’( ) = dx Lo spettro infrarosso si presenta come una sequenza di bande di assorbimento registrate in funzione della lunghezza d’onda o più frequentemente del numero d’onda. I parametri che caratterizzano una banda di assorbimento IR sono: la posizione, l’intensità e la forma. La posizione viene indicata con il numero d’onda in cm-1 ed identifica la vibrazione del gruppo funzionale. L’intensità di una banda (ossia l’altezza del picco) esprime la probabilità che avvenga la transizione energetica dallo stato fondamentale allo stato eccitato che provoca appunto l’assorbimento. Essa dipende quindi dalla variazione del momento dipolare. Le bande possono essere classificate in forti (s = strong), medie (m = medium) e deboli (w = weak). La forma può essere stretta (sharp) o larga (broad). L’interpretazione degli spettri ottenuti può essere fatta per confronto con database oppure con la letteratura [15, 23, g]. 67 5.2 Identificazione delle bande IR delle proteine Un gran numero di polipeptidi sintetici è stato studiato con la tecnica FT-IR per la caratterizzazione degli spettri infrarossi di proteine con una definito contenuto di struttura secondaria. I risultati ottenuti sono stati analizzati per mezzo di modelli teorici e confrontati con i risultati ottenuti su proteine. Analizzando una proteina con questa tecnica vediamo uno spettro che è caratterizzato dalla vibrazione del gruppo peptidico, l’unità strutturale ripetitiva delle proteine, che dà origine a nove bande caratteristiche dette Amide A, B, I, II, III, IV, V, VI e VII. Amide A (3500 ÷ 3300 cm-1) è dovuta alle vibrazioni di stretching del gruppo N-H; Amide B (3100 cm-1) origina da una risonanza di Fermi tra il primo overtone della banda Amide II e la vibrazione dello stretching N-H; Amide I e Amide II sono le due bande principali e quelle caratteristiche dello spettro infrarosso delle proteine. Esse sono sensibili alla conformazione della proteina: Amide I (1600 ÷1700 cm-1) è associata alla vibrazione di stretching dei gruppi C=O (70-85%) e C-N (10-20%); Amide II (1510 ÷1580 cm-1) risulta dalla vibrazione di bending del gruppo N-H (4060%) associata alla vibrazione di stretching dei gruppi C-N (18-40%) e C-C (10%); 68 Amide da III a VII sono bande molto complesse che dipendono dal campo di forza, dalla natura delle catene laterali e dal legame idrogeno. Non sono particolarmente utili per ricavare informazioni strutturali. Anche le catene laterali aminoacidiche contribuiscono ad arricchire lo spettro IR di bande nella regione dei numeri d’onda compresi tra 1800 e 1400 cm-1 ma, tra tutti gli aminoacidi, solo nove (Asp, Asn, Glu, Gln, Lys, Arg, Tyr, Phe, His) mostrano bande con una intensità sufficientemente elevata da potere essere distinte e separate. Nella tabella riportata sotto sono elencati gli assorbimenti più significativi. cm-1 Aminoacido Vibrazione Asp Glu -COO pH>pK (~4.5) 1574 -COOH pH<pK (~4.5) 1716 -COO pH>pK (~4.4) 1560 -COOH pH<pK (~4.4) 1712 Arg -CN3H5+ 1673 Lys -NH3+ 1629 Asn -C=O 1678 -NH2 1622 -C=O 1670 -NH2 1610 Gln Tyr ring-OH pH<pK (~10) 1518 ring-O pH>pK (~10) 1602 His ring 1596 Phe ring 1494 -COO 1598 -COOH 1740 -NH3+ 1631 -NH2 bd 1560 Gli assorbimenti di questi gruppi sono comunque così deboli e così sovrapposti anche in una proteina piccola che difficilmente possono essere utilizzati per discriminare i singoli aminoacidi componenti un polipeptide [23]. 69 5.3 Determinazione della struttura secondaria di una proteina da uno spettro IR L’analisi della struttura secondaria delle proteine dalla banda Amide I è stata resa possibile grazie all’avvento della spettroscopia FT-IR, la digitalizzazione degli spettri e l’impiego di software in grado di eseguire operazioni in breve tempo. L’operazione che viene eseguita è quella di deconvoluzione della banda, basata sull’assunzione che essa sia costituita di singole componenti, ciascuna caratteristica di un tipo di struttura secondaria, sovrapposte e indistinguibili. Applicando un procedimento di curve-fitting è possibile separare ciascuna singola componente, la cui area risulterà proporzionale alla percentuale di struttura secondaria presente nella proteina. Lo spettro viene scomposto in componenti gaussiane con una procedura di fitting iterativo. Scomposizione in componenti gaussiane della banda Amide I, ciascuna corrispondente ad un tipo di struttura secondaria Il problema dell’individuazione della posizione delle bande che costituiscono la banda Amide I viene risolto utilizzando l’analisi delle bande per mezzo della derivata seconda dello spettro. La posizione delle bande costituenti viene scelta in corrispondenza dei minimi dello spettro della derivata seconda. Per distinguere i minimi reali dalle fluttuazioni dovute al rumore del segnale, si assume che le componenti debbano avere una larghezza almeno compresa tra gli 8 e i 28 cm-1. Gli assorbimenti dei diversi tipi di struttura secondaria sono riportate in tabella: Amide I frequency (cm-1) Structure Antiparallel β-sheet /aggregated strands 1675 – 1695 310-helix 1660 – 1670 α-helix 1648 – 1660 70 Unordered 1640 – 1648 β-sheet 1625 – 1640 Aggregated Strands 1610 – 1628 Di seguito è riportato un esempio che possa fare maggior chiarezza nella comprensione di tale operazione: vediamo prima la derivata seconda del segnale con l’analisi dei componenti e di seguito la banda Amide I per la Lisozima, scomposta nelle sue gaussiane. Nella tabella sotto riportata si trovano le percentuali di struttura secondaria dedotte dall’analisi dello spettro FT-IR che assomigliano molto alle medesime percentuali analizzate con tecnica a raggi X, tipica per questo tipo di analisi [23]. 71 Struttura Secondaria X-Ray % FT-IR % α-helix 45 41 β-sheet 19 29 Turn 23 16 Random 13 14 5.4 Identificazione delle bande IR nei lipidi Durante gli ultimi 40 anni la spettroscopia infrarossa è stata impiegata sempre più largamente come tecnica per lo studio qualitativo e quantitativo di questi composti che nei tessuti biologici risultano variamente idratati. I lipidi infatti contengono parecchi gruppi IR-attivi sia nella regione idrofobica, sia in quella interfacciale ed in quella polare. Nella seguente tabella sono elencate alcune delle vibrazioni caratteristiche di questi composti: Gruppo funzionale Modo vibrazionale Numero d’onda (cm-1) R-NH2 stretch. 3000-3500 C-CH3 stretch. asimm. 2960 C-CH2 stretch. asimm. 2922 C-CH3 stretch. simm. 2870 C-CH2 stretch. simm. 2850 C=O stretch. 1720-1750 C=C stretch. 1600-1680 CH3 bending asimm. 1450-1480 -PO2 stretch. 1220 CH2 wagging 1400-1320 La posizione e la forma delle bande non è fissa, ma dipende dalla lunghezza della catena idrocarburica dei lipidi, dal grado di idratazione e dalla temperatura alla quale è mantenuto il campione; cioè se il sistema si trova ad una temperatura più o meno vicina alla temperatura della transizione di fase. 72 Dipendenza della posizione di alcune bande caratteristiche dei lipidi dalla temperatura nello spettro IR: in A la banda caratteristica dello stretching dei CH 2; in B la banda di stretching dei C=O; in C la banda di stretching del PO 2 5.5 Strumentazione impiegata per le analisi FT-IR in trasmissione e in riflessione Per le nostre analisi FT-IR sono stati utilizzati due spettrofotometri in due modalità differenti. Per le misure in trasmittanza sono state preparate pastiglie di bromuro di potassio (KBr) ed è stato utilizzato uno spettrometro Jasco FT-IR-420, dotato di sorgente IR al seleniuro di zinco (SeZn), beamsplitter KBr e detector DLATGS; 128 scansioni, risoluzione di 2 cm-1, in un intervallo compreso tra 4000 e 400 cm-1. Per le misure in riflettanza, che non necessitano di preparazione del campione, abbiamo usato uno Jasco FT-IR 6100, con sorgente ad alta intensità, beamsplitter KBr e detector DLATGS. L’accessorio Pike diamond sigle-reflection ATR ha permesso di fare misure in ATR. Abbiamo lavorato con scansioni in automatico (variabili in numero tra 80 e 100 circa) con una risoluzione di 4 cm-1, nell’intervallo compreso tra 4000 e 400 cm-1. 5.6 SEM Il SEM (Scanning Electron Microscope) è uno strumento largamente utilizzato nelle scienze dei materiali per svolgere indagini analitiche e di imaging. Sfruttando elettroni ad alta energia come sonda è possibile infatti ottenere numerose informazioni ed immagini con risoluzione nanometrica; gli elettroni ad alta energia offrono inoltre il vantaggio di poter essere facilmente generati, deflessi e rivelati. Il microscopio elettronico a scansione è costituito da una colonna, tenuta ad un vuoto di 10-610-7 torr grazie all'impiego di pompe rotative e turbomolecolari. 73 La colonna è composta da: Sorgente: gli elettroni possono essere generati in due modi: 1) da un filamento di W o LaB6 per effetto termoionico. La corrente che attraversa il filamento è di circa 2,5 A; gli elettroni vengono accelerati verso l'anodo da un potenziale di 0,1-40 KV. La densità di corrente che scaturisce dal filamento è data dalla legge di Richardson J = AT2 ∙ e-EwKbT dove T è la temperatura, EW l'energia di estrazione del materiale di cui è composto il filamento, KB la costante di Boltzmann e A un parametro correttivo; 2) da un pezzo appuntito di W per effetto di campi elettrici molto intensi; 74 Lenti elettromagnetiche: una volta prodotti, gli elettroni vanno focalizzati e deflessi per consentire la focalizzazione e la loro scansione sul campione. Tutto questo viene attuato grazie all'utilizzo di lenti elettromagnetiche. Queste consistono di cilindri di ferro dolce al cui interno si trovano degli avvolgimenti di rame. Come sappiamo dalle leggi dell'elettromagnetismo, all'interno di un solenoide percorso da corrente I, il campo magnetico risponde alla legge di proporzionalità H ∝n∙I dove n è il numero di spire per unità di lunghezza. Quando gli elettroni passano all'interno delle lenti sono soggetti quindi alla forza di Lorentz FL =q ∙ E ∙ v × ∙ B e, nell'attraversarle, vengono focalizzati. Successivamente è presente un set di bobine che permette la scansione sul piano X-Y. Il diametro finale del fascio è dato da df = d0M1M2M3 dove M1 ,M2, M3 rappresentano il potere di magnificazione nelle tre direzioni. La corrente del fascio, il campo magnetico delle lenti, il diametro e l’apertura finale del fascio dipendono, tra di loro, secondo la legge Ib = 2,5 ∙ 2d2B Quindi, variando la corrente e conseguentemente il campo magnetico nelle lenti, è possibile ottenere variazioni nella risoluzione. 75 Come le lenti ottiche anche quelle elettromagnetiche sono affette da aberrazioni, che possono essere di tre tipi: 1) aberrazione cromatica, dovuta al diverso angolo di rifrazione a seconda della lunghezza d'onda. Non è correggibile; 2) aberrazione sferica, che deriva dal diverso cammino ottico dell'onda in funzione della posizione da cui proviene. È un limite superabile con un costoso correttore che agisce generando un campo uguale e contrario. Il diametro finale è dS = 0,5CS ∙ 3 dove CS è un fattore che porta con sé l'entità dell'aberrazione; 3) astigmatismo, dato da asimmetrie dei campi della lente. Questo tipo di aberrazione è facilmente correggibile con campi magnetici di compensazione. Interazione del fascio elettronico con il campione L'interazione degli elettroni del fascio primario con la materia dà origine ad una molteplicità di effetti e prodotti. Prodotti di interazione fascio elettronico/campione La profondità di generazione di alcuni dei prodotti, riportati in precedenza, è di seguito descritta: Elettroni backscatterati: si hanno quando gli elettroni della sonda interagiscono elasticamente con gli atomi del campione. Essi vengono diffusi in tutte le direzioni subendo trascurabili perdite di energia. Il loro numero è proporzionale al numero atomico medio del materiale (maggiore è Z, maggiore sarà il numero di elettroni 76 backscatterati). Vengono principalmente utilizzati per rilevare differenze nella composizione chimica del campione; Elettroni secondari: sono prodotti da scattering anelastici degli elettroni primari. In questo processo le direzioni degli elettroni incidenti non subiscono variazioni significative, ma vi è un importante trasferimento di energia agli atomi del campione. Per questo motivo gli elettroni secondari sono meno energetici di quelli backscatterati e provengono solitamente da zone meno profonde. Vengono utilizzati per immagini topografiche; Elettroni Auger: se gli elettroni primari eccitano le shell interne degli atomi del campione, la seguente diseccitazione può avvenire in due modi: con l'emissione di fotoni o con la cessione dell'energia corrispondente ad un altro elettrone che viene cosi scalzato. Questo è proprio l'elettrone Auger; Raggi X: come appena detto, la diseccitazione degli elettroni delle shell interne che segue all'eccitazione provocata dalla sonda energetica può avvenire con emissione di fotoni, in particolare fotoni X. Queste radiazioni sono caratteristiche delle shell che entrano in gioco nelle varie transizioni. Sono quindi strettamente legate alla natura degli atomi di cui è composto il campione e costituiscono un potente mezzo analitico. Dell'emissione di raggi X fa parte anche la zona di spettro continuo della Bremsstrahlung. Essa scaturisce dall'accelerazione che gli elettroni subiscono quando vengono deflessi dai nuclei atomici; Catodoluminescenza: la catodoluminescenza (da questo momento verrà abbreviata in CL per comodità) è l'emissione di fotoni come risultato dell'interazione tra gli elettroni energetici e la materia. Nei semiconduttori questo tipo di eccitazione genera coppie elettrone-lacuna all'interno del volume del campione. Le cariche in eccesso termalizzano e diffondono all'interno del materiale per poi ricombinarsi per mezzo di processi non radiativi o con emissione di fotoni, ovvero appunto con il fenomeno di CL. La spettroscopia CL è un metodo potente che permette di studiare diverse proprietà, quali variazioni locali di composizione, concentrazione di impurità, livello di drogaggio, influenza delle differenti fasi e dei difetti cristallini nelle emissioni ottiche, ecc. Si può eseguire a questo proposito una mappa delle intensità in funzione delle lunghezze d'onda e gli esperimenti raggiungono risoluzioni submicrometriche sia lateralmente che in profondità. La risoluzione laterale dipende fortemente dal volume di interazione fascio/campione, il quale è a 77 sua volta principalmente determinato soprattutto dall'energia degli elettroni a parità di numero atomico [24]. In fenomeni radiativi si possono distinguere due tipi di transizioni: 1) transizioni intrinseche, dovute alla ricombinazione di elettroni e lacune dal punto a più bassa energia della banda di conduzione e dal punto a più alta energia della banda di valenza, ovvero attraverso l'intera energy gap caratteristica. 2) transizioni estrinseche, relative a stati che si trovano all'interno della band gap, sia profondi sia superficiali, scaturiti da difetti ed impurità, fungenti da donatori o accettori. Tipi di transizioni ottiche in un semiconduttore [24]. In condizioni stazionarie i fotoni emessi in seguito alla ricombinazione si propagano all'interno del materiale e la frazione che ne esce viene raccolta dal sistema di rivelazione. L'intensità del segnale I può essere espressa come ICL = ∙ Z ∙ nr ∙ rr dV dove nr è la densità di cariche in eccesso nella posizione r, rr è il tempo di vita della ricombinazione radiativa ed F ∙ z è una funzione che definisce la quantità di fotoni che lasciano la superficie in funzione della coordinata di generazione, e v una funzione di z se si assume un'invarianza della risposta ottica sul piano x-y. L'intensità dipende da fattori quali i processi di auto-assorbimento dei fotoni nel materiale, perdite dovute a scattering alle interfacce e alla superficie, ma anche dalla risposta del sistema di rivelazione. Riguardo quest'ultimo punto è necessario, ad esempio, considerare l'angolo solido di raccolta, le perdite dovute al sistema ottico, l'efficienza trasmissiva del monocromatore, il fattore di amplificazione del segnale e l'efficienza in funzione della frequenza di acquisizione. Il segnale che scaturisce dal campione può essere raccolto in due modi principali: 78 1. posizionando una fibra ottica vicino al campione; 2. usando uno specchio ellissoidale o parabolico posto sopra la superficie [25]. Una guida porta il segnale dal microscopio al monocromatore; infine, i vari tipi di detector rivelano il segnale a seconda delle lunghezze d'onda in gioco. Si ricava inoltre un'immagine visibile in uno schermo a tubo catodico modulandone l'intensità del segnale in funzione della lunghezza d'onda. Un recente sviluppo del sistema di rivelazione consiste nell'utilizzo parallelo di un fotodiodo o di un diode-array. L’approccio consente di minimizzare gli effetti di carica e il danno da irraggiamento del fascio elettronico, fattore molto importante ad esempio negli esperimenti su cristalli organici. La risoluzione spettrale del sistema di CL è determinata dall'efficienza di luminescenza del materiale e dai parametri del monocromatore, per il quale influiscono soprattutto la lunghezza focale, la densità della griglia di dispersione e la larghezza delle fenditure di entrata e uscita. La temperatura del campione viene controllata da un criostato che può variarla tra 6 e 300°K, grazie all'impiego di elio liquido. In un tipico esperimento di CL e possibile effettuare: analisi spettrali con risoluzione spaziale inferiore al nanometro; 79 analisi di distribuzione spaziale della luminescenza attraverso mappe monocromatiche e pancromatiche, ottenendo informazioni spaziali e spettrali correlate; analisi dipendente dal tempo (time-dependent). 