Giampaolo Azzoni, Felicità personale e felicità comune. Selezione da “Felicità personale e felicità comune”, relazione al XII Corso dei Simposi Rosminiani dedicato a: “Felicità e cultura dell’anima”, Stresa (Collegio Rosmini), 24-27 agosto 2011. Cfr. Video-relazione: http://blog.centrodietica.it/?p=2684 Esergo L’esergo può essere in una bella metafora della Politica (1264b) di Aristotele secondo cui “L’essere felici non è un numero pari”, l’essere pari, infatti, “può appartenere al tutto senza appartenere a nessuna delle sue parti”, ad esempio 8 può essere scomposto nella somma dei due numeri dispari 3 e 5 (nota di Viano alla p. 157 della sua traduzione). Di quale felicità si parla? Né la felicità istantanea, né la felicità perfetta, ma la felicità propriamente umana, la felicità etica. La felicità istantanea. Nell’esperienza personale si incontra anche un tipo di felicità che si sottrae ad ogni pretesa di stabilità e che, al contempo, ha tali caratteristiche di vividezza che lo fanno apparire una sorta di scheggia della felicità che avremo nella visione dell’essenza di Dio. Mi riferisco a quel tipo di esperienza che si avvicina a ciò che alcuni scrittori hanno chiamato ‘epifania’: un improvviso e imprevisto svelarsi della realtà che, ed è perciò che la chiamiamo felicità, ci coglie in totale armonia con essa. Qui la felicità non è attività, ma evento che ci accade. Per la felicità istantanea vale in maniera particolare la celebre frase del Tractatus di Wittgenstein secondo cui “Il mondo del felice è un altro che quello dell’infelice”. Un tipo di felicità che sembra essere coerente con quell’endoxon secondo cui “la felicità può essere sperimentata soltanto in maniera temporale limitata” (Lauster, tr. it. p. 157), endoxon che oggi ha una forte base sociologica nella “estetizzazione del mondo della vita” (Rüdiger Bubner, 1989) e nella temporalità contemporanea collassata sul presente e composta di tempuscoli discontinui (Azzoni). Da qui il tentativo di ricreare artificialmente la felicità istantanea, ma che, come osserva giustamente Jörg Lauster riprendendo Martin Seel, cade vittima della intrinseca contraddizione di “far durare l’attimo.” (Lauster, tr. it. p. 159) 1 Né la felicità perfetta ma la felicità imperfetta, la felicità propriamente umana. Nella tradizione che parte da Aristotele la felicità a cui possono accedere gli uomini è una felicità imperfetta rispetto a quella di cui godranno nella visione dell’essenza di Dio. Il rilievo della felicità perfetta nel contesto di un’analisi sulle dimensioni e le condizioni politiche della felicità non consiste solo nell’essere un ideale regolativo per la singola persona. Il concetto di felicità perfetta ha infatti un ruolo fondamentale nel segnare un limite per il politico che qualora lo oltrepassasse porterebbe ad una perversione della stessa felicità imperfetta. Come scrive Rosmini, la radice delle infelicità umane consiste nel fatto che l’uomo “si lusinga di trovare l’infinito nel finito, cioè di render possibile ciò che è intrinsecamente impossibile” (Soc. s. Fine, lib. IV, cap. XXVII, p. 450). E chi, come il marxismo, ritiene possibile una felicità perfetta sulla terra, “non si accorge”- scrive Spaemann – “che la discrepanza tra il sogno della felicità e le possibilità della sua realizzazione è di natura antropologico-fondamentale” (Glück und Wohlwollen, tr. it pp. 83-84) Felicità come attività. Secondo Aristotele la felicità, la felicità “specificamente umana” (Ethica Nicomachea 1102a) non è una disposizione, una hexis (Ethica Nicomachea 1176a 3335), ma una “attività dell’anima” (Ethica Nicomachea 1099b, Ethica Nicomachea 1102a), attività che, in tale definizione, è solitamente resa con enérgeia, ma anche (raramente) con praxis. Anche la felicità perfetta che consiste nella contemplazione è, per Aristotele, enérgeia, attività (Ethica Nicomachea 1177a). La centralità che in Aristotele occupa la pólis per la felicità personale è strettamente connessa alla concezione aristotelica della felicità come attività. Secondo Aristotele, non può essere felice chi dorme tutta la vita (EE 1216a 3-5; Ethica Nicomachea 1176a 34-35) o sia assolutamente inattivo (EE 1216 a 6-8). La concezione della felicità come attività è il presupposto delle contemporanee teorie di Amartya Sen e Martha Nussbaum secondo cui il benessere non è connesso ad una sensazione soggettiva o alla sola titolarità di certe risorse economiche, ma alle capacità di essere persona pienamente attiva nella società in cui ci si trova ad essere (c.d. “capabilities approach”). 