Musica mundana, Musica humana, Musica instrumentalis guida all’ascolto a cura di Marco Faelli “Serenade to the Music”, che Ralph Vaugham-Williams scrive nel 1938 per il cinquantesimo di attività di Sir Henry Wood (uno dei noti direttori d’orchestra inglesi), è un delizioso inno alla musica (intesa come “harmonia mundi” prima che come musica “pratica”) e ai suoi benefici effetti sull’animo umano. Il testo riprende alcuni passi del quinto atto del “Mercante di Venezia” di Shakespeare: e qui, accanto a riferimenti classicheggianti (frequenti nelle opere shakespeariane) incontriamo un passo dedicato all’”armonia cosmica”, concetto che, da Pitagora a Keplero, stabilisce un collegamento diretto tra cosmologia e musica. I primi studi sulla relazione tra consonanza e dissonanza in musica risalgono alla scuola pitagorica, fiorita a Crotone nel VI secolo a. C. La tradizione attribuisce questi studi a Pitagora, anche se non si conosce esattamente quali siano i contributi del Maestro e quali quelli dei “matematici”, cioè i discepoli (dal greco màthema = apprendimento). Studiando le relazioni numeriche presenti nella realtà fisica, da loro ritenute alla base dell’armonia del cosmo, i Pitagorici scoprono l’esistenza di rapporti numerici semplici tra note musicali diverse. Giungono a questo risultato compiendo esperimenti con il “monocordo”, uno strumento munito d’una corda mantenuta in tensione costante da un peso, e divisa a metà da un cursore. Spostando il cursore si può variare la lunghezza dei due tratti di corda, e misurarne facilmente il rapporto. Nel caso del monocordo, la tensione, la densità e il raggio della corda rimangono costanti: dunque l’altezza dei suoni dipenderà solo dalla lunghezza dei tratti di corda che li producono. Sul monocordo è possibile ottenere due suoni contemporaneamente, ottenendo impressioni più o meno gradevoli: in questo modo i Pitagorici scoprono che i suoni che producono una sensazione di “armonia” hanno lunghezze di corda che stanno in rapporti numerici semplici (cioè rappresentabili con frazioni contenenti numeri interi piccoli). In particolare, fissano l’attenzione sui bicordi generati da questi rapporti: 1/2, 2/3, 3/4, 4/5, 3/5, 5/6, 5/8. Tradotti in termini musicali moderni, questi rapporti corrispondono agli intervalli: - 2/1: 8a - 3/2: 5a giusta - 4/3: 4a giusta - 5/4: 3a maggiore - 5/3: 6a maggiore - 6/5: 3a minore - 8/5: 6a minore La convinzione che tutta la realtà sia esprimibile in termini aritmetici, e la scoperta dei rapporti numerici nell’ambito della musica, porta i Pitagorici e ritenere che anche il cosmo abbia non solo realtà numerica, ma anche musicale (i due aspetti appaiono a loro, infatti, inscindibili). I pianeti allora conosciuti vengono quindi organizzati in un sistema che riproduce quello in uso presso la musica greca, l’”armonia”, cioè la scala di sette suoni ottenuti mediante l’unione di due tetracordi (il tetracordo è alla base del sistema musicale greco, ed è formato da quattro suoni compresi nell’intervallo di quinta). Ciascun pianeta, dunque, corrisponde a una nota del tetracordo, e nel suo moto emette un suono di altezza determinata, che però l’abitudine ci impedisce ormai di percepire. Anche nell’uomo i rapporti numerici (che, in ultima analisi, sono anche rapporti musicali) svolgono un ruolo essenziale, regolando le funzioni fisiche e psichiche in modo armonico: e questo consente una stretta relazione e influssi reciproci tra l’universo e l’uomo, inteso appunto come un “microcosmo”. Platone, influenzato dai Pitagorici, ne propone il sistema musicale-astronomico: le stelle fisse, i pianeti, il sole e la luna producono suoni che dipendono dalla distanza dalla terra, dalla velocità di rivoluzione, e anche dal colore. La concezione pitagorico-platonica è ripresa anche dai teorici medioevali, che studiano i sistemi musicali esclusivamente per trasferirne i risultati all’indagine dell’anima e del cosmo, certi che tutta la realtà sia sottoposta alle stesse leggi matematiche: Boezio, infatti, parla di “musica mundana” (l’armonia delle sfere celesti), “musica humana” (l’armonia interna dell’anima), “musica instrumentalis” (la musica pratica, la meno importante). Inseriti nel filone della tradizione pitagorica, anche i teorici medioevali ritengono quindi che le sfere celesti, nel loro moto, producano note dipendenti dal raggio della loro orbita (o, meglio, dai rapporti numerici tra i raggi). Shakespeare scrive “Il Mercante di Venezia, presumibilmente, tra il 1596 e il 1597, e il concetto di “armonia musicale del cosmo” era del tutto attuale: nel 1616 l’occultista Robert Fludd scriverà “Utriusque Cosmi, maiores scilicet et minores, metaphysica, physica atque technica Historia”, secondo il quale le sfere dei quattro elementi, dei pianeti e le sfere angeliche costituiscono un gigantesco strumento accordato dalla mano di Dio. E, nel 1619, sarà pubblicato “Harmonices Mundi” di Johannes von Kepler (Keplero), dedicato proprio alle relazioni tra l’armonia