5.7 Strumentazione usata per le analisi SEM Il sistema con cui abbiamo lavorato è un sistema Gatan MonoCL2 su un SEM S360 Cambridge. Gli spettri sono stati acquisiti a temperatura ambiente. Le immagini sono state acquisite con ingrandimento 500x. Le analisi spettrali e di immagini riportate in questa tesi sono state ottenute tutte a temperatura ambiente per simulare i processi reali in gioco. Tutti i campioni sono stati ricoperti di uno strato omogeneo di oro per evitare fenomeni di instabilità causati da eccesso di carica superficiale. Il SEM è corredato dal sistema di catodoluminescenza utilizzato presso IMEM-CNR per le analisi morfologiche e spettroscopiche. 5.8 Microspettroscopia Raman La spettroscopia micro-Raman, che è l’adattamento microscopico della spettroscopia Raman, è una tecnica già in uso da parecchi anni nei laboratori di fisica e che solo ultimamente sta trovando una vasta gamma di applicazioni al di fuori dei laboratori di ricerca grazie allo sviluppo di strumenti più compatti, versatili e (relativamente) economici. L’avvento di questa nuova strumentazione ha portato ad una vera e propria esplosione di campi di applicazione, tra i quali anche quello applicato ai beni culturali. La spettroscopia micro-raman è una tecnica spettroscopica di natura vibrazionale e molecolare che sfrutta l’effetto Raman, scoperto nel 1928 da V.C. Raman che per esso prese il premio Nobel nel 1930 e che è diventata, con lo sviluppo delle sorgenti laser, una tecnica di fondamentale importanza per lo studio della struttura della materia. Questo effetto si basa sulla diffusione anelastica della luce, ed in particolare sullo scambio di energia tra i fotoni presenti in un fascio luminoso e le vibrazioni degli atomi che costituiscono il materiale analizzato. In generale una radiazione monocromatica quando incide sulla superficie di un campione può essere riflessa, trasmessa, assorbita nel materiale o diffusa in tutte le direzioni. Questa tecnica rileva in particolare la parte di radiazione diffusa in modo anelastico dal campione. 80 I processi di diffusione vengono classificati in base alla differenza di energia tra fotoni incidenti e diffusi: se la frequenza diffusa è uguale ha quella incidente, il processo è chiamato diffusione elastica o Rayleigh; se la frequenza della radiazione diffusa è invece maggiore o minore di quella incidente la diffusione è chiamata diffusione anelastica o Raman. Nel caso in cui la diffusione sia elastica avviene senza perdita di energia, nel secondo caso invece la diffusione avviene con perdita di energia (diffusione Raman Stokes) oppure con guadagno di energia (diffusione Raman anti-Stokes). Spettro di CCl4 eccitato con una radiazione laser di lunghezza d’onda λ0=488mm e ν=20.492 cm-1. Il numero sopra i picchi è il “Raman shift”, Δν= (νs – μ0) cm-1 Nella diffusione Rayleigh lo spettro della radiazione diffusa consiste in una riga intensa della stessa frequenza di quella incidente, mentre nella diffusione anelastica consiste in una serie di righe più deboli a frequenza minore (righe Stokes) e a frequenza maggiore (righe anti-Stokes). Gli spettri Raman Stokes e anti-Stokes differiscono solo per la diversa intensità delle bande corrispondenti; sperimentalmente vengono rilevate solamente le righe Stokes perchè molto più intense. Le differenze di energia delle righe Raman rispetto a quelle del laser incidente sono misurate dagli spostamenti in frequenza (shift) dei picchi Stokes e anti-Stokes rispetto alla riga Rayleigh e per questo vengono espresse in frequenza relativa (cm -1). La separazione in energia tra una riga Raman e la riga eccitatrice è uguale all’energia associata a una 81 transizione molecolare vibrazionale o rotazionale. Dalla differenza di queste energie si ottengono le frequenze di vibrazione caratteristiche del materiale analizzato. Ogni sostanza solida, liquida o gassosa ha frequenze di vibrazione caratteristiche, che dipendono non solo dagli elementi che la costituiscono, ma anche da come sono legati tra loro. Quindi lo spettro vibrazionale (cioè il grafico dell’intensità della luce diffusa in funzione della frequenza di vibrazione) ottenuto tramite effetto Raman è una sorta di impronta digitale caratteristica di ciascun materiale e ne permette una rapida identificazione. Rappresentazione schematica di uno spettrometro Raman. Gli elementi caratterizzanti uno spettrometro Micro-Raman sono: Laser He-Ne con potenza di circa 20 mW: esso produce la riga eccitatrice, la cui luce (lunghezza d’onda = 632.8 nm) è polarizzata linearmente; Filtro notch: reticolo olografico che assume il ruolo di specchio solo per la luce diffusa per effetto Rayleigh (elasticamente), semplificando notevolmente l’impianto ottico necessario per evidenziare il segnale Raman, che ha un’intensità molto inferiore (oltre 106 volte) alla prima. Spesso la strumentazione dispone di due filtri notch per poter avere una buona sensibilità anche vicino alla riga eccitatrice; Obiettivo da microscopio ottico: dopo la riflessione sul primo filtro notch, il fascio eccitatore è focalizzato sul campione attraverso un obiettivo da microscopio ottico. 82 La luce retrodiffusa elasticamente ed anelasticamente è raccolta dal medesimo obiettivo, ma solo quella diffusa anelasticamente può attraversare il notch. Nel nostro caso il microscopio dispone di un set di quattro obiettivi, rispettivamente a 10x, 50x, 100x e ULWD (50x a lunga distanza); Filtro spaziale (diaframma): situato al di là del notch, fa in modo che venga trasmessa solo la luce diffusa dal punto (sul campione) in cui il laser è focheggiato (confocalità); La risoluzione ottimale si ha se le dimensioni dell’apertura del diaframma (hole) sono uguali a quelle della zona eccitata. Nel caso dell’obiettivo x100, ad esempio, la zona eccitata ha un’area dell’ordine del m2 ed una profondità di fuoco di circa un m; La luce diffusa anelasticamente passa attraverso il secondo filtro notch, che taglia ulteriormente il residuo elastico; Reticolo di diffrazione: per separare spazialmente le diverse lunghezze d’onda che vengono infine raccolte da una matrice CCD; Matrice CCD : raffreddata per effetto Peltier. La risoluzione spettrale dello strumento è di 2 cm-1. E’ in genere possibile visualizzare l’immagine del campione attraverso una telecamera a colori che permette di agevolare la focalizzazione del laser sul punto di analisi. Il supporto per i campioni è motorizzato XY con una risoluzione inferiore al micron, e permette di realizzare mappe punto per punto. La spettroscopia Raman è di per sé una tecnica non distruttiva che può essere applicata a qualsiasi sostanza su cui possa essere focalizzato un raggio laser, sia questa gassosa, liquida o solida, sia cristallina molecolare, ionica oppure amorfa. Se non si dispone di un’apparecchiatura portatile, può essere considerata microdistruttiva nel caso in cui, come nei beni culturali, i campioni debbano essere prelevati (almeno 1/10 mm2). In genere questa tecnica si adatta bene a composti inorganici, essendo questi ottimi diffusori di luce, mentre per le sostanze organiche l’indagine può risultare difficile per l’emissione di fluorescenza, che spesso è così forte da oscurare completamente l’effetto Raman. L’analisi di un campione incognito prevede l’acquisizione di un ampio spettro (da 100 cm-1 a 3500 cm-1), ed il successivo raffronto con spettri di riferimento, da farsi sia sulla base delle frequenze Raman, che dalle intensità relative dei picchi. I principali vantaggi della spettroscopia micro-raman sono: 83 la possibilità di effettuare in modo rapido (il tempo di acquisizione di uno spettro varia da pochi secondi a qualche minuto) indagini non distruttive o microdistruttive direttamente sul campione; tempi d’analisi così brevi permettono quindi di poter fare più analisi su uno stesso campione aumentando quindi l’affidabilità dei risultati ottenuti; l’alta risoluzione spaziale che consente di focalizzare il laser, attraverso un obiettivo da microscopio, su aree di pochi micron (1-4 µm). Si ottengono così informazioni anche da materiali fortemente disomogenei, dei quali si riesce ad ottenere una “mappa composizionale” ben definita. l’analisi non è distruttiva e non necessita di alcun tipo di preparazione o modifica: il campione non deve subire nessun trattamento e viene analizzato tale quale, quando è colpito dal laser non viene alterato e può essere disponibile per ulteriori accertamenti ed analisi; possiede un alto potere discriminativo fra sostanze anche molto simili: la misura Raman è sensibile non solo alla composizione chimica del campione ma anche alla “fase strutturale” nella quale il campione si trova, distinguendo anche tra materiali che presentano polimorfismo. Nel campo dei beni culturali con questa tecnica si ha infatti la possibilità di caratterizzare in maniera non distruttiva e immediata, un pigmento, una patina di corrosione, un qualsiasi materiale di cui si voglia caratterizzare la composizione. Gli spettri raman acquisiti sono confrontati, per l’identificazione delle strutture molecolari, con quelli raccolti in database pubblici. 5.9 Strumentazione usata per le analisi Raman Per le analisi che sono state eseguite abbiamo usato uno Jobin-Yvon Horiba LabRam Raman micro-spectrometer, con sorgente d’eccitazione Laser He-Ne 632.8 nm, una risoluzione spettrale di 2 cm-1, equipaggiato con un microscopio confocale Olympus con obiettivi 10x, 50x, 100x e ULWD (50x a lunga distanza). L’obiettivo usato per scattare le foto al microscopio è stato il 10x, quello usato per l’acquisizione dello spettro è stato il 50x a lunga distanza ULWD. 84 Capitolo 6: Archeologia sperimentale 6.1 Produzione del natrun e sua analisi Essendo impossibile per noi andare sul posto per campionare il natrun naturale, anche per le innumerevoli difficoltà quali la necessità di disporre di mezzi di trasporto adeguati e dei permessi appropriati (poiché ci sono delle limitazioni legate a vincoli di proprietà e/o di servitù militare), abbiamo optato per riprodurlo in laboratorio, seguendo la ricetta di Sandison. Egli propone una ricetta costituita da sei parti di carbonato di sodio idrato, tre parti di cloruro di sodio e una parte formata, in egual quantità, di bicarbonato di sodio e solfato di sodio [7]. Abbiamo preparato per ogni sale la sua soluzione satura, in base ai valori della solubilità. La quantità totale di solvente (acqua distillata) utilizzata è stata 2 litri di modo da disporre di una grande quantità di sale. I sali impiegati, la quantità e la solubilità sono indicati nella tabella seguente: NOME SOLUBILITA’ QUANTITA’ DI SALE (g) IN 2l Na2CO3 (anidro) 220 g/l 264 g 358 g/l 214,8 g 95,5 g/l 9,5 g 439,9 g/l 44 g NaCl (commerciale) NaHCO3 (commerciale) NaSO4 (anidro) Le quattro soluzioni sono state trasferite in una beuta della capacità di 2 litri e mescolate insieme nelle proporzioni suggerite dalla ricetta [7]. Grazie all’ausilio di un piaccametro è stato misurato il pH della soluzione che è risultato essere 10,93. Una parte di questa soluzione è stata trasferita in sei tubi di plastica Falcon da 50 ml dove poi sono stati posti i campioni per il trattamento liquido, la restante parte di soluzione è stata fatta evaporare in forno e/o sulla piastra riscaldante fino alla completa evaporazione del solvente per ottenere il natrun secco. Il sale è fortemente igroscopico; il suo colore è bianco e/o traslucido, questo perché i sali impiegati non contengono impurità di nessun genere. Il natrun prodotto è stato visionato allo stereomicroscopio per osservare la morfologia dei cristalli formati. Come possiamo osservare dalle fotografie sotto riportate, i sali precipitati dalla soluzione cristallizzano proprio come avviene in natura: i cristalli di cloruro di sodio, che si trova naturalmente sottoforma di salgemma o alite ed appartiene 85 al gruppo monometrico e al sistema cubico (a=b=c; α=β=γ=90°), mostrano un abito cosiffatto; gli altri sali, cioè carbonato di sodio, bicarbonato di sodio e solfato di sodio, fanno parte del gruppo trimetrico (a≠b≠c) ed appartengono, i primi due, al sistema monoclino (α,γ=90° e β>90°), l’ultimo all’ortorombico (α=β=γ=90°) e cristallizzano in natura rispettivamente come trona, nahcolite e thenardite [17]. Fig. Esempi di cristalli costituenti il natrun prodotto in laboratorio. Attribuiamo le fotografie in alto a sinistra ad un cristallo di carbonato di sodio e a destra a cristalli di solfato di sodio; sotto cristalli di cloruro di sodio. Fotografie scattate allo stereomicroscopio con massimo ingrandimento (4x). Analisi FT-IR Ogni sale è stato inglobato in pastiglie di KBr e sottoposto ad analisi FT-IR in trasmissione. Gli spettri sono stati acquisiti per poter essere confrontati con quelli ottenuti dalla pelle mummificata, sia suina sia umana, in modo da rilevare la presenza di bande di assorbimento caratteristiche del sale. Gli spettri ottenuti sono di seguito riportati. L’analisi dei picchi è avvenuta per confronto con gli spettri riportati in letteratura [15]. Lo spettro del carbonato di sodio anidro CaCO3 (A) mostra una banda molto intensa tanto da provocare saturazione, a 1446 cm-1 dovuta allo stretching dei C-O del gruppo CO3; il picco a 880 cm-1 è attribuibile al bending fuori fase del C-O del gruppo CO3 e il 86 picco a 697 cm-1 è dovuto al bending in fase; la banda a 3451 cm-1 è riferibile allo stretching degli O-H dell’acqua. Il cloruro di sodio NaCl (B) non presenta bande di assorbimento come deve essere, data la natura ionica del sale. Il solfato di sodio anidro Na2SO4 (C) mostra una banda intenso a 1133 cm-1 dovuto allo stretching asimmetrico del gruppo SO4, un doppietto a 637 e a 615 cm-1 derivante dal bending fuori fase del gruppo SO4 e la banda allargata a 3562 cm-1 propria dello stretching degli O-H dell’acqua. Il bicarbonato di sodio NaHCO3 (D) ha numerose bande di assorbimento: 3472, 2549, 2054, 1926 e cm-1 sono le frequenze di vibrazione dello stretching del gruppo O-H; i picchi a 1697, 1655 e 1619 cm-1 indicano lo stretching asimmetrico del C-O del CO2; i picchi a numeri d’onda rispettivamente a 1396 e 1302 cm-1 identificano lo stretching asimmetrico del legame O-CO2; a 1048 cm-1 troviamo lo stretching simmetrico del gruppo C-O del carbonato; a 836 cm-1 il bending dello stesso. A) C) B) D) Nello spettro del natrun (E) possiamo individuare i contributi dati dai sali costituenti: tra 3500 e 3000 cm-1 si osserva la banda dello stretching del gruppo O-H appartenente 87 all’acqua; a 1448 cm-1 si vede il picco più intenso dovuto alla vibrazione del C-O del gruppo carbonato; a 1127 cm-1 possiamo individuare un picco imputabile allo stretching del solfato; i picchi 865 cm-1 e 687 cm-1 possono essere ricondotti sia al bicarbonato sia al carbonato; il doppietto posto a 646 e 619 cm-1 richiama la vibrazione di bending fuori fase caratteristica del gruppo SO4. E) Questi sali sono stati analizzati anche in modalità ATR, sia prima della preparazione della soluzione satura, sia dopo l’evaporazione del solvente e messi a confronto. Come si può individuare dagli spettri sotto riportati, escludendo la porzione centrale dello spettro (i numeri d’onda compresi tra 2670 e 1730 circa) i