2 Ecco la ragione per cui la Nussbaum rende ‘eudaimonía’ con “vivere una vita buona per un essere umano” o, seguendo John Cooper, “prosperità umana” (Nussbaum, Fragilità del bene, tr. it. p. 53) e anche Robert Spaemann traduce ‘eudaimonía’ con “riuscita della vita” (Glück und Wohlwollen, tr. it. p. 17 e p. 24). Felicità e relazione con gli altri Nella prospettiva inaugurata da Aristotele, la felicità personale è strutturalmente connessa ad una dimensione comune e esistenzialmente condivisa, ad un “essere-con-gli-altri” dove gli altri non sono semplicemente persone in cerca della loro felicità personale, ma rendono possibile la nostra sia entrando come persone singole in relazioni significative con noi, sia come collettività predisponendo e attualizzando le istituzioni economiche e civile necessarie per la nostra felicità. In riferimento alla felicità è particolarmente vera la frase di Martin Heidegger secondo cui “Gli altri non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto.”1 La felicità è del singolo, ma richiede una comunità e che altri, in una comunità con lui, siano felici. L’uomo può realizzare le sue possibilità, essere felice, solo “nel contesto dell’essere comune degli uomini” (Ritter, 79), altrimenti Aristotele, con bella immagine, dice che sarebbe isolato come una pedina sulla scacchiera La felicità personale si dà entro un contesto di felicità comune, ma l’idea di una felicità comune che prescinda da una felicità personale e al contempo la realizzi è solo un’idea astratta la cui attualizzazione è contraddittoria con tale idea. Felicità personale e felicità comune costituiscono i termini di una relazione in cui l’uno rinvia all’altro senza esaurirlo: la felicità personale non si risolve in una universale felicità comune (totalitarismo) e quest’ultima non è la mera somma di felicità personali (atomismo). Anche se la felicità è di un singolo individuo ha senso parlare di una felicità comune in riferimento ad una comunità in cui le persone sono in misura significativa umanamente felici e, soprattutto, cosa che maggiormente rileva, possono esserlo: hanno la possibilità di essere felici. Felicità comune si riferisce, metonimicamente, anche e soprattutto alle condizioni politiche della felicità personale. 1 Martin Heidegger, Sein und Zeit, 1927, p. 118; tr. it. p. 205. 3 A questo punto è opportuno ricordare una fondamentale e attualissima distinzione operata da Antonio Rosmini: quella tra bene comune e bene pubblico. Mentre il bene comune “è il bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale, e che sono soggetti di diritti” (Filosofia del diritto, §1644) e, quindi, è l’insieme dei diritti dei singoli cittadini (Filosofia del diritto, §1661), “il bene pubblico all’incontro è il bene del corpo sociale preso nel suo tutto, ovvero preso [...] nella sua organizzazione” (Filosofia del diritto, §1644). “Il principio del bene pubblico sostituito a quello del bene comune, è l’utilità sostituita alla giustizia; è la Politica, che, preso nelle sue mani prepotenti il Diritto, ne fa quel governo che più le piace.” (Filosofia del diritto, §1647) E in Rosmini il bene pubblico assume le caratteristiche che in Trasimaco aveva la giustizia come utile del più forte: “Nella forma democratica, il bene pubblico si suol fare consistere nel bene della maggioranza; Nella forma aristocratica, per bene pubblico s’intende il bene delle famiglie nobili che governano lo Stato; Nella forma monarchica (...) il bene della famiglia che governa lo Stato (...) e poi il bene delle famiglie e de’ corpi con essa collegati di servigi e d’alleanze (...).” (Filosofia del diritto, §1658) Come scrive Spaemann, in riferimento ad Aristotele, “La felicità del cittadino è felicità normale, umana, ma