musicale e il cosmo. Nonostante l’impostazione sia ancora legata a concetti misticofilosofici di stampo pitagorico, il trattato espone anche la “Terza legge” del moto planetario (una delle tre “Leggi di Keplero” che descrivono le orbite, e che verranno spiegate dalla teoria newtoniana della gravità), secondo la quale i quadrati dei tempi di rivoluzione dei pianeti sono proporzionali al cubo dei semiassi maggiori delle ellissi orbitali. E’ per noi sorprendente la strana mescolanza, nello stesso testo, di leggi fondamentali per la meccanica celeste, e di concezioni che con la scienza non hanno nulla a che vedere. Il cammino verso la scienza moderna, infatti, è stato tutt’altro che lineare: Keplero stesso scriveva oroscopi e credeva che i pianeti fossero spinti nelle loro orbite dagli Angeli, e Newton dedicava più tempo all’alchimia o allo studio esoterico della Bibbia che alla fisica o alla matematica (nonostante abbia contribuito a queste discipline più di chiunque altro). Keplero riprende, dunque, le idee pitagoriche, e afferma che i diversi pianeti (compresa la terra, naturalmente) emettono note la cui altezza è inversamente proporzionale alla velocità di rivoluzione: più esattamente, le note che possono emettere i pianeti nel loro moto sono suoni armonici basati su una fondamentale, che dipende appunto dalla velocità orbitale. La melodia prodotta dalle orbite più eccentriche, come quella di Mercurio, avrebbe un’estensione maggiore, quella prodotta delle orbite più circolari, come quella terrestre, sarebbe ristretta a poche note. L’altezza di queste note è, come si è detto, inversamente proporzionale alla velocità di rivoluzione, e di conseguenza alla distanza dal sole (i pianeti esterni sono più lenti di quelli interni). Il sistema solare formerebbe, quindi, un coro a quattro voci, dove il soprano sarebbe Mercurio, i contralti Venere e la Terra, il tenore Marte, i bassi Giove e Saturno. Non solo, ma esaminando i rapporti tra le velocità angolari di rivoluzione, Keplero scopre che queste formano rapporti approssimativamente consonanti (ad esempio, Marte ha velocità angolare pari a circa la metà di quella della terra, compiendo una rivoluzione in circa due anni: quindi le note emesse dai due pianeti sarebbero in rapporto di un’ottava). In questo modo le fondamentali delle diverse orbite formerebbero questi intervalli: - tra Saturno e Giove: ottava + terza - tra Giove e Marte: ottava + sesta - tra Marte e la Terra: ottava - tra la Terra e Venere: circa una quarta - tra la Terra e Mercurio: ottava + quinta Ma nella “Prima Legge” del moto planetario, Keplero aveva correttamente affermato che le orbite planetarie non sono riconducibili a cerchi, ma a ellissi, e nella “Seconda legge” che il raggio vettore congiungente il pianeta con il fuoco dell’ellisse (che, nel caso del sistema solare, si può far coincidere con il Sole) percorre aree uguali in tempi uguali. Questo significa, in sostanza, che la velocità di rivoluzione non sarà uniforme, ma sarà maggiore in vicinanza del sole (dove l’attrazione gravitazionale è più forte) e minore quando il pianeta è più lontano. In particolare, Keplero si accorge che il rapporto tra la velocità massima della Terra (30,287 chilometri al secondo, secondo le stime attuali) e la velocità minima (29,291 chilometri al secondo) è 1,034 approssimativamente uguale all’intervallo di semitono (16/15). Nel caso di orbite meno ellittiche, come quella di Venere, il rapporto è ancora più piccolo (35,259/34,784, uguale a 1,0137). Marte, invece, oscilla tra 26,499 e 21,972 km/s, con rapporto pari a 1,2 (superiore all’intervallo di tono), Mercurio (che ha orbita molto ellittica) tra 58,980 e 38,860 km/s, con rapporto 1,52 (superiore alla terza minore), Giove tra 13,712 e 12,446 km/s, con rapporto 1,102 (circa un tono), Saturno tra 10,183 e 9,137 km/s, con rapporto 1,114 (ancora un tono). Keplero, quindi, ne deduce che il cosmo.non è affatto armonico! La continua variazione delle velocità orbitali porta a una distorsione continua dei rapporti tra le varie note, che risultano continuamente "stonate": è come se, durante, una sinfonia, variasse continuamente l’intonazione degli strumenti! La Terra, in particolare, oscilla nell’ambito di un semitono, che nella scala maggiore corrisponde all’intervallo tra il terzo grado (Mi) e il quarto (Fa). Secondo la mentalità magico-simpatica, decisamente prescientifica, ancora dominante nel XVII secolo, Keplero arriva a ipotizzare che il nostro pianeta “canti” le note Mi-Fa-Mi, iniziali delle parole latine “miseria” e “fames”, a dimostrazione che sulla Terra le cose non vanno poi tanto bene. La prospettiva di Keplero è, quindi, alquanto pessimista: il Rinascimento (che riscopre Platone e il rapporto ottimistico tra “macrocosmo” celeste e “microcosmo” umano) è proprio finito con le guerre di religione del secolo XVI, e un anno prima della pubblicazione dell’Harmonices Mundi, con la “defenestrazione di Praga”, è già iniziata la “Guerra dei trent’anni”.