cui picchi sono determinati dal diamante dello strumento, le bande sono leggermente shiftate rispetto alle misure ottenute in trasmissione a causa della ricristallizzazione dei sali dalla soluzione. Per completezza sono di seguito riportati gli spettri ottenuti. A) B) B) 88 C) D) E) Lo spettro (E) appartiene al natrun; abbiamo riportato le misure effettuate sia sulla soluzione di natrun sia su il natrun secco. Analisi SEM L’analisi delle emissioni ottiche dei singoli sali è stata condotta mediante la tecnica della catodoluminescenza (CL) al SEM. I singoli sali sono stati pestati con un mortaio d’agata per ridurne la granulometria. Dopo aver verificato la presenza di emissione ottica pancromatica nel visibile, abbiamo proceduto con l’acquisizione degli spettri. Lo spettro CL del carbonato di sodio (F) presenta l’intensità integrata più intensa di tutti i sali studiati e mostra una banda piccata a 531 nm. L’emissione di CL del cloruro di sodio (G) mostrano un numero di conteggi decisamente inferiore al carbonato di sodio, ma è piuttosto visibile con questa tecnica: il suo spettro mostra una banda abbastanza intensa piccata a 567 nm con una spalla a 427 nm. Sia il bicarbonato di sodio (H) sia il solfato di sodio (I) presentano spettri di CL che si confondono quasi con il rumore di fondo del sistema di rivelazione. Ciò ci permette di affermare che, a parità di condizioni di eccitazione dei campioni, questi sali presentano 89 un’efficienza di emissione nel visibile che non è confrontabile con quelle del carbonato di sodio e del cloruro di sodio. Il natrun (L) registra uno spettro con un’intensità integrata decisamente buona, con una banda intensa piccata a 545 nm derivante dai contributi del carbonato di sodio e del cloruro di sodio; ha inoltre una spalla a 424 nm dovuta certamente alla presenza del cloruro di sodio. G) F) I) H) L) 90 Analisi Raman Analizzando i singoli sali anche con la spettroscopia Raman, vediamo che le posizioni delle frequenze di vibrazione dei legami sono leggermente shiftate rispetto a quelle risultanti dagli spettri ottenuti con tecnica FT-IR [15]. I picchi caratteristici delle vibrazioni del gruppo carbonato del carbonato di sodio si trovano rispettivamente a 699 cm-1, debole, dovuto bending nel piano e, a 1077 cm-1, intenso, dovuto allo stretching simmetrico. Il cloruro di sodio non ha modi Raman-attivi al prim’ordine perciò non abbiamo la possibilità di individuarlo. Il picco più intenso del solfato di sodio anidro è a 992 cm-1 indicativo dello stretching simmetrico del gruppo SO4, tre picchi deboli ravvicinati a 646, 632 e 619 cm-1 del bending asimmetrico, un successivo doppio picco a 465 e 448 cm-1 propri del bending simmetrico e, a numeri d’onda più elevati, si vedono tre picchi a 1101, 1130 e 1151 cm -1 che distinguono lo stretching asimmetrico del gruppo SO4. La vibrazione di stretching simmetrico del CO2 è evidenziata da un picco intenso a 1045 cm-1 nello spettro del bicarbonato di sodio; altri picchi deboli si trovano a 697, 684, 657, 645, 224, 201 e 163 cm-1. I picchi evidenziati nella tecnica Raman appartenenti ai sali utilizzati, ai numeri d’onda sopra citati, trovano perfetta corrispondenza anche con i picchi propri del natrun naturale analizzato da Edwards et al. Nell’articolo citato sono stati analizzati alcuni campioni di 91 natrun prelevati nella zona dell’antico sito di Wadi Natrun; i risultati evidenziano che la composizione del natrun è data da carbonato di sodio anidro, carbonato di sodio decaidrato, bicarbonato di sodio, sesquicarbonato di sodio e solfato di sodio anidro. Di seguito vengono riportati gli spettri Raman della loro ricerca per poter essere comparati con il sale da noi prodotto in laboratorio [14]. Figura 1: gli spettri del carbonato di sodio anidro (a) e del carbonato di sodio decaidrato (b). Figura 2: gli spettri del bicarbonato di sodio (a) e del sesquicarbonato di sodio (b). Figura 3: gli spettri del bicarbonato di sodio (a) e del sesquicarbonato di sodio (b). 92 Lo spettro del natrun da noi prodotto rivela la composizione disomogenea del sale. Di seguito sono riportati alcuni spettri di diversi granelli di natrun che testimoniano come le bande vibrazionali varino a seconda del maggiore o minore contributo del singolo sale e dell’idratazione dello stesso. Vediamo comunque una banda caratteristica e sempre presente a circa 1069 cm-1, dovuta certamente al contributo maggioritario dei carbonati: 6.2 Preparazione dei campioni di pelle di maiale per il trattamento con il natrun La pelle di maiale è stata acquistata presso un prosciuttificio ed è stata fornita dopo una piena sommaria pulitura eseguita a macchina e lavaggio con acqua calda. Portata in laboratorio, la pelle è stata lasciata a bagno per circa 15 minuti in acqua e sapone di Marsiglia per effettuare un’ulteriore pulitura da eventuali residui di sporco. Successivamente sono stati effettuati risciacqui, prima con acqua corrente, poi con acqua deionizzata. Dalla pelle sono stati ricavati, attraverso taglio con bisturi, dodici campioni di dimensioni simili tra loro e dell’ordine del cm3. 93 Nella figura di sinistra si vede la pelle arrivata dal prosciuttificio, dopo aver proceduto con il lavaggio. Nella figura di sinistra il pezzo intero di pelle, nella figura di destra, la realizzazione dei dodici campioni di pelle suina. I campioni sono stati misurati lungo le tre dimensioni e pesati con bilancia di precisione prima del trattamento. I dati sono riportati in tabella: Nome del campione S35 Larghezza (cm) 1,9 ± 0,1 Lunghezza (cm) 1,6 ± 0,1 Spessore (cm) 0,4 ± 0,1 L 35 2,0 ± 0,1 1,6 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,960 ± 0,001 S42 1,9 ± 0,1 1,6 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,912 ± 0,001 1,444 ± 0,001 L42 2,0 ± 0,1 1,5 ± 0,1 0,4 ± 0,1 1,200 ± 0,001 1,310 ± 0,001 S49 2,1 ± 0,1 1,8 ± 0,1 0,3 ± 0,1 1,134 ± 0,001 1,274 ± 0,001 L49 2,0 ± 0,1 1,7 ± 0,1 0,3 ± 0,1 1,020 ± 0,001 1,191 ± 0,001 S56 2,0 ± 0,1 1,5 ± 0,1 0,4 ± 0,1 1,200 ± 0,001 1,340 ± 0,001 L56 1,9 ± 0,1 1,5 ± 0,1 0,4 ± 0,1 1,140 ± 0,001 1,295 ± 0,001 S63 2,0 ± 0,1 1,8 ± 0,1 0,3 ± 0,1 1,080 ± 0,001 1,124 ± 0,001 L63 1,9 ± 0,1 1,5 ± 0,1 0,4 ± 0,1 1,140 ± 0,001 1,116 ± 0,001 S70 2,0 ± 0,1 1,7 ± 0,1 0,3 ± 0,1 1,020 ± 0,001 1,223 ± 0,001 L70 1,9 ± 0,1 1,6 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,912 ± 0,001 1,111 ± 0,001 94 Volume (cm3) 1,216 ± 0,001 Peso (g) 1,249 ± 0,001 1,174 ± 0,001 6.3 Procedura seguita post trattamento Tutti i campioni sono stati sottoposti al trattamento con natrun: sei campioni sono stati adagiati su uno strato di natrun secco e completamente ricoperti dal sale; gli altri sei sono stati immersi nelle provette precedentemente riempite con la soluzione di natrun e chiuse con parafilm e tappo della provetta. Fasi iniziali della sperimentazione: i campioni S ricoperti di natrun secco (a sinistra e sotto) e i campioni L immersi in soluzione satura (a destra). I campioni pronti per essere posti in forno e subire l’intera durata del trattamento. Così preparati, i campioni sono stati posti in stufa ad una temperatura di circa 40°C. La temperatura è stata misurata quotidianamente per 70 giorni: la media risultante è stata di 40,9°C. A partire dal 35mo giorno, ogni sette giorni, fino al 70mo sono stati prelevati i campioni sia dal trattamento solido sia da quello liquido ed analizzati. Dunque, sei set di due campioni ciascuno sono stati estratti dopo 35, 42, 49, 56, 63 e 70 giorni di trattamento. Avvenuta l’estrazione, i campioni sono stati misurati e pesati nuovamente per valutare le differenze in peso e in volume. La tabella sottostante riporta i dati: 95 Nome del campione S35 Larghezza (cm) 1,7 ± 0,1 Lunghezza (cm) 1,4 ± 0,1 Spessore (cm) 0,3 ± 0,1 Volume (cm3) 0,714 ± 0,001 Peso (g) 0,693 ±0,001 L 35 1,9 ± 0,1 1,6 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,912 ± 0,001 0,919 ± 0,001 S42 1,6 ± 0,1 1,4 ± 0,1 0,2 ± 0,1 0,448 ± 0,001 0,531 ± 0,001 L42 1,9 ± 0,1 1,6 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,912 ± 0,001 1,111 ± 0,001 S49 1,8 ± 0,1 1,5 ± 0,1 0,2 ± 0,1 0,540 ± 0,001 0,613 ± 0,001 L49 2,0 ± 0,1 1,7 ± 0,1 0,3 ± 0,1 1,020 ± 0,001 0,991 ± 0,001 S56 1,7 ± 0,1 1,3 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,663 ± 0,001 0,705 ±0,001 L56 1,8 ± 0,1 1,4 ± 0,1 0,4 ± 0,1 1,008 ± 0,001 1,107 ± 0,001 S63 1,7 ± 0,1 1,5 ± 0,1 0,2 ± 0,1 0,510 ± 0,001 L63 1,9 ± 0,1 1,3 ± 0,1 0,4 ± 0,1 0,988 ± 0,001 0,991 ± 0,001 S70 1,8 ± 0,1 1,7 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,969 ± 0,001 L70 1,9 ± 0,1 1,5 ± 0,1 0,3 ± 0,1 0,810 ± 0,001 0,894 ±0,001 0,510 ± 0,001 0,580 ±0,001 Confrontando i valori nelle due tabelle possiamo stimare la riduzione dei campioni trattati con metodo a secco in 41% circa per quanto riguarda il volume, mentre la riduzione in peso è di circa il 52%. La riduzione delle misure dei campioni trattati con metodo in soluzione è decisamente inferiore rispetto al trattamento a secco e si può stimare una riduzione del volume attorno al 11% e una riduzione del peso attorno al 16%. I campioni sono stati analizzati presso i laboratori dell’Università di Parma mediante tecniche spettroscopiche FT-IR e Raman e, presso i laboratori dell’Istituto dei Materiali per l’Elettronica ed il Magnetismo (IMEM) di Parma, con tecnica SEM. Le foto di seguito riportate esemplificano, un campione per tutti (poiché tutti hanno subito il medesimo procedimento), il succedersi delle varie fasi della procedura attuata. 96 Il campione trattato con sale secco è stato estratto da quest’ultimo con pinzette da laboratorio e tolto il sale in eccesso con aria compressa. Il campione trattato in soluzione è stato estratto con analoghe pinzette ed asciugato con carta assorbente. Di ogni campione è stata prelevata una quantità di circa un milligrammo per procedere con la preparazione delle pastiglie di KBr per l’analisi FT-IR in trasmissione che sono state analizzate nello stesso giorno del campione per evitare che assorbissero umidità dall’ambiente. Il campione di pelle che ha subito trattamento in soluzione è rimasto una notte in forno per eliminare l’eccesso d’acqua; poi da esso è stata prelevata una medesima quantità per farne un’altra pastiglia, al fine di individuare eventuali differenze dopo l’asciugatura in stufa. Abbiamo proceduto con l’asciugatura del campione in stufa a 40°C per simulare il possibile trattamento subito dalle mummie se trattate con soluzioni sature di natrun: si suppone che la mummia venisse lasciata ad asciugare all’aria dopo essere stata rimossa dal bagno di sale, prima di subire le successive fasi previste dall’imbalsamazione. Anche i residui di sale a contatto con il campione sono stati analizzati: col sale in forma solida è stata preparata una pastiglia con KBr; della soluzione di natrun in cui era immerso il campione, con pipetta Pasteur, è stata prelevata qualche goccia, posta su una finestra di fluoruro di calcio e lasciata in drybox per far evaporare l’acqua così da ottenere un film sottile da sottoporre ad analisi FT-IR in trasmissione. I campioni di pelle sono stati di nuovo riposti in stufa e lì rimasti fino alla fine del trattamento dell’ultimo campione, per le successive misure. 6.4 Procedure di preparazione dei campioni per le analisi Preparazione dei campioni per le misure FT-IR in trasmissione Per analizzare un campione in trasmissione allo FT-IR è essenziale che questo sia sufficientemente trasparente. Per ottenere ciò abbiamo prodotto delle pastiglie di bromuro di potassio (KBr, 100 mg) nelle quali si è inglobato circa 1 mg di campione, prelevato aiutandoci con lama bisturi e pinzette e pesato su bilancia di precisione. L’analita è stato macinato con un pestello di agata in un mortaio dello stesso materiale con il KBr anidro (che non assorbe radiazione IR sopra i 250 cm-1), fino ad ottenere una polvere finissima. Questa è stata trasferita in un pastigliatore che è collegato ad una pompa da vuoto, che serve per eliminare eventuali residui di polvere e l’aria che possono essere contenuti. Il pastigliatore viene posto sotto una pressa, applicando una pressione di 7,39 ∙ 108 Pa. La 97 pastiglia si presenta come un dischetto trasparente o traslucido, con diametro di circa 13 mm e uno spessore di 0,2 0,3 mm. Preparazione dei campioni per le misure al microscopio elettronico Condizione necessaria per analizzare un campione al SEM è che la sua superficie sia conduttiva: per questo si procede generalmente alla metallizzazione. La metallizzazione di un campione di natura biologica è però un’operazione che può creare problemi a causa della natura molto idratata di questo. Per ovviare a questo problema si è quindi preferito procedere diversamente. I campioni di pelle sono stati tagliati con il microtomo e la seziona ottenuta, di spessore di 1 mm, è stata inglobata in resina conduttrice. È stata utilizzata resina Araldite, costituita da vari componenti: A = Durcupan acm (Cod. 44611), B = Durcupan acm (Cod. 44612), C = Durcupan acm (Cod. 44613), D = Durcupan (Cod. 44614) della Fluka. Di seguito sono riportate le fotografie delle sezioni: Fotografie delle sezioni di spessore di 1,5 mm dei campioni inglobati in resina araldite. Le sezioni spesse 1 mm sono state fissate su tre slitte di rame (portacampioni del SEM) con pasta d’argento e successivamente metallizzate con oro (spessore di 15 nm). Slitte in rame con le sezioni metallizzate con oro. 98 Preparazione dei campioni per l’analisi al Raman Abbiamo ricavato porzioni di pelle eseguendo un taglio, con bisturi, perpendicolare allo strato di epidermide. Per l’analisi in ATR non è richiesta nessuna preparazione del campione. Si analizza la superficie così com’è. 6.5 Le mummie della Collezione Marro I campioni di pelle di mummia egizia sono state utilizzate per il confronto con i nostri campioni di pelle suina dopo i due trattamenti subiti e con il natrun da noi prodotto. Questi campioni sono stati campionati in passato da alcune mummie risalenti dalla sesta all’undicesima dinastia negli scavi di Assiut e Gebelein, condotti dall’archeologo Ernesto Schiapparelli, ora appartenenti alla Collezione Marro del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università degli Studi di Torino. La loro dicitura è elencata nella seguente tabella: Mummie della Collezione Marro Campione di mummia predinastica Campione 929 Campione 9092 Campione XX11 Campione XX6 Essi sono stati analizzati con tecnica FT-IR in trasmissione in due tesi precedenti [23]. Per il presente lavoro di tesi sono stati riutilizzati gli spettri delle analisi passate per evitare il campionamento di ulteriore tessuto delle mummie considerate. Campione di mummia predinastica: La mummia è deposta in posizione fetale ed è conosciuta con il nome di “Mummia con Inversione Uterina”, poiché la causa del decesso è stata un’inversione dell’utero post partum. Si tratta della più antica testimonianza conosciuta di questa patologia. L’individuo è stato datato a circa 6000 anni a.C.. Accanto alla madre è ancora conservato, in tutte le sue parti, lo scheletro del neonato. 99 Campione 929: [Codice Guarini: R0340934] La testa appare avvolta in un fitto bendaggio scuro con abbondante bitume addirittura di aspetto vitreo in alcune zone, come osservabile al livello caudale. Si osservano aree biancastre nella porzione facciale. Sono evidenti le sporgenze in corrispondenza corrispondenza delle orecchie sulle quali è conservato il bendaggio. E’ esposta parte dell’osso occipitale e una porzione sia del parietale di destra che di quello di sinistra. E’ visibile e marcata la linea nucale superiore. E’ presente un primo tratto del collo e causalmente è visibile una vertebra cervicale. Il livello di conservazione è discreto. Campione XX11: [Codice Guarini: R0340960] Sul cranio sono riportati anche i numeri romano XV e arabo 15. Testa in buona parte scheletrizzata. Sono conservati tessuti mummificati su parte della faccia e a livello della parte frontale del neurocranio. Sono in parte conservati i tessuti al livello delle cavità oculari. In alcuni punti i tessuti presentano, oltre alla colorazione scura, un aspetto vetroso riferibile al bitume. Il bendaggio risulta assai poco conservato, infatti si osservano alcune bende sul frontale. Al livello delle arcate dentarie si osservano vistose fratture postume delle corone. Il grado di usura dei denti conservati e visibili riferisce il soggetto probabilmente ad un’età adulto o matura come pure risulta dal grado di sinostosi delle suture esocraniche. E’ conservato a parte un piccolo sacchetto contenente piccoli frammenti di tessuto mummificato. Aspetti morfologici delle porzioni ossee osservabili riferiscono il soggetto verosimilmente al sesso femminile. Non è presente il collo. Non sono intuibili i tratti somatici. Si segnala una vistosa protuberanza della squama occipitale. 