è la pólis a porre e a rendere possibile la normalità. (...) Soltanto essa attua l’interazione perché soltanto in essa prende realtà quella dimensione simbolica che sta alla base di ogni intesa.” (Glück und Wohlwollen, tr. it. p. 79) La societas perfecta come condizione della felicità personale. Si intende con ‘societas perfecta’ l’ambito che garantisce la possibilità di un autosufficiente bene comune e, dunque, la pienezza della vita di ogni uomo. La famiglia e il villaggio che pure rappresentano non solo un ambito vitale, ma le articolazioni necessarie della stessa pólis (Politica 1280b 30-35) non consentono di provvedere all’individuo le dotazioni necessarie per assicurarsi la propria felicità, che non è una condizione, ma un’attività. E l’autosufficienza in cui consiste la perfectio di una societas è relativa proprio al fatto che può da sola (senza rinvio ad altro) fornire alla persona un insieme rilevanti di tali dotazioni. Secondo Aristotele (1253a), “è chiaro [...] che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una pólis e che chi non vive in una pólis, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo”. 4 “con la pólis è entrata per la prima volta nella storia una forma di società il cui soggetto è l’uomo in quanto uomo.” “nella particolarità e nella piccolezza della sua realtà storica si nasconde un principio universale” (Ritter, 63) L’esempio della pólis ha un valore teoretico e non storiografico. Già all’epoca di Aristotele, segnata dalla figura di Alessandro, la pólis storica “piccola, autarchica, trasparente e fondata sull’amicizia tra i cittadini” apparteneva al passato. Siamo all’opposto di quello che, nella versione di Diogene Laerzio, sarebbe stato, secondo Pirrone, il modello da seguire per l’essere umano: un maiale che sul ponte della nave squassata dalla tempesta continua a mangiare tranquillamente (cfr. Nussbaum, Fragilità del bene, tr. it. p. 627). “Mentre i suoi compagni di viaggio su una nave si erano incupiti a causa di una tempesta, egli rimaneva tranquillo e riprendeva animo, additando un porcellino che continuava a mangiare e aggiungendo che una tale imperturbabilità era esemplare per il comportamento del sapiente”. (Posidonio, presso Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 68) Le societates non compatibili con la felicità. Se la pólis rappresenta il prototipo della societas perfecta, altre societates non sono compatibili con la felicità per chi ne fa parte. mancano di pólis, i Ciclopi: Odissea IX 112-115: “Non hanno assemblee di consiglio, non leggi, ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime in grotte profonde; fa legge ciascuno ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura.£ Citati da Aristotele in: Politica 1252b 20-24, Ethica Nicomachea 1180a 28-29 i grandi regni asiatici i tiranni Infatti, “strutturalmente inadeguata” a mostrare la natura dell’uomo “è la tirannia e ogni genere di ordinamento politico che concepisca se stesso come una realtà domestica e non come una comunità di cittadini ordinata giuridicamente.” (Glück und Wohlwollen, tr. it. p. 80) Aristotele esplicitamente menziona le tesi di coloro che “sostengono che solo una politica di tipo dispotico e tirannico sia in grado di rendere felici” (Politica, 1324b) Il riferimento va immediatamente al Trasimaco del primo Libro della Repubblica e in particolare alla sua cosiddetta seconda tesi. 5 Come parafrasa e commenta Mario Vegetti, “l’ingiusto è forte, è in grado di esercitare la sopraffazione (pleonexia) sui giusti, e pertanto è felice (secondo l’antropologia che Callicle aveva sostenuto nel Gorgia): perfettamente potente e felice sarà chi è perfettamente ingiusto, cioè il tiranno che soggioga città e popoli con la violenza e l’inganno”. 2 Aristotele poi menziona esplicitamente Solone (Ethica Nicomachea 1100a; 1179a) che ricorre nel celebre episodio del re Creso narrato da Erodoto nel primo Libro delle Storie. Creso, re della Lidia, mostra a Solone le sue enormi ricchezze chiedendogli chi fosse l’uomo più felice del mondo “nella segreta speranza di essere lui stesso indicato come il più felice degli uomini”. Solone gli risponde che riteneva che il più felice al mondo fosse stato Tello di Atene. È da notare che Solone, pur avendo visitato “gran parte della terra”, scelga un uomo di Atene, ma soprattutto è da notare che egli fosse un semplice cittadino (cosa che con stizza sottolineò lo stesso Creso, I, 32) e che la felicità di Tello sia totalmente intessuta con la città di Atene. Tello ebbe figli belli e buoni “in un momento di splendore per la città”; mori in modo glorioso in battaglia; e “gli Ateniesi lo seppellirono a spese pubbliche là, nel luogo stesso dov’era caduto, e gli tributarono grandi onori”. (Storie, I, 30). Secondo Aristotele, “non è nell’esercizio del potere assoluto che si realizzano la virtù e l’intelletto da cui procedono le attività che hanno valore morale” (Ethica Nicomachea 1176b); ecco perché “alle corti dei tiranni sono apprezzati coloro che sono spiritosi nei divertimenti” avendo i tiranni “bisogno di tali uomini” (Ethica Nicomachea 1176b). Facendo uso di categorie della filosofia e della semiotica contemporanea, si può affermare che il tiranno è la contraddizione performativa, l’autocontradditorietà pragmatica, della felicità (che è azione): infatti, il tiranno vuole essere felice attraverso modalità che precludono a lui ed altri la felicità, ma che della felicità possono avere le sembianze esteriori. Gli schiavi non possono essere felici perché non possono essere liberi cittadini. “Solo il cittadino in quanto libero si trova sul piano della realizzazione dell’essenza umana.” (Ritter, 73). Mi sembra che Hannah Arendt abbia, su questo punto, bene interpretato Aristotele quando ella scrive che “Egli non negava la capacità dello schiavo di essere umano, ma solo l'uso della parola «uomini» per membri della specie umana che siano totalmente soggetti alla necessità”, “He denied not the slave’s 2 Mario Vegenti, Introduzione a Repubblica, BUR, p. 47. 6 capacity to be human, but only the use of the word ‘men’ for members of the species man-kind as long as they are totally subject to necessity”3. E neppure un bambino può essere felice. (Ethica Nicomachea 1100a, EE 1219b) Così non possono essere felici gli animali: “né un bue, né un cavallo né alcun altro animale”. (Ethica Nicomachea 1099b) La posizione di Aristotele è agli antipodi di quella di quanti vedranno proprio negli animali e nei bambini i prototipi degli esseri felici. Celebre è il passo di Nietzsche sull’invidia per la felicità del gregge di animali o l’invidia per la felicità dei fanciulli nella chiusa del Sabato del villaggio di Leopardi. Per Aristotele solo chi è inserito in una stabile e matura relazione con l’altro può essere felice. In questa prospettiva, oggi credo che si possa rivedere il giudizio sul fatto che non possano essere felici i bambini: se inseriti in una positiva relazione, innanzitutto, con i loro genitori e quindi con i loro coetanei, possono essere felici. E, del resto, sarebbe strano che una delle situazioni prototipiche della felicità (quella tra genitori e figlio) fosse a senso unico. Societas perfecta e disponibilità di beni. Non è possibile essere felici senza alcuni beni in quanto la felicità, essendo una attività e non una disposizione, abbisogna di beni esteriori attraverso cui realizzarsi: “è impossibile o non è facile compiere le azioni belle se si è privi di risorse materiali” (Ethica Nicomachea 1099a). Sbagliano coloro che ritengono che la felicità risieda nei beni esterni, ma sbagliano altresì coloro che ritengono irrilevanti tali beni: essi, per Aristotele, equivalgono alla cetra per il suonatore di cetra. (Politica, 1332a) Dunque, per Aristotele, felice è chi “è attivo secondo perfetta virtù ed è sufficientemente provvisto di beni esteriori, e ciò non occasionalmente e temporaneamente, ma per tutta una vita” (Ethica Nicomachea 1101a) Societas perfecta e tipologia dei beni utili alla felicità. 3 H. Arendt, The Human Condition, Chicago, Chicago University Press, 1958, p. 84; trad. it. di S. Finzi, Vita activa: la condizione umana, Milano, Bompiani, 1966, p. 61. Arendt ricorda che Aristotele, pur avendo sostenuto la teoria della natura non-umana dello schiavo, in modo non incoerente poi liberò i suoi schiavi sul letto di morte. 7 In una societas perfecta sono disponibili tutti i beni utili alla felicità ad eccezione di quelli totalmente dipendenti dal caso della nascita o delle vicende della vita (“bona fortunae”, S. Th. I-II, q. 2, art. 4, co.; tr. it. p. 229) che però, almeno in alcuni casi meno gravi e almeno in una certa qualche misura, possono comunque essere garantiti dalla cura comune. In particolare, nella societas perfecta la persona libera può accedere a tre risorse necessarie per la sua felicità: a. Beni materiali grazie alla divisione del lavoro. Sull’importanza della divisione del lavoro non tanto su un piano economico, ma su quello antropologico nel senso di condizione sia per la costruzione del legame sociale, sia per la fioritura personale attraverso quel legame, già Platone ed Aristotele hanno fatto importanti riflessioni, ma è con Hegel che la differenziazione e complementarità dei mestieri assume una valenza etica fondamentale. b. Beni relazionali (o beni di relazione, per usare la terminologia della Nussbaum) grazie alle possibilità di legami amicali e affettivi. Come nel caso della partecipazione alle istituzioni etiche, i legami amicali e affettivi hanno per Aristotele sia un valore strumentale, sia un valore intrinseco, anche se “Aristotele si dilunga più sul valore strumentale che su quello intrinseco” perché il primo ha un più facile valore persuasivo potendo “convincere anche chi sia incline ad escludere la philia dalla vita buona” (Nussbaum, Fragilità del bene, tr. it. p. 655). Come scrive Aristotele, gli amici rappresentano “il più grande dei beni esterni” (Ethica Nicomachea 1169b). Per Aristotele, requisito dell’amicizia è la convivenza: “nulla è tanto proprio degli amici quanto il vivere insieme” (Ethica Nicomachea 1157b 17-19 vedere il passo) Uno degli errori fondamentali della politica economica sia stato quello di fare dipendere il benessere di una nazione dai soli beni materiali di cui può servirsi; da qui il fatto che lo stesso welfare state abbia sopravvalutato l’accesso ai beni materiali per la felicità delle persone. E ormai appare evidente che il paradosso della felicità o paradosso di Easterlin (dal nome dell’economista -Richard A. Easterlin – che lo definì nel 1974) secondo cui “quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino ad un certo punto, poi comincia a diminuire, seguendo una curva ad U rovesciata”4 è connesso alla scarsità di beni 4 Wikipedia. Easterlin, R A. Does Economic Growth Improve the Human Lot? (1974) in Paul A. David and Melvin W. Reder, eds., Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramovitz, New York: Academic Press, Inc. 8 relazionali (o comunque acquisibili solo in un sistema di relazioni), scarsità efficacemente caratterizzata dal titolo di un celebre libro di Robert D. Putnam Bowling Alone (2000). Da qui il crescente rilievo assunto nell’economia politica, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, dai cosiddetti beni di relazione o relazionali. Il diritto come condizione della pólis e, quindi, della disponibilità dei beni necessari alla felicità. La garanzia delle condizioni formali della relazionalità (e quindi della possibilità di felicità) si chiama diritto. Immagine: Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo, ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, conservato nel Palazzo Pubblico di Siena e (1338-1339). Aristotele individua nel fatto che si renda possibile il perseguimento della felicità ai cittadini il criterio fondamentale per valutare una costituzione: “la migliore costituzione è quell’ordinamento che permette a chiunque di essere nella condizione migliore e di vivere in modo felice” (Politica, 1324a), la migliore costituzione “è quella che è in grado di rendere una città la più felice di tutte” (Politica, 1328b). E dei vari elementi necessari perché la pólis sia una comunità autosufficiente (come cibo, arti, armi, denaro, culto divino), Aristotele ritiene che “il più necessario” sia il fatto che sia garantito “il giudizio sugli interessi e sui diritti reciproci” grazie anche alla presenza di magistrati dedicati. (Politica, 1328b) 9