98 Campione 9092: la testa è incompleta per mancanza di una consistente porzione del neurocranio che include parte del frontale, parte del parietale destro e tutto il parietale sinistro. Sono conservati sporadici residui di bende. I tessuti mummificati sono conservati sulla maggior parte della testa ad eccezione di contenute aree della faccia e in corrispondenza della porzione destra della mandibola. Sono visibili i denti dell’emiarcata inferiore di destra; l’usura marcata permette di ipotizzare che si tratti di un soggetto di età adulta oppure matura. Sono conservati il naso ed entrambe le orecchie. Si segnalano anche fratture prossime delle corone dentarie. Il livello di conservazione è mediocre. Sono conservati in un sacchettino a parte frammenti, bende e denti. Campione XX6: Testa scheletrizzata; residuano porzioni di tessuto mummificato in particolare sul frontale e occipitale, insieme a residui di bendaggio, e sulla mandibola che risulta libera e completa. La colorazione scura e l’aspetto vetroso sono dovuti all’uso di abbondante bitume. Le bende presentano una trama molto sottile. La morfologia della mandibola e del cranio riferiscono il soggetto al sesso femminile. Per quanto riguarda i denti, inferiormente si segnala usura a piatto e marcata, particolarmente per i denti anteriori che sono usurati fino al colletto. Superiormente sono stati persi intra vitam il 1° e il 2° molare di destra e forse il 1° di sinistra, residuano le radici del 2° molare di sinistra con fratture in vista e spostamento mesiale. Sono presenti, moderatamente usurati, i terzi molari supe-riori. Anche per i denti superiori si evidenzia una forte usura a piatto: tutti i denti sono usurati fino al colletto anche i premolari. Si segnala la presenza di alterazioni e rimaneggiamento del tessuto osseo a livello delle strutture temporo mandibolare di destra sia a carico del cranio (superficie articolare slargata) sia a livello della mandibola. Il condilo mandibolare destro presenta infatti una superficie porosa e alterata con una faccetta articolare anomala in posizione postero mesiale rispetto alla normale superficie articolare condilare e un cercine di esostosi di origine artrosica sul margine anteriore del condilo stesso. 99 L’associazione della lesione riscontrata con l’usura estremamente marcata e a piatto a livello dei denti anteriori permette di ipotizzare siano entrambi esito di un uso paramasticatorio della dentatura. Le condizioni di conservazione sono mediocri sia per l’incompletezza sia per condizioni di quanto conservato. Necessita di ricomposizione. In un sacchetto a parte sono contenuti frammenti di tessuto osseo e tessuti mummificati, anche i parte polverizzati. 100 Capitolo 7: Risultati e discussione Analisi FT-IR 7.1 Confronto tra pelle umana e pelle suina Per mezzo della spettroscopia FT-IR in trasmissione sono state comparate la pelle umana e quella suina (V. Cap. 6, Archeologia sperimentale, § 6.4). L’analisi ha lo scopo di evidenziare analogie e differenze tra i due tessuti e quindi di permetterci di giustificare l’impiego della pelle suina in sostituzione di quella umana per l’esperimento. Gli spettri ottenuti sono riportati in Figura 1: Fig. 1: confronto tra la pelle suina (rosa) e la pelle umana (viola). Apparentemente gli spettri delle due cuti sembrano molto diversi, e questo è vero soprattutto per quanto riguarda l’intensità di alcuni assorbimenti, cosa che denota differenze notevoli nella quantità delle macromolecole costituenti, ma studiando nei dettagli le diverse regioni dello spettro possiamo notare molte analogie. Per rendere più semplice la comparazione, gli spettri sono stati divisi in due regioni: regione ad alti numeri d’onda e regione a numeri d’onda intermedi. La regione di spettro ad alti numeri d’onda (3800 2800 cm-1) mostra le vibrazioni del groppo O-H dell’acqua, le bande Amide A e B appartenenti alle proteine, lo stretching asimmetrico dei gruppi CH3 e CH2 a cui contribuiscono sia lipidi sia proteine ed, infine, lo stretching simmetrico degli stessi gruppi. Alla banda è stata applicata la procedura di 101 deconvoluzione per separare i contributi dei diversi costituenti molecolari componenti l’assorbimento complessivo. Nella regione spettrale a numeri d’onda intermedi cadono gli assorbimenti di stretching dei gruppi C=O (~ 1750 cm-1) e C=C (~ 1665 cm-1), tipicamente delle molecole lipidiche, le vibrazioni di bending degli ossidrili (1645 cm-1), le bande Amide I e Amide II delle proteine (regione compresa tra 1700 e 1480 cm-1), la banda Amide III, ancora dovuta alla componente proteica della pelle, e gli assorbimenti del gruppo fosfato dei lipidi, lo stretching asimmetrico a 1238 cm-1 e quello simmetrico a 1096 cm-1 di PO2-. Regione ad alti numeri d’onda (3800-2800 cm-1) La Figura 2 mostra la banda ricavata dalla pelle umana e le componenti che la caratterizzano (il fitting è stato eseguito con nove gaussiane, secondo il modello usato da Rabotyagova [31]). In essa possiamo riconoscere: le tre bande dell’acqua a 3611, 3526 e 3413 cm-1, la banda Amide A a 3279 cm-1 associata agli stretching del legame N-H (la frequenza della banda Amide A dipende dalla conformazione del collagene [31]) e la banda Amide B a 3071 cm-1, anch’essa associata allo stretching del legame N-H e alla risonanza di Fermi tra il primo overtone della banda Amide II. A 2951 e 2885 cm-1 troviamo i picchi di assorbimento dovuti alle vibrazioni di stretching asimmetrico e simmetrico dei gruppi CH2 e CH3 propri delle catene alifatiche delle molecole lipidiche. Fig. 2: spettro della pelle umana nella regione ad alti numeri d’onda (38002800 cm-1). Le bande componenti ottenute attraverso il procedimento di deconvoluzione rispetta il seguente codice di colori: in blu le bande dell’acqua, in rosa la banda Amide A, in viola la banda Amide B e in azzurro le componenti lipidiche. La curva punteggiata in rosso rappresenta la somma delle gaussiane: essa si sovrappone alla curva sperimentale, rappresentata con la linea nera continua, con approssimazione molto buona (R = 0.99976). 102 Nella Figura 3 è rappresentato lo spettro della pelle suina registrato nella stessa regione. Risulta subito evidente la elevata intensità delle bande dei gruppi metile-metilene, appartenenti alla porzione lipidica della pelle animale che risulta decisamente preponderante rispetto alla pelle umana e ciò rende la curva apparentemente molto diversa: il quantitativo di grasso dell’ipoderma suino fa sì che gli assorbimenti nella zona degli stretching dei gruppi O-H dell’acqua e della banda Amide A, tra 3500 e 3400 cm-1 risultino attenuati. Fig. 3: spettro della pelle suina ad alti numeri d’onda (38002800 cm-1): le curve di deconvoluzione: in azzurro fittano le bande lipidiche (R= 0,9836). Fig. 4: pelle di maiale. Ingrandimento dello spettro di figura 3: in blu le componenti dovute all’acqua, in rosa la banda Amide A ed in viola la banda Amide B (R= 0,9836). 103 Nella figura 4, pertanto, questa regione è stata amplificata, a spese delle bande lipidiche, che sono risultate così “tagliate”. Dalla deconvoluzione dello spettro possiamo notare come le bande costituenti siano, sia in numero sia in posizione, paragonabili a quelle ricavate nell’analisi sulla pelle umana: tre bande corrispondenti allo stretching del legame O-H dell’acqua a 3618, 3538, 3474 cm-1; l’Amide A a 3321 cm-1; l’Amide B a 3064 cm-1; i contributi delle vibrazioni delle amine primarie e secondarie (molto più abbondanti nella pelle suina rispetto alla pelle umana) a 3423 e 3385 cm-1; gli stretching asimmetrici dei gruppi CH2 e CH3 rispettivamente a 2925 cm-1 e 2964 cm-1 ed il loro stretching simmetrico a 2857 cm-1. L’elevata quantità di lipidi presenti nel campione si riflette sulla forma della banda che risulta deformata per la presenza di una banda Amide A estremamente più larga che non nello spettro del campione di pelle umana, perché ad essa contribuisce probabilmente anche l’assorbimento dei gruppi aminici tipici di lipidi quali ceramidi e sfingolipidi. Regione intermedia (1800 – 1400 cm-1) In questa regione dello spettro IR cadono le vibrazioni di stretching del gruppo C=O, caratteristico dei lipidi e gli assorbimenti più importanti dei legami peptidici delle proteine (soprattutto collagene) e cioè la banda Amide I e la banda Amide II. Attorno a ν = 1450 cm-1 si ha la banda Amide III. Le bande Amide I e II sono quelle più significative per ricavare informazioni sulla struttura secondaria delle proteine (V. Cap. 5, Tecniche Analitiche, §5.3). Nel campione in esame di pelle umana la banda Amide I è posizionata a 1645 cm-1; la banda Amide II si trova a 1546 cm-1. Dalla deconvoluzione dello spettro come mostrato in Figura 5 identifichiamo i componenti che ci danno informazioni sulla conformazione del collagene, che è la proteina più abbondante del tessuto cutaneo: la componente a 1693 cm-1 può essere attribuita alla struttura β-turn, anche se secondo alcune fonti sarebbe dovuta alle eliche aggregate; la banda intensa a 1665 cm-1 è dovuta alla vibrazione propria dell’α-elica e quella a 1627 cm-1 è caratteristica della tripla elica. La scomposizione della banda Amide II rivela tre distinte componenti: a 1596 cm-1 la banda dovuta alle vibrazioni dei gruppi carbossilici laterali di glutamati ed aspartati (ED), il picco a 1545 cm-1 associato alla tripla elica e, a 1511 cm-1, la vibrazione degli anelli di tirosina. 104 I picchi a 1727 e a 1756 cm-1 possono essere attribuiti allo stretching del gruppo carbonile degli acidi grassi, appartenente alle molecole lipidiche. Fig. 5: deconvoluzione delle bande Amide I e II dello spettro della pelle umana: in azzurro le componenti lipidiche, in verde il β-turn, in rosso l’α-elica, in viola la tripla elica , in porpora il contributo di ED e, in arancione, anelli di tirosina (R=0,99991). Negli spettri rappresentati in figura 6 e in figura 7 vediamo l’analisi della stessa regione nella pelle di maiale. La presenza dell’intensa banda degli stretching del legame C=O dei lipidi, posizionata a 1746 cm-1, affievolisce molto l’intensità delle bande Amidi I e II. Fig. 6: regione intermedia dello spettro della pelle suina; fitting con 11 gaussiane (R=0,99994). Le componenti lipidiche in azzurro. 105 Dilatando lo spettro nella zona interessata (17001540 cm-1), possiamo distinguere i diversi contributi. L’Amide I mostra i due contributi, ora separati dovuti alle eliche aggregate e ai β-turn a 1702 cm-1 e a 1681 cm-1 rispettivamente e, a 1657 cm-1, la componente dovuta all’α-elica. Il contributo non trascurabile della tripla elica associata ai β-sheet si trova a 1638 cm-1. L’Amide II mostra le componenti dovute agli assorbimenti dei gruppi ED a 1573 cm-1, della tripla elica a 1546 cm-1 e della vibrazione degli anelli di tirosina a 1518 cm-1. Fig. 7: amplificazione della regione spettrale contenente le bande Amide I e II. In verdone il contributo delle eliche aggregate, in verde i β-turn, in rosso l’α-elica, in viola la tripla elica associata al β-sheet, in porpora l’ED, in rosa la triple elica ed in arancione gli anelli di tirosina. La tabella 1 mette a confronto le frequenze di assorbimento delle vibrazioni dei gruppi molecolari nella pelle umana e nella pelle suina: Tabella 1: vibrazioni molecolari di tutte le bande individuate dalla deconvoluzione della curva. Vibrazioni molecolari ν(OH) ν(OH) ν(OH) ν(NH) Amide A Pelle umana (cm-1) Pelle suina (cm-1) 3611 3526 3413 3279 106 3618 3538 3422 3321 ν(NH), risonanza di Fermi Amide B 3071 νas(CH2) 2953 νas(CH3) νs(CH2- CH3) 2885 ν(C=O) 1756 ν(C=O) 1727 ν(CONH) Amide I 1645 ν(CN), δ(NH)Amide II 1546 ν(C=C), δ(CH3) del colesterolo 1446 Amide III δ(CH2) 1406 δ(NH) 1241 ν(PO2) 1238 ν(CC) 1084 ν(CC) 1051 706 ρ(CH3) 3064 2964 2925 2857 1746 1652 1540 1468 1446 1377 1241 1166 1119 1095 722 Trattamento con il Natrun Come spiegato in dettaglio nel capitolo 6, Archeologia sperimentale, i frammenti di pelle di maiale sono stati sottoposti al trattamento col natrun per complessivi 70 giorni, e l’analisi su di essi è stata eseguita una volta ogni sette giorni a partire dal 35mo giorno. I campioni sono stati analizzati in coppia, uno per trattamento in natrun secco ed uno in soluzione salina. Di seguito verranno mostrate le modificazioni osservate nello spettro dei campioni trattati rispetto a quello della pelle naturale. 7.2 Analisi generale degli spettri a confronto Gli spettri dei campioni di pelle suina che hanno subito il trattamento con il natrun sono riportatati sotto (Figure 8 e 9). Anche in questo caso l’intervallo spettrale è stato diviso in due parti (alti e medi numeri d’onda), ed i risultati verranno presentati in sequenza, prima quelli relativi al trattamento in solido e poi quelli in liquido. Successivamente gli spettri saranno studiati in dettaglio nelle due regioni considerate, come è stato fatto precedentemente per i campioni non trattati. 107 Fig. 8: spettri di tutti i campioni che hanno subito trattamento a secco. In nero il natrun solido. Fig. 9: spettri di tutti i campioni che hanno subito trattamento liquido. In nero la soluzione di natrun. 108 Campioni con trattamento a secco Gli spettri risultano modificati sia nella regione ad alti numeri d’onda sia in quella dei numeri d’onda intermedi. Nella regione tra 3800 e 2800 cm-1 risultano modificate sia la banda degli OH stretching dovuta all’acqua adsorbita sia quelle degli stretching dei gruppi CH2 e CH3. Queste ultime cambiano intensità, ma non mostrano spostamenti lungo l’asse dei numeri d’onda, né cambiamenti d forma indicando che non si sono verificate significative alterazioni nella componente lipidica dei campioni analizzati a seguito del trattamento, se non quelle a carico del loro contenuto di idratazione (Figura 10). Fig. 10: spettri ad alti numeri d’onda di tutti i campioni di pelle suina trattata con sale secco. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. La figura 11 è un ingrandimento dello spettro nella regione 3700 3100 cm-1 e permette di visualizzare meglio la zona dell’assorbimento delle vibrazioni di stretching dei gruppi ossidrile dell’acqua. Per confrontare le bande appartenenti ai diversi campioni abbiamo normalizzato gli spettri all’intensità massima della banda più intensa dei gruppi metilemetilene lipidica, basandoci sull’assunzione che la frazione lipidica dovesse rimanere costante nei diversi campioni e che le diversità nell’intensità di questo assorbimento da campione a campione fosse dovuta a difformità nei prelievi per la preparazione delle pastiglie. Il campione di pelle suina non trattata è, come ci si aspetta, il più idratato. 109 Dopo 35 giorni di trattamento l’intensità della banda centrata a ~3500 cm-1 si riduce e la sua forma appare modificata. I trattamenti per tempi più lunghi producono solo lievi oscillazioni nell’intensità della banda con ulteriori lievi alterazioni di forma. Fig. 11: banda ad alti numeri d’onda dell’acqua di tutti i campioni di pelle suina trattati con sale secco: la sequenza dei tempi di trattamento è descritta nella legenda della figura. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. Gli spettri sono stati normalizzati all’altezza del picco massimo delle bande dei lipidi (ν = 2925 cm-1). Nella zona intermedia dello spettro (1800 1500 cm-1) possiamo osservare che la banda di assorbimento del gruppo carbonile caratteristico delle molecole lipidiche, a 1745 cm-1, subisce cambiamenti d’intensità (Figura 12) per le medesime ragioni sopra esplicate; le bande Amide I e II (Figura 13) mostrano consistenti alterazioni sia di forma sia di intensità che verranno messe in relazione con le modificazioni strutturali della molecola di collagene, come sarà mostrato successivamente nella deconvoluzione delle bande. Fig. 12: spettri a numeri d’onda intermedi di tutti i campioni di pelle suina trattata con sale secco. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. 110 Fig. 13: spettri nella regione delle bande Amide I e II di tutti i campioni di pelle suina trattata con sale secco. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. Campioni trattati in soluzione Per i campioni trattati in soluzione si è giudicato opportuno considerare quelli riposti una notte in stufa a 40°C a seccare dopo il trattamento in soluzione, per simulare il trattamento ipotizzato sulle mummie: i corpi degli Antichi Egizi, supposto che subissero un trattamento in soluzione, dopo essere estratti dal liquido, venivano certamente in contatto con le alte temperature del luogo e quindi si asciugavano. Gli spettri della pelle trattata in soluzione presentano caratteristiche differenti da quelli dei campioni trattati a secco. Nella figura 14 è riportata la regione di spettro ad alti numeri d’onda: anche in questi spettri si rileva una modificazione dell’intensità delle bande lipidiche e di quella degli assorbimenti dell’acqua. La banda ad alti numeri d’onda è ingrandita in figura 15 e verrà analizzata più avanti. Come per i campioni trattati a secco, anche in questi spettri si è proceduto alla normalizzazione all’intensità massima della banda dei gruppi CH 3/CH2. Le modificazioni della banda dell’acqua hanno un andamento meno regolare di quello registrato nei campioni precedentemente trattati: dopo 35 giorni di trattamento la banda non risulta ridotta in intensità, ma modifica la forma esibendo una spalla a bassi numeri d’onda (~ 3250 cm-1); il campione che è stato trattato per 42 giorni, invece, rivela una drastica disidratazione. Dopo questa fase, i campioni mantenuti in soluzione salina per 111 tempi più lunghi sembrano recuperare in parte l’acqua persa e mostrano una banda di assorbimento con un profilo modificato rispetto a quello iniziale. Fig. 14: spettri ad alti numeri d’onda di tutti i campioni di pelle suina trattata in soluzione salina. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. Fig. 15: banda dell’acqua di tutti i campioni trattati con natrun liquido. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. Anche nella regione intermedia dello spettro, le bande Amide suggeriscono un comportamento decisamente diverso rispetto ai campioni trattati a secco. Ancora una volta la banda di assorbimento del legame C=O dei lipidi non subisce alterazioni se non variazioni di intensità (Figura 16). 112 Fig. 16: spettri della regione intermedia di tutti i campioni trattati con natrun in soluzione. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. Particolarmente interessante risulta il comportamento della banda Amide II che cambia parzialmente la sua forma già dopo 35 giorni di trattamento e notevolmente dal 49mo giorno esibendo un picco stretto e intenso centrato a 1560 cm-1 che raggiunge la massima intensità nei campioni sottoposto a 70 giorni di trattamento (Figura 17). Fig. 17: porzione di spettro in cui sono presenti le bande Amide I e II di tutti i campioni in soluzione. Lo spettro in rosa è relativo al campione non trattato. 113 Per approfondire l’analisi dell’effetto del sale nelle due diverse fasi, solida e in soluzione, sui campioni preparati, sono stati scelti tre campioni, uno all’inizio, uno a metà e uno alla fine del trattamento: sono stati quindi analizzati gli spettri dei campioni estratti il 35mo, il 49mo e il 70mo giorno al fine di monitorare l’evoluzione della struttura del tessuto cutaneo. LA BANDA DELL’ACQUA 7.3 Analisi della regione della banda OH stretching Nella pelle il contenuto idrico è intorno al 70%. L’acqua presente nel derma si trova principalmente nei glucosaminoglicani (0,1–0,3% del peso secco del derma). Essi sono sostanze complesse formate da lunghe catene di zuccheri o esosamine (glucosamina o galattosamina) alternate ad acidi uronici (glucuronico o iduronico) a cui sono legate molecole di proteine. Le proprietà principali dei glucosaminoglicani sono quelle di legare e trattenere l’acqua e quindi idratare il derma tenendolo turgido e renderlo capace di resistere alle forze di compressione agenti su di esso. Ad essi è legato anche il liquido interstiziale, cioè la soluzione acquosa presente fra le cellule di un tessuto. E’ naturale aspettarsi una pesante modificazione del contenuto d’acqua della pelle in seguito al trattamento con sale che disidrata per osmosi. In uno spettro infrarosso l’acqua origina tre notevoli assorbimenti: uno, dovuto alle vibrazioni di stretching dei gruppi OH, nella regione intorno a 3500 cm-1, uno dovuto alle vibrazioni di bending H-O-H centrato approssimativamente a 1640 cm-1 e uno sotto i 1000 cm-1, dovuto ai modi vibrazionali. Abbiamo studiato le modificazione della banda di assorbimento degli stretching dei gruppi OH dell’acqua per capire le fasi di estrazione dell’acqua dal tessuto. Campioni con trattamento a secco Per ricavare informazioni sulle proprietà dell’acqua estratta dai campioni con il trattamento con il sale, dallo spettro del campione non trattato è stato sottratto lo spettro del campione sottoposto a trattamento salino, nella regione dello spettro tra 3600 e 3100 cm-1. Lo spettro differenza così ottenuto rappresenta solo la banda dell’acqua desorbita dal campione. La banda così ottenuta è stata poi scomposta in componenti gaussiane, le cui frequenze possono essere correlate con diverse frazioni di acqua legate al sistema in esame, differenti l’una dall’altra per struttura ed energia di legame secondo quanto descritto in letteratura [39]. 114 Nelle figure di seguito riportate (Figure 18, 19 e 20) sono rappresentate le bande di assorbimento ad alti numeri d’onda dei campioni considerati, cioè dopo 35 (rosso), 49 (blu) e 70 (verdone) giorni di trattamento sotto sale secco, lo spettro del campione di pelle di maiale non trattata e, disegnato con la curva azzurra scura, lo spettro differenza che rappresenta l’assorbimento spettrale dell’acqua estratta dai campioni durante le fasi successive di trattamento ai tempi fissati: Fig. 18: in azzurro scuro lo spettro differenza tra lo spettro del campione di pelle suina prima del trattamento (rosa) e quello registrato dopo 35 giorni di permanenza sotto sale secco (rosso). Fig. 19: in azzurro scuro lo spettro differenza tra lo spettro del campione di pelle suina prima del trattamento (rosa) e quello registrato dopo 49 giorni di permanenza sotto sale secco (blu). 115 Fig. 20: in azzurro scuro lo spettro differenza tra lo spettro del campione di pelle suina prima del trattamento (rosa) e quello registrato dopo 70 giorni di permanenza sotto sale secco (verdone). Per ogni curva differenza ottenuta è stato condotto il fitting in cinque gaussiane per studiare la composizione in bande corrispondenti a differenti energie vibrazionali della frazione di acqua sottratta al campione durante le diverse fasi. L’analisi è stata eseguita secondo la decomposizione in gaussiane dello spettro dell’acqua liquida, come suggerito in letteratura [39]. La banda degli stretching dei gruppi OH nell’acqua pura ha cinque componenti che sono dipendenti dalle differenze nelle loro lunghezze di legame OH. La ragione fisica della struttura nella vibrazione di stretching OH è da mettere in relazione alla lunghezza del legame e alle variazioni di questa stessa lunghezza che risulta essere influenzata dall’intorno chimico e dal network di legami idrogeno che si instaurano tra le molecole di acqua. Infatti, la struttura dell’acqua dipende dalla lunghezza del legame a idrogeno, dall’angolo di legame, dal numero dei legami e dunque dal numero di molecole coinvolte. L’acqua liquida perciò è un sistema composto da un insieme di “stati” che tendono all’equilibrio termodinamico. Tabella 2: assegnazione degli ν(OH) dell’acqua; ambiente molecolare locale e posizione dei picchi [39]. 116 Fig. 21: deconvoluzione della banda degli ν(OH) nell’acqua pura, secondo Schmidt [39]. Le bande componenti sono tratteggiate e indicate con le lettere dalla a alla f; indicano rispettivamente l’acqua libera e MOH= 0, 1, 2, 3 e 4 [39]. Come mostrato in tabella 2 ed in figura 21, nelle bande degli stretching OH dell’acqua liquida, si possono distinguere fino a sei componenti: a: molecole d’acqua libera che sono in uno stato di vapore e non sono coinvolte in legami a idrogeno; è dunque la frazione meno legata e quella che riesce ad essere eliminata molto facilmente; b: rappresenta la vibrazione di cluster formati da tre a sette molecole di acqua impegnate in un numero variabile di legami ad idrogeno. Presentano un legame idrogeno abbastanza lungo che può essere rotto con processi a bassa energia. Si trova a circa 3400 cm-1; c: dipende dall’interazione di gruppi di quattro, sei o otto molecole d’acqua, in grado si costituire un network composto da tre, cinque e sette legami a idrogeno. d/e: sono a 3250 a 3100 cm-1 e sono dovute a gruppi di cinque/sette molecole di acqua legate attraverso quattro/sei legami a idrogeno; f: network di sei molecole di acqua con formazione di cinque legami a idrogeno; ritroviamo la sua posizione a circa 3050 cm-1. Basandoci sulle assegnazioni delineate per l’acqua pura abbiamo eseguito la deconvoluzione della banda dell’acqua estratta dai nostri campioni con cinque gaussiane come rappresentato nelle figure 22, 23 e 24. Ciò che si nota mettendo a confronto i nostri spettri e quello relativo all’acqua pura è la diversa estensione delle 117 bande. Nello spettro pubblicato in letteratura, la banda ν(OH) si estende da 2800 a 3800 cm-1, mentre nel primo dei nostri spettri (Figura 22) la regione dei numeri d’onda occupata dalla banda è compresa tra 3300 e 4000 cm-1. La forma differente della banda dell’acqua estratta dal nostro campione dopo 35 giorni di trattamento con sale, rende conto dei molteplici dintorni in cui le molecole d’acqua si vengono a trovare in un tessuto complesso come la pelle. La prima frazione d’acqua estratta presenta contributi che si estendono su tutti il range delle possibili lunghezze del legame a idrogeno. La prima frazione di acqua è la meno legata e più labile. Fig. 22: deconvoluzione con 5 gaussiane della banda ν(OH) della frazione d’acqua estratta dal processo di disidratazione con natrun dal campione S35 (R=0,99416). Fig. 23: deconvoluzione con 5 gaussiane della banda ν(OH) del campione S49 (R=0,99712). 118 Fig. 24: deconvoluzione con 5 gaussiane della banda ν(OH) del campione S70 (R=0,99958). Le bande differenza ricavate dopo il trattamento per 49 giorni e per 70 giorni sono molto meno estese e presentano una differente composizione in gaussiane (Figure 23 e 24). La prima presenta ancora una intensa componente a 3600 cm-1, oltre alla banda principale a 3400 cm-1, l’ultima invece è costituita prevalentemente dalla componente a 3400 cm -1. L’acqua sottratta dopo 70 giorni è sostanzialmente solo acqua legata alla proteina. Il sale è probabilmente penetrato a fondo nei tessuti ed ha attaccato la matrice proteica. Non è possibile per il nostro complesso sistema fisico fare una classificazione energetica delle famiglie di molecole d’acqua che lo popolano come per l’acqua liquida ma l’aspetto e l’analisi delle bande differenza così ottenute suggeriscono fasi successive di disidratazione dei campioni: nel primo periodo di 35 giorni una consistente frazione di acqua viene espulsa dal tessuto cutaneo, consistente di molecole d’acqua libere, probabilmente costituenti la matrice interstiziale e di una buona parte di molecole di H2O coordinate alla frazione proteica. Durante le fasi successive, la disidratazione riguarda esclusivamente le proteine, cioè il collagene, che perde acqua in piccole frazioni e gradualmente, ma mentre dopo 49 giorni di trattamento è ancora possibile distinguere le due differenti frazioni d’acqua, quella libera e quella legata, l’acqua sottratta dopo 70 giorni sembra essersi convertita tutta in un’unica fase, quella legata alla frazione proteica. 119 Campioni trattati in soluzione satura Nelle figure 25, 26 e 27 sono rappresentati gli spettri dei campioni trattati in soluzione per 35 (rosso), 49 (blu) e 70 (verdone) giorni. Sono stati confrontati con il campione di pelle suina non “salata” e sottratti da essa ottenendo le curve dell’acqua di disidratazione (azzurro scuro) dai rispettivi campioni: Fig. 25: in azzurro scuro lo spettro differenza ottenuto dalla sottrazione delle bande dell’acqua tra i campioni di pelle suina prima del trattamento (rosa) e dopo 35 giorni di permanenza in soluzione satura (rosso). Fig. 26: in azzurro scuro lo spettro differenza ottenuto dalla sottrazione delle bande dell’acqua tra i campioni di pelle suina prima del trattamento (rosa) e dopo 49 giorni in soluzione (blu). 120 Fig. 27: in azzurro scuro la curva differenza ottenuta dalla sottrazione delle bande dell’acqua tra i campioni di pelle suina prima del trattamento (rosa) e dopo 70 giorni in soluzione (verdone). Dopo 35 giorni di trattamento (Figura 25) il campione non mostra disidratazione, infatti le due bande rappresentate in figura si sovrappongono quasi completamente, tranne nella regione a bassi numeri d’onda dove il campione trattato esibisce una spalla, che, nello spettro differenza, dà origine ad un picco negativo centrato a 3300 cm-1. La posizione di questo picco è tale da permettere di attribuirlo ad un contributo alla banda Amide A, causato da una probabile alterazione della struttura terziaria del collagene, in conseguenza del trattamento. La ragione di questa modificazione dello spettro potrebbe essere correlata alla modificazione della struttura proteica della pelle. Uno spostamento verso numeri d’onda più bassi della banda Amide A nello spettro IR del collagene sarebbe indice di uno srotolamento parziale della tripla elica. L’alterazione strutturale nella matrice proteica del tessuto si deve al pH basico (pH=10,93) della soluzione salina che darebbe origine allo “srotolamento” dell’elica del collagene. La proteina esponendo al solvente gruppi molecolari in grado di interagire con l’acqua, tenderebbe a trattenere il solvente nel tessuto [36]. Questo effetto non ha una durata prolungata nel tempo, infatti il tessuto così modificato tende a rilasciare rapidamente l’acqua trattenuta. L’alterazione strutturale del tessuto lo rende instabile. 121 Il campione estratto dopo 42 giorni appare fortemente disidratato; i campioni estratti dopo un numero superiore di giorni sono nuovamente idratati. Possiamo pensare che la struttura proteica della pelle deteriorata si imbibisca di una frazione di acqua della soluzione nella quale è immersa anche se bisogna tener presente che l’acqua che penetra nuovamente nel tessuto non è né legata né coordinata alle molecole che lo costituiscono [34]. Le bande dell’acqua sottratta hanno tutte una forma simile, poiché rappresentano la stessa componente (Figure 28 e 29) coordinata dalle strutture macromolecolari degenerate e che continuamente scambiano con il solvente: Fig. 28: deconvoluzione banda dell’acqua sottratta dal campione L49, trattato in soluzione (R=0,99638). Fig. 29: deconvoluzione della banda dell’acqua sottratta dal campione L70, trattato in soluzione (R=0,99926). 122 LE BANDE DELLE PROTEINE 7.4 Analisi della regione della banda Amide A Le alterazioni subite dai campioni esaminati a seguito dei trattamenti col sale sono pesantemente a carico delle proteine che li costituiscono e quindi si riflettono in cambiamenti nelle regioni dello spettro in cui cadono gli assorbimenti caratteristici delle frazioni proteiche costituenti i campioni e cioè la banda Amide A ( 3300 cm-1) e le bande Amide I e II (1690-1500 cm-1). Campioni con trattamento a secco L’evoluzione della forma della banda ad alti numeri d’onda nel corso del trattamento non è dovuta a semplici fenomeni di disidratazione che riducono il quantitativo d’acqua nei campioni, ma la sottrazione dell’acqua provoca notevoli cambiamenti anche nella struttura proteica dei tessuti. La banda Amide A, isolata tramite un procedimento di deconvoluzione in componenti della banda ad alti numeri d’onda, subisce uno shift verso numeri d’onda più bassi, come mostrato in tabella 3: Tabella 3: campioni trattati con sale secco: posizione della bande Amide A per tempi crescenti di trattamento. Campione Numero d’onda (cm-1) Non trattato 3321 cm-1 S35 3295 cm-1 S49 3239 cm-1 S70 3257 cm-1 Questo effetto può essere correlato ad una riduzione nell’ordine della struttura di folding della proteina [31] che, nel nostro caso, possiamo attribuire all’irrigidimento e allo stiramento della struttura del collagene a causa del trattamento con il sale, come sarà evidenziato dall’analisi delle bande Amide I e II. E’ di seguito riportata la deconvoluzione della banda con nove gaussiane (comprese le due gaussiane necessarie alla deconvoluzione dell’assorbimento dei gruppi CH2 e CH3), come indicato dalla letteratura [31] (Figure 30, 31 e 32): 123 Fig. 30: deconvoluzione della banda ad alti numeri d’onda: stretching dei gruppi OH dell’acqua (blu), della banda Amide A (rosa) e della banda Amide B (viola). In azzurro scuro la banda delle amine primarie. (R = 0,97821). Fig. 31: deconvoluzione della banda ad alti numeri d’onda: stretching OH dei gruppi caratteristici dell’acqua (blu), della banda Amide A (rosa) e della banda Amide B (viola). In azzurro scuro la banda delle amine primarie. (R = 0,98165). 124 Fig. 32: deconvoluzione della banda ad alti numeri d’onda; stretching dei gruppi caratteristici dell’acqua (blu), della banda Amide A (rosa) e della banda Amide B (viola). In azzurro scuro la banda delle amine primarie. (R = 0,98328). Campioni con trattamento in soluzione salina satura Anche per gli spettri dei campioni disidratati con la soluzione di natrun si è proceduto con il fitting della curva con lo stesso numero di gaussiane utilizzato per l’analisi dei campioni con trattamento a secco, identificandone le componenti (Figure 33, 34 e 35): Fig. 33: campione L35. Deconvoluzione della banda di assorbimento ad alti numeri d’onda: stretching dei gruppi OH dell’acqua (blu), della banda Amide A (rosa) e della banda Amide B (viola), del campione L35. In azzurro scuro la banda delle amine primarie. (R = 0,97725). 125 Fig. 34: deconvoluzione della banda di assorbimento dei gruppi caratteristici dell’acqua (blu), della banda Amide A (rosa) e della banda Amide B (viola), del campione L49. In azzurro scuro la banda delle amine primarie. In azzurro scuro la banda delle amine primarie. (R =0,98679). Fig. 35: deconvoluzione della banda di assorbimento dei gruppi caratteristici dell’acqua (blu), della banda Amide A (rosa) e della banda Amide B (viola), del campione L70. In azzurro scuro la banda delle amine primarie. (R = 0,97981). 126 Osserviamo anche degli spettri di questi campioni uno spostamento verso numeri d’onda più bassi della banda Amide A, rispetto allo spettro del campione non trattato cosa che dimostra che, anche con questa metodologia di trattamento del campione, si provoca l’alterazione nella struttura del collagene. Nella tabella 4 riportiamo i numeri d’onda a cui troviamo la banda Amide A nei campioni considerati: Tabella 4: campioni preparati in soluzione: posizione della banda Amide A per tempi crescenti di trattamento. Campione Numero d’onda (cm-1) Non trattato 3321 cm-1 L35 3300 cm-1 L49 3295 cm-1 L70 3308 cm-1 7.5 Analisi delle bande Amide I e II L’analisi attraverso la deconvoluzione nelle sue componenti delle bande Amide I e Amide II permette di ricavare informazioni sulle modificazioni della struttura secondaria, della macromolecola di collagene. Campioni con trattamento a secco Dall’osservazione delle componenti costituenti le bande Amide I e II dei campioni che sono stati messi sotto sale secco si può notare che la struttura del collagene si altera, cambiando la sua conformazione. La figura 36 mostra la deconvoluzione in componenti delle bande Amide I e II per lo spettro del primo campione estratto (35mo giorno). Rispetto all’analisi condotta sullo spettro del campione di pelle non trattata (Figura 7), possiamo osservare un calo d’intensità delle componenti attribuite alla tripla elica associata al β-sheet (posizionata a 1630 cm-1) e alla struttura β-turn (che si trova a 1678 cm-1); la componente α si trova a 1665 cm-1; si intensifica la componente degli aggregati disordinati, a 1699 cm-1 e compare una banda attribuibile a frazioni di random coil a 1653 cm-1. Anche nella banda Amide II si ha evidenza di una conformazione più disordinata con la crescita di una banda dovuta alle strutture disordinate (1540 cm-1), a discapito della banda caratteristica della struttura tripla elica che si trova a 1561 cm-1. La vibrazione dei gruppi 127 carbossilici dei contributi degli acidi glutamico ed aspartico si trova a 1583 cm -1; la vibrazione degli anelli di tirosina è a 1523 cm-1. Fig. 36: campione S35. Deconvoluzione della banda Amide I e II: in verdone le eliche aggregate, in verde il β-turn, in rosso l’α-elica, in blu il random coil, in viola la tripla elica (in rosa) associata al β-sheet, in porpora l’ED e in arancio gli anelli di tirosina. (R = 0,99982). Nella Figura 37 è riportata la porzione ingrandita di spettro che comprende le bande Amide I e II relative al campione S49. La struttura della banda Amide I cambia ancora: si riduce ulteriormente la componente corrispondente all’α-elica posizionata a 1660 cm-1, crescono i contributi delle bande dei β– turn a 1675 cm-1, quello delle eliche aggregate a 1700 cm-1 e della componente corrispondente al random coil che ritroviamo a 1649 cm-1; il contributo della tripla elica associata ai β-sheet è a 1633 cm-1. Possiamo osservare dunque un parziale cambiamento nella struttura terziaria della macromolecola imputabile allo stiramento della molecola stessa che ha subito cross-linking a causa della disidratazione. Tale stiramento dell’elica fa assumere i caratteri conformazionali spettroscopicamente simili a quelli del β-sheet. Nella banda Amide II, la banda corrispondente ai random coil (1529 cm-1) cresce se confrontata con la stessa componente nel campione S35. La vibrazione dei gruppi carbossilici dei contributi degli acidi glutamico ed aspartico si trova a 1573 cm -1. A 1556 128 cm-1 troviamo il contributo della tripla elica e a 1515 cm-1 la vibrazione degli aneli di tirosina. Fig. 37: deconvoluzione della banda Amide I e II del campione S49: in verdone le eliche aggregate, in verde il βturn, in rosso l’α, in blu il random coil, in viola la tripla elica (in rosa) associata al β-sheet, in porpora l’ED e in arancio gli anelli di tirosina. (R = 0,99976). In figura 38 è riportato lo spettro del campione S70 (ultimo giorno di trattamento), nel medesimo intervallo di numeri d’onda. L’effetto dello stiramento della molecola di collagene è ben visibile alla fine del trattamento poiché il campione risulta essere maggiormente disidratato e quindi il collagene ha subito notevole stiramento dell’elica che assume i caratteri conformazionali simili a quelli del β-sheet. Notiamo infatti, rispetto al campione precedente, un incremento del contributo della tripla elica associata ai β-sheet (1630 cm-1) e della struttura β-turn (1674 cm-1). La componente α-elica è a 1656 cm-1. A 1639 cm-1 troviamo la vibrazione dei random coil e la componente dovuta alle catene aggregate è a 1698 cm-1. La scomposizione della banda Amide II è data da la vibrazione dei gruppi ED a 1569 cm-1, dalla tripla elica a 1554 cm-1,dal random coil a 1531 cm-1 e dalla vibrazione degli anelli di tirosina a 1513 cm-1. 129 Fig. 38: deconvoluzione della banda Amide I e II del campione S70: in verdone le eliche aggregate, in verde il βturn, in rosso l’α, in blu il random coil, in viola la tripla elica (in rosa) associata al β-sheet, in porpora l’ED e in arancio gli anelli di tirosina. (R = 0,99986). Campioni con trattamento in soluzione I campioni posti in soluzione di natrun mostrano un comportamento differente rispetto a quelli trattati con natrun secco, suggerendo una diversa alterazione della molecola di collagene. In particolare, in tutti e tre i campioni presi in esame, la banda Amide II si modifica considerevolmente. Mentre nel campione non trattato il baricentro della banda è posizionato intorno a 1550 cm-1, in questi campioni, già dopo solo 35 giorni di trattamento, cresce un picco sottile centrato a 1559-1560 cm-1. Lo shift subito dalla banda e la crescita dell’intensità all’aumentare dei giorni di trattamento può essere correlato con un cambiamento conformazionale nella struttura terziaria del collagene che espone all’esterno il gruppo aminoacidico della prolina [37]. Questo cambiamento conformazionale può essere messo in relazione con la prevista modificazione proteica di cui è indice anche lo shift della banda Amide A, nella regione dello spettro ad alti numeri d’onda. Per il campione estratto il 35mo giorno di trattamento, abbiamo tentato di condurre il fitting della banda Amide I poiché la banda Amide II permetteva ancora un confronto. La presenza della ingombrante banda Amide II, rende più difficili le operazioni di fitting della Banda Amide I e meno significativi i risultati dei fitting nei campioni soggetti a trattamento per tempi più lunghi. 130 In figura 39 sono riportate le bande Amide, normalizzate all’intensità massima della banda Amide I, al fine di evidenziare il comportamento assunto dalla banda Amide II: Fig. 39: crescita della banda Amide II in funzione dei giorni di trattamento in soluzione salina. Anche la banda Amide I (Figura 40) testimonia la pesante modificazione della struttura proteica del tessuto esaminato: la deconvoluzione della banda evidenzia una preponderante componente dovuta alle strutture disordinate che si sostituisce alla componente della tripla elica. Fig. 40: campione L35. Deconvoluzione della banda Amide I: in verdone le eliche aggregate, in rosso l’ α-elica e in blu il random coil, oltre al contributo lipidico in azzurro. (R = 0,99961). 131 Lo srotolamento dell’elica poliprolinica produce un’alterazione di forma della banda Amide I nella quale si perde traccia della componente corrispondente alla tripla elica. Nelle Figure 41 e 42 sono rappresentati gli spettri raccolti per i campioni dopo 49 e dopo 70 giorni rispettivamente. Fig. 41: campione L49. Bande Amide I e II. (R = 0,99976). Fig. 42: campione L70. Bande Amide I e II. (R = 0,99995). 132 LE BANDE DEI LIPIDI 7.6 Considerazioni su i lipidi Le bande di assorbimento dei gruppi funzionali appartenenti alle molecole lipidiche sono distribuite in diverse regioni spettrali. I lipidi che si rinvengono con maggiore frequenza nella pelle consistono in ceramidi, acidi grassi liberi (l’acido palmitico è in assoluto il più abbondante) e colesterolo. Essi sono organizzati in strutture lamellari con un doppio strato nel quale le catene lipidiche sono altamente ordinate [40]. Nella figura 43 si riporta uno spettro di un campione analizzato di pelle suina che ha subito il trattamento in sale secco per 35 giorni (S35): in esso sono evidenziati gli assorbimenti caratteristici di queste macromolecole. Fig. 43: campione S35. Gli assorbimenti delle macromolecole lipidiche. Gli assorbimenti caratteristici che possiamo individuare sono: 3340 cm-1 vibrazioni di stretching delle amine primarie (NH) e/o secondarie (NH2) (la traccia di queste bande si evidenzia attraverso la deconvoluzione della banda ad alti numeri d’onda, si vedano gli spettri di “Analisi della banda Amide A” in questo capitolo – Figure da 30 a 35). 2925 cm-1 vibrazioni di stretching simmetrico dei gruppi CH3 e CH2 2860 cm-1 vibrazioni di stretching asimmetrico dei gruppi CH3 e CH2 133 1746 cm-1 stretching del legame carbonile C=O 1464 cm-1 bending del gruppo CH3 del colesterolo 1162 cm-1 stretching del gruppo PO2- Il sale, sia in soluzione sia utilizzato a secco, provoca il fenomeno della lipolisi. Questo effetto, che è rappresentato dall’ossidazione dei trigliceridi, fa sì che a causa della rottura delle catene alifatiche, si liberino acidi grassi e gruppi fosfato [41]. La sovrapposizione degli spettri dei campioni di seguito riportati (S35, S70 ed L70) (Figura 44) indica che, indipendentemente dalla tipologia e dalla durata del trattamento applicato, le bande di assorbimento dei lipidi non cambiano la propria posizione sull’asse delle frequenze. Le variazioni d’intensità riscontrate nei campioni sottoposti a diversi tempi di trattamento non mostrano regolarità e non possono apparentemente essere messe in relazione con il procedimento di salatura: le abbiamo quindi attribuite alla preparazione della pastiglia. Fig. 44: spettri dei campioni S35, S70 ed L70. Nessuno shift degli assorbimenti delle macromolecole lipidiche. Inoltre, i dati a nostra disposizione non ci permettono neppure di sostenere che il trattamento della pelle con il sale, sia secco sia in soluzione, provochi sgrassamento o deplezione lipidica. 134 LE BANDE DEL SALE 7.7 Le tracce lasciate dal natrun nei campioni di pelle suina Il sale con il quale abbiamo trattato i campioni di pelle suina trattata penetra solo in quantità nel tessuto, come si evince dall’analisi delle misure SEM, si distribuisce uniformemente nei tessuti solo per tempi molto lunghi e in dipendenza dal tipo di trattamento. Abbiamo confrontato gli spettri FTIR raccolti sui campioni trattati per tempi diversi con le due modalità con lo spettro del natrun, per verificare se il sale avesse lasciato una traccia, cioè qualche banda caratteristica. La figura 45 mette a confronto gli spettri della pelle di maiale trattata con natrun secco e con la soluzione per 35 giorni. Nella regione dei bassi numeri d’onda alcune bande sono state identificate come legate alla presenza del natrun nei tessuti. Per confronto è stato aggiunto nel grafico anche lo spettro della pelle suina non trattata che non mostra nessuno degli assorbimenti caratteristici del sale. Le bande caratteristiche sono posizionate in corrispondenza delle seguenti frequenze: 867cm-1, affiancata dalle due spalle a 902 e a 848 cm-1; 688 cm-1 molto debole; 621 cm-1 che si presenta allargata. Per le attribuzioni delle vibrazioni molecolari si veda il Cap. 6, Archeologia sperimentale, § 6.1 – Analisi FT-IR . Fig. 45: Lo spettro del natrun a confronto con quello della pelle suina non trattata (in rosa) e trattata con sale secco (arancione) ed in soluzione (azzurro). 135 Nella figura 46 possiamo osservare come il contributo del sale provochi un cambiamento di forma della banda lipidica centrata a 1464 cm-1 che si manifesta nell’allargamento della banda nella quale si può notare una spalla attorno a 1446 cm-1. Fig. 46: ingrandimento della banda a 1464 cm-1 che mostra il contributo del natrun nella banda spettrale della pelle suina trattata. La “firma” del sale non è così evidente in tutti i campioni esaminati e, inaspettatamente, non si intensifica per quelli lasciati per tempi più lunghi a contatto con il natrun, come si può vedere nelle figure 47 e 49, che riportano gli spettri dei campioni trattati con i due metodi rispettivamente per 49 e per 70 giorni. Alcuni deboli picchi possono ancora essere attribuiti al sale, ma non tutti sono posizionati agli stessi numeri d’onda in tutti i campioni. Fig. 47: Lo spettro del natrun a confronto con quello della pelle suina non trattata (in rosa) e trattata con sale secco (arancio) e in soluzione (azzurro). 136 Figg. 48, 49, 50: Lo spettro del natrun a confronto con quello della pelle suina non trattata (in rosa) e trattata con sale secco (arancione) e in soluzione (azzurro). 137 Abbiamo cercato di spiegare questo risultato: 1) I campioni dopo 35 giorni di trattamento non hanno ancora raggiunto una distribuzione omogenea del sale, come dimostrano le misure SEM. Nel prelievo per la preparazione del campione per le misure FTIR è possibile che casualmente siano stati prelevati due frammenti di pelle molto ricchi di sale. In figura 43 appare evidente che il campione trattato con sale secco, dove queste difformità di distribuzione del sale sono più marcate, è anche quello con i picchi più intensi. 2) Col trascorrere del tempo, i tessuti a contatto col sale si modificano, come si vede dagli spettri nelle regioni degli assorbimenti delle proteine e questo può provocare, da una parte un assorbimento selettivo degli ioni salini (si veda lo spettro in catodoluminescenza del natrun, in cui sono sbilanciate le intensità dei due picchi, nel capitolo 6, Archeologia sperimentale, § 6.1 – Analisi SEM) e dall’altra una distribuzione più uniforme del sale, con una sorta di diluizione, che non consente di individuare picchi divenuti troppo deboli. Analisi SEM Le analisi SEM sono state eseguite al fine di indagare la presenza del natrun all’interno del tessuto cutaneo e la cinetica di penetrazione. Sono state raccolte le immagini in catodoluminescenza ed in elettroni secondari per evidenziare la distribuzione del sale nella sezione di tessuto considerata. Dopo aver stabilito, grazie all’immagine ottenuta, che il sale è penetrato in maniera più o meno cospicua dentro la pelle, sono stati registrati gli spettri per evidenziare se il contenuto salino appartenesse al natrun oppure fosse dato dalla cristallizzazione di altri sali naturalmente presenti nel tessuto. 7.8 Immagini in catodoluminescenza e in secondari Un piccolo frammento di pelle di maiale dopo 35 giorni di trattamento in soluzione satura è stata fotografata da entrambe le parti, quella del derma e quella dell’ipoderma. Le immagini rivelano un aspetto molto diverso sulle due facce: l’ipoderma, adiposa, si presenta caratterizzata da pieghe e pliche dei lipidi costituenti, mentre il derma si rivela granuloso, ricco com’è di cellule di diverso tipo e fibre di collagene. Infatti, come accennato nel capitolo 4, Macromolecole costituenti della pelle, § 4.3, i lipidi dell’ipoderma sono organizzati in strutture lamellari costituite da un doppio strato nel quale le catene lipidiche sono altamente ordinate; esse formano ampie maglie lasse di tessuto connettivo 138 che possiamo riconoscere nella figura 51; il tessuto connettivo denso del derma si presenta invece organizzato in fasci di fibre collagene separati da fibre elastiche che si organizzano in maglie che si estendono in varie direzioni (Figura 52). Le immagini che vengono presentate più oltre sono quelle che consentono la monitorizzazione del sale nei tessuti: esse sfruttano un codice a falsi colori, presentando una colorazione rossa che registra la catodoluminescenza e una colorazione verde, indice degli elettroni secondari, prodotti dal sale. La caratterizzazione morfologica ed ottica dei campioni ha permesso di registrare la penetrazione e la distribuzione del sale nei tessuti durante le diverse fasi di trattamento e le modificazioni sofferte dal tessuto cutaneo a seguito del contatto col sale o del mantenimento in soluzione salina. Figg. 51-52: campione L35: a sinistra lato dell’ipoderma, a destra il derma. Ingrandimento a 500x con dimensioni pari a 241 μm in orizzontale e 180 μm in verticale. Nelle figure 53 e 54 sono messe a confronto le immagini dei due frammenti di pelle, dal lato del derma, dopo 35 giorni di trattamento con le due diverse procedure, con sale secco a sinistra, e in soluzione satura a destra. Fig. 53 e 54: nell’immagine di sinistra il campione S35 (natrun secco), a destra il campione trattato in soluzione (L35). Siamo a 500 ingrandimenti e la scala metrica è data da 241 μm in orizzontale e 180 μm in verticale. 139 E’ facile notare la sostanziale differenza nella distribuzione della colorazione delle due immagini che rivela forte disomogeneità di distribuzione del sale nel campione trattato a secco in cui sono evidenti regioni in cui il sale è fortemente penetrato ed altre in cui risulta assente, rispetto a quello trattato in soluzione, in cui la colorazione appare uniformemente distribuita a indicare uniformità di penetrazione. Dopo 49 giorni di trattamento la distribuzione del sale nel campione trattato a secco non ha ancora raggiunto omogeneità di distribuzione. La figura 55 rappresenta l’immagine del campione fotografato in un punto. Fig. 55 e 56: il campione dopo 49 giorni di trattamento: a sinistra S49 (natrun secco), a destra il campione trattato in soluzione (L49). Immagine a 500 ingrandimenti e dimensioni di 241 μm in orizzontale e 180 μm in verticale. All’interfaccia tra i due strati componenti la pelle: si può osservare come risulta dissimile la penetrazione del sale all’interno dei due strati cutanei: molto più rapida e intensa nello strato adiposo (a destra nella figura) rispetto al derma, in cui esso sembra seguire l’andamento delle fibre del tessuto connettivo. Per quanto riguarda il campione trattato in soluzione, invece, la distribuzione del sale è uniforme e apparentemente indifferenziata nei vari punti esaminati. Particolarmente interessante, inoltre, è il cambiamento che sembra avere subito la struttura del tessuto esaminato che sembra ora costituito da noduli interconnessi e impacchettati in strutture filamentose allineate le une alle altre. Il campione estratto l’ultimo giorno di trattamento, il 70mo, indica che il sale è penetrato in quantità all’interno del tessuto, sia nel campione trattato con sale secco, sia in quello trattato in soluzione, come evidenziano le figure 57 e 58: 140 Fig. 57 e 58: campioni di pelle dopo 70 giorni: a sinistra il campione S70 (natrun secco), a destra il campione trattato in soluzione (L70). Immagine a 500 ingrandimenti e dimensioni di 241 μm in orizzontale e 180 μm in verticale. Le immagini suggeriscono forti alterazioni nella struttura del tessuto trattato. In particolare, nel tessuto tenuto in soluzione si osserva come la struttura regolare di fibre allineate, visibile ancora dopo 49 giorni di trattamento, sia fortemente modificata e mostri rigonfiamenti e solchi profondi con perdita di regolarità. In alcuni solchi e cavità sembra che si abbia una più elevata concentrazione di sale. 7.9 Analisi semi-quantitativa del sale nel tessuto cutaneo suino Lo spettro di emissione di catodoluminescenza emesso dai campioni esaminati è stato confrontato con quello raccolto sui singoli sali e sul sale complesso (natrun) con il quale i campioni sono stati trattati. Lo spettro di catodoluminescenza emesso dal natrun ha una forma caratteristica, differente da quella degli altri Sali costituenti, con un massimo posto a = 550 nm e una spalla a = 420 nm. Il confronto è stato eseguito per: 1) monitorare il grado di penetrazione del natrun nella pelle; 2) escludere che il segnale raccolto sui campioni di pelle fosse dovuto a Sali naturalmente presenti nella pelle. Lo spettro del natrun, (v. Cap. 6, Archeologia Sperimentale, §6.1 – Analisi SEM) è stato acquisito per fare il confronto con i campioni di pelle suina trattata. Di seguito sono riportate gli spettri acquisiti nei campioni trattati con natrun secco e nei campioni con natrun in soluzione (Figure 59 e 60). 141 Come possiamo osservare dagli spettri ottenuti dai campioni che hanno subito trattamento a secco, l’intensità della banda del natrun nella pelle è molto modesta e, in alcuni campioni risulta assente. Intensity Wavelenght (cm-1) Fig. 59: spettro del natrun acquisito con un ingrandimento di 500x e energia di 20 KeV. Nei campioni che hanno subito trattamento in soluzione, come ci si aspettava, la banda dovuta al sale mostra maggiore intensità se confrontata con gli spettri sopra riportati. Questo pensiamo sia dovuto al fatto che in soluzione, la penetrazione del sale avviene con maggior rapidità ed efficienza. Particolarmente interessante è il cambiamento di forma dello spettro in cui il rapporto relativo tra le intensità delle bande costituenti risulta decisamente modificato, con il picco a 550 nm di intensità inferiore o paragonabile a quella della spalla che risulta spostata attorno ai 460 nm. Per quanto riguarda le oscillazioni in intensità registrate, pensiamo che possano probabilmente essere attribuite alla forte disomogeneità strutturali del campione che si ripercuotono sulle consistenti disomogeneità locali nella concentrazione di sale assorbito. Essendo l’area della zona indagata molto ristretta (~1 μm) è possibile che il fascio elettronico cada in regioni a concentrazioni saline molto differenti. 142 Intensity Wavelenght (cm-1) Fig. 60: spettro del natrun acquisito con un ingrandimento di 500x e energia di 20 KeV. Analisi Raman Le analisi Raman sono state effettuate per indagare la presenza del sale all’interno del tessuto cutaneo suino. L’analisi è stata condotta per punti considerando entrambi gli strati cutanei. La tecnica SEM, che ha evidenziato la distribuzione del sale all’interno del tessuto cutaneo, ci ha permesso di campionare un numero esiguo di punti con la tecnica Raman; l’impossibilità di mappare l’area indagata ha rappresentato un limite dovuto al fatto che la superficie del campione non si presentava omogenea, “piatta”, impedendo quindi la messa a fuoco uniforme dell’area considerata. La tecnica Raman inoltre, non è risultata essere, come ci si aspettava, la tecnica più idonea per condurre analisi sul materiale organico a causa della fluorescenza molto intensa che dà un rumore di fondo non trascurabile. Si è comunque proceduto con questa metodologia d’indagine al fine di individuare la parte inorganica dovuta alla cristallizzazione del natrun nel tessuto, dopo l’avvenuta penetrazione. La risposta ottenuta, anche se non da tutti i punti considerati, ha rivelato la presenza del natrun nella sezione dei campioni analizzati. 143 7.10 Ricerca del natrun all’interno del tessuto cutaneo suino Abbiamo proceduto esaminando tutti i campioni sottoposti al trattamento sia a secco, sia in soluzione. Riportiamo gli spettri ottenuti dai campioni estratti il 35 mo, il 49mo ed il 70mo giorno, come per le altre tecniche diagnostiche. Negli spettri di seguito riportati, che mostrano la zona dello spettro da 1000 a 1800 cm -1, possiamo generalmente identificare a ~1650 cm-1 la banda Amide I, a 1440 cm-1 il bending dei gruppi CH2 e, a 1300 cm-1, la deformazione simmetrica fuori dal piano (twisting) delle catene alifatiche degli acidi grassi con la tipica spalla a ~1265cm-1 [15]. La nostra attenzione si concentrerà sulla ricerca del sale, che troviamo a lunghezze d’onda più basse, all’incirca verso i 1000/1100 cm-1. Il campione S35 (sottoposto a trattamento con sale secco), i cui spettri dei due punti più significativi sono di seguito riportati in figura 61, presenta in entrambi gli strati cutanei picchi imputabili ai contributi dei singoli sali costituenti il natrun, ricordando che quest’ultimo ha un picco intenso posizionato a 1069 cm-1 (V. Cap. 6, Archeologia Sperimentale, § 6.1). Nella porzione del derma, possiamo infatti osservare un picco a 1071 cm-1 dovuto a ν(CO3) ed un debole picco a 1004 cm-1 caratteristico dello νas(SO4). Nella porzione dell’ipoderma rinveniamo un picco intenso a 1061 cm-1, dovuto ai carbonati. * * Fig. 61: spettri dei punti misurati nel campione S35 con i picchi caratteristici del natrun. 144 Per contro, nel campione trattato in soluzione, L35, osserviamo, in figura 62, che il picco più intenso si registra nella porzione di tessuti identificata come il derma, con un picco a 1079 cm-1 dotato di una spalla a 1065 cm-1, dato dalla vibrazione di stretching del gruppo CO3. Nei due spettri dell’ipoderma, ci sono due picchi deboli a 1069 cm-1. * * * Fig. 62: spettri dei punti misurati nel campione L35 con i picchi caratteristici del natrun. Nel campione S49, a circa la metà del tempo di trattamento, possiamo notare dallo spettro rappresentato in figura 63, che non abbiamo netta definizione del picco, ma il contributo del natrun nella pelle lo si riesce ad individuare dalla banda allargata nella zona dello spettro attorno a 1070 cm-1. * * Fig. 63: spettri dei punti misurati nel campione S49 con i picchi caratteristici del natrun. 145 Gli spettri del campione L49 (Figura 64) mostrano una maggiore presenza del natrun nella porzione ipodermica del tessuto, che dà una banda allargata caratterizzata da tre picchi posti a 1061, 1079 e 1129 cm-1 che rivelano le vibrazioni di stretching simmetrico del gruppo CO3. Per il picco a 1130 cm-1 non siamo riusciti a dare un’attribuzione attendibile. * * * Fig. 64: spettri dei punti misurati nel campione L49 con i picchi caratteristici del natrun. Nella figura 65 ritroviamo gli spettri dei punti analizzati del’ultimo campione estratto dopo 70 giorni di trattamento a secco. Si può notare che il contributo del sale dà una banda piuttosto debole, posizionata a circa 1070 cm-1, eccetto in un punto del derma dove osserviamo due deboli picchi posti a 1060 cm-1 contributo dovuti alla vibrazione di stretching simmetrico del gruppo carbonato. * * * * * * * Fig. 65: spettri dei punti misurati nel campione S70 con i picchi caratteristici del natrun. 146 Infine, il campione L70, mostra vibrazioni attribuibili alla miscela di sali ritrovati esclusivamente nell’ipoderma del tessuto, a numeri d’onda di compresi tra 1070 e 1080 cm-1, che denotano una variabilità a seconda dei punti considerati. Vediamo infatti che un punto preso nell’ipoderma (spettro più in basso nella figura 66) registra un picco definito a 1074 cm-1 caratteristico dello stretching del gruppo CO3; nello spettro sopra quest’ultimo in figura, troviamo un altro spettro che mostra due picchi rispettivamente a 1067 e 1132 cm-1, tipici della vibrazione di stretching simmetrico del gruppo CO 3 e dello stretching asimmetrico del gruppo SO4. * * * * * * * * Fig. 66: spettri dei punti misurati nel campione L70 con i picchi caratteristici del natrun. LE MUMMIE EGIZIE Dopo aver analizzato la pelle di maiale e studiato le alterazioni delle macromolecole costituenti il tessuto, ci siamo proposti di effettuare un confronto con i campioni di pelle di mummie per osservare se rinvenissero le tracce proprie del natrun e spingersi in considerazioni circa il presunto trattamento applicato sui corpi dagli Antichi Egizi. È comunque da tenere presente che i campioni di mummia a nostra disposizione sono datate a dinastie precedenti (dalla sesta alla undicesima) l’ipotesi formulata da parte dei collaboratori di York, i quali sostengono che il trattamento in soluzione avvenisse all’apice della tecnica d’imbalsamazione che coincide con la XVIII dinastia. 147 7.11 La presenza del sale nel tessuto mummificato La figura 67 mostra il confronto tra lo spettro della pelle di mummia predinastica (arancione) con lo spettro del natrun (verde) per poter individuare nella pelle mummificata la presenza dello stesso. Come è noto in epoca predinastica, i corpi venivano mummificati naturalmente, per essiccamento nella sabbia calda del deserto. Il campione di mummia predinastica è stato analizzato ed inserito come “controllo”: in esso ci aspettiamo di non trovare nessuna banda corrispondente ai picchi caratterizzanti il natrun poiché la mummia a cui appartiene non ha subito alcuna manipolazione da parte dell’uomo. Fig. 67: spettro del campione di pelle di mummia predinastica (arancione) e spettro del natrun (verde). La sovrapposizione di alcune regioni dei due spettri non deve trarre in inganno. Essa mette in evidenza invece che il problema del confronto non è affatto semplice. Per evitare di cadere nell’errore di facili e fasulle attribuzioni, gli spettri della pelle mummificata sono stati confrontati non solo con quello del sale, ma anche con quello della pelle di maiale trattata con natrun e con quello della pelle umana moderna. La figura 68 riporta lo spettro della pelle del campione 929 confrontato con quello del natrun. 148 Fig. 68: spettro del campione 929 e del natrun. Lo spettro è stato dilatato nelle regioni comprese tra 1500 e 1350 cm -1, e tra 1300 e 400 cm-1 come mostrato porzione di spettro del campione 929, rappresentato nelle figure 69 e 70, emerge la “firma” del natrun: a numeri d’onda intermedi la banda a 1462 cm-1 (ν(CO))e, a bassi numeri d’onda, le bande a 1173 cm-1 (ν(SO) di SO4) e 725 cm-1 (δ(CO) e δ(SO) di SO4). Fig. 69: banda del natrun e spettro del campione 929. 149 Fig. 70: bande del natrun e spettro del campione 929. Nella figura 71 è rappresentato lo spettro della pelle imbalsamata del campione 9092. Fig. 66: campione di pelle di mummia 9029. Fig. 71: banda del natrun e spettro del campione 9o29. Dalle figure 72 e 73 notiamo anche in questo campione di pelle di mummia delle tracce lasciate dal natrun. A numeri d’onda intermedi registriamo la presenza del sale nella banda allargata posizionata a 1455 cm-1, che è data dallo stretching del C-O del carbonato. A numeri d’onda inferiori possiamo osservare che nella pelle umana antica e nella pelle 150 suina trattata si rinvengono assorbimenti che possono essere attribuiti alle vibrazione di stretching di legame C-O del gruppo CO3 a 1168 e 1116 cm-1 e contributi dello stretching SO del gruppo SO4. Evidenti sono le bande a 711 e a 619 cm-1, dovute al bending dei legami dei gruppi solfato e carbonato. Fig. 72: bande del natrun e spettro del campione 9029. Fig. 73: bande del natrun e spettro del campione 9029. 151 In figura 74 è riportato lo spettro del campione XX11: Fig. 74: campione XX11 della pelle di mummia. Fig. 75: porzione spettrale a bassi numeri d’onda del campione XX11. Lo spettro della pelle mummificata è in questo caso meno dettagliato negli assorbimenti a bassi numeri d’onda ma alcune deboli bande che potrebbero essere caratteristiche del sale possono essere individuate: la vibrazione di stretching e le due di bending del legame SO appartenente al gruppo solfato rispettivamente a 1111 cm-1, e 719 e 623 cm-1 (Figura 75). 152 L’immagine 76 figura lo spettro del campione XX6: Fig. 76: spettro del campione XX6. Nella figura 77, raffigurante la porzione spettrale a bassi numeri d’onda, registriamo una congruenza tra la posizione delle bande di assorbimento caratteristiche del sale, dovute allo stiramento simmetrico del legame costituente il gruppo carbonato, indicato dalla freccia. Fig. 77: porzione di spettro a bassi numeri d’onda del campione XX6. 153 7.12 Natrun secco o in soluzione? Valutazione circa la metodologia di imbalsamazione Se si confrontano gli spettri della pelle di mummia con gli spettri ottenuti dalla pelle di maiale dopo che ha subito il trattamento, è possibile affermare che il trattamento in soluzione del tessuto cutaneo suino provoca alterazioni delle macromolecole, soprattutto della componente proteica, che non si rinvengono nella pelle di mummia (Figura 78). Fig. 78: spettri di tutti i campioni di mummie a confronto con gli spettri della pelle suina trattata in soluzione. La porzione di spettro di seguito riportata (Fig. 79) amplifica la regione della banda Amide II che evidenzia come la modificazione della banda Amide II nella pelle suina indice della modificazione strutturale nelle proteine della pelle non trova corrispondenza nella pelle imbalsamata. Fig. 79: amplificazione dello spettro di fig. 73 nella regione intermedia. 154 Per contro si nota che l’andamento delle curve della pelle di mummia segue maggiormente l’andamento dei campioni di pelle suina che hanno subito trattamento a secco (Figura 80). Fig. 80: porzione spettrale intermedia. Confronto tra gli spettri delle mummie e i campioni trattati con natrun secco . 155 Conclusioni Una delle fasi più importanti della procedura d’imbalsamazione attuata dagli Antichi Egizi era l’essicazione del corpo, attuata al fine di evitare il deterioramento dei tessuti, dovuto anche all’attacco da parte di microorganismi e/o insetti. Gli imbalsamatori impiegavano, per questa operazione, il natrun, una miscela naturale di sali di sodio. Informazioni circa questa segreta procedura non ci sono giunte. Alcuni frammenti di pelle di mummie, risalenti all’epoca compresa tra la VI e l’XI dinastia, sono stati studiati ed analizzati in precedenti tesi per mezzo della spettroscopia FT-IR e dell’analisi istologica per stabilire lo stato di conservazione e le alterazioni subite dai tessuti cutanei di questi reperti, giunti fino a noi intatti dopo millenni. Questi frammenti recano traccia del trattamento con il sale? E da queste tracce e dallo stato di alterazione dei tessuti cutanei è possibile ricavare qualche informazione sul trattamento cui gli antichi imbalsamatori sottoponevano i corpi dei defunti? Lo scopo della presente tesi è stato quello di affrontare questi quesiti, cercando di estrarre le informazioni seppellite nelle modificazioni biochimiche e strutturali del tessuto cutaneo. L’analisi è stata eseguita: ricostruendo in laboratorio un sale modello del sale naturale usato dagli antichi imbalsamatori; sottoponendo a salatura, con due diverse procedure, la pelle di maiale, presa come modello della pelle umana; analizzando i campioni sottoposti a trattamento per chiarire l’effetto che il sale provoca sulle macromolecole costituenti il tessuto; confrontando i risultati ottenuti con quelli già in possesso, relativi alle mummie. I risultati ottenuti dalla ricerca condotta possono essere così elencati: il natrun ottenuto in laboratorio presenta caratteristiche molto simili a quello naturale; purtroppo non avevamo a disposizione un campione di natrun antico, ma il confronto tra i risultati delle analisi Raman effettuate con gli spettri in letteratura del natrun naturale attuale rivela una corrispondenza molto buona; il sale è stato caratterizzato anche all’IR e al SEM; la comparazione spettroscopica (FT-IR) dei tessuti umano e suino ha messo in evidenza una buona corrispondenza: la morfologia e la struttura dei tessuti analizzati hanno mostrato affinità soprattutto per quanto riguarda la componente proteica, malgrado la disproporzione della componente lipidica rispetto a quella 156 proteica della cute suina. Ciò ci ha consentito di considerare la pelle suina come modello di quella umana e di utilizzare il tessuto animale da sottoporre ai trattamenti sperimentali; la pelle è stata sottoposta a due diversi trattamenti di salatura: uno realizzato mettendo a contatto grandi quantità di sale asciutto con il tessuto, l’altro immergendo il frammento di tessuto in soluzione satura di sale. Abbiamo ricavato evidenze differenti delle modificazioni delle macromolecole costituenti il tessuto, a seconda della metodologia di trattamento adottata: le misure SEM: hanno messo in luce sia le differenze morfologiche sia la diversa distribuzione del sale in corrispondenza della stessa durata dei trattamenti; gli spettri FT-IR: hanno mostrato le alterazioni subite dal tessuto in conseguenza dei due trattamenti, confermando maggior lentezza e disomogeneità di penetrazione del sale durante il trattamento con sale secco rispetto a quello della soluzione. In particolare: - per quanto riguarda il fenomeno di disidratazione della pelle, si è potuto notare come il sale secco estragga prima l’acqua libera e, in una successiva fase, aggredisca l’acqua legata alle molecole proteiche, mentre la soluzione salina, invece, interessi direttamente l’acqua delle proteine; - l’alterazione della componente proteica, nello specifico del collagene, si è manifestata criticamente dipendente dal trattamento impiegato, mostrando che il metodo a secco provoca lo stiramento e l’aggregazione delle eliche di collagene, mentre il trattamento in soluzione ne provoca lo srotolamento; - le macromolecole lipidiche non subiscono alterazioni evidenti né nel quantitativo né nella struttura; le misure in spettroscopia Raman: hanno dimostrato l’effettiva ricristallizzazione del sale all’interno del tessuto; il sale è stato identificato nella pelle delle mummie egizie per confronto con gli spettri IR della pelle di maiale trattata; considerando come “firma distintiva” caratterizzante l’alterazione proteica dei campioni sottoposti al trattamento in soluzione, la modificazione subita dalla banda Amide II, ed il fatto che non si 157 registri nessun segnale simile negli spettri IR dei campioni di mummia considerati, ci porta ad affermare che le mummie dinastiche esaminate non siano state sottoposte ad un trattamento di disidratazione per immersione in soluzione salina. Ciò potrebbe appoggiare la tesi che sostiene che, almeno fino all’XI dinastia, la fase di disidratazione del corpo durante il processo d’imbalsamazione, prevedeva l’impiego di sale secco. La sperimentazione risulta essere una prima indagine sull’argomento data la complessità emersa. Doveroso un accenno critico ai limiti della presente ricerca: la difficoltà del reperimento del natrun naturale; l’avere lavorato solo sulla pelle e non su un pezzo anatomico comprendente anche i tessuti muscolari; la salatura che è avvenuta su entrambe le superfici cutanee, diversamente da quanto avveniva nella mummificazione dei corpi. 158 Appendice 1 Tavola cronologica dell’Antico Egitto Epoca Tinita I dinastia (dal 3150 al 2925 a.C.): Narmer, Aha, Djer, Den, Anejib, Semerkhet, Ka. II dinastia (dal 2925 al 2700 a.C.): Hotepsekhemwy, Nebra, Neterium, Uneg, Senedji, Peribsen, Khasekhemwy. Antico Regno III dinastia (dal 2700 al 2625 a.C.): Nebka, Djeser, Khaba, Sekhemkhet, Neferkara, Huny. IV dinastia (dal 2625 al 2510 a.C.): Snefru, Cheope, Dedefrā, Chefren, Micerino, Shepseskaf. V dinastia (dal 2510 al 2460 a.C.): Userkaf, Sahure, NeferirkaraKakai, Shepseskara, Reneferef, Niuserra Ini, Menkauhor, Djedkara-Asosi, Unis. VI dinastia (da 2460 a 2200 a.C.): Teti, Userkare, Pepi I, Merenre II, Nitocris. Primo periodo intermedio VII-VIII dinastia (dal 2200 al 2160 a.C. circa) IX-X dinastia (dal 2160 al 2040 a.C. circa) XI dinastia (dal 2040 al 1991 a.C.): Mentuhotep I, Antef I, Antef II, Antef III. Medio Regno XI dinastia (segue): Mentuhotep II, Mentuhotep III, Mentuhoep IV. XII dinastia (dal 1991 al 1785 a.C.): Amenemhat I, Sesostri I, Amenemhat II, Sesostri II, Sesostri III, Amenemhat III, Amenemhat IV. Secondo periodo intermedio XIII-XIV dinastia (dal 1785 al 1633 a.C.) XV-XVI dinastia (dal 1730 al 1530 a.C.) XVII dinastia (dal 1650 al 1552 a.C.): Rahotep, Antef V, Sebekemsaf II, Djehuty, Mentuhotep VII, Nebraurā 1, Antef VII, Kamose. Nuovo Regno XVIII dinastia (dal 1552 al 1314 o al 1295 a.C.): Amosis, Amenhotep I, Thutmosi I, Thutmosi II, Hatshepsut, Thutmosi III, Amenhotep IV/Akhenaton, Semenkhkara, Tutankhamen, Ay, Horemhab. XIX dinastia (dal 1295 al 1186 a.C.): Ramesse I, Sethi I, Ramesse 11, Merenptah, Sethi II, Siptah, Tauosre. XX dinastia (dal 1186 al 1069 a.C.): Sethnakhte, Ramesse III, Ramesse IV, Ramesse V, Ramesse VI, Ramesse VII, Ramesse 159 VIII, Ramesse IX, Ramesse X, Ramesse XI. Terzo periodo intermedio XXI dinastia (re taniti) (da 1069 al 945 a.C.): Smendes, Psusenne I, Amenemope, Osorkon l’Anziano, Siamon, Psusenne II. XXII dinastia (dal 945 al 715 a.C.): Sheshonq I, Osorkon I, Sheshonq II, Takelot I, Harsiesis, Osorkon II, Takelot II, Sheshonq III, Pamy, Sheshonq V, Osorkon IV. XXIII dinastia (dal 818 al 715 a.C.): Petubastis I, Osorkon III, Takelot III, Rudamon, Iuput II. XXIV dinastia (dal 727 al 715 a.C.): [Teknakht], Boccori. XXV dinastia (dal 747 circa al 656 a.C.): [Piankh], Shabaka, Shabataka, Taharka, Tanuthamon. Bassa Epoca XXVI dinastia (dal 672 al 525 a.C.): Necao I, Psammetico I, Necao II, Psammetico II, Apries, Amasi, Psammetico III. XXVII dinastia (dal 525 al 404 a.C.): Cambise, Dario I, Serse, Artaserse, Dario II, Artaserse II. XXVIII dinastia (dal 404 al 399 a.C.): Amyrteos. XXIX dinastia (dal 399 al 380 a.C.): Nepherites I, Psammuthis, Achoris, Nepherites II. XXX dinastia (dal 380 al 343 a.C.): Nectanebo I, Tachos, Nectanebo II. Seconda dominazione persiana (dal 343 al 332 a.C.): Artaserse, Arses, Dario III. 332 a.C. : Alessandro. Tavola cronologia basata su N. Grimal, Historie de l’Egypte ancienne, Parigi 1988, pagg. 591-606. 160 Appendice 2 La Collezione Marro La nascita del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università degli Studi di Torino risale al 1926 a seguito del conferimento, al Prof. Giovanni Marro (1875-1952), medico psichiatra ed antropologo, dell'incarico di Professore di Antropologia presso l'Università di Torino; contemporaneamente il Magnifico Rettore, Alfredo Pochettino, gli destinò un locale in Palazzo Carignano come deposito di materiale dimostrativo utilizzato durante le lezioni di anatomia. Nel 1911 fu chiamato dall'Egittologo Ernesto Schiaparelli a partecipare ad una serie di campagne di scavo in Egitto con lo scopo di studiare i resti di quell'antica popolazione. La Missione Archeologica Italiana (M.A.I.) in Egitto, fu fondata nel 1903 da Vittorio Emanuele III con un contributo in Lire 15.000 annue; il Senatore Prof. Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio di Torino, la diresse dalla fondazione sino al 1928. Ad egli subentrò il prof. Giulio Farina e, a partire dal 1912, venne aggregato al gruppo di lavoro il prof. Giovanni Marro come antropologo. Le campagne di scavo della M.A.I. in Egitto furono quattordici dal 1903 al 1935 ed interessarono diversi siti archeologici distribuiti tra il Nord e il Sud dell'Egitto. Dodici campagne dirette da Schiaparelli e due da Farina. Il prof. Marro partecipò alle ultime sei. Da queste esplorazioni il Museo Egizio di Torino incrementò notevolmente le sue collezioni e divenne uno dei più ricchi musei egizi del mondo ed oggi la sua collezione è la quarta al mondo per importanza e consistenza. La collezione antropologica Marro è di notevole interesse, non solo per l'abbondanza del materiale che comprende, ma, e sopratutto, per la precisione e la scrupolosità usata nel prelievo e nell’identificazione del materiale stesso: queste caratteristiche sono tipiche del metodo di scavo e di ricerca del Prof. Schiaparelli. L'intera collezione può essere suddivisa in: Collezioni Primatologiche, Collezioni Antropologiche, Collezioni Paletnologiche e Collezioni Etnografiche. Le Collezioni Antropologiche comprendono la collezione di scheletri e mummie egiziane. Essa consta complessivamente di novantuno scheletri completi, fra i quali tre sono di adolescenti, sei di bambini, ed inoltre quarantasei crani isolati di cui solo tre infantili. Ad essa si vanno ad aggiungere i reperti osteologici prelevati negli scavi di Assiut e Assuan. Quindi, complessivamente la collezione consta di oltre seicentocinquanta scheletri egizi completi, cinquantanove da ritenersi di epoca neolitica e milletrecento sono i crani isolati, la maggior parte in ottimo stato di conservazione; ottanta teste di mummia, alcune delle quali risalenti ad epoche predinastiche, cinque mummie complete predinastiche e quindici dinastiche. Di questi 161 solo le teste mummificate sono registrate con il codice Guarini, un sistema di catalogazione informatizzata realizzato dal CSI Piemonte, su incarico del settore Beni e Sistemi Culturali dell’Assessorato alla Cultura e Istruzione della Regione Piemonte. Il Progetto Guarini permette il censimento, l’inventario e la catalogazione dei beni Culturali Piemontesi, così da promuovere il patrimonio della regione, e fornire strumenti informatici per la gestione dello stesso. Inizialmente l'intera collezione era collocata all'interno di teche conservate lungo i corridoi di Palazzo Carignano oppure all'interno della stanza dell'assistete del professore o, ancora, nel salone centrale. Attualmente gran parte della collezione Antropologica e tutte quelle Etnografiche sono collocate all'interno della sala di conservazione del Museo, che è dotata di un sistema di climatizzazione controllato per permetterne la giusta conservazione, mantenendo costanti ed idonei i valori di temperatura ed umidità. Sono inoltre stati realizzati degli armadi contenitori all'interno dei quali sono conservate le raccolte etnografiche. L'armadio garantisce ai manufatti un'idonea protezione dal particolato atmosferico, dalle radiazioni solari e dall'illumi-namento artificiale, tutti agenti responsabili del degrado. I corpi mummificati sono collocati all'interno di teche di vetro oscurate da fogli di carta velina. La modalità adottata per la conservazione delle collezioni nel museo ha contribuito a mantenere i reperti in buono stato [28]. 162 Appendice 3 Numerazione dei reperti (revisione di Grilletto) con indice cronologico degli scavi [23]. SCAVI SCHIAPPARELLI Date 1903 1903 – 1904 1903 – 1904 1905 – 1906 1905 1903 – 1906 1905 1905 N. Schiapparelli 1838 – 2064 2065 – 2070 2671 – 4221 4222 – 4679 4680 – 5049 5050 – 5984 5985 – 6067 6068 – 7891 Luoghi Giza, ad est del Cairo, sopra Menfi Ashmuneih = Ermopoli presso Amarna Eliopoli, N-E Cairo Qua el-Kebir, S-E Asiut = TU-COU Hammamija, poco distante da Qau Valle delle Regine presso Tebe Mertseger presso Tebe Deir el-Medina presso Tebe Un vuoto di 19 numeri 1905 1906 1908 1909 1910 1910 7911 – 8208 8209 – 8649 8650 – 9487 9448 – 10485 10486 – 11109 11110 – 13016 Asiut I = Lycopolis Tomba di Kha, presso Tebe Asiut II Deir el-Medina Assiut III Gebelein I = Pathyris?, sud di Tebe Un vuoto di 3 numeri 1911 13020 – 14354 Gebelein I SCAVI SCHIAPPARELLI - MARRO 1911 1914 1920 1920 14355 – 15695 15696 – 16349 16350 – 16730 16731 – 17130 Assiut IV Gebelein II Assuan, presso 1° Cateratta Gebelein III Un vuoto di 369 numeri SCAVI FARINA – MARRO 1930 1935 1937 Da 17500 Gebelein Gebelein Gebelein 163 Appendice 4 164 Tabella dei materiali usati nell’imbalsamazione [15]. 165 Bibliografia 1. 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Assmann, La morte come tema culturale - Immagini e rituali mortuari - nell’Antico Egitto (2002) Einaudi, Traduzione di Umberto Gandini, titolo originale Der Tod als Thema der Kulturtheorie, Suhrkamp Verlag (2000) J. Koller, U. Baumer & Y. Kaup, U. Weser, Herodotu’s and Pliny’s embalming materials identified on Ancient Egyptian mummies, Archeometry, 47: 3, 609628 (2005) - Lezioni di tecnologia conciaria del Prof. M. Berto www.istitutoconciario.com - Z. Hawass. F. Janot, Mummie reali, Immortalità nell’Antico Egitto, Editore White Star S.p.A., (2008) - A. Gardiner, La civiltà egizia, Giulio Einaudi Editore, sesta edizione